Tiziano Terzani (1938 -2004) in questo testo Un altro giro di giostra, viaggio nel male e nel bene del nostro tempo,
racconta gli ultimi anni della sua vita, dopo che gli era stato
diagnosticato un tumore allo stomaco. Vedi link
http://www.tizianoterzani.com .
In questo articolo riporto la parte del libro dedicata all'India. In India, l’ora più bella è quella dell’alba, quando la distinzione tra tenebra e luce non è ancora netta. Come il falso e il vero che sono due aspetti della stessa cosa e difficilmente separabili.
In
quell’ora i rishi, "coloro che vedono", meditano solitari nelle loro
remote caverne di ghiaccio dell’Himalaya, caricando l’aria di energie
positive e permettendo anche ai principianti di guardare dentro di sé,
alla ricerca della spiegazione del Tutto.
In Asia il riferimento al divino è continuo, in India si saluta unendo le mani davanti al petto, pronunciando Namaste, che significa: Saluto il divino che c’è in te.
Chi ama l’India
lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. Una volta incontrata non
se ne può fare a meno. Si soffre a starne lontani, così è l’amore:
istintivo, inspiegabile, disinteressato.
L’India fa sentire ognuno
parte del creato. Alcuni millenni fa i rishi,
ebbero l’intuizione che la vita è una. Ogni vita, la mia e quella di un albero fanno parte di un Tutto dalle mille forme che è la vita.
Il tempo è circolare e il progresso non è il fine delle azioni umane,
visto che tutto si ripete e che l’avanzare è considerato pura illusione.
La realtà percepita dai sensi non è presa per vera, Non è la realtà
ultima.
Da qui, uno stato d’animo di distacco che rende il Paese così
particolare e la sua realtà a volte proprio orribile, ma in fondo
accettabile. La vita è tutto e il contrario di tutto, la vita è morte,
non c’è piacere senza dolore, non c’è felicità senza sofferenza. La
contrapposizione degli opposti e l'inevitabile dualità dell’esistenza.
Si entra in una logica per cui niente è davvero drammatico.
L’India è un’esperienza che ti accorcia la vita, ma è anche un’esperienza che dà senso alla vita.
A
Lodhi Garden uno dei più bei parchi di Delhi, si vedono praticanti yoga
sui tappetini, vecchi che portano ogni giorno da mangiare alle formiche, le stesse formiche che cancellano tra le decorazioni fatte sul suolo con farina di riso (rangoli), mangiandosi il riso.
In India, le persone segnano una linea con un gessetto, fatto da una
combinazione di erbe, sulla soglia di casa per non fare entrare le
formiche. Lo stesso fece Lakshmana, uno degli eroi del Ramayana, con la cognata Sita, tracciò una riga e gli chiese di non oltrepassarla per metterla in sicurezza dai demoni che la cercavano.
In Occidente, investiamo
tutte le nostre energie nel consumare, e al consumismo, come se la vita fosse un eterno
banchetto romano in cui si mangia, e si vomita per poter mangiare. Non ci
sentiamo parte del tutto, al contrario, ognuno si sente un’entità
separata ed proprio questo proviamo un grande senso di solitudine e di
tristezza.
La storia della rana nel pozzo. I rishi, dicono che abbiamo perso il nostro collegamento
cosmico, siamo diventati come kup manduk, la rana che aveva passato
tutta la sua vita nel pozzo. Un giorno questa rana incontra una rana che veniva
dall’oceano, e chiede "Che cosa è l’oceano?" "Un posto molto grande."
"Ma grande come?" "Grande, molto grande" e la rana traccia un cerchio,
molto più grande, a questo punto traccia un cerchio grande quanto il
pozzo, e dice "Molto più grande di questo", e la rana si arrabbia.
In
India, nessuno è stato mai messo al rogo per le sue idee, sin
dall’antichità il vero potere era quello dei sapienti. Anche i re
andavano nella foresta a rendere umilmente omaggio ai saggi. I rishi si interessavano non al mondo, ma all’essere, erano
in grado di percepire i diversi stati della mente a seconda che l’io sia
sveglio, sia addormentato o sogni.
Ramakrishna, il grande mistico
indiano, racconta la storia del taglialegna che sta sognando di essere
un Re e che quando viene svegliato da un amico si arrabbia dicendo
“Stavo seduto su un trono e mi occupavo degli affari di stato e tu vieni
a disturbarmi,” l’amico risponde “ma era solo un sogno”, “tu non
capisci, essere un Re in un sogno è vero quanto essere un boscaiolo da
sveglio”.
Per gli indiani che, negli ultimi duemila anni non hanno
invaso nessun altro Paese vicino, l’obiettivo è sempre stato la
conoscenza, non del mondo, ma la conoscenza del Sé. Conoscere il Sé,
vuol dire conoscere tutto, perché il fondo di quel Sé, è ciò che resta
immutabile nell’eterno mutare del tutto.
Il mondo che ci circonda è
come sabbia sollevata dal vento, mutevole e irrilevante. Per questo gli
indiani non si sono mai preoccupati di cambiarlo o di migliorarlo ( vedi il
problema della povertà e della miseria che si vede in India). La
filosofia in India è parte della vita, è la conoscenza di Sé. In
Occidente la conoscenza è quella utile ed applicabile.
Paul Brunton
negli anni 30, fece un viaggio in India sulle tracce della sua sapienza,
incontrò uno yogi che gli disse: "Solo quando i sapienti occidentali
rinunceranno ad inventare macchine che corrono più veloci di di quelle
che già avete, e cominceranno a guardare dentro di sé, la vostra razza
scoprirà un po' di vera felicità".
Nelle città occidentali, la vita
scorre veloce, senza un solo momento di pausa o riflessione, senza un
solo momento di quiete che bilanci la continua corsa al fare, siamo
bravissimi ad inventarci scuse per non fermarci. Da ragazzo ho
conosciuto gente che aveva tempo, erano i pastori dell’Orsigna. Stavano
ore ed ore con un filo d’erba in bocca distesi in cima ad un monte.
In
India, tutti hanno tempo e molti dei grandi saggi, rishi, o santi sono
stati personaggi di origini semplicissime o autodidatti. Nisargadatta
Maharaj era un venditore di sigarette (bidi-bidi), Ramakrishna era nato
contadino (di lui scrisse Max Muller e Romain Rolland), così come Ramana
Maharishi che considerava il silenzio uno dei più efficaci mezzi per
comunicare. Anche Kabir, uno dei poeti più amati dell’India, un rishi
vissuto nel XVI secolo era un tessitore, e diceva: "Tessere è il mio
modo di pregare".
Ad una certa età dobbiamo coltivare ciò che non muore.
Qui
Terzani ci racconta la storia di Guru Nanak che arriva in un villaggio,
vede una bellissima casa e chiede di chi è, gli dicono che è la casa
del più ricco del paese, uno che presta soldi, ed ogni volta che mette
da parte una cassa di monete, fa una festa, Guru Nanak bussa, il padrone
lo riconosce ed è felice di ospitarlo, Guru Nanak gli chiede se può
fargli un favore, il mercante contento di fare un’opera buona e
guadagnare karma, risponde "Farò quello che volete", Guru Nanak tira
fuori dalla tasca uno spillo di ferro e gli chiede "Tienimelo in
deposito, me lo restituirai quando ci incontreremo nella prossima vita".
La
morte ci toglie tutto, se riuscissimo ad alleggerirci prima ci
sentiremo più leggeri. Dobbiamo buttare a mare la zavorra di cose ed
emozioni che ci portiamo dietro.
Poi Terzani racconta un'altra storia
dell’Asia Centrale sulla morte, che viene riportata anche da Robert
Musil. Un giorno il Califfo manda il suo Vizir al mercato a sentire cosa
dicesse la gente, e nella folla il Vizir nota una donna alta, magra avvolta
da un mantello nero, che lo guarda fisso,
Terrorizzato scappa, e dice
al Califfo, "Aiutami ho visto la morte al bazar, è venuta per me. Dammi
il tuo cavallo più veloce, stasera sarò in salvo a Samarcanda", e parte
a spron battuto verso Samarcanda. Il Califfo va lui stesso al mercato, nella folla vede
la donna (la morte) e l’avvicina, "Perchè hai fatto paura al mio
Vizir", e la morte risponde "Non gli ho nemmeno parlato, ero solo
sorpresa di vederlo qui, perché il nostro appuntamento è questa sera a
Samarcanda".
Adesso l’India comincia a soffrire degli stessi malanni degli
occidentali. E’ l’India che non è più vegetariana, beve alcol, si veste
con i jeans, manda i figli a studiare all’estero, è produttore della
bomba atomica; L’India che ha rifiutato Gandhi. Nel 1994 c’è
stato un ritorno della coca cola e la progressiva occidentalizzazione.
Tutta la saggezza dell’India è adesso riciclata in chiave new age ed
appare in riviste olistiche.
Qualcuno mi disse, "l’India corre dietro a tutto, ma molto lentamente, vedrai che arriverà tardi anche al funerale della cultura occidentale",
e che avrebbe digerito anche l’attuale processo di
occidentalizzazione come aveva fatto in passato con le invasioni
mussulmani e inglesi.
In India niente viene mai distrutto e sostituito con il nuovo.
L’India
è il solo Paese al mondo in cui si pratica ancora l’unami, antica
medicina greca fondata da Ippocrate e portata in India da Alessandro
Magno nel IV secolo a.c.
In India coesistono i più svariati sistemi di medicina: la medicina
occidentale, l’ayurveda, l’omeopatia, la naturopatia, la medicina cinese
e tibetana.
Nella città di Hyderabad migliaia di persone fanno la
fila per ingoiare sardine ed erbe, sembrerebbe che sia una cura miracolosa contro l’asma,
cura tramandata dalla famiglia Goud fin dal 1845.
Nell'India è nato anche il Buddhismo. Bihar, uno Stato dell'India nord-orientale, è la culla del buddhismo, a Rajgir ci sono le grotte dove
il Buddha e Ananda meditavano, le rovine di Nalanda, la famosa
università buddhista, che tra il IV e XIII secolo è stata distrutta dagli arabi. A
Bodhgaya troviamo l’albero sotto il quale il Buddha raggiunse
l’illuminazione. A Sarnath, vicino Benares, il Buddha iniziò ad
insegnare la via di mezzo. Tathagata era il nome con cui voleva essere
chiamato che significa "Colui che è passato di qui". Il Buddha morì ad 80
anni avvelenato dal cibo offerto da un intoccabile. Il buddhismo con la
sua negazione dei riti e il concetto di compassione, estraneo
all’induismo, rappresentò una vera e una grande rivoluzione.
Gli
induisti con Shankaracharia, un santo commentatore dei Veda,
cominciarono una controffensiva ideologia intorno al VIII secolo, i
mussulmani alla fine del XIII secolo fecero il resto per eliminare la dottrina dell’illuminato in India.
La
città di Benares è sacra ma solo dalla parte ad ovest, e solo chi muore
sulla sponda occidentale del Gange si salva dal rinascere, i neonati e
i sadhu non vengono cremati ma lasciati nelle acque. La spiegazione è che i sadhu venivano
cremati simbolicamente quando prendevano i voti.
Benares è la più antica città vivente e milioni di indiani sono venuti qui a morire, per noi occidentali è difficile identificare il sacro con lo squallore, lo sporco, il putridume. Ma quella indiana è la civiltà che ha come ideale di vita i mendicanti.
Che
ci sia davvero una grande saggezza nel pensiero orientale, secondo cui
ciò che è fuori da noi è immutabile e che la sola speranza è cambiare
dentro di noi. La morte era un fatto contro cui nessuno sembrava
ribellarsi, E noi occidentali invece abbiamo tanto difficoltà ad
accettarla! Per noi è sempre una sconfitta. In India il corpo è uno
strumento da buttar via senza rimpianti. Nei funerali non c’è musica che
lo accompagni, c’è solo il grido di alcuni "Ram nama satya hey" che
significa "solo il nome di Rama è verità". Durante la cerimonia il
primogenito del defunto appicca il fuoco alla pira e va a fare le
abluzioni di purificazione e torna nella ruota del mondo.
Alla
stazione della vecchia Delhi, un viaggiatore occidentale che non abbia
fatto l’abitudine all’India può essere preso dal panico, una fiumana di
folla povera e colorata che dorme sotto pensiline, ecc…
Da Delhi si
arriva in treno a Pathankot che è la stazione più vicina a Dharamsala e
McLeod Ganj, la cittadina dove sua santità il Dalai Lama risiede e la
sede del Governo dei tibetani in esilio da quando nel 1959 i cinesi
invasero il Tibet. Nel 1989 il Dalai Lama ricevette il premio Nobel per
la pace.
Gli occidentali vanno a Dharamsala, perché sono infelici,
e sperano di trovare un paradiso dove gli esseri umani sono in pace con se stessi. L’uomo ha un innato bisogno di pensare che da qualche parte esiste un El
Dorado. A Dharamsala c'è il Men-Tse-Khang, l’istituto medico astrologico,
là il direttore, il dott. Tenzin Choedrak disse: Noi
tibetani, nelle vite passate, dobbiamo aver fatto del gran male ai
cinesi. Per sopravvivere ai lavori forzati ho attivato il fuoco nel mio
stomaco, che mi permetteva di digerire il cibo immangiabile. La
depressione è una malattia soprattutto occidentale, e la ragione è che
voi occidentali siete troppo attaccati alle cose.
Quella di produrre
una grande quantità di energia è una vecchia pratica yoga insegnata ai
monaci, per aiutarli a sopravvivere al gran freddo, si insegna loro a
riscaldarsi concentrando la mente su un fuoco immaginato nel fondo del
ventre. L’allievo doveva sedersi nudo per terra e coprirsi con un telo di
cotone, inzuppato d’acqua. Col calore che l’adepto sviluppava, nel giro
di poco tempo quel telo doveva completamente asciugarsi. Il grande
poeta ed eremita tibetano Milarepa veniva chiamato l’uomo vestito
di cotone, perché aveva asciugato, una dietro l’altra, tre coperte
intrise d’acqua. Il Dalai Lama chiese a dei giovani monaci di fare
questo esercizio, il tummo, davanti ad un gruppo di medici di Harward.
Nel ritornare col treno a Delhi, si attraversa la grande baraccopoli
della periferia, caratterizzata da cumuli di plastica, spazzatura,
fetore, sporcizia, miseria. Il finestrino del treno era come lo schermo
di un televisore su cui passava un film dell’orrore.
Così doveva
sembrare agli indiani benestanti che viaggiavano col treno. La loro
apparente indifferenza mi colpì, ricordandomi quello che mi era sembrato
il buco nero dell’induismo: la mancanza di compassione. Capivo
perché tanti indiani delle caste basse si fossero in passato convertiti
al buddhismo, e perché in seguito, molti, molti di più fossero diventati
mussulmani.
Per rimanere sani bisogna arrabbiarsi di meno, ridere
di più e tenere in ordine l’intestino. La pulizia dell’intestino era una
vecchia pratica fra gli yogi. Inutile fare corsi di meditazione per
controllare la mente, se non si impara a controllare il corpo. Per
confermare il valore terapeutico del digiuno, basti sapere che
all’università di Nalanda in India, quando uno studente si ammalava,
prima di dargli delle medicine, veniva messo a digiuno per una
settimana. Comunque, anche grandi figure spirituali indiane sono morti di cancro: Ramakrishna, Ramana Maharishi e
Nisargadatta Maharaj. Un vecchio detto indiano recita: L’uomo dice che
il tempo passa, Il tempo dice che l’uomo passa.
Yoga
e musicoterapia. In vari miti della creazione il suono viene indicato
come fonte di tutto, in principio era il Verbo, per gli indiani il
mantra AUM era il primo di tutti i suoni, all’origine della creazione.
Anche per gli scienziati l’universo è iniziato con il Big Bang, il
grande botto.
Terzani nel libro descrive la sua partecipazione ad un seminario di yoga in un ashram a Coimbatore,
nel Tamil Nadu. All’ashram dove Terzani ha trascorso diversi mesi, i partecipanti cercavano
di identificare quali raga, le strutture musicali classiche, hanno il
giusto ritmo per curare le malattie. Fin dalle origini, lo yoga ha
attribuito enorme importanza al suono, e una delle discipline per
trascendere il corpo e far si che l’individuo diventi Uno con l’Assoluto
è il Nada yoga, lo yoga del suono. Al corso di yoga mi guardavo
attorno e non vedevo una faccia serena, non una persona con un bel
sorriso, qualcuno che emanasse un sentimento di pace, e ognuno per conto
suo era impegnatissimo a fare le contorsioni.
Lo yoga significa
unione, ed è una disciplina impegnata a liberare l’uomo dall'essere
un’esistenza individuale separata dall’universo, per unirlo con il
tutto. Ma come questo fine può essere perseguito in seno ad una società
come la nostra, completamente dominata dal principio dell’individualità e
della separazione? Forse il solo provarci crea conflitti, schizofrenie e
quella tristezza che mi sentivo tutto attorno.
La musica Raga
accompagnava gli esercizi e il pranayama, quella musica che quasi non si
interrompe per più di due ore e che sembrava non avere né inizio, né
fine, semplicemente scorreva come l’acqua, come la vita. Lo swami
che guidava il ritiro, aveva una visione integrata della natura e dell’universo, La ricerca
spirituale è la ricerca della conoscenza, e la sola conoscenza che vale
la pena perseguire è la conoscenza di sé.
Noi crediamo di sapere, ma
sappiamo solo quello che vediamo, quello che sentiamo, tutto quello che
proviamo con i nostri sensi. In verità tutto quello che ci appare come
realtà non è reale. Lo yoga fa bene al corpo, ma il fine dello yoga non è
il corpo. Yoga vuol dire controllo della mente, unione tra mente e
corpo. Il corpo è un mezzo di trasporto, va tenuto bene perché si possa
arrivare a destinazione: Non bisogna fare l’errore di confondere il fine
con il mezzo.
Yoga significa essere coscienti di se stessi in ogni
momento, essere coscienti di ogni gesto, di ogni pensiero. Nella pratica
c’è molto di più delle asana e pranayama, che sono due degli otto
aspetti dello yoga, gli altri sei sono: rinuncia alla violenza, distacco
dalle cose materiali, rinuncia alla falsità, ritiro dei sensi,
concentrazione e meditazione. Lo yoga è il mezzo, è la via con cui l’uomo unisce il suo Sé limitato all’Essere infinito. I partecipanti non sembravano interessati a questo, per loro il seminario era per loro un investimento e un futuro mestiere.
Lo
swami insegnava il Vedanta, la fonte di tutta la saggezza. La
spiritualità indiana non era legata ad un popolo o a un paese, e non
s’era fatta strangolare dalla teologia. L’astrologia spirituale era un
modo per capire la predisposizione spirituale delle persone. I maestri
sceglievano in modo meticoloso gli allievi, Lo stesso Vivekananda, aveva
dovuto superare varie prove prima di essere accettato come discepolo da
Ramakrishna.
Lo swami all'ashram, mi diceva: Non ho più bisogno di
tempo, ho fatto tutto quel che volevo fare, il tempo che mi resta è
tempo pubblico, Quando avrai scoperto che sei la totalità, niente ti
potrà più essere tolto; la pace va cercata dentro di noi, non fuori di
noi.
Lo swami mi considerava uno shisha (uno che merita di studiare) e prendevo
lezioni di sanscrito,
studiavo i testi sacri indiani, e stonato come sono, cercavo di cantare
gli inni vedici e i mantra. Per trentanni avevo fatto il figlio, il
marito, il padre, l’amico, il giornalista, il viaggiatore e altro:
Quelli erano stati i ruoli, le maschere con le quali mi ero anche
divertito: Ma io? E poi, quale io?
Quel che un tempo m’era parso importante non mi pareva più tale.Il
vero motivo che mi aveva portato in quell’ashram era l’aspirazione a
fare un nuovo tipo di viaggio, un viaggio dentro e non fuori. Un viaggio
la cui metà non era un luogo fisico ma un posto della mente, uno stato
d’animo, una condizione di pace con me stesso e col mondo a cui agognavo
ormai più che a qualsiasi altra cosa. Non volevo più parlare di me al
passato ma solo al presente. Sarei stato una settimana senza parlare,
che mi chiamassero
Anam, il senzanome.Chi sono io? Cosa
restava di me senza il mio nome, la mia storia, senza quello a cui per
una vita avevo così assiduamente lavorato? Lo swami disse che la
risposta c’era e l’avremmo trovata nel Vedanta, la parte finale dei
Veda, dedicata al Sè che non nasce e non muore, Il Sè che resta
immutabile quando tutto cambia, il Sè la cui esistenza non dipende
dall’esistenza di nient’altro.
Lo swami entrava nell’ashram dalla
porta nord (delle energie positive), noi shisha usavamo la porta ovest
(delle energie neutre). Guru non è un titolo, ma indica un rapporto,
per cui una persona è guru per i suoi discepoli, non è guru per tutti.
In India non si studia sui libri ma andando a vivere con un guru. Gu
significa tenebra e ru vuol dire cacciare e disperdere, il guru è colui
che scaccia le tenebre, colui che porta la luce nel buio dell’ignoranza.
Il mio guru si chiamava Dayananda Saraswati ed io ero membro dell’Arsha Vidya Gurukulam, Tutti nomi dei sanyasin terminano con ananda, per indicare che non hanno ormai altra meta che ananda, la completezza.
Alle
5 del mattino, si celebrava la grande puja, il lavaggio rituale delle
statue al canto dei mantra. Alle 6 c’era arati, la cerimonia del fuoco,
venivano offerti agli dei i cinque elementi di cui è fatto l’universo:
il fuoco, l’acqua, la terra, l’aria e l’etere. Alle 8 si svolgeva il
satsang, letteralmente stare con la verità, che consiste di affrontare
un tema con altri saggi.
La vita di un uomo è divisa in quattro stagioni, ognuno coi suoi frutti, i suoi diritti, e si suoi doveri.
- La stagione dell’infanzia e adolescenza, dello studio, uno impara ciò che gli servirà per la vita.
- La maturità, l’uomo diventa padre, marito, assume il proprio ruolo nella famiglia.
- La stagione del distacco, i figli diventano mariti e padri, è il momento del distacco, dell’andare nella foresta.
- La stagione ultima,
se la si sceglie, in cui, ormai slegato da tutto,
la persona diventa un semplice mendicante, diventa sanyasin, vestito col colore del
fuoco nel quale ha simbolicamente bruciato tutto quello che era l’io
temporale, compresi i desideri, cerca ormai solo moksha, la liberazione
definitiva dal samsara, il mondo dei mutamenti, l’oceano della vita e
della morte.
Moksha
è la destinazione finale del sanyasin, del rinunciante. Per segnare questo momento, viene fatto un
funerale simbolico, lui stesso si accende la pira per saltarci sopra e uscirne
nuovo, ora non è più legato a niente, neppure alla religione e ai suoi
riti. Dopo il funerale andrà in giro con una tunica arancione fatta con
un unico pezzo di stoffa. Il suo corpo sarà buttato nel fiume perché lui
è già passato attraverso le fiamme.
Se facciamo un parallelismo, anche l’Occidente con la
pensione ha ritualizzato questo passaggio. Più ci avviciniamo a quel che
veramente siamo, più siamo felici, ad ogni età. Tutto sta nel sapere
chi siamo.
Meravigliosa la vecchiaia, possiamo finalmente pensare alla
vita, diventare esploratori del mondo interiore. La nostra vita quotidiana
è piena di piccole luci che ci impediscono di vederne una più grande.
Tagore scrive: la bellezza era tutta intorno a me, ma il lume di una
candela ci separava, quella piccola luce impediva alla bella grande
luce della luna di raggiungermi.
Lo swami per presentare il Vedanta
disse che l’uomo si è sempre interrogato sulla natura del suo essere, e da
sempre è angosciato dall’incertezza della risposta. Il mondo gli appare
come distinto da sé, sono due entità distinte, colui che vede e ciò che
viene visto, colui che conosce e il conosciuto.
Questo mondo poi è
messo assieme in maniera così intelligente, che l’uomo non può esserne
stato l’artefice, per spiegare questo nascono le religioni.
L’induismo
è una filosofia di vita e il Vedanta è uno strumento di conoscenza, la
conoscenza della realtà. Tutto ciò che l’io percepisce, è fuori dall’io,
sembra qualcosa diverso dal sé, così come l’onda considera l’oceano una
cosa diversa da sé. Eppure appena l’onda si rende conto che è fatta
d’acqua, che le altre onde sono fatte d’acqua e che l’oceano intero è
solo acqua, il senso di separazione svanisce.
Non appena l’uomo scopre che lui stesso è la totalità, la dualità scompare.L’onda
non ha bisogno di diventare l’oceano, deve solo rendersi conto di
essere l’oceano. Non c’è da cambiare, c’è solo da capire chi si è. Come
può l’uomo fare questo salto di coscienza? Da qui nasce la necessità di
un guru.
Storia per spiegare questo: Dieci pellegrini devono
attraversare un fiume, arrivati all’altra sponda, il capo li conta e la
somma è sempre nove, Disperati si mettono a chiamare e scrutare l’acqua.
Dov’è il decimo? Di lui non c’è nessuna traccia, Piangono e non sanno
più cosa fare. Si avvicina un vecchio che da lontano ha seguito la
scena, e dice: Non c’è ragione di essere tristi, il decimo c’è.
Ma
come? Dice il capo e ricomincia a contare uno, due … nove, Il vecchio
punta il dito al petto del capo e dice "Il decimo sei tu", Il vecchio non
ha fatto altro che indicare l’ovvio: Colui che cerca è il cercato. Lui è
il problema, lui è la soluzione.
Il Sè non può conoscersi senza un
adeguato mezzo di conoscenza. Lo strumento di conoscenza, lo specchio
con cui il Sè ha modo di vedersi sono i Veda, o meglio il Vedanta la
parte finale costituito dalle Upanishad e dalla Bagvad Gita.
Questa
totalità non è altro che la coscienza, coscienza senza limiti, fuori dal
tempo e dallo spazio, che pervade tutto e che sostiene tutto e che si
manifesta in ogni forma.
Una è la verità, anche se i saggi la chiamano
con molti nomi atman, brahman, è dio, è totalità, satchitananda, è
ishwara, bhagawan.
La risposta alla domanda
Chi sono io? è quella magica frase che pervade tutte le Upanishad
“tat tvam asi” Tu sei tutto questo.
Da qui l’idea indiana che Dio è in ogni forma, in ogni essere vivente,
in ogni cosa, Riconoscere quel sé e la sua natura divina è il vero fine
della vita umana.
Storia sull’importanza di conoscere il sé.Su
una barca che attraversa il fiume c’è un pandit , un bramino dotto in
scritture sacre, il pandit chiede al vecchio barcaiolo sai il sanscrito?
no.
un quarto della tua vita è perso, conosci la letteratura classica? no
un altro quarto della tua vita è perso, ci sono libri bellissimi, sai leggere e scrivere? No
un altro quarto della tua vita è andato perso.
Il
pandit si accorge che entra acqua nella barca, le sue gambe sono già a
mollo, la barca sta andando a fondo, Sai nuotare? Chiede il barcaiolo al
pandit, No rispose quello impaurito
Tutta la tua vita è persa, conclude il barcaiolo.
Morale: è inutile saper leggere e scrivere, conoscere il sanscrito e l’intera letteratura se non si conosce se stessi.
Contenuto della Ishavasya Upanishad: OM!
Quello è infinito (Totalità), questo è infinito, Da quell’infinito
proviene questo infinito, Sottraendo questo infinito a quell’infinito,
Ciò che resta è infinito. OM! Pace, pace, pace!Solo quell’unico mantra basterebbe a tener viva la tradizione e a far ragionare chi vuol capire.
La
tradizione dell’insegnamento del Vedanta era stata stabilita da
Shankaracharia nel VIII secolo ma si era presto indebolita, ciò era
dovuto prima ai secoli di dominazione mussulmana, poi alla
colonizzazione, e i Veda venivano insegnati nella clandestinità. Venivano
insegnati da maestro a discepolo in qualche eremo nella foresta. Lo
swami, si era dato come compito, di insegnare il Vedanta a chiunque
fosse interessato, bramino o meno, indiano o meno. Il Vedanta ha un solo
obiettivo spirituale: riconoscere la propria completezza: In questa
vita. Ora.
Sotto la spinta di Vivekananda alla fine dell’ottocento ,
molti, anche in Occidente pensarono che il Vedanta potesse diventare il
Vangelo universale come lo definì Romain Rolland.
Lo swami disse il mio karma è insegnarvi, il vostro karma è d’essere i miei shisha.
Non c’è vita senza problemi, senza problemi non ci sarebbe la gioia, i problemi sono la molla della ricerca spirituale.
Lo swami ci spiegava:
Come
un bruco arrivato in cima ad un filo d’erba si raccoglie su se stesso
per passare al prossimo, così il Sè arrivato alla fine di una vita, si
raccoglie e passa dal corpo vecchio al nuovo.Era bravo a
spiegare concetti come jiva, che è l’individuo in ogni essere vivente,
quello che passa da vita in vita a volte umana o volte no, jagat che è
il mondo, la manifestazione di Brahman, ma non separato da Brahman, come
la tela non è separata dal ragno che la produce, il samsara il mondo
del divenire, dei desideri, del dharma o dovere, quello che mi aspetto
dagli altri è quello che io debbo agli altri, questa è la giusta via.
L’aiutare disinteressatamente qualcuno produce
punya un credito, i
demeriti creano
papa, un debito. Abbiamo la consapevolezza della
presenza della ciotola o della non presenza della ciotola, ma la
consapevolezza c’è sempre. L’io è presente in tanti ruoli, il comune
denominatore di tutti questi io è l’io consapevolezza.
Storia raccontata da Ramakrishna per spiegare la nostra natura divina:
Una
leonessa partorendo muore e il leoncino viene adottato da un branco di
pecore, cresce con loro, mangia l’erba, impara a belare e ad essere
socievole come una pecora, finché un giorno un vecchio leone che aveva
osservato da lontano, con un gran ruggito attacca il branco, tutte le
pecore scappano insieme al leoncino, ma il vecchio leone lo raggiunge,
lo prende per la collottola, lo porta ad uno stagno e lo costringe a
guardarsi nello specchio d’acqua, "Allora chi sei? Una pecora?" Per la
prima volta al leoncino viene da ruggire. Quel piccolo leone siamo noi
che non sappiamo chi siamo, il vecchio leone è il guru, lo specchio
d’acqua è il vedanta. Senza guru non c’è conoscenza.
