venerdì 28 aprile 2023

Yogatattva Upanishad - La vera natura dello yoga

La vera natura dello Yoga - ( del Prof. Marco Pucciarini)

La Yogatattva Upanishad è senza dubbio una delle più interessanti fra le Upanishad dello yoga, e ciò per due ragioni: da una parte essa espone con grande chiarezza gli otto gradi (anga) dello yoga classico, e dall'altra insiste sui vari benefici che ci si può attendere dall'esercizio di questo yoga (non soltanto lo stato d'indipendenza spirituale - kaivalya - ma anche i numerosi poteri soprannaturali (siddhi), dei quali spesso gli altri testi non dicono molto).

La posizione dottrinale dello yoga, inoltre, è nettamente affermata: fede in un Dio personale (qui Vishnu, definito mahā-yogin), volontà di mondarsi dalle macchie del peccato per poter essere liberato dal samsāra (ciclo delle rinascite), assoluto rifiuto delle Scritture vediche come mezzo di ottenere la liberazione, ecc.
La sequenza adottata può dirsi « cronologica » poiché segue fedelmente lo svolgersi delle otto tappe della via dello yoga (Ashtanga). Gli autori cominciano con lo spiegare come l'anima sia caduta in quella condizione di prigionia che le è propria quaggiù (str. 5-6, 9 sgg.); affermano poi che il Veda non serve a liberarla (6 e 7): vi riesce soltanto lo yoga (14-16), nelle sue varie forme (18 sgg.). Di tutte queste forme, la più elevata è l'Hathayoga (in realtà confuso con il Ashtanga yoga, 24 sgg.). Ci si propone d'indicarne i gradi successivi (24-26).
Gli autori accennano rapidamente alle prime tappe (str. 27-31), ma si soffermano in una esposizione minuta del prānāyama (disciplina della respirazione, 27-41) che culmina nel trattenimento prolungato del soffio inspirato (kumbhaka o ghata): a quel punto compaiono i primi fenomeni soprannaturali (per es., la levitazione), descritti per esteso (53-67).  Seguono alla disciplina del soffio, come di consueto, il pratyāhāra (ritrazione dei sensi) - appena accennato (str. 68) - e la dhārana (fissazione del pensiero su un solo punto) che suscita altri poteri soprannaturali (69-75), fra i quali quello di potersi muovere a piacimento nello spazio cosmico (str. 75). Si insegna però allo yogin a esser tanto saggio da non parlare di tali poteri; è meglio passare per idioti (78) che lasciarsi distogliere dal fine supremo per rispondere alle richieste da cui sarebbe inevitabilmente tempestato colui che confessasse la sua potenza. Si parla poi (85-104) di una « quintuplice fissazione » (str. 84) che consente di rendersi padrone dei cinque elementi, prima che si arrivi al dhyāna (105), meditazione profonda che si confonde quasi con l'Enstasi finale (samādhi), furtivamente menzionata alla strofa 106. Lo yogin è giunto allora alla fine, è liberato (benché sia ancora in vita: jīvan-mukta, str. 107) e fruisce, naturalmente, di poteri affatto straordinari, compreso quello d'identificarsi con Vishnu stesso (110).  L’Upanishad passa a insegnare vari « Sigilli » (mudrā) e «contrazioni » (bandha), molti dei quali di carattere nettamente tantrico (Khecarin, Vajrolī, Amarolī). Tali gesti, più o meno acrobatici, hanno lo scopo di facilitare la meditazione e il trattenimento del soffio. 
Al termine della divagazione, gli autori dell'Upanishad ricominciano (130 sgg.) l'evocazione lirica dello stato del liberato in vita. Questo ci procura suggestive descrizioni del ciclo delle morti e delle rinascite (« colei che fu madre è oggi sposa, e la sposa sarà domani madre a sua volta », str. 132), paragonato a una ruota idraulica con molte cassette (133). Le virtù connesse con la sillaba Om sono enumerate ancora una volta (134 sgg.) e il testo si chiude (da str. 135 alla fine) con un breve accenno alla pace (śānti) di cui fruisce « nel deserto » colui che ha conseguito la condizione d'isolamento spirituale (kaivalya) cui tende la pratica dello yoga.

Le Upanishad dello Yoga -1

Dal sito di Gianfranco Bertagni: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/meditazione/upyoga.pdf
Le Upaniṣad dello Yoga (YU) sono un insieme di testi medievali sincretici estremamente eterogenei, composti in un periodo compreso tra il IX e il XVIII secolo e riuniti per la prima volta sotto questa denominazione dagli studiosi Albrecht Weber e Paul Deussen alla fine dell’Ottocento.
Le 20 (21) Upaniṣad minori classificate sotto l’etichetta di “Upaniṣhad dello Yoga” sono effettivamente accostabili tra loro per una serie di caratteristiche e temi yogici comuni, ma questi necessitano di una cornice storica per essere letti.   Già l’appellativo Upaniṣhad rivela chiaramente il desiderio di mantenersi entro la cornice del Vedānta. -

