lunedì 8 novembre 2021

I Klesha - Antonio Nuzzo

Articolo sui klesha ripreso da Yoga Journal,  del Maestro Antonio Nuzzo  vedi link: https://www.yogajournal.it/klesha-nodi-della-mente/    .
Lo stress, l’agitazione, il nervosismo, l’ansietà, l’insonnia sono il risultato della goffa abitudine di voler nascondere le nostre debolezze ostentando l’esatto opposto. È necessario scoprire un delicato senso di abbandono alla vita, essere consapevoli dell’incertezza e permettere alla ricerca yoga di visitare quella parte del cuore dove si nasconde l’amore, la tenerezza, l’umiltà, la vulnerabilità, la fiducia, il silenzio.

Coltivare con dedizione quella capacità che permette ad ogni praticante di vivere l’istante con una consapevolezza che non può essere turbata dai preconcetti sul passato o dalle proiezioni sul futuro che il pensiero porta con sé. L’insegnamento e la pratica dello yoga sono un’arte raffinatissima che richiede la conoscenza e lo studio accurato di alcuni testi tradizionali che non devono essere considerati semplici conoscenze intellettuali da sfoggiare nei salotti, ma servire a individuare la modalità giusta per incidere in modo profondo sulla propria pratica quotidiana di yoga e più specificatamente di hatha-yoga. L’introduzione della pratica in Occidente, e in particolare in Italia, è ancora troppo recente e la comunità di yoga non può ancora abbracciare l’immensa dottrina tramandataci dagli antichi Maestri: è come un bambino di pochi mesi che si appresta a camminare.
Inevitabilmente, i suoi primi passi saranno incerti e, presumibilmente, affrettati poiché non si è ancora acquisito equilibrio e stabilità. Così, noi occidentali ci affrettiamo ad apprendere le tecniche fisiche, cercando di esibire movimenti perfetti, come se si trattasse di danza o di ginnastica, per essere giudicati bravi dagli altri, senza aver appreso e applicato l’insegnamento in tutta la sua profondità.

Purifica la mente. Lo yoga innesca un processo di purificazione che non si limita alla semplice pulizia interna ed esterna del corpo attraverso le pratiche fisiche, ma queste assumono il valore di un gesto, di un messaggio simbolico che incita l’individuo a procedere verso una purificazione ben più vasta, verso uno stato di consapevolezza non reattiva, per raggiungere una vera apertura e un fiducioso e totale abbandono alla vita. È importante capire che la pratica di hatha-yoga è solo un’eccellente occasione per imparare con tanta pazienza a osservare, con una coscienza elevata, e comprendere lentamente col tempo, nel rigoroso silenzio della mente, quale testimone, la totalità del processo della vita.
All’inizio del secondo capitolo degli “Yoga Sutra” di Patañjali, dedicato alla sādhanā (pratica), il testo rivela che all’origine dei vortici della mente (le vrtti) ci sono cinque matrici che ne condizionano l’orientamento. Queste matrici si chiamano kleśa  e inducono sofferenza e condizionano le azioni, le scelte di vita e l’orientamento degli stessi processi mentali. Esaminiamole insieme.

Liberati dall’ego. Avidyā è la prima delle cinque afflizioni; è una parola sanscrita composta, che significa condizione interiore di non conoscenza, comunemente tradotta con la parola “ignoranza”. A questo termine non va attribuito il significato che oggi riveste nel linguaggio comune, quello di mancanza d’istruzione, di cultura, o ancora, di mancata acquisizione di una perfetta conoscenza delle supreme e più alte verità filosofiche e religiose. In questo contesto, il termine “ignoranza” indica la diffusa abitudine di non saper collocare gli aspetti prioritari, dal punto di vista della ricerca yoga, rispetto alle priorità derivanti da una visione comune che tende a soddisfare prevalentemente l’ego. Tanto è vero che in sanscrito esiste il termine bhoga, utilizzato dallo stesso Patañjali, che designa esattamente l’azione che ha come priorità quella di soddisfare soltanto il proprio ego, il proprio piacere concreto, materiale, affettivo e psichico.
Con questa affermazione non si vuole indicare che il praticante non dovrà effettuare più nessuna azione che porti al piacere o al proprio vantaggio, ma che dovrà imparare ad attribuire il giusto valore a questo genere di piacere, coltivando parallelamente la priorità assoluta di colui che si sente un vero seguace dello yoga. Applicare questo principio nello hatha-yoga, significa in pratica imparare a individuare, con l’aiuto del proprio istruttore, tutor o maestro, nel procedere della ricerca, tutte le motivazioni che emergeranno in funzione delle varie pratiche sostenute, il vantaggio personale, che sia esso fisico, salutistico o di altro genere. Controllare il livello di interesse che parallelamente si coltiva in funzione della elevata finalità, in modo tale da ridurre il peso di avidyā. Avidyā è rappresentata da Patañjali come un campo dove nascono piante spontanee.   In questo campo vivono gli altri quattro kleśa che rispondono ai nomi di: asmitā, rāga, dvesa, abhinivesha. Essi si espandono, talvolta, al punto tale da sviluppare ossessioni, paure, timori, incertezze, ansie, da un lato, ed effimere gioie, piaceri, soddisfazioni e gratificazioni, dall’altro. Si può imparare a coltivarle in maniera equilibrata e a contenere la loro espansione e la loro crescita. La scelta del modo in cui nutrirle solitamente non è consapevole, ma in chi pratica correttamente lo yoga lo diventa.

La tentazione dell’onnipotenza. Asmitā è uno dei figli di avidyā, il primogenito, è quella matrice che nasce dalla profonda confusione, dal guardare, con la mente condizionata da avidyā, all’io cosciente come a un’identità soprannaturale. Questa credenza porta alla sopravvalutazione di se stessi, all’egocentrismo, all’egoismo, condizione che preclude una visione equilibrata, serena e chiara. Il percorso dello yoga, che si basa sullo sviluppo della consapevolezza e della chiara visione, viene notevolmente inficiato e spesso si entra in un tunnel scuro senza sbocco.

L’illusione del piacere. Rāga e dvesa sono le matrici che fanno emergere le vrtti che affondano le loro profonde e ramificate radici nelle aree più nascoste dell’inconscio, da dove emerge quel desiderio pressante di voler raggiungere a tutti i costi il piacere, la gioia, il divertimento, il benessere, la passione, l’amore e nel contempo di evitare con repulsione, disgusto, ripugnanza tutto ciò che porta dolore, sofferenza, malattia. Ricercare e preferire solo alcuni aspetti della vita e cercare di allontanare illusoriamente gli aspetti che giudichiamo dolorosi e negativi, di cui abbiamo paura e terrore.

L’ultimo ostacolo: la grande paura.  Abhinivesha, l’ultimo dei cinque kleśa, significa letteralmente “gusto che si ha di se stessi”. Potremmo definirlo anche “istinto di conservazione” oppure ancora “testardo attaccamento alla vita” come forza radicata in ogni essere vivente. Abitualmente alla parola abhinivesha si attribuisce il significato più comune: paura della morte.

Abbandonati alla vita.  Da qui si può capire quanto sia inopportuno praticare lo yoga con meccanicità e con false finalità oppure applicare tecniche, anche le più raffinate, con dovizia di particolari tratti dalla fisiologia articolare e dall’anatomia, con informazioni accurate sui benefici e vantaggi, per poterli coltivare nel tempo, come se si volesse, direbbero gli Yogi, sostenere e nutrire i kleśa e le vrtti. Questa potrebbe essere l’ennesima errata strategia messa a punto per distrarre, illudere o velare a noi stessi la paura ed esibire invece l’esatto opposto: il senso di onnipotenza, di forza, di vitalità, di immortalità. Forse tutto ciò rende l’uomo capace di inibire la paura e di vivere eludendola, come se non l’avesse ma, al tempo stesso, lo rende più debole e impreparato, non più nei confronti della paura, ma sicuramente di fronte alla tangibile esperienza della vita.

Al Sutra 2.3 del Secondo Libro Gli Yoga Sutra: Sadhana Pada  – La Via della strategia, Patanjali presenta i cinque Klesha, o afflizioni, indicandoci la necessità del controllo della mente e dei pensieri per poter accedere all’introspezione e all’assorbimento al centro di noi stessi. Ci mostra come il nostro mentale influenzato dai Klesha, le afflizioni, sia condizionato da uno stato di distrazione e ignoranza (Avidyâ).
2.3 –  "Avidya asmita raga dvesa abhinivesah klesah",  -   L’ignoranza, l’egoismo, l’attaccamento, l’odio, e l’eccessivo amore per la vita, sono questi ostacoli che producono dolore. Sono le cinque sofferenze; sono i cinque legami che ci tengono stretti alla vita terrena
  • Avidyâ è il risultato di un accumularsi azioni  che ripetiamo meccanicamente quasi ciecamente per anni, è lo stato d’ignoranza. E’ ciò che ci impedisce di conoscere la realtà poiché preferiamo vederla così come vorremmo che fosse. Ci identifichiamo ai fenomeni impermanenti dell’esistenza, vediamo il tempo che passa, gli esseri e le cose cambiare. vediamo ciò che abbiamo, ciò che perdiamo, ciò che vorremmo. Questo stato, viene chiamato ignoranza, nella filosofia indiana, nasce la mancanza di fiducia in noi stessi, con la conseguenza di generare dolore e identificazioni erronee. Avidyâ è la fonte dell’altro Klesha, Asmitâ.
  • Asmitâ, avendo perduto la fiducia in noi stessi non possiamo fare altro che cercare di proteggerci da ciò nasce il senso di IO, che ci fa confondere l’assoluto che è in noi con il mondo-manifesto. La verità ultima della filosofia indiana è nell’unità nell’UNO, siamo l’UNO, OM, TAT ecc.., i suoi nomi sono multipli. La confusione che ne risulta genera la coscienza, la sensazione di un’esistenza individuale ed autonoma che ci separa dall’assoluto e da origine al senso dell’EGO. C’è di conseguenza dualità tra noi e l’assoluto. Asmitâ, è la fonte di Râga.
  • Râga, l’ego deve alimentarsi per sussistere: il voler possedere, l’avidità, l’attaccamento, il desiderio, il bisogno insaziabile di sicurezza
  • Dvesha è, il rifiuto, il non amore, l’indifferenza agli altri, alla comunicazione alla vita questa sensazione è legata ad una mancanza, ad una frustrazione. Quando non gradiamo, noi rigettiamo, per proteggerci della sofferenza che ne seguirebbe: questo corrisponde al rifiuto di aprirsi a ciò che è, ed a lasciare la presa. Così, l’insoddisfazione diventa permanente.
  • Abhinivesha ad un certo punto ci si può accorgere che queste modalità non conducono in nessun luogo, nasce una frenesia irresistibile di vivere, la paura del divenire, della vecchiaia, della malattia, l’ansietà per la morte, l’attaccamento alla vita, con il suo continuo timore della morte. È la coscienza di sé che rende egoisti. E’ ciò che si nasconde dietro numerose nostre reazioni, come pure dietro a molti meccanismi di stress.  I due klesha  Râga e Dvesha, animano in modo permanente tutti i nostri comportamenti, qualificando le nostre esperienze, secondo la nostra attrazione o la nostra repulsione.

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