Dio risiede
dentro di te, tu sei Dio, Allora non cercare Dio, cerca invece un guru
che ti guidi alla scoperta di te stesso. E da qui rapporto di assoluta
dipendenza del discepolo dal suo guru.
L’ashram era un isola fuori
dal mondo e un’occasione per ripensare il tutto. Venivano giornalmente
recitate delle cerimonie. Come la cerimonia dedicata alla dea
Dakshinamurti, l'incarnazione di Shiva, protettrice dei Veda. Venivano
fatte dei
Pujia, ossia delle abluzioni alla statua, che veniva lavata
con acqua, olio di cocco, latte e yogurt, il capo pujiari che dirigeva
la cerimonia pronunciava i 108 nomi della dea, con 108 manciate di
petali.
In Occidente sulla spinta laica e iconoclasta
abbiamo
ridicolizzato ogni credo,
eliminato ogni rituale, togliendo con questo
il mistero, cioè la poesia dalla nostra esistenza. Senza la
cerimonia-iniziazione manca la presa di coscienza del passaggio. Anche
io, seguendo questa tendenza non ho fatto battezzare i figli, e mi sono
sposato in presenza dei soli testimoni.
In India i riti sono una
parte importantissima della vita, tutta la vita è un rito, i riti sono
il grande soggetto dei Veda. I Veda alla fine rivelano che il loro vero
fine è il superamento dei Veda stessi.
I Veda sono la religione, il
Vedanta è la liberazione da tutto, anche dalla religione. Il Vedanta è
tutto sul sé, sulla coscienza illimitata fuori dal tempo e dallo spazio.
Lo
swami insegnava non pagato da nessuno, perché era il suo karma, a noi
era tutto regalato, il vitto e l’alloggio erano il frutto di offerte.
Quando tutti i desideri che dimorano nel cuore sono abbandonati il
mortale diventa immortale e raggiunge Brahman, qui e ora. Anche se il mangiare era
necessario, non bisognava farne un piacere di cui poi essere schiavi.
Il sanscrito degli inni vedici e dei mantra agisce sulla mente ed alza
il livello di coscienza, recitando sempre lo stesso mantra, legando
l’ultima sillaba alla prima (japa) il respiro acquista un ritmo
particolare e determina il cambiamento della mente. Spesso cantare i
mantra mi dava un senso di leggerezza che rasentava la gioia.
Il guru
che ha completa fiducia nel suo discepolo gli dà, come fosse un
prezioso regalo, un mantra che legherà i due per sempre. Il potere non
sta nella cosa in sé, ma nel potere della mente che crede nel potere
della cosa, in questo caso la mala.
I tibetani spiegano il potere della mente con questa storia.Un
monaco, dopo anni di assenza, va a trovare la madre, che immagina stia
per morire di fame, ma al villaggio lo aspetta una sorpresa, la madre
sta benissimo, un vecchio sadhu le ha dato un mantra grazie al quale lei
mette dei sassi in una pentola e quelli, al suono del mantra diventano
patate. Mentre la madre prepara la cena cantando il mantra, il monaco
espertissimo di cose sacre, si accorge che la pronuncia delle parole in
sanscrito non è corretta, e la corregge. La madre orgogliosissima del
sapere del figlio, intona il mantra nella nuova versione. Ma il
risultato è deludente, i sassi restano sassi e i due non hanno niente da
mangiare. Il monaco capisce, prega la madre di tornare alla sua vecchia
versione del mantra, e miracolosamente, nella pentola appaiono le
fumanti patate.
Lo swami mi dette l’indirizzo di un
medico ayurvedico di cui si fidava.
Andai
quindi a
Kottakal, una piccola cittadina in Kerala, a cercare
l'Arya
Vaidya Sala, l’Istituto di medicina ariana, il più vecchio e rinomato
centro ayurvedico dell’India, fondato nel 1902 da Vaidyaratman P.S.
Varrier (1869-1844).
Ero diffidente verso la democrazia indiana,
Nerhu, la figlia Indira Gandhi era diventata primo ministro, il figlio
Rajiv Gandhi era a sua volta diventato ministro e assassinato, adesso la
vedova Sonia Gandhi un’italiana forse diventerà il possibile primo
ministro.
La de-gandhizzazione dell’India iniziò con
Nehru, il successore di Gandhi, Nehru era il contrario di Gandhi, era
raffinato, elegante, era contro il piccolo per il grande, grandi dighe,
grandi industrie, grandi fabbriche, ebbe persino un amore con la moglie
del viceré dell’India Lord Mountbatten. Povero Gandhi era stato tradito, lui che era per il piccolo, per la tradizione, per
l’uomo, per i villaggi.
Gli stati del Kerala e del
Tamil Nadu sono diretti da comunisti e cristiani, che ne hanno fatto gli
stati con il più alto livello di scolarità dell’India.
Per darsi pace bisogna limitare i desideri come suggeriscono le
Upanishad e la Gita.
L’India è un paese povero, ma anche un Paese in
cui la gente ha meno desideri, meno bisogni, per questo in fondo è più
contento di altri Paesi. Contento è
meno di felice, ma sta per soddisfatto, per chi non agogna a niente di
più.
Oltre i medici ayurvedici fra lo stato del Kerala e del Tamil Nadu operano anche
i Tangali che sono dei guaritori mussulmani.
I
testi sacri dell’ayurveda definiscono il cancro adbhuta rota, una
malattia eccezionale, e non rientra tra le malattie curabili e non
curabili. E quando l’ayurveda non basta c’è sempre la medicina
allopatica. Si registra la mancanza della chirurgia nei trattati
ayurvedici, perché non esistono anestetici nella farmacopea ayurvedica.
Per
l’ayurveda il cibo è una cosa importantissima, il cibo più costa e più
fa male. Tutti gli animali che vivono nell’acqua come il pesce,
aumentano le infiammazioni.