I contenuti filosofici delle YU sono in linea con la visione non dualista dell’Advaita Vedānta, o  monismo mistico. Si è assistito a una addomesticazione della tradizione haṭha yogica e tantrica messa in atto dall’élite brahmanica a partire dal XVI secolo.
Passando per le Upaniṣhad classiche e la complessa storia dello haṭha yoga, osserveremo l’intrecciarsi e fondersi di pratiche e la nascita, la trasformazione e il declino di alcune delle più importanti tradizioni religiose del sub-continente indiano.  L’unica traduzione completa delle YU è quella redatta in inglese da T.R. Śrīnivāsa Ayyaṇgār (1938).
C’è una continuità espressa dalla denominazione Vedānta con cui sono conosciute le Upaniṣhad in quanto commentari e quindi fine dei Veda. Costituiscono la summa filosofica dei Veda.  Etimologicamente Upaniṣhad significa “connessione”, “omologia”, “equivalenza” e in contesto brahmanico viene a indicare le connessioni esoteriche che sottendono il reale e l’insegnamento segreto.
Nel mondo vedico il sacrificio era la modalità di interazione, il meccanismo mediatore, tra dimensione umana e divina, Col tempo il sacrificio assume sempre maggior valore, fino a diventare (vedi i Brāhmaṇa, Libri Sacerdotali, VIII sec. a.C.) l’atto più importante, la fonte stessa dell’esistente  (è dal sacrificio del Puruṣa che sorge il mondo). Tuttavia non bastava possedere il soma per divenire immortali.
Pur ponendosi in continuità con la tradizione vedica le Upaniṣhad introducono una metafisica non-dualista secondo cui tutti gli esseri partecipano della natura dell’Anima Universale. Secondo questa visione non esisterebbe dunque separazione tra Assoluto e Manifestazione, tra Puruṣa e Prakṛti.  
Teorizzata nei Libri della Foresta e sviluppata nelle Upaniṣad classiche, l’interiorizzazione del sacrificio creò le premesse per lo sviluppo di tutte le tradizioni pratiche successive, tra cui quella nota come haṭha yoga.
Le Upaniṣad hanno dunque una connotazione bivalente. Da un lato rappresentano il vero significato, nascosto ed esoterico, della tradizione vedica e dell’atto rituale che ne costituisce il centro. Dall’altro si sottolinea l’importanza di una conoscenza (e coscienza).
Secondo molti studiosi le Upaniṣhad rappresenterebbero l’espressione testuale di una religiosità kṣatrya antibrahmanica e di una tradizione di ascetismo itinerante, quella śramaṇa, tradizione in cui mossero i loro primi passi Buddhismo, Jainismo e lo stesso Yoga e a cui risalgono concetti chiave trasversali alle tradizioni nate successivamente nel sub-continente indiano quali kārma, mokṣa, māyā. In questo senso rispecchierebbero, come i Libri della Foresta, le esperienze mistiche di saggi-guerrieri esclusi dalla performance del rituale vedico, prerogativa del varna dei brāhmaṇa. Le Upaniṣad classiche sono dunque eredi di tradizioni diverse, ambivalenti e spesso contraddittorie. Nonostante questo furono la base su cui venne fondato il più pervasivo sistema di pensiero indiano fino ad oggi, il Vedānta (Il Vedānta rappresenta in assoluto il darśana dominante dell’Induismo).  
Ciò che si chiama Brahman è lo spazio etereo che sta al di fuori dell’uomo. Lo spazio etereo al di fuori dell’uomo è lo stesso che sta nella cavità del cuore. Esso è il pieno, l’immutabile. Felicità piena, immutabile, acquista colui che così sa. (Chāndogya Upaniṣad 3.12.7-9
Le vie per compiere questo viaggio sono quelle pratiche della meditazione, della rinuncia, della gnosi (jñāna). Attraverso di esse l’anima individuale, l’ātman, immutabile ed imperitura traccia dell’Assoluto dentro di noi, si manifesta.
Una vita condotta nel rispetto del dharma implicava, per il medesimo meccanico principio di causa effetto, una buona rinascita. Le Upaniṣad guardano oltre. Mirano alla liberazione da qualunque forma di rinascita, alla vera immortalità. Si affermano rinuncia e ascetismo.  Il saggio rivolge tutte le sue capacità vitali, sensitive, mentali dall’esterno all’interno, verso il Sé che è l’ātman.
Il corpo umano (inteso olisticamente come complesso corpo-manas-buddhi) diviene la sede stessa del sacrificio, il laboratorio alchemico in cui è possibile superare l’apparente dualità umano-divino, e trasformare l’essere umano in essere divino. La nuova sede del sacrificio, è il corpo umano e nelle Upaniṣad è un universo, abitato dall’ātman e percorso dal prāṇa nelle sue cinque caratterizzazioni, ognuna corrispondente ad una 5 funzione vitale.
Quando [il pensiero] è purificato, risplende allora l’Ātman.”.
La Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (2.1.19) riporta il primo riferimento all’importanza di una rete interna di energia: “Ci sono 72000 vene chiamate hitā. Il cuore, centro da cui si irradia la rete di vene lungo le quali scorrono i fluidi vitali dai cinque colori, è la cavità (guhā) o la grotta nella quale risiede l’ātman.
In questa Upanishad si parