lunedì 27 dicembre 2021

La saga dei Dalai lama

Il 14° Dalai Lama Tenzin Gyatso (1835 - ) è ben noto al pubblico, questo non è il caso dei suoi tredici predecessori. Presumibilmente condividendo la stessa emanazione, i Dalai Lama che si sono susseguiti sono stati molto diversi l'uno dall'altro.    Vedi link


Conosciamo bene lo sguardo gioviale del Dalai Lama, il cui luccichio malizioso traspare anche dietro i grandi occhiali quadrati. La sua missione di promuovere la pace e la compassione tra i popoli gli è valso il premio Nobel per la pace nel 1989. Il 14° Dalai Lama è un inesauribile promotore del dialogo interreligioso e un grande oratore su questioni sia religiose che secolari. 
Meno conosciuta, tuttavia, è l'istituzione che incarna come quattordicesimo rappresentante di una stirpe vecchia di sei secoli. Quanti sanno che un Dalai Lama è prima di tutto un lama? Cioè un saggio buddista, la cui saggezza è grande come l'oceano, dalai in mongolo - perché fu un sovrano mongolo a conferire questo titolo al più illustre dei tibetani. Non tutti i Dalai Lama, tuttavia, sono stati modelli di saggezza: il sesto di loro ha mostrato più talento nell'arte di sedurre le donne che nell'arte della meditazione.
Fu il terzo Dalai Lama, il primo a ricevere questo titolo onorifico nel XVI secolo - i suoi due predecessori lo ricevettero postumo.
Si suppone che i Dalai Lama siano l'emanazione di Avalokiteshvara, il popolare bodhisattva della compassione - un bodhisattva è un essere che è sufficientemente evoluto per raggiungere l'illuminazione e  poter quindi diventare un Buddha, ma che preferisce ritardare questo stato per aiutare le persone a raggiungere il nirvana. Tuttavia, non dobbiamo essere troppo precipitosi nel concludere che il Dalai Lama è semplicemente una copia di quello che lo ha preceduto. Ognuno di loro ha una personalità distinta, con il suo carattere, i suoi punti di forza e le sue debolezze. Ognuno di loro, a suo modo, ha lasciato il segno nell'istituzione che ha incarnato, così come nel Paese al quale è intrinsecamente legato. Ma se il loro destino è tutt'altro che identico, provengono tutti dal potente ramo Gelugpa del buddismo tibetano.
Fondata all'inizio del XV secolo dal Lama Tsongkhapa, la scuola Gelugpa mira a ripristinare l'importanza dei canoni del Vinaya, il codice etico dei monaci - soprannominati, in questa scuola, "berretti gialli" a causa del loro costume. Divenne la principale forza religiosa e politica in Tibet durante il XVI secolo, ed ebbe un incredibile successo in Mongolia e nella Siberia meridionale tra il XVI e il XVIII secolo.  Fu il monaco Gendün Drub (1391-1474), un grande pandita (studioso) ad essere riconosciuto, per la prima volta, come l'incarnazione di Avalokiteshvara. La sua stessa nascita è avvolta, come quelle dei grandi mistici, da leggende miracolose.
Ordinato monaco all'età di 20 anni, il primo Dalai Lama non smise mai di far rispettare i precetti morali che venivano trascurati in alcuni monasteri. Richiesto a più riprese di dirigere la scuola Gelugpa, rifiutò, preferendo lavorare sul campo, e fondò il monastero di Tashilhunpo (provincia di Tsang). Subito dopo la sua morte, troviamo la sua reincarnazione nella persona del più alto dignitario del Gelugpa, Gendün Gyatso (1475-1542). Fine politico, rafforzò abilmente i suoi rapporti di patronato - insegnava a principi o ad altre persone eminenti, queste ultime gli garantivano la sicurezza economica e politica - e contribuì così notevolmente a stabilire l'autorità del Gelugpa.
Nel 1546, Sonam Gyatso (1543-1588) fu ufficialmente riconosciuto come suo successore. La sua intelligenza politica e la sua lungimiranza determinarono la svolta politico-religiosa che avvenne in Mongolia alla fine del XVI secolo. Continuando l'opera del suo predecessore, per diffondere la dottrina del Gelugpa, andò a predicare ai vicini mongoli. Nel 1578, l'imperatore mongolo Altan Khan chiamò il saggio "un magnifico Vajradhara (Buddha primordiale), un oceano buono, brillante e pieno di meriti". In breve, il Dalai Lama.
Provvidenzialmente, la reincarnazione di Sonam Gyatso fu identificata nella persona del figlio di un principe mongolo della famiglia di Altan Khan. I Gelugpa rafforzarono così strategicamente le loro eccellenti relazioni con i mongoli. Yönten Gyatso (1589-1616) è, ad oggi, l'unico Dalai Lama di origine non tibetana. Questa scelta fu molto opportuna, in quanto in quel periodo il Tibet era in preda alla guerra civile, e gli alleati mongoli aiutarono a ristabilire una situazione normale.
Altrettanto provvidenziale fu l'identificazione del quinto Dalai Lama, Ngawang Lobsang Gyatso (1617-1682), soprannominato "il Grande Quinto", il cui regno è rimasto negli annali della storia del Tibet. Con il suo eccezionale senso politico, permise l'unificazione del Tibet nel 1642, dopo l'aspra guerra civile che aveva lacerato i diversi clan. Fu durante la sua epoca che il Dalai Lama acquisì lo status di protettore di un Paese, la cui identità nazionale fu gradualmente forgiata intorno al suo ufficio e al Palazzo del Potala, che aveva costruito a Lhasa.
Tale era la sua fama che l'imperatore Manciù della Cina lo invitò a Pechino con grande pompa. Studioso eccezionale, il Grande Quinto è l'autore di molti insegnamenti. La sua popolarità era così grande che la sua morte fu tenuta segreta... per più di dieci anni.    I genitori aristocratici del bambino, che sarebbe diventato il 6° Dalai Lama, Tshangyang Gyatso (1683-1706), dubitavano a tal punto che il loro figlio fosse la reincarnazione di un maestro, che cercarono di impedire agli emissari, guidati dagli oracoli, di vedere il ragazzo. Molto più appassionato al tiro con l'arco che allo studio dei testi sacri, dopo un po', rifiutò semplicemente la tonsura e la tonaca, preferendo portare i capelli lunghi, le sue tuniche di broccato blù e i suoi gioielli aristocratici. Passò le sue giornate a tirare con l'arco o a cavalcare con gli amici, e le sue notti nelle taverne o nelle case private, corteggiando giovani ragazze - compresa quella del reggente.
Il 6° Dalai Lama era, bisogna dirlo, dotato di un notevole talento nella composizione di poesie d'amore di rara sensibilità. Preoccupati per le conseguenze di tale comportamento, i tibetani decisero, in accordo con i cinesi e i mongoli, di farlo arrestare e deportare. L'eccentrico lama morì lungo la strada. 
I Dalai Lama, dal 6° al 12°, erano ben lontani dall'eguagliare il Grande Quinto ed il loro ruolo nella guida del Tibet si indebolì, mentre l'influenza dei paesi stranieri (specialmente la Cina)  aumentava. 

Dall'epoca del 7° Dalai Lama, Kelsang Gyatso (1708-1757), i cinesi stabilirono una morsa sulla Terra dei Picchi innevati, fino a farne una colonia nella seconda metà del 18° secolo, impiantandovi degli amban, o governatori manciù. Questo spiega perché la Cina moderna rivendica il controllo del Tibet, che gioca un ruolo chiave nella sicurezza dei suoi confini occidentali. Il 7° Dalai Lama aveva allora solo un ruolo religioso. Il suo successore, Jampel Gyatso (1758-1804), purtroppo non riuscì a fare di meglio: varie strutture amministrative furono create per rafforzare l'autorità dei cinesi Qing negli affari tibetani, soprattutto perché i tibetani furono costretti a chiedere loro aiuto per contrastare un'invasione dei nepalesi. I cinesi cominciano persino a intervenire nella scelta delle incarnazioni del Dalai Lama e del Panchen Lama, il secondo più alto dignitario religioso del buddismo tibetano. Il Tibet divenne una colonia dei cinesi nella seconda metà del XVIII secolo.

I quattro Dalai Lama che si sono succeduti nel XIX secolo sono morti particolarmente giovani (tra i 9 e i 24 anni), in strane circostanze. Sono stati assassinati per indebolire l'istituzione? O sono stati soppressi dagli aristocratici tibetani ansiosi di impedire che un potere forte contrastasse i loro interessi? Resta il fatto che la dominazione cinese si rafforza sul Tetto del Mondo. Il 9° Dalai Lama, Lungtok Gyatso (1805-1815), fece una forte impressione su Thomas Manning, uno dei primi commercianti britannici a stabilire legami con il Tibet. Secondo il suo ritratto, il piccolo Dalai Lama era un ragazzo bello, elegante, raffinato e intelligente, che aveva il pieno controllo delle sue facoltà mentali già all'età di sei anni. Il 10° Dalai Lama, Tsultrim Gyatso (1816-1837), che era in cattiva salute, non ebbe alcun ruolo nella sotria del Tibet, così come l'11° Dalai Lama, Kedrup Gyatso (1838-1855) e il 12°, Tinle Gyatso (1856-1875) che fu costretto all'esilio due volte.

Una nuova era iniziò con il 13° Dalai Lama, Thubten Gyatso (1876-1933). Esasperato dall'interferenza della Cina, dovette anche affrontare le ambizioni degli inglesi sul Tibet, che non esitarono a fare incursioni armate. Il giovane Dalai Lama, all'età di 24 anni fu presumibilmente vittima di un tentato omicidio per magia nera. Ansioso di evitare l'occupazione britannica del suo paese, cercò senza successo l'aiuto russo, e fu infine costretto all'esilio in Mongolia nel 1904. Tornato a Lhasa dopo quasi cinque anni di esilio, si rese conto delle manovre cinesi per impadronirsi del territorio, soprattutto iniziarono le repressioni brutali contro le ribellioni tibetane,  soprattutto da parte di Zhao Erfeng, nominato residente imperiale in Tibet. Ancora una volta, il 13° Dalai Lama dovette fuggire e rifugiarsi in India. 

Ma nel 1911, la rivoluzione in Cina causò il caos all'interno dell'esercito cinesi. I tibetani ne approfittarono per riprendere il controllo del loro Paese. Tornato a Lhasa, il il 13° Dalai Lama tagliò tutti i legami con la Cina proclamò il Tibet indipendente, dicendo che con la formazione del nuovo governo in Cina, la tradizionale relazione tra i due Paesi si stava "dissolvendo come un arcobaleno nel cielo". Inoltre, decise di realizzare delle riforme volte a modernizzare il suo paese, soprattutto a livello militare e sociale (creazione di scuole ispirate al modello inglese, installazione di elettricità nella capitale, creazione di una rete postale, ecc.).  Non si oppose alla decapitazione di diversi membri del governo accusati di collaborare con i cinesi.  Il 13° Dalai Lama è stato una delle figure più ricordate dai suoi connazionali. Qualche mese prima della sua morte, dichiarò: "Se non siamo in grado di difendere il nostro paese, i santi lama, il Dalai Lama e il Panchen Lama saranno eliminati, le proprietà dei lama reincarnati e dei monasteri, così come il denaro per i servizi religiosi, saranno sequestrati [...]; i  funzionari, espropriati dei loro beni e possedimenti, saranno ridotti a schiavi; e il mio popolo, sottoposto a paura e miseria, non sarà in grado di sopportare il giorno e la notte". Purtroppo le sue parole, sono state parole profetiche. L'invasione del Tibet ebbe inizio nell'ottobre del 1950, dopo la fine della guerra civile cinese che vide il Kuomintang (il Partito Nazionalista Cinese, KMT) e il Partito Comunista Cinese (PCC) guidato da Mao Zedong contendersi il potere dal 1927 al 1949.  

Il 17 marzo 1959, durante una consultazione dell’oracolo di Nechung, al giovane 14° Dalai Lama, vennero date esplicite istruzioni per lasciare il Paese.
Tre settimane dopo la fuga da Lhasa, il 30 marzo 1959, Sua Santità e il suo seguito raggiunsero i confini indiani. Il governo indiano concesse ai rifugiati tibetani di installarsi a  Dharamsala che è l'attuale sede del governo Tibetano e la sede del Dalai Lama.  Vedi link http://it.dalailama.com

Il sorriso e la saggezza. Dalai Lama, biografia autorizzata

Il sorriso e la saggezza – Dalai Lama biografia autorizzata, è un libro scritto da Pietro Verni.  Questa biografia segue quelle pubblicate nel 1990 e 1998 per la casa editrice Nalanda.  Questo testo permetterà di approfondire la  conoscenza della figura di Sua Santità, sia della storia e della cultura del Tibet. La prefazione è scritta dallo stesso Dalai Lama. Un percorso che, attraverso la straordinaria vicenda di Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama, il Maestro più venerato dalle donne e dagli uomini dell’universo tibeto-himalayano, permette di esplorare mondi ed epoche distanti da noi... 

Seguendo l’avventura umana di questo importante esponente del pensiero contemporaneo chiamato “Oceano di Saggezza” sono esaminati oltre ottant’anni di storia asiatica e internazionale.   Il XIV Dalai Lama è un testimone del nostro tempo, un fondamentale punto di riferimento etico, spirituale, filosofico, per moltissime persone anche in Occidente.  Un esempio a cui far riferimento nel realizzare un cambiamento positivo nella vita individuale e collettiva di ciascuno di noi.

Piero Verni è giornalista, traduttore e autore di libri. È stato presidente dell’Associazione Italia-Tibet, e vive e lavora tra Milano e la Bretagna. Profondo conoscitore delle civiltà orientali è l’unico autore italiano ad aver scritto una biografia autorizzata del Dalai Lama. Cura il progetto Heritage of Tibet con Giampietro Mattolin, con cui pubblica libri e cura mostre, come al recente Tibet Festival a Roma.

E' morto Desmond Tutu

 E' morto Desmond Tutu (1931-2021), icona anti-apartheid in Sudafrica e premio Nobel per la pace.

È morto nel dicembre del 2021 l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, che fu uno dei simboli della resistenza contro l’apartheid e divenne poi il promotore della riconciliazione. Tutu, 90 anni, arcivescovo anglicano, vinse nel 1984 il premio Nobel per la Pace come simbolo della lotta nonviolenta contro il regime razzista, ha lavorato instancabilmente, in modo non violento, per la sconfitta dell'apartheid in Sud Africa. Ha cercato di sensibilizzare l’opinione pubblica contro l’iniquità razziale sia in patria che a livello globale.  Il presidente del Sud Africa, Cyril Ramaphosa lo ha definito “un patriota senza pari’. Per Obama è “Uno spirito universale e una bussola morale”. Bernice King, figlia di Martin Luther King, si riferisce a lui come un "Saggio globale, Leader dei diritti umani, potente pellegrino sulla terra". 

Collaborò con Nelson Mandela per creare il nuovo Sud Africa,  ideò e presiedette, nel 1995,  la Commissione per la Verità e la Riconciliazione per avviare il processo di pacificazione fra le due parti della società sudafricana.  Desmond Tutu ha anche criticato lo stesso partito maggioritario dell’Africa multietnica, l’African National Congress (Anc), denunciandone la deriva nepotistica e la corruzione sotto il presidente Jacob Zuma. Non ha risparmiato neanche il presidente Mandela, criticandolo per le paghe ritenute troppo generose di alcuni ministri e collaboratori. Ha inoltre, rimproverato molto duramente l’omofobia presente nella società.  Divenne il primo vescovo nero di Johannesburg e in seguito arcivescovo di Città del Capo, nonché partedcipò a frequenti manifestazioni, per galvanizzare l’opinione pubblica contro l’iniquità razziale sia in patria che a livello globale.

Papa Francesco ha sottolineato “Il suo servizio al Vangelo tramite la promozione dell’uguaglianza razziale e la riconciliazione nel suo nativo Sudafrica”.  L’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama lo ha definito “un mentore, un amico e una bussola morale per me e per molti altri. Spirito universale, Tutu si è battuto per la liberazione e la giustizia nel suo Paese, ma era anche preoccupato per l’ingiustizia altrove."

La biografia. Nato a Klerksdorp, vicino Johannesburg, Tutu è stato insegnante prima di diventare sacerdote nel 1961 poi si trasferisce nel  Lesotho. Nel 1975 diventa vescovo e, nel 1986, primo arcivescovo anglicano nero di Cape Town. Tutu fu arrestato nel 1980 per aver preso parte ad una protesta.  Viaggiò negli Stati Uniti e in Europa, dove tenne colloqui con il Papa, il Dalai Lama e altri leader spirituali.  L'arcivescovo emerito Desmond Tutu ha fatto colpo su tutti quelli che ha incontrato. Il suo rapporto con il Dalai Lama era speciale ed insieme hanno promosso un dialogo interreligioso. Ritiratosi da ogni carica attiva nel 1996, ha lottato per vari anni contro un tumore. Di recente ha anche preso posizione a favore della “morte compassionevole” ed ha scritto qualche anno fa “Spero di essere trattato con compassione e che mi sia consentito di passare alla prossima fase del viaggio della vita nel modo che sceglierò”.

vedi link https://www.youtube.com/watch?v=elT65h0B0zM

https://www.youtube.com/watch?v=it0hR5cpHLg&list=RDLVit0hR5cpHLg&index=1

https://www.youtube.com/watch?v=rLzxKu9GTns&list=RDLVit0hR5cpHLg&index=4

giovedì 23 dicembre 2021

Autobiografia di uno yogi

 L’Autobiografia di uno Yogi, è uno dei testi sulla spiritualità più conosciuti in Occidente, è stato scritto da Paramahansa Yogananda (1893-1952), uno dei è uno dei più importanti insegnanti spirituali del Ventesimo Secolo e fondatore della Self-Realization Fellowship che ha introdotto il Kriyā Yoga in Occidente.

Il libro, pubblicato nel 1946, (successivamente, Yogananda aggiunge al libro, un capitolo finale che documentava gli ultimi anni della sua vita) è l'autobiografia di Yogananda che racconta la sua vita, dall'infanzia, con le sue prime visioni, gli incontri con numerosi santi e saggi durante la giovanile ricerca di un maestro che lo portò ad attraversare tutta l’India, l'incontro con il suo Maestro Swami Sri Yukteswar (1855 – 1936), i dieci anni di vita nell'ashram e i trent’anni vissuti in America.   Fu mandato in Occidente dal suo Maestro per diffondere lo yoga, e fu quindi uno dei primi grandi maestri indiani a trasferirsi in Occidente 

Swami Sri Yukteswar, il cui vero nome è Priyanath Karar, è stato anche un astrologo, discepolo di Lahiri Mahasaya e maestro anche di Satyananda Giri. Durante la sua vita, non si spostò mai dall'India, ed era solito dire: "tutte le creature, dalla più grande alla più piccola, desiderano ardentemente tre cose: L'esistenza, la conoscenza, la beatitudine".   "Tra gli insegnamenti occidentali ed orientali non solo non esistono reali divergenze, ma neppure vere contraddizioni, bisogna valorizzare l'unità fondamentale delle diverse religioni".  Nel libro, Yogananda parla del suo guru  che nel suo ashram a Serampore in India, spiegava le sacre scritture cristiane.   Consiglio vivamente di leggere La scienza sacra di Swami Sri Yukteswar dove spiega in modo magistrale la scienza dello yoga, indispensabile alla felicità dell'uomo.

Swami è un termine che deriva infatti dal sanscrito e significa letteralmente “colui che sa”, “maestro di se stesso”, “venerazione”. E' un titolo di rispetto che viene dato nella religione induista ai maestri e insegnanti spirituali, spesso inserito alla fine del cognome.  Anche  Śrī è un termine sanscrito che indica la "luce", la "luminosità", lo "splendore", "ricchezza" ed è usato come titolo di rispetto e venerazione,

 Nel testo, Yogananda descrive i suoi incontri con grandi figure del tempo come il Mahatma Gandhi, Rabindranath Tagore, Luther Burbank, la mistica cattolica Teresa Neumann e altre famose personalità orientali e occidentali.    

L’Autobiografia di uno Yogi è anche un’esauriente introduzione all’antica scienza dello Yoga e alla sua consolidata tradizione della meditazione. L’autore spiega con chiarezza le leggi, sottili e al tempo stesso ben precise, che governano sia gli episodi della vita di tutti i giorni sia gli avvenimenti straordinari che sono comunemente chiamati miracoli. La storia avvincente della sua vita offre così lo sfondo da cui gettare uno sguardo penetrante sui misteri dell’esistenza umana.

Mahavatar Babaji, figura mitica e guru di Lahiri Mahasaya, Sri Yukteswar e Yogananda hanno creato una catena di trasmissione del KriyaYoga, l'antica scienza dello yoga,  disponibile non solo a rinuncianti e asceti, ma anche ai sinceri ricercatori spirituali. La loro influenza spirituale è percepita ancora oggi in tutto il mondo. Molti capitoli del testo sono consacrati ai Maestri, e indicati da Yogananda come Avatar (reincarnazioni del divino, di Visnù), Babaji e Mahasaya. Yogananda scrive: "Babaji è sempre in comunione con Cristo, insieme mandano vibrazioni di redenzione e hanno messo a punto una tecnica di salvezza spirituale per la nostra era".

 L’Autobiografia di uno Yogi  fu l’unico libro ritrovato nell’ iPad di Steve Jobs, il quale dispose che ne venissero distribuite delle copie tra i partecipanti al suo funerale.

Un discepolo di Yogananda è stato swami Kriyananda che ha creato delle comunità di Ananda in tutto il mondo. La più conosciuta in Italia è quella vicina ad Assisi.   https://www.youtube.com/watch?v=maFzHYItcSU

Dal testo:     Io amo meditare di Kriyananda

"Ognuno vede il riflesso, che il mondo gli rimanda, delle energie e degli atteggiamenti che lui ha proiettato".

"Quando siamo arrabbiati, vediamo ovunque ampie conferme alla nostra rabbia; quando siamo in pace, ci sembra che ogni cosa rinforzi la nostra serenità".

 

lunedì 20 dicembre 2021

La vita di Ramana Maharshi

La domanda centrale e unica che Ramana Maharshi chiedeva a chi si rivolgeva a lui era: "Chiediti, Chi sono io?Alcuni andavano da Maharshi, sperando di ottenere da lui una panacea per tutti i mali del mondo. Gli chiedevano quali soluzioni proponeva per i problemi della miseria, dell'analfabetismo, delle malattie, della guerra e cosi' via.  La risposta  che il saggio dava a tutti coloro che gli rivolgevano queste domande era: "Prima hai trasformato te stesso?"   Per trasformare se stesssi si deve passare per la soppressione dell'ego. L'ego non e' l'IO,  ma e' solo lo pseudo-io, responsabile di tutti i mali e di tutta l'infelicita' del mondo, e che la felicita' finale e duratura potra' essere realizzata solo quando sara' eliminata l'ignoranza, che è la causa dell'ego, e l'ego sarà purificato e attenuato. Percio', se non si ricerca il vero IO, non si puo' servire veramente la societa'. La trasformazione deve cominciare da se stessi.

Vedi siti:  http://www.ramana-maharshi.it/      https://www.sriramanamaharshi.org/

Ramana Maharshi nacque nel 1879 nel sud dell’India, ed è uno dei saggi più celebrati in India. Dall'età di 17 anni, visse ai piedi del monte Arunachala una delle montagne sacre dell'India, dove restò fino alla morte nel 1950. Davanti a lui è passata una folla immensa d’umanità, da filosofi, re, persone umili, anche solo per ricevere uno sguardo.  Numerosi ricercatori spirituali divennero suoi devoti e ricevettero i suoi insegnamenti.  In Ramana si manifestava l’Assoluto che irradiava lo spazio circostante, ed avvolgeva i suoi devoti.   Maharshi è un termine tamil equivalente al sanscrito maharishi; nome composto da maha: grande e rishi: saggio. Srì che precede il suo nome, significa santo, benedetto, ed era l'appellativo che si da ai Maestri.

La sua famiglia apparteneva alla casta dei brahmini;  alla morte del padre si trasferì a Madurai. Ramana non era un ragazzo come gli altri, non gli interessavano molto le cose della vita e approfittava di ogni minuto di tempo libero, per immergersi nella profondità del suo Essere. Non ci volle molto perché in lui maturasse il senso dell’inutilità di quello che faceva, dell’inadeguatezza della sua attuale condizione terrena.   Dopo un'esperienza dell'assorbimento nel Sé, Ramana lasciò la famiglia senza dire niente, prese il treno e si stabilì sulle pendici del sacro monte Arunachala, di cui diceva di essere stato attratto. Passò direttamente dalla condizione di studente a quella di rinunciante.  Il biglietto tutt’ora è conservato al Ramanasramam. Nel 1896 arrivò a Tiruvannamalai, dove raggiunse il grande tempio di Arunachalashvara, qui si manifestarono una serie di eventi particolari, stati di percezione particolari, fino alla sua illuminazione.

Insensibile agli stimoli esterni, rimase seduto immerso in meditazione senza dar segni di vita  in un sacrario sotterraneo per diversi mesi, ed è li che raggiunse la beatitudine del samadhi e le estreme vette dell’ascesi. In quel periodo veniva nutrito a forza da Palaniswami un sadhu, che viveva lì e che poi divenne suo discepolo.  Man mano che passava il tempo, sempre più persone venute in pellegrinaggio a Tiruvannamalai, notavano quel giovane asceta immobile, sempre immerso nel silenzio e in samadhi continuo. La sua fama ormai si era così diffusa, che i devoti arrivavano da tutta l'India per vederlo.
Alle tante domande, Ramana rispondeva scrivendo, ed è in questo modo che i devoti scoprirono il suo nome, da dove veniva e che conosceva l’inglese.  Solo successivamente Ramana scoprì che l'esperienza che aveva vissuto era descritta come "liberazione", nei libri sul Vedanta. I suoi parenti, sua madre e suo zio vennero a trovarlo cercando di persuaderlo a ritornare, ma lui rimase in rigoroso silenzio.
Dopo due anni e mezzo dal suo arrivo, Ramana ritornò a uno stile di vita “normale” e  si stabilì in una grotta sulle pendici della sacra montagna di Arunachala, che esercitava una “attrazione misteriosa” su di lui.  Per la maggior parte del tempo risiedeva nella grotta di Virupaksha.
«Lo scopo di tutte le scritture è l’indagine sul sé. In esse si dichiara che la Liberazione sta nell’annientamento del senso dell’Ego.  Se si riuscirà ad essere consapevoli dell“io nell’io”, "questa consapevolezza annienterà completamente il senso dell’“io” nel corpo e si arriverà a quello stato che saggi e scritture chiamano liberazione".  «La ricerca del sé»,  porta ad un sentiero diretto alla liberazione, che corrisponde al nucleo dell'Advaita Vedanta.  Ramana parlava con estrema parsimonia, al punto che i discepoli pensavano che avesse fatto voto di silenzio (muni) mentre lui riteneva che il Silenzio sul piano manifesto, è il simbolo più alto del Sé.

Tutte le domande fatte dai vari discepoli e le relative risposte, vennero riportate in un piccolo libretto dal titolo “Chi sono io” revisionato dallo stesso Ramana. Per esprimere la felicità, che è la nostra vera natura, è essenziale conoscere se stessi e per fare ciò, il mezzo migliore è rispondere alla domanda "Chi sono io?"

 Io non sono questo corpo fisico, né sono i cinque organi della percezione sensoriale;
 io non sono i cinque organi dell’attività esterna organi d’azione,
 né le cinque forze vitali i cinque “soffi” o prana,    e neppure sono la mente pensante.
Non sono neppure quell’inconscio stato di nescienza che conserva semplicemente le sottili vasana (potenzialità latenti della mente), pur essendo libero dall’attività funzionale degli organi sensoriali e della mente, rimanendo inconsapevole dell’esistenza degli oggetti della percezione sensoriale.
Perciò, respingendo in blocco tutti i succitati complementi fisici e le loro funzioni, dicendo: “ Io non sono questo; no, non sono né questo né quello”, ciò che allora rimane separato e da solo, quella pura Consapevolezza è ciò che io sono. Questa consapevolezza è per sua stessa natura Sat-Chit-Ananda (Esistenza-Coscienza-Beatitudine).


Ramana diceva che la mente non è altro che l’insieme dei pensieri e che il primo pensiero è quello dell’”io”. Ecco che, dissolto questo primo pensiero, resta solo il Sé che brilla incontaminato.
«Anche quando pensieri estranei spuntano durante tale investigazione, non cercate di completare il pensiero che sorge, ma invece investigatevi a fondo dentro chiedendovi: A chi si è presentato questo pensiero?"
«Per placare la mente non c’è un altro mezzo più efficace e adeguato della ricerca del Sé. Anche se la mente sembra placarsi con altri mezzi, sarà così soltanto apparentemente».
Ramana diceva  «La morte è inevitabile per chi è nato. Tutti incontreranno la morte un giorno. Non c’è bisogno di addolorarsi».
Dopo la grotta di Virupaksha, Ramana si trasferi a Skandashram, e sul pendio della montagna fu costruito l’ashramam il Ramanasramam e Ramana vi rimase fino alla sua morte. La madre lo raggiunse,  e morì nell'ashram nel 1922. 
Dopo diversi anni, nel 1947 il Maharshi cominciò ad ammalarsi. Mano a mano che il suo corpo si indeboliva, la sua magnifica aura e il suo sguardo splendente sembravano espandersi ancora di più.
Continuò  a dare insegnamenti (darshan) alla solita ora: dalle cinque alle sei del pomeriggio, fino alla sua morte.   All'annuncio che avrebbe dato il suo ultimo darshan, una folla enorme venne ad ascoltarlo all'ashram. Una stella cadente apparve nel cielo sopra il monte Arunachala proprio nel momento in cui Sri Ramana Maharshi esalò il suo ultimo respiro.

Swami Sivananda Saraswati

Swami Sivananda Saraswati (1887 – 1963)  è stato un medico, filosofo e yogi indiano. Fu un maestro yoga molto importante ed autore di molti libri di riferimento per lo yoga. Dopo gli studi di medicina, nel 1913 va in Malaysia dove lavora come amministratore e assistente di medici responsabili di ospedali.  Nel 1924, preso da un fervore spirituale, ritorna in India e  nel 1924 va a Rishikesh dove crea un ashram.  Il suo stile di yoga, si ispira alla tradizione classica dell’Hatha Yoga, è accessibile a tutti e include: asana, esercizi di pranayama, ripetizione di mantra, meditazione e rilassazione, e una dieta essenzialmente vegetariana.  Ha ideato la famosa sequenza di asana, la serie di Rishikesh.  Nel 1929 scrive il libro La pratica dello yoga incentrato sulla filosofia yoga e sulle varie tecniche  yoga.

Crea, sempre a Rishikesh,  il Sivananda Charitable Hospital, e la Divine Life Trust Society nel 1936.
Poi crea anche il centro ayurvedico nel 1945 e la Yoga-Vedanta Academy Press nel 1951.

Fu il primo maestro di André Van Lysebeth, colui che introdusse lo yoga in Occidente. Gli insegnamenti prima furono impartiti per via epistolare e poi in presenza. Sivananda, poco prima di morire, gli conferì il diploma dell'Accademia ‘'Yoga Vedanta Forest".
Dopo la morte di Sivananda, nel 1963, molti dei suoi discepoli, crearono delle scuole in tutto il mondo, la prima scuola improntata sugli insegnamenti di Sivananda, è costituita alla fine degli anni '70. Nella Divine Life Society (DLS) a Sivananda succede Swami Chidananda (Sridhar Rao, 1916-2008).

Un altro dei discepoli di Sivananda fu Swami Satyananda Saraswati (1923-2009). Nel 1955 fonda l’International Yoga Fellowship Movement e nel 1963 la Bihar School of Yoga a Munger, sulle rive del Gange. Nel 1968 per la prima volta percorre il mondo in una tournée internazionale, che è alle origini della fondazione di centri yoga in numerosi Paesi affiliati all’International Yoga Fellowship Movement.

Satyananda nomina Niranjanananda suo successore come presidente della Bihar School of Yoga. La forma di yoga insegnata dalla Scuola Satyananda è quella dello “yoga integrale”, che include i sistemi classici di hatha, raja, karma, bhakti, jnana, mantra, kriya, kundalini e altre branche dello yoga. Il logo dell’International Yoga Fellowship Movement e della Scuola di Yoga Satyananda Ashram Italia raffigura l’ajna chakra: un fiore di loto formato da due petali adagiati ai lati di una circonferenza, all’interno dei quali si trovano le due lettere dell’alfabeto sanscrito ham e ksham, che rappresentano rispettivamente il principio dell’energia lunare – di natura mentale – e dell’energia solare (la forza vitale). Attualmente, i centri di yoga, ashram e insegnanti di yoga affiliati all’International Yoga Fellowship Movement che s’ispirano agli insegnamenti di Satyananda e di Niranjanananda, sono diffusi in diverse parti del mondo:

La serie di Rishikesh            


domenica 19 dicembre 2021

Tirumalai Krishnamacharya

Sri Tirumalai Krishnamacharya (1888 – 1989) è stato uno dei grandi Maestri yoga del XX secolo, ha contribuito al rilancio dell'hatha yoga in India e in Occidente. Tra i suoi allievi più noti possiamo citare Iyengar (che era il cognato), Pattabhi Jois, i suoi figli Desikachar e Sribashyam, Gerard Bliz. Ebbe discepoli noti e potenti, primo fra tutti il Maharajah di Mysore, e ciò contribuì alla sua notorietà. Krishnamacharya si laureò in tutte e sei le darśana vediche, o filosofie indiane  e fu anche guaritore e studioso ayurvedico.   

Krishnamacharya era il maggiore di cinque fratelli e fu incitato dal padre (che era un "pandit"  ossia un esperto dei Veda) allo studio dei Veda e di molti altri testi religiosi. Da lui imparò la pratica dello Yoga. Alla morte del padre, la famiglia si trasferì a Mysore e a dodici anni divenne allievo nel Brahmatantra Parakala Mutt a Mysore, una delle scuole più note e rispettate nell’ambito bramanico. Qui Krishnamacharya studiò i testi vedici, i rituali vedici, la grammatica sanscrita, le Upanisad, la Bhagavad Gita, il Vedanta, il Nyaya frequentando contemporaneamente il Real College di Mysore.

Nel 1914, Krishnamacharya viaggiò nel nord dell’India per studiare il Sankhya, il più antico sistema filosofico indiano su cui si basa la disciplina dello Yoga. Nel 1916 decise di cercare il leggendario yogi Yogeshwara Rama Mohan Brahmachari. Dopo due mesi e mezzo a piedi, lo trovò sull'Himalaya, in una grotta ai piedi del monte Kailash.  
Rimase con il suo insegnante per quasi otto anni: apprese gli Yoga-sutra, molte tecniche relative agli effetti degli asana e del pranayama,  e imparò ad aiutare i malati utilizzando gli strumenti dello Yoga.   Il maestro Ramamohan assegnò a Krishnamacharya, il compito di diffondere lo yoga ed illustrarne le grandi potenzialità, anche come tecnica per aiutare persone malate.
Krishnamacharya si rese conto che, per essere un insegnante di Yoga, occorreva convincere le persone che la disciplina non era solo una serie di posture, ma qualcosa di molto più profondo e ricco di potenzialità.   Continuò a studiare  yoga, ottenendo anche dei riconoscimenti, presso le Università di Calcutta, Allahabad, Patna e Baroda prima di tornare a Mysore.

Krishnamacharya si sposò e con il sostegno del Maharaja di Mysore, fondò l’istituito ‘Yoga Shala’ (Scuola di Yoga) dove insegnò lo yoga anche alle donne.
Nel 1934 scrisse il suo primo libro Yoga Makaranda (Il miele dello Yoga).  A poco, a poco la sua popolarità si diffuse in tutta l'India e incominciò a viaggiare ed insegnare lo yoga in tutto il Paese. 
Restò a Mysore fino al 1954 dove insegnò yoga anche a molti europei, ciò gli permise di apprendere l'inglese. Dopo l’indipendenza dell’India il centro chiuse e si trasferì a Madra, dove insegnò yoga fino alla sua morte nel 1989.  In questo nuovo centro propose anche trattamenti Ayurvedici ( la medicina tradizionale indiana).
Il suo insegnamento era basato soprattutto sulle asana e il pranayama. Nel corso del tempo la sua partica si evolverà verso un sistema di concatenamento di posizioni. Nelle posizioni si sviluppa la concentrazione mentale e l’associazione corpo - respiro porta ad una  “stabile conoscenza di sé”.

Questo metodo negli anni '60 sarà portato in Occidente da T.K.V. Desikachar, uno dei figli di Krishnamacharya.  Negli anni successivi TKV Desikachar  propose uno yoga personalizzato insistendo sulla necessità di adattare sempre di più lo yoga alle caratteristiche della persona: età, sesso, salute, educazione, cultura, sensibilità e aspirazioni. Questi livelli ( bhumi) daranno vita alla nozione di Viniyoga, presa in prestito da Patanjali.  In linea con la nozione di Viniyoga, dagli anni ‘80 comincerà a costruire delle sequenze d’asana, che rispondevano ai tempi limitati e ai bisogni individuali delle persone della nostra attuale società. Infine dal 1985 al 1989 Krishnamacharya introdurrà, all’interno della pratica, momenti di raccoglimento e di recitazione dei mantra.  Krishnamacharya è un perfetto esempio di equilibrio fra il rispetto della tradizione e la capacità di rinnovamento.

Tirumalai Krishnamacharya Venkata Desikachar

TKV (Tirumalai Krishnamacharya Venkata) Desikachar (1938-2016)  è figlio del grande Maestro T. Krishnamacharya. E' nato a Mysore ed ha inizialmente ricevuto un’educazione di stampo occidentale, laureandosi in ingegneria. 
Nel 1961 iniziò a studiare sistematicamente lo yoga con suo padre, ricevendo i suoi insegnamenti.

Dal 1970 in poi girò tutto il mondo per insegnare yoga e pubblicò molti libri che divennero veri e propri best sellers.  T.K.V. Desikachar è noto soprattutto per  il testo Hearth of Yoga  in cui asserisce che la pratica dello yoga deve essere individualizzata ed adattata ad ogni persona.  Importante è anche il suo lavoro pionieristico nel settore del benessere e della yoga terapia. Durante i suoi trentennali studi con il padre, apprese tutte le pratiche dello yoga che utilizzò poi, per aiutare le persone a superare i loro problemi fisici, permettendo loro di vivere una vita migliore, sia materialmente, che spiritualmente.

Sulla base degli insegnamenti del padre, continuò a sviluppare il cosiddetto Viniyoga. Nelle Upanishad il termine “viniyoga” viene utilizzato per esprimere concetti come “offerta” o “dono”.  Il termine viene ripreso anche dagli Yoga Sutra di Patañjali. Il sutra III. 6 (tasya bhūmiṣu viniyogaḥ), fa riferimento a una «applicazione progressiva» delle tecniche dello yoga che deve tenere conto dei diversi livelli dei praticanti e delle loro caratteristiche individuali".  Questo approccio olistico, altamente personalizzato si basa, quindi, su:  insegnamenti che devono essere adattati alle specifiche condizioni fisiche, spirituali, stati emotivi, mentali, età, background culturale, interessi generali del praticante. 
A partire dagli anni ottanta, grazie al lavoro di Desikachar e di vari allievi occidentali il patrimonio di tecniche e conoscenze del Viniyoga è stato trasmesso ad  un vasto pubblico. La rivista “Viniyoga”, fondata da Claude Maréchal, per anni, ha veicolato questo insegnamento in modo aperto e non settario.
Il Viniyoga non va considerato una tradizione chiusa e immutabile, ma piuttosto un metodo di pratica i cui principi possono adattarsi a ogni genere di praticante: dal bambino all’adulto, dall’atleta alla persona sedentaria o ammalata. È di Krishnamacharya questa famosa frase (che rispecchia appieno lo spirito del Viniyoga) “Non è la persona che deve adattarsi allo Yoga, ma lo Yoga che si deve adattare alla persona
Le tecniche di āsana, prāṇāyāma e mudrā proposte nel Viniyoga variano a seconda delle capacità e delle necessità del singolo praticante.  La pratica può dunque prendere diverse direzioni:
  •     quella della cura,
  •     della protezione,
  •     dell’apprendimento sistematico,
  •     dello sviluppo delle potenzialità individuali
  •     dell’interiorizzazione.
"Lo spirito di Viniyoga consiste nel partire da dove si è. Poiché ognuno è diverso e cambia di volta in volta, non ci può essere un punto di partenza comune e le risposte preconfezionate non aiutano. È necessario guardare la situazione attuale e mettere in discussione lo status quo".   TKV Desikachar

B.K.S Iyengar

 B.K.S. Iyengar (1918-2014) è anche lui un allievo di T. Krishnamacharya, ed è tra gli insegnanti di yoga più famosi al mondo, autore di numerosi libri, ha reso lo yoga popolare in India e nel mondo. È stato considerato dal “Time” tra le 100 persone più influenti al mondo.
Il maestro, chiamato Guruji dai suoi allievi, ha vissuto e insegnato a Pune (India) nell'Istituto dedicato alla memoria della moglie, il Ramamani Iyengar Memorial Yoga Insitute, dove oggi i suoi figli Geeta e Prashant Iyengar continuano con passione il lavoro di studio e approfondimento dello Yoga. L'istituto,  celebre centro di studio internazionale è dedicato alla pratica e alla formazione di allievi e insegnanti provenienti da tutto il mondo, ed ha inoltre una sezione dedicata allo studio degli effetti terapeutici dello Yoga.    vedi siti:  https://www.iyengaryoga.it/       https://bksiyengar.com/

Iyengar  ha creato uno stile di yoga ad indirizzo terapeutico, conosciuto soprattutto per la precisione  degli allineamenti e per l’uso di sostegni e strumenti da utilizzare durante la pratica. Le classi sono caratterizzate dall’esecuzione di pochi asana, ma tenute per tanto tempo. Solo mantenendo a lungo una posizione si possono ottenere i benefici in profondità.

L’ Iyengar yoga è conosciuto per i suoi effetti curativi, in particolare per coloro che hanno una salute cagionevole, con vari problemi fisici. Questo tipo di pratica permette di incrementare la forza e la flessibilità, portando il praticante ad ottenere una salute completa del corpo, della mente e dello spirito.
Quando ha incominciato a praticare yoga era molto giovane e molto malato e con lo yoga si è curato. Nei suoi libri ha descritto ogni posizione, evidenziando i benefici che può offrire.
Bellur Krishnamachar Sundara Raja Iyengar è nato a Bellur nel sud dell'India, la sua famiglia era molto povera, e suo padre era un insegnante.  Fu introdotto allo yoga, come già detto sopra, da T. Krishnamacharya, che era anche suo cognato. Diventò un grande  esperto di yoga in brevissimo tempo e fu mandato a Pune dal suo Guru e divenne istruttore di yoga presso il famoso Deccan Gymkhana Club. A 25 anni, sposò Ramamani dalla quale ebbe sei figli. A partire da questo periodo la sua fama di esperto di yoga e terapista iniziò ad espandersi.  Negli anni sessanta, uno dei suoi allievi occidentali, Yehudi Menuhin (1916-1999), un famoso violinista e direttore d'orchestra in Gran Bretagna,  restò affascinato dalla forza del suo insegnamento e dalla sua carismatica personalità e lo introdusse in Occidente dando inizio alla sua incredibile carriera di insegnante di yoga. A partire da quel periodo sono nati Centri di IyengarYoga in tutto il mondo (Europa, Stati Uniti, Canada, Australia, Centro e Sud America, Russia, Cina e molti altri).  I due testi più famosi che scrisse sono: 

  •     Light on Yoga (Teoria e Pratica dello Yoga, 1965) tradotto in tutto il mondo e vero best-seller per i praticanti di tutti gli stili di Yoga, i cui B.K.S. Iyengar analizza e definisce rigorosamente più di duecento Asana (posizioni).
  •     Light on Pranayama (Teoria e Pratica del Pranayama, 1985) in cui il Maestro descrive ed approfondisce con grande rigore e dettagli le principali tecniche del pranayama, la tecnica del controllo del respiro.    Menuhin scrisse la prefazione di alcune opere di Iyengar.   

La peculiarità dell'insegnamento di Iyengar, era costituita dalla considerazione del corpo umano come un laboratorio, Per l'esecuzione di ogni singola asana (posizione) metteva in atto un processo dettagliatissimo per arrivare ad ottenere l'allineamento richiesto. La pratica costante potenziava corpo, mente e spirito - rivitalizzando ogni singola cellula. Il corpo diventava così vero strumento e oggetto di meditazione,  sviluppando nei praticanti una mente concentrata e meditativa.  Iyengar ha insegnato incessantemente ad allievi di tutto il mondo per oltre 70 anni.

Pattabhi Jois e l’Ashtanga Vinyasa Yoga

 Pattabhi Jois (1915– 2009) è stato un allievo del grande Maestro Sri T. Krishnamacharya, ed è stato l’ideatore di uno stile molto popolare e ginnico di yoga: il Vinyasa, noto come, Ashtanga  Yoga. Il suo ashram ha sede a Mysore, nel sud-est dell'India. Questo stile di yoga è praticato oggi da molte celebrità tra cui Madonna, Sting, Gwyneth Paltrow.

Il padre di Pattabhi Jois era un astrologo e bramino  di un piccolo villaggio (Kowshika). Pattabhi Jois era uno dei nove figli e sin da piccolo cominciò a studiare i Veda ed i rituali indiani. Intorno ai 12 anni assistette ad una dimostrazione di yoga da parte del Maestro Krishnamacharya, e fu così impressionato da chiedere immediatamente al Maestro di diventare uno dei suoi allievi, ed iniziò a studiare questa pratica antica. Tutte le mattine, prima di andare a scuola, andava a praticare yoga all'ashram di Krishnamacharya. Fu da subito uno studente modello, disciplinato e molto ambizioso.

Poi, a 14 anni lasciò la famiglia e andò a studiare il sanscrito all'università di Mysore, Nonostante gli studi gratuiti,  il giovane Pattabhi Jois passo un brutto periodo dal  punto di vista economico, guadagnava solo  pochi soldi dando qualche dimostrazione di yoga.  In quel periodo il Maharaja di Mysore, dopo essere stato curato da Sri T. Krishnamacharya da una brutta malattia,  per ringraziarlo, creò una scuola di yoga, che fu chiamata Yoga Shala. Per diffondere il potere curativo e terapeutico  dello yoga,  molti ragazzi, tra cui come Pattabhi Jois, furono mandati  in giro per il Paese a dare dimostrazioni.   Nel 1937 fu scelto per insegnare yoga all’Università di Mysore. Pattabhi Jois creò un vero e proprio dipartimento dedicato allo yoga, dove migliaia di studenti vennero per studiare. In questo periodo conosce sua moglie, Savitramma, con cui si sposò giovanissimo.  Non si videro per ben tre anni fino a quando Savitramma si trasferi a Mysore, e qui affiancò il marito nell'insegnamento dello yoga.   Ebbero tre figli, di cui due divennero maestri di yoga, mentre il terzo morì giovanissimo.  

Nel 1948, fondò l’Ashtanga Yoga Research Institute che divenne sempre più grande con il passare del tempo e con l'aumentare della notorietà di Pattabhi Jois.
Nel 1964, arrivò a studiare all’Ashtanga Yoga Research Institute, il primo occidentale, un belga chiamato André Van Lysebeth che fu colui che introdusse lo yoga in Occidente. André Van Lysebeth  studiò a Mysore per due anni. Bisogna comunque precisare che il primo Maestro di André Van Lysebeth fu Swami Sivananda (1887 - 1963), dal quale riceveva istruzioni per via epistolare e che nel 1963 incontrò a Rishikesh nell’India del Nord. Sivananda, poco prima di morire, gli conferì il diploma dell'Accademia ‘'Yoga Vedanta Forest". Solo dopo, André Van Lysebeth studiò con Pattabhi Jois  e  poi continuò a percorrere l'India del Sud per conoscere le tradizioni locali di yoga.  Sulla base della sua esperienza scrisse uno dei primi testi sulla yoga Imparo lo yoga, che divenne una specie di Bibbia in Occidente per chi voleva intraprendere questo percorso. Nei suoi testi veniva citato anche  Pattabhi Jois, da quel momento in poi, anche molti occidentali cominciarono ad arrivare a Mysore per studiare. 

Dal 1973,  Pattabhi Jois, cominciò a viaggiare ed insegnare e divulgare lo yoga in tutto il mondo, per quasi venti anni. L’Ashtanga Vinyasa Yoga, anche noto semplicemente come Ashtanga Yoga, divenne una pratica moderna molto conosciuta e per far fronte alla continua richiesta di lezioni, nel 2002 creò il nuovo Yoga Shala, dove ancora oggi insegnano sua figlia Saraswathi e suo nipote Sharath. Quattro anni dopo fondò anche un istituto a Islamorada, Florida, negli Stati Uniti. Nel 2007, Pattabhi Jois si ammalò gravemente e morì, due anni dopo, all’età di 93 anni, lasciando un grande vuoto nella comunità mondiale dello yoga. 

Ha dedicato tutta la sua vita all’insegnamento  e alla diffusione di questa nobile disciplina. L'Ashtanga Vinyasa Yoga è uno stile di yoga dinamico e si differenzia dallo Hatha Yoga tradizionale, in cui le posizioni (asana) statiche sono tenute  per molto tempo, e  la concentrazione è portata sul flusso del respiro. L'Ashtanga Vinyasa Yoga è uno stile molto vigoroo, caratterizzato da un continuo movimento tra un asana e l’altra, il tutto sincronizzato con il respiro.  Questo tipo di pratica produce un incredibile calore corporeo e detossifica il corpo. I maggiori benefici di questo stile sono l’aumento della forza fisica, della flessibilità e della resistenza. Inoltre, anche la mente si calma e la salute in generale migliora. 

E' da notare che questi grandi maestri, attraverso una catena ininterrotta di trasmissione, seppur coerenti con la tradizione, hanno portato alla luce  aspetti diversi di questa nobile disciplina ed  “elaborato” stili diversi di yoga. 

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Intervista su Yoga Journal a  Pattabhi Jois vedi:    http://www.yogajournal.it/sri-k-pattabhi-jois/ 

Per sapere cosa sta succedendo nel mondo dell''Ashtanga yoga vedi:  Da Yoga Magazine

Negli ultimi anni la comunità dell’Ashtanga Yoga è scossa dall’apparizione di articoli che accusano il fondatore del metodo, Sri K. Pattabhi Jois, di abusi sessuali su alcune studentesse durante le sue classi.   Vedi link

Nel 2019 un insegnante americano di yoga, Manouso Manos, discepolo diretto e pupillo di Iyengar, è stato radiato dall’albo dopo che, un’inchiesta istruita dell’Iynaus - Iyengar Yoga National Association of the United States - ha confermato la veridicità delle denunce presentate da sei donne per “tocchi sessualmente inappropriati”, mirati cioè ad abusarle o eccitarle. Vedi link

 Nel febbraio del 2015 anche il fondatore dello Bikram yoga (Hot yoga), Bikram Choudhouri è stato accusato di abusi sessuali e stupro su alcune allieve.   vedi:  Vedi link   E andando indietro nel tempo di scandali simili nello yoga purtroppo ce ne sono stati tanti. Mani addosso per “correggere” un asana non proprio perfetto, aggiustamenti che, in diversi casi, si sono rivelati molestie consumate sul tappetino.

Kuvalayananda

Dopo l'indipendenza dell'India, c'è stato un movimento verso la riscoperta e la rivalutazione delle tradizioni e della cultura indiana, tra cui lo yoga.  Swami Kuvalayananda (1883 - 1966), è stato uno dei pionieri dello yoga, anche se poco conosciuto in Occidente, ed ha contribuito a mettere a punto la  tecnica yoga, così come la conosciamo oggi.  Ha creato un centro sperimentale vicino a Bombay e le sue tecniche di yoga vertevano sul benessere fisico e l'equilibrio mentale. Ha iniziato la ricerca sullo yoga nel 1920 e ha pubblicato la prima rivista specificamente dedicata allo studio dello yoga, Yoga Mimamsa, nel 1924. Maestri conosciuti in Occidente come Iyengar, Krishnamacharya e Indra Devi erano stati suoi discepoli.
Ottenne brillanti risultati a scuola, tra cui anche una borsa di studio. E' stato un grande intellettuale: studioso di sanscrito, amante della poesia e della filosofia indiana, dei classici indiani come il Mahabharata, il Ramayana, e dei  Purāṇa che sono un gruppo di testi sacri hindū di carattere principalmente mitico e cultuale.  
Durante la  vita universitaria,  Swami Kuvalayananda fu influenzato da grandi personalità politiche, tanto che lasciò l'istruzione universitaria per lavorare attivamente per la causa del risveglio politico e sociale dell'India.
Tra i suoi ideali c'era quello di dare un'educazione di base alle masse indiane e per questo a fianco del maestro di yoga, esercitò la carriera di insegnante.  E' riconosciuto come il padre degli studi scientifici di ricerca yogica ed uno dei suoi obiettivi era quello di conciliare gli aspetti spirituali dello yoga con la scienza moderna. Questa nuova immagine dello yoga cominciò ad attirare i primi ricercatori universitari e medici occidentali.



sabato 18 dicembre 2021

Pierre Rabhi, una coscienza ecologica

Pierre Rabhi è morto i primi di dicembre 2021 all'età di  83 anni. Era una figura di spicco dell'ecologia francese ed ha contribuito alla sensibilizzazione ecologica senza dargli alcun contenuto politico.

La sua autobiografia Du Sahara aux Cévennes, con il sottotitolo "La reconquête du songe" descrive la storia di Pierre Rabhi, un uomo in marcia verso una maggiore solidarietà, una maggiore fraternità. Verso quel punto di equilibrio dove l'umanità e il cosmo, i popoli del Nord e quelli del Sud, le società che stanno morendo per i loro rifiuti e quelle che stanno morendo nella miseria, dovrebbero trovare l'armonia.

Dopo aver passato la sua infanzia in Algeria, è stato adottato da occidentali, e si è trovato a vivere tra un'origine musulmana e un'educazione occidentale, tra tradizioni secolari e modernità. Pierre Rabhi è stato un lavoratore immigrato che si è confrontato con il razzismo e l'assurdità del mondo urbano, e che ha scelto insieme alla moglie la vita di campagna  - o il "ritorno alla terra", secondo la sua espressione - su una terra desolata dell'Ardèche (Francia del sud). Lì, in povertà, la coppia imparò a coltivare la terra, migliorandola e arricchendola secondo i metodi di quella che allora era appena chiamata agricoltura biologica. L'apprendista agricoltore si è ispirato al metodo biodinamico, una tecnica che come dice lui stesso: "mi sembrava in grado di rispondere al bisogno di completezza".  Con queste tecniche, ancora agli arbori, il terreno incolto e improduttivo in pochi anni viene trasformato in una fattoria produttiva.  La sua reputazione comincia a diffondersi e fu chiamato, alla fine degli anni settanta, come formatore in agroecologia per il Centre d'étude et de formation rurales appliquées (Cefra). Negli anni 80, ha promosso l'agrobiologia in Burkina Faso,Mali, Marocco, Algeria, Togo, ecc.
Creò  l'associazione Terre et humanisme (1994) e scritto molti libri e tenuto molte conferenze su questo tema.  Nel 2002 sostenuto da amici e familiari, provò a partecipare alla campagna presidenziale intorno all'idea di una "insurrezione della coscienza".
Con Cyril Dion, creò il movimento Colibris nel 2007, che esprime l'essenza del suo pensiero: agire, come il piccolo colibrì di fronte al fuoco, anche se la goccia d'acqua non può fare nulla contro il fuoco - ma forse il suo esempio ispirerà tutti gli altri ad impegnarsi, e tutti insieme, a respingere il pericolo.   Comunque, rifiutò sempre di essere coinvolto nelle lotte ecologiche, come quella di Notre-Dame-des-Landes o più tardi nel movimento Clima, ciò lo ha tagliato fuori dai giovani e dalla nuova dinamica della protesta.

La sua sincerità, il suo entusiasmo,  il suo talento, ma anche la depoliticizzazione del suo pensiero - hanno favorito il suo successo mediatico;  In una società occidentale malata di individualismo e ricerca dello sviluppo, Rabhi portava avanti valori come empatia, consapevolezza ecologica, necessità di un cambiamento negli stili di vita,  la ricerca di  una "felice sobrietà".  Pierre Rabhi sognava un mondo senza conflitti e proponeva una sincera spiritualità in un'epoca di rifiuto delle religioni.   La morte di quest'uomo affettuoso segna la fine dell'idea di un'ecologia consensuale di cui è stato, con Nicolas Hulot, uno dei promotori.

Il contributo di Nāgārjuna agli insegnamenti buddhisti

Nāgārjuna, un monaco buddista vissuto tra il 150 e il 250 d.C.,  è uno dei più importante filosofi buddhisti ed ha dato un contributo importante ed originale alla storia della filosofia indiana. La sua filosofia della "via di mezzo" (madhyamaka) è  basata sulla nozione di "vacuità" (śūnyatā). I testi  di Nāgārjuna divennero un punto di riferimento indispensabile per gli insegnamenti buddhisti e le discussioni filosofiche. Una sua opera chiamata Prāsaṅgika-Madhyamaka, divenne la posizione filosofica ufficiale del buddhismo tibetano.

E' difficile stabilire con esattezza, quali fossero le sue opere, comunque le possiamo dividere in tre gruppi principali:  Le opere argomentative:         

  • La saggezza fondamentale della Via di Mezzo  (Mūlamadhyamakakārikā) in cui espone l'intera  "filosofia della Via di Mezzo".   
  • Un trattato più breve, Yuktiṣaṣṭikā in cui discute sulle nozioni di vacuità e di origine dipendente.
  • Un altro breve trattato, Śūnyatāsaptati, che tratta le questioni dell'origine dipendente e delle due verità. 
  • Nel  Dispensatore di controversie, Vigrahavyāvartanī, Nāgārjuna risponde a una serie di obiezioni specifiche sollevate contro il suo sistema. 
  • Il Trattato Vaidalyaprakaraṇa, in cui Nāgārjuna si propone di confutare le categorie logiche della scuola non buddhista Nyāya. 
  • Il testo La preziosa ghirlanda, Ratnāvalī,  in cui tratta questioni etiche.  

    Gli inni (Catuḥstava) in cui presenta una concezione positiva della verità ultima e Le opere epistolari come (Suhṛllekha), che trattano questioni etiche. 

Il concetto centrale attorno al quale è costruita tutta la filosofia di Nāgārjuna è la nozione di vuoto (śūnyatā). Il vuoto di qualcosa, e il qualcosa che Nāgārjuna ha in mente qui è svabhāva, termine che è stato tradotto con "esistenza intrinseca" e "natura intrinseca". Svabhāva, ha due dimensioni: una ontologica, che si riferisce a un modo particolare in cui gli oggetti esistono, e una cognitiva, che si riferisce al modo in cui gli oggetti sono concettualizzati dagli esseri umani. All'interno della dimensione ontologica possiamo distinguere tre diverse interpretazioni di svabhāva: in termini di essenza, in termini di sostanza, e in termini di realtà assoluta.
Ad esempio l'essenza del fuoco è il calore, ciò che cessa di essere caldo non è più fuoco, ciò che cessa di essere bagnato non è più acqua. Secondo questa comprensione, svabhāva si identifica anche con il tipo di qualità specifiche (svalakṣaṇa) che permettono a un osservatore di distinguere un oggetto da altre cose: sapendo che qualcosa è caldo, insieme a una varietà di altri svalakṣaṇas sappiamo che ciò che abbiamo di fronte è fuoco piuttosto che qualcos'altro.
Svabhāva come realtà assoluta, è solo una forma specifica di svabhāva inteso come essenza: allo stesso modo in cui il calore è una qualità essenziale del fuoco,  il vuoto è una qualità essenziale di tutti i fenomeni. Le cose non potrebbero essere le cose che sono senza essere vuote.
La scuola Mādhyamaka ha una posizione mediana, tra quella che crede nell'esistenza di svabhāva così come il suo opposto nichilista.  Per Nāgārjuna, determinare l'esistenza o la non esistenza di svabhāva, determina il modo in cui interagiamo con il mondo. La realizzazione della non-esistenza di svabhāva è intesa come la via per la liberazione dalla sofferenza. Le interazioni con le persone nella quotidianità  portano, poi, ad ogni sorta di doloroso intreccio emotivo e costituiscono la fonte chiave della sofferenza descritta negli insegnamenti buddisti.  Lo scopo del pensiero Madhyamaka non è quindi semplicemente quello di presentare un resoconto accurato della natura del mondo, ma di provocare un cambiamento cognitivo, un cambiamento nel modo in cui il mondo ci appare.
Un altro tema affrontato da Nāgārjuna è la causalità, e dice che oltre ad essere indipendenti l'uno dall'altro, causa ed effetto sono anche indipendenti dalla mente conoscente. La catena di cause e condizioni è qualcosa che esiste là fuori nel mondo, indipendente dagli interessi e dalle preoccupazioni umane.   Nāgārjuna sostiene che causa ed effetto non possono essere sostanzialmente distinti. Questo perché l'effetto dipende esistenzialmente dalla causa (se la causa non esistesse l'effetto non esisterebbe) e la causa dipende dall'effetto (se non ci fosse l'effetto la causa non sarebbe chiamata "causa"). Il tipo di indipendenza richiesto dall'esistenza sostanziale, dall'esistenza per svabhāva, semplicemente non è disponibile per le cose che sono causa ed effetto.  Nāgārjuna ha voluto dimostrare, poiché la relazione causale non esiste di per sé, è concettualmente costruita, e quindi vuota, ogni oggetto causalmente correlato deve essere così costruito e quindi vuoto nel senso più profondo di essere concettualmente costruito.
 
Nāgārjuna sosteneva la non esistenza del nostro e altrui sé. Questo è molto in armonia con la concezione del Buddha che rifiutava un sé esistente con svabhāva. Un tale sé dovrebbe essere concepito come distinto sia dal nostro corpo che dai nostri stati psicologici, come essenzialmente immutabile, come unificatore delle nostre diverse credenze, desideri e impressioni sensoriali, e come un agente che prende le decisioni che modellano le nostre vite. L'alternativa presentata dal Buddha è una visione del sé che lo considera come una serie in continuo cambiamento di cinque aggregati psicofisici (il corpo fisico, la sensazione, la percezione, l'intelletto e la coscienza) senza un nucleo interno.   Per Nāgārjuna non c'è differenza ontologica fondamentale tra un substrato (dravya) e le qualità (guṇa) che vi sono insite, contrariamente a quanto sostenuto, ad esempio, dai Naiyāyikas.    All'interno di un quadro ontologico è evidente che non siamo obbligati a dedurre l'esistenza di un substrato o di un individuo sottostante, dall'esistenza di una qualità.
Un'altra questione che Nāgārjuna solleva riguarda lo status epistemico del sé, e rifiuta l'immagine di un sé sostanziale.   Dato che non c'è un substrato unificato che costituisce il sé, non c'è nemmeno la necessità che qualcosa sia essenzialmente un soggetto di esperienza. Poiché diverse parti possono giocare ruoli diversi in momenti diversi, la nostra conoscenza del sé può essere spiegata solo da un'identificazione momentanea con un evento mentale che attualmente funziona come soggetto conoscente.  Il sé è visto come dipendente dai cinque costituenti, il che esclude l'ipotesi che qualsiasi sostanza indipendentemente esistente possa essere considerata come un sé. 
Il Sé è  considerato come una sequenza di eventi che stanno in strette relazioni temporali e causali. I processi fisici causano eventi sensoriali, che sono poi inquadrati da concetti, usati come base di decisioni, che danno origine ad azioni, che a loro volta mettono in moto processi fisici che causano nuovi eventi sensoriali e così via. Il sé non è visto come un nucleo cognitivo che rimane costante in mezzo al flusso di mutevoli impressioni sensoriali e deliberazioni mentali, ma piuttosto come l'intero insieme di tali eventi sensoriali e mentali che sono interconnessi in modi complessi.
Cerca di conciliare il suo rifiuto di un sé sostanziale, come un unificatore essenzialmente immutabile del nostro vivere mentale distinto dai suoi attributi sia fisici che mentali, con l'accettazione del sé come un agente che sperimenterà i risultati delle sue azioni.

La tradizione filosofica indiana distingue una varietà di strumenti epistemici o di conoscenza (pramāṇa) attraverso i quali si accede agli oggetti epistemici (prameya). Nella sua discussione sull'epistemologia Nāgārjuna elenca quattro di questi strumenti: percezione (pratyakṣa), inferenza (anumāna), riconoscimento della somiglianza (upamāna) e testimonianza (āgama).   L'esistenza degli oggetti epistemici è stabilita dagli strumenti epistemici (come per esempio l'esistenza della scrivania di fronte a me è stabilita dalle mie capacità percettive, la vista). 
 Nāgārjuna, asserisce che l'assunzione degli strumenti epistemici auto-costituiti creerebbe problemi. Se  l'argomento dell'auto-costituzione degli strumenti epistemici non ha successo, l'opzione rimanente è sostenere che gli strumenti e gli oggetti si stabiliscono a vicenda. Supponiamo che io veda una mela sul tavolo. L'esistenza della mela, l'oggetto epistemico, è stabilita dallo strumento epistemico che è la percezione. Ma potremmo anche sostenere il contrario: che l'oggetto conosciuto stabilisce lo strumento epistemico.   Nāgārjuna sostiene che i vari modi in cui gli strumenti e gli oggetti epistemici potrebbero essere stabiliti non sono soddisfacenti o non riescono a dimostrare che esistono con svabhāva. 
La teoria dell'epistemologia di Nāgārjuna dovrebbe fornire lo sfondo teorico della teoria della vacuità. Nāgārjuna si propone di stabilire che nulla può essere considerato intrinsecamente uno strumento o un oggetto epistemico. I due devono essere reciprocamente stabiliti: lo strumento stabilisce l'oggetto dandoci accesso cognitivo ad esso, la nostra interazione riuscita con l'oggetto stabilisce lo strumento come una via affidabile verso l'oggetto. Qualcosa sarà quindi classificato come strumento o oggetto epistemico, non perché questo sia un riflesso della sua natura intrinseca, ma perché è considerato tale una volta raggiunto un equilibrio riflessivo. 
La teoria del vuoto non è compatibile con l'idea di un mondo che esiste indipendentemente dagli interessi e dalle preoccupazioni umane e che mostra già un particolare tipo di strutturazione che il nostro linguaggio strutturato potrebbe poi cercare di riflettere. Se nulla esiste con svabhāva, nulla nel mondo potrebbe esistere da sé e nulla potrebbe portare ad una struttura che è intrinseca ad esso.
La verità è espressa Non in termini di corrispondenza con una realtà esterna, ma piuttosto in termini di condizioni di asseribilità. In questo caso, un'affermazione è considerata vera, se ci sono condizioni che giustificano l'affermazione. Ciò che rende vera, l'affermazione che l'acqua è bagnata non è una corrispondenza strutturale tra essa e un fatto sull'acqua, ma il fatto che abbiamo qualcosa che ci giustifica nel fare questa affermazione.
Secondo la visione Madhyamaka della verità, non può esistere una verità ultima, e una teoria che descriva come le cose sono realmente, indipendentemente dai nostri interessi e dalle risorse concettuali impiegate per descriverle. Tutto ciò che rimane è la verità convenzionale o immanente, la verità che consiste nell'accordo con le pratiche e le convenzioni comunemente accettate.
Quindi, il vuoto non può essere considerato come la verità ultima. Ma il vuoto è il prodotto finale della corretta analisi dei fenomeni, e quindi indicativo di come stanno realmente le cose. Tuttavia, la vacuità non deve essere intesa, come una descrizione della realtà in quanto indipendente dalle convenzioni concettuali umane, poiché il suo scopo principale è quello di combattere l'errata attribuzione di svabhāva alle cose.
Se non ci fossero menti umane che erroneamente leggono l'esistenza di svabhāva in fenomeni che ne sono privi, non avrebbe senso avere una teoria per correggere questo. È solo a causa della nostra errata visione delle cose che la teoria del vuoto è necessaria come correttivo.

Dieci lezioni di vita - Thích Nhất Hạnh

Dal sito  https://www.mangiaviviviaggia.com/10-lezioni-thich-nhat-hanh/

La missione di Thích Nhất Hạnh è quella di diffondere amore e positività, lo stesso obbiettivo di quando, appena sedicenne, entrò nel suo monastero buddhista: portare pace e amore al mondo intero. Thích Nhất Hạnh è stato ed è il punto di riferimento per tutte quelle persone che credono nella forza positiva degli esseri umani. 
Considerando la sua enorme saggezza e le sue parole, fonte di calore e supporto per moltissime persone in tutto il mondo, Thích Nhất Hạnh è stato spesso definito un uomo in totale pace e sintonia con se stesso e gli altri.  Attraverso i suoi libri e le sue poesie, il monaco buddhista, oggi 94enne, ha anche offerto numerose lezioni di vita sul senso dell’esistenza, la valorizzazione del proprio percorso esistenziale e come essere felici.

Questi sono dieci dei suoi più importanti insegnamenti, adatti a chiunque ma consigliati soprattutto a chi si trova in un periodo difficile ed è alla ricerca di parole cariche di motivazione e vibrazioni positive.

  • 1. Non sottostimare mai il potere di una parola gentile, un tocco o un sorriso.  Noi occidentali ci siamo dimenticati l’importanza dei piccoli gesti: una parola gentile, un abbraccio, ma anche solo un sorriso. Sottovalutiamo tremendamente queste piccole cose, quando, secondo Thích Nhất Hạnh, sono alla base di una vita ricca di soddisfazioni.
  • 2. Se ami qualcuno, il regalo più importante che puoi fargli è la tua presenza.  Esserci, senza vergognarsi dei propri difetti e della propria storia personale, ha un valore immenso, è un segnale di grande amore. Al contrario, non esserci significa provare un totale disinteresse. Circondati di persone che ci sono e sarai felice.
  • 3. Essere belli significa essere se stessi.  La massima bellezza di una persona si nota quando smette di indossare maschere e nascondersi, ma inizia ad essere se stessa e sprigionare la propria essenza. Ognuno di noi ha una storia unica e potenzialmente straordinaria. E' necessario realizzare quel potenziale.
  • 4. Camminare come se stessimo baciando la terra con i nostri piedi, Da sempre, Thích Nhất Hạnh parla dell’importanza di muoversi e vivere lentamente, ma soprattutto di approcciare ogni singolo momento con la giusta consapevolezza. La terra è una sola e dovremmo trattarla con il massimo rispetto, anche quando ci limitiamo a camminare su di essa.
  • 5. Finché sei vivo, tutto è possibile. Migliaia di storie dimostrano che nella vita non ci sono limiti e i nostri ostacoli sono spesso frutto della nostra mente. Basta guardare alla storia di Thích Nhất Hạnh: negli anni sessanta, mentre il Vietnam bruciava, lui si muoveva dolcemente da un luogo all’altro per portare il suo messaggio di pace e amore.
  • 6. Quando una persona ti fa soffrire è solo perché soffre profondamente con se stessa. Le cattiverie nei nostri confronti ci fanno male, ma quando le subiamo dovremmo sempre comprendere, che solo chi soffre vuol far soffrire gli altri. Secondo Thích Nhất Hạnh e il buddhismo, l’uomo in pace con se stesso non ha alcuna intenzione di creare dolore.
  • 7. Dare la colpa agli altri non ha alcun effetto positivo. “Quando fai crescere una pianta e questa muore, non dai la colpa alla pianta, ma cerchi le ragioni per cui è morta”, scrive il monaco buddhista. “Forse hai bisogno di fertilizzante o più acqua o meno sole, ma non dare la colpa alla pianta. Eppure se hai problemi con i tuoi amici e parenti, dai la colpa a loro. Se impari a prenderti cura di loro come della pianta, farai crescere rapporti sani. Non dare la colpa agli altri: se hai capito e dimostri di aver capito, la situazione cambierà“.
  • 8. Lascia andare ciò che non ti serve e sarai felice.  Il minimalismo secondo Thích Nhất Hạnh, applicato non solo agli oggetti ma anche alle persone. Liberati di tutto ciò che è superfluo e ti causa inutili preoccupazioni: questo è uno dei primi passi verso la felicità.
  • 9. Il vero amore è libero da legami.  Amare una persona significa volerla accompagnare nel percorso della vita senza cambiarla. “Se il tuo amore è solo possesso, non è amore. Il vero amore crea libertà“.
  • 10. Il momento presente è tutto ciò che hai. L’unica cosa che abbiamo realmente è il momento presente. Ieri è un passato irraggiungibile, domani un futuro incerto. Vivere al massimo il momento presente è tutto ciò che davvero ci serve per essere felici.

Da quando è stato colpito da un ictus, nel 2014, Thích Nhất Hạnh ha interrotto la sua prolifica attività di insegnamento ed è ritornato in Vietnam nel 2018.
 

Thich Nhat Hanh

Thich Nhat Hanh (1926 - 22 gennaio 2022 ), è una delle grandi figure spirituali di questi ultimi decenni, e tutta la sua vita è caratterizzata da compassione, umiltà, creatività, profondità di pensiero, amore per tutti gli esseri.  Nato in Vietnam, a sedici anni Thich Nhat Hanh fu ordinato monaco buddhista Rinzai, scuola di pensiero dello Zen, e da allora interpreta e promuove il Dharma, cioè l’insegnamento del Buddha, quale strumento per portare pace, riconciliazione e fratellanza nella società.  Nel 1964, durante la guerra del Vietnam, fondò un movimento di resistenza non-violenta chiamato “Piccoli Corpi di Pace” : gruppi di laici e monaci che andavano nelle campagne del Vietnam aiutando a ricostruire i villaggi, gli ospedali, le scuole e tutto ciò che era stato distrutto dalla guerra. Compresa la fiducia dei vietnamiti nel prossimo. 

Nel 1967 incontrò Martin Luther King, il quale, dopo averlo conosciuto, lo candidò al Premio Nobel per la pace e prese posizione pubblicamente contro la guerra in Vietnam. Thich Nhat Hanh diede vita alla Delegazione di Pace Buddhista, che ha partecipato alle trattative di pace di Parigi.   Il suo pacifismo non era ben visto dal governo vietnamita e al termine del conflitto fu costretto all’esilio in Francia, perché accusato di non aver supportato i vietcong (solo nel 2005 ha potuto far ritorno per la prima volta nel suo paese natale).  Nel 1982 ha fondato in Francia il Plum Village, una comunità di monaci e laici nei pressi di Bordeaux, nella quale ha vissuto fino al suo ritorno definitivo in Vietnam, nel 2018. Da quando è stato colpito da un ictus, nel 2014, ha interrotto la sua prolifica attività di insegnamento. 

Thich Nhat Hanh è conosciuto per avere reso “popolare” la meditazione Zen, Insegna la pratica di consapevolezza utilizzando i testi del Canone pali, il più antico; il suo insegnamento è pienamente inserito nel flusso della tradizione zen “Rinzai”,  ed è reso più comprensibile, più vicino alla mentalità  occidentale riducendo al minimo il formalismo rituale.  Anziché usare i koan, frasi enigmatiche che i maestri forniscono agli allievi per suscitare in loro il risveglio, Thich Nhat Hanh adotta metafore paradossali ma facilmente comprensibili. Non fa proselitismo e si è liberi di frequentare gli insegnamenti quando si vuole, e si è sempre accolti nel  “Sangha“, la comunità dei praticanti.   Dice anche che è sbagliato abbandonare una certa religione per abbracciare il buddhismo.

Thich Nhat Hanh propone un'etica universale ed un  insegnamento non dualista, che ha come scopo di superare quella visione di noi stessi come entità separate dalle altre persone e dal resto della realtà, che è fonte di enorme sofferenza, sia individuale che collettiva.
Dai precetti buddhisti, ha ricavato gli “Addestramenti alla consapevolezza“, un insieme di principi etici universali, da proporre all’umanità come comunità e non a un gruppo spirituale in particolare. Uno dei temi trattati e che l’umanità, come comunità deve fronteggiare, è il degrado dell’ambiente e il riscaldamento globale.
Thích Nhất Hạnh è stato spesso definito un uomo in totale pace e sintonia con se stesso e gli altri. La sua saggezza e le sue parole, sono state fonte di calore e supporto per moltissime persone in tutto il mondo. Attraverso i suoi libri e le sue poesie, il monaco buddhista, oggi 94enne, ha anche offerto numerose lezioni di vita sul senso dell’esistenza, la valorizzazione del proprio percorso esistenziale e come essere felici.   I suoi numerosi libri sono stati tradotti in molte lingue.  Thích Nhất Hạnh diceca spesso:  "Il Nirvana è la liberazione da tutte le idee e le opinioni: Quando entri in contatto con la realtà non hai più opinioni. Hai la saggezza”.

Il vero Amore - Thich Nhat Hanh

𝘋𝘢𝘪 𝘥𝘪𝘴𝘤𝘰𝘳𝘴𝘪 𝘥𝘪 𝗧𝗵𝗶𝗰𝗵 𝗡𝗵𝗮𝘁 𝗛𝗮𝗻𝗵
Il vero Amore contiene l'elemento della gentilezza amorevole, che e' la capacità di offrire felicità.         Per rendere felice una persona bisogna esserci. Si dovrebbe imparare a guardarla, a parlarle. Rendere un'altra persona felice e' un'arte che si impara.
Un secondo elemento che costituisce il vero Amore e' la compassione, la capacità di togliere il dolore, di trasformarlo nella persona che amiamo. Anche in questo caso bisogna praticare il guardare in profondità, per riuscire a vedere che tipo di sofferenza ha in sé quella persona. Spesso avviene che l'altra persona, compresa e sostenuta, sarà in grado di affrontare più facilmente le difficoltà della sua vita, perché sentirà che siete dalla sua parte.
Il terzo elemento e' la gioia. Il vero Amore vi deve portare gioia e felicità, non sofferenza giorno dopo giorno.
Il quarto e ultimo elemento e' la libertà. Se amando sentite di perdere la vostra libertà, di non avere più spazio per muovervi, quello non e' vero amore.
 

Gli esseri umani hanno tempo di maturazione diversi, ed è difficile essere consapevoli, ed è difficile agire con leggerezza. Mettere in pratica le bellissime parole sopra riportate, senza togliere energia e bellezza all'amore non è semplicissimo e bisogna credere prima di tutto in sé stessi e poi nell' altro. Se non si è in pace con se stessi, è difficile amare e prendersi cura dell'altra/o. 
L'amore è un mistero, che accade, come le alte maree, come lo sbocciare di un fiore. Non nasce da una aspettativa... Accade... E quando accade e si assapora il miracolo, solo allora si possono mettere in pratica gli insegnamenti di Thich Nhat Hanh. 

Le quattro verità dell’esistenza: la sofferenza - 𝗧𝗵𝗶𝗰𝗵 𝗡𝗵𝗮𝘁 𝗛𝗮𝗻𝗵
Il dolore può anche essere inevitabile, ma il fatto di soffrire o meno dipende da te. Soffrire è una scelta, tu scegli se soffrire o meno. Nascita, vecchiaia e malattia sono naturali. È possibile non soffrire a causa loro, quando hai scelto di accettarle come parte della vita.
Puoi scegliere di non soffrire benché vi siano dolore o malattia. Come vedi la vita e la tua particolare situazione dipende dal tuo modo di guardare.
Se osserviamo a fondo la nostra sofferenza possiamo chiederci cosa abbiamo fatto, o stiamo tuttora facendo, per contribuirvi. Questo non significa che la nostra sofferenza non sia reale, solo che possiamo attenuarla invece di accentuarla e possiamo persino trasformarla.
Il Buddha ha detto che non dovremmo amplificare il nostro dolore esagerando la situazione. Ha usato l’immagine di qualcuno che viene colpito da una freccia. Quando arriva anche la seconda freccia, il dolore non solo raddoppia ma può essere dieci volte più intenso. Dunque, quando siamo in preda alla sofferenza, fisica o mentale che sia, possiamo riconoscerla come tale ma non abbiamo bisogno di esasperarla. Possiamo respirare insieme con essa. Inspirando so che sto soffrendo. Espirando sorrido alla mia sofferenza.
Possiamo benissimo fare amicizia con la nostra sofferenza, nell’ambito del nostro sforzo per trasformarla. Se riusciamo a riconoscerla e a chiamarla con il suo vero nome possiamo fare pace con essa e smettere di soffrire così tanto.
Quando vediamo il dolore nel mondo causato da tutta la sofferenza che c’è, proviamo il desiderio di aiutare il mondo a soffrire meno. Ma cominciamo con noi stessi. Prima dobbiamo creare pace in noi stessi e alleviare la sofferenza dentro di noi, perché rappresentiamo il mondo.                                      Pace, amore e felicità cominciano con noi.
La sofferenza che vediamo fuori, nel mondo, si riflette nella sofferenza, paura e rabbia all’interno. Perciò quando ci prendiamo cura di noi stessi stiamo facendo il primo passo verso il prendersi cura del mondo.

Introduzione al Blog

Il Blog è nato nel marzo 2021, in tempo di pandemia, per comunicare e condividere le mie letture e i miei interessi personali.  Nel blog c...