La rinascita dell’ayurveda è stato il frutto di una operazione politica di segno anti coloniale.L’ayurveda come
tutte le cose in India ha origine da un mito, Brahma stabilì le regole
con cui sarebbe conservata la vita. L'ayurveda venne portata sulla
terra, dove venne raccolta dai rishi. Attorno al VII secolo a.c. un
personaggio di nome
Atreya si mise a praticarla e insegnarla in
tutta l’India, un diretto allievo di Atreya cominciò a mettere per
iscritto i principi fondamentali. Questi commenti arrivano fino al IV
secolo d.c. Poi con l’arrivo dei musulmani e degli inglesi molti indiani
cominciarono ad abbandonare la loro tradizione medica, la catena di
trasmissione fu interrotta, e fu ripresa sola alla fine del 1800, e nel
quadro della rivolta indiana contro il potere coloniale, divenne simbolo
dello
swadeshi, il grande movimento anti britannico per
l’autosufficienza. Nel 1835 gli inglesi per combattere il vaiolo, contro
le vaccinazioni tradizionali chiusero tutte le scuole di ayurveda.
Oggi solo il
5% del bilancio della sanità va all’ayurveda, e
non esiste nessun controllo governativo sulla qualità della medicina ayurvedica.
La maggioranza degli indiani si cura con la medicina occidentale e
molti occidentali insoddisfatti della medicina di casa loro, si
rivolgono all’ayurveda e si avventurano nelle budella dell’India in
cerca di una cura antica.
Nata dall’osservazione della natura da
parte dei rishi, la Farmacopea ayurvedica era fatta quasi esclusivamente
di piante e erbe, soprattutto selvatiche, e la foresta era il grande
serbatoio dei rimedi.
Un grande maestro disse ai suoi allievi, andate
nella foresta e portatemi tutto quello che credete possa essere
inutile, ognuno di loro riportò qualcosa, ma uno che aveva capito che
tutto era utile, ritornò a mani vuote e fu elogiato dal maestro.
Le
malattie curate con più successo dall'ayurveda sono l’artrite, l'osteoporosi, delle giunture,
della pelle, paralisi da trombosi, i postumi da infarto. Le medicine
sono classificate in nove categorie. Nel Kerala esiste un’antica scuola
di arti marziali, da questa erano nati il karatè e il katana. Il medico
ayurvedico che incontrai era come me, moderno, ma con la nostalgia del
passato. Sottolineava l'importanza della mente, Il credere a qualcosa.
Anche il grande fisico
Niels Bohr teneva attaccato alla porta di
casa un ferro da cavallo, e i colleghi che andavano a fargli visita gli
chiedevano: Non crederai mica a questa roba? Certamente no, ma dicono
che porti fortuna anche a chi non crede.
Nessuno lo sa spiegare in
termini scientifici, ma a me pareva possibile che una volta acquietata e
serena la mente mandasse dei segnali al sistema immunitario perché
facesse il suo dovere. In India è molto conosciuto il
tulsi,
la pianta che tutta l’india considera sacra, è un parente del basilico,
nei testi ayurvedici è descritto come la pianta che apre il cuore e la
mente e sveglia l’energia all’amore e alla devozione. Anche in Occidente
il basilico era in tempi passati una pianta venerata. L’ayurveda è una
filosofia di vita, perché ha una dimensione etica e il suo fine non è
tanto quello di mantenere l’uomo in salute, ma aiutarlo a raggiungere la
sua meta spirituale, la sola garanzia di una vita sana, sta nella forza
interiore del paziente. Quale è il fine della conoscenza se non quello
di capire la natura per poterne seguire le regole e vivere meglio? Oggi
si fa ricerca per scoprire le ricchezze nascoste della natura ed
impossessarsene e trasformarle in merci, questa è la causa del
degrado
spirituale dell’occidente.Il
Kathali è vecchia forma teatrale
del Kerala e uno dei classici veicoli di trasmissione della cultura
popolare, gli attori sono muti e le storie messe in scena vengono tutte
prese dal Mahabharata, dal Ramayana, dalla Gita e dai purana. Durante il
festival viene celebrata
Wiswambhara, la divinità protettrice
dell’ayurveda.
In un'altra cerimonia veniva celebrato Shiva che
tagliava in 51 pezzi il corpo di Sita e ognuno di questi pezzi cade
sulla terra e lì venne costruito un grande tempio. Quello dedicato alla
yoni, l’organo riproduttivo femminile si trova a Guwahati, la capitale
dell’Assam su una roccia, in riva al fiume maschio dell’India il
Brahmaputra, Gli altri fiumi, il Gange e lo Yamuna sono considerati femminili.
Charan Das il sadhu americano, mi ha aveva
portato nella piana di Kurukshetra, dove ho
assistito al Khumba mela di Allahabad all’incrocio tra Gange e Yamuna e
il terzo fiume immaginario o scomparso il Saraswati. C’erano centinaia
di migliaia di persone, io ero là e camminavo facendo attenzione agli
escrementi, gli altri invasati e disattenti a quello che avevano
intorno, erano altrove, aleggiavano in un’anticamera del paradiso.
Mentre io ero incapace di entrare in un’altra dimensione. Qui, migliaia di sadhu nudi e coperti di cenere, erano venuti a
celebrare il khumba mela, ed ognuno con il suo tridente segnava il
proprio territorio, migliaia di pazzi scatenati che mi sono sembrati una
sorta di garanzia che l’India non diventerà mai un Paese come gli
altri. Una società che si inchina ai loro piedi non diventerà mai
completamente materialista
Lasciai
l’ashram di Kottakal con le medicine ayurvediche che sapevo che
non avrei preso, e mi posi la seguente domanda: "Come avrei fatto a lasciare quella bolla di pace e
vivere di nuovo nel mondo?"
Lo swami dopo averci spiegato il Vedanta attraverso le Upanishad, ci parlò della Bhagvad Gita, il vangelo degli indiani.
Il Dio Khrisna per spiegare ad Arjuna la morte dice:
Come un uomo butta via un vecchio abito per indossarne uno tutto nuovo,
così colui che sta in un corpo consumato lo lascia per uno che non è stato mai usato,
per non confondere il jiva che abita nel corpo aggiunge:
E quello, non c’è arma che lo tagli,
non c’è fuoco che lo bruci, non c’è acqua che lo bagni, non vento che lo asciughi,
Impensabile, immutabile, non manifesto
è il Sè e tu sapendoti tale, non hai ragione di soffrire.
Il
dio della Gita non ha un popolo eletto, non condanna nessuno per
l’eternità, è un dio che è tutto e ovunque, e non ha bisogno di
intermediari, che non manda qualcuno sulla terra. Nella visione della
Gita mi piaceva l’idea che il mondo dei sensi non fosse visto come Maya,
illusione o ostacolo alla vera Conoscenza. Il Vedanta non nega il
mondo, è partendo dalla propria percezione del mondo che ognuno può
scoprire ciò da cui il mondo dipende.
Soprattutto mi piaceva che non
ci fosse il concetto di peccato originale, e i desideri non sono
riprovevoli, ma sono parte della vita. I desideri ci legano al samsara,
al mondo del divenire, solo tagliando quei fili si può davvero essere
liberi.
Gli indiani usano la Storia degli elefanti per spiegare maya, l’illusione.
Un uomo muore lasciando ai tre figli 17 elefanti; nel testamento è
scritto che la metà deve andare al maggiore, un terzo al secondo, un
nono al terzo. I figli non riescono a fare la divisione, pensano di
tagliare in due un elefante, e finiscono per litigare. Nel frattempo
passa di lì un ministro del re sul dorso di un elefante, assiste alla
disputa e dice: prendete il mio elefante, aggiungetelo agli altri e fate
la divisione. 18/9 = 9 elefanti vanno al primo figlio; 18/3= 6 elefanti
vanno al secondo figlio; 18/9=2 elefanti vanno al terzo figlio.
9 + 6
+ 2 la somma degli elefanti è 17, i fratelli ringraziano il ministro,
lui riprende il 18 elefante il suo, e ritorna verso la capitale.
Così è il mondo, non un’illusione, ma qualcosa che ci aiuta a fare i
conti e a riconoscere che l’intero universo è sostenuto dalla coscienza,
da quella realtà o totalità, dal sé, di cui tutto è parte.
Dopo settimane trascorse all’ashram cominciavo ad entrare in crisi, l’isolamento mi pareva forzato,
io
ero e restavo europeo, sentivo nascere la contraddizione di fondo tra
il nostro modo di essere al mondo e quello degli indiani. Per noi il
valore supremo è la vita, per loro la non-vita. Moksha, la liberazione
dal rinascere è la grande aspirazione di questa civiltà. La vita così
come è continuava a piacermi, ci vedevo ancora tanta gioia, anche se
capivo che alla gioia segue la sofferenza, mi piaceva il distacco ma non
l’indifferenza.
Il mondo dell’ashram cominciò ad apparirmi non molto diverso dal mondo fuori,
ci vidi le stesse dinamiche, le donne si contendevano, pur gentilmente,
di servire gli swami che venivano in visita, si creavano obblighi e
tensioni. Se qualcuno pensa che entrando in un ashram sfugge alle
trappole della vita si sbaglia.
Quando visitai il bazar, che mi si presentò col solito disperante squallore, mi accorsi che
era lontanissimo dall’ashram col suo ordine braminico, la sua gente
pulita, vestita di bianco ed intenta a pensare al Sè. Allora inevitabilmente mi chiedevo a che
cosa servissero tutte quelle belle idee, quando la società prodotta da
quelle idee era così squallida. Il miglior modo di valutare una causa
era guardare i suoi effetti, ero sempre più confuso.
Siddha è l'antico sistema di medicina del Tamil Nadu, simile all’ayurveda ma influenzato da pratiche alchemiche cinesi.
Terzani, in questo libro, fa la distinzione tra Le religioni forti e deboli, le
prime aggressive e missionarie, come il cristianesimo e l’islam e le
religioni che non cercano di fare proseliti come ebraismo, zoroastrismo,
e lo stesso induismo, e anche il buddhismo sebbene non sia una vera religione.
Questa posizione era diversa da altri mistici come Ramakrishna che
asseriva che tutte le religioni sono uguali, che erano come l’acqua di uno
stesso stagno messa in secchi diversi e chiamata in modi diversi,
Ugualmente tollerante era stato Vivekananda il suo discepolo.
Secondo
lo swami i tempi erano cambiati ed ora l’induismo stava subendo una
vera e propria aggressione. Le conversioni all'islamismo e al cristianesimo erano per lui una nuova forma di
colonialismo. Secondo lo swami occorreva opporre resistenza e ristabilire le vecchie
tradizioni indiane. Avevo voglia di rimettermi in cammino, alla ricerca,
liberarsi dei desideri è più difficile di quanto credessi.
Come disse lo swami potevo scegliere tra il me che desidera o il me che rideva del me che desiderava. E mi raccontò la Storia zen del monaco moralista.
Due
monaci stavano camminando per una strada allagata da un acquazzone, si
trovano davanti una bella ragazza che ben vestita non riesce ad
attraversare la pozzanghera, uno dei due la prende in braccio e la
deposita all’asciutto. l’altro non dice niente, ma la sera quando sono
al tempio dice con aria di rimprovero: "noi monaci dobbiamo stare lontani
dalle donne, specie se giovani e belle, toccarle poi è estremamente
pericoloso, perché lo hai fatto?"
l’altro monaco risponde, "io quella
ragazza l’ho lasciata dall’altra parte della pozzanghera, tu invece te
la sei portata dietro fin qui."
Nell'ashram si è svolta la cerimonia
di ringraziamento a Dakshinamurti, la divinità dell’ashram,
l'incarnazione di Shiva e protettrice dei veda. Durante la cerimonia venivano ripetuti i mantra (japa)
e le formule di ringraziamento, il suono aveva il suo potere, ripetere
l’OM namashivaya in modo circolare e per ore, svuotava e calmava la mente. E il vedanta? Alla fine non mi sentivo
separato dal mondo, anche se non mi prendevo per una piccola onda
separata dall’oceano, comunque non avevo più paura della morte. E la vita passa fuori e dentro l’ashram, passa in una
sequela di attese, di riti il cui unico significato sta nel fatto che
paiono dare un qualche senso all’inutile passare della vita e
dell’esistenza.
Se invece di recitare quel mantra centomila volte
avessimo investito quel tempo a scavare un pozzo, forse l’India non
avrebbe due terzi della sua gente senza acqua potabile.
L’ultimo consiglio dello swami prima della fine del corso fù il seguente: Vivete una vita in cui potete riconoscervi.
Dopo
tre mesi ripartimmo, ognuno per la sua strada, ponendoci forse un po’
più coscientemente quella domanda fondamentale a cui, non tutti, credo,
avevano trovato una risposta “Chi sono io?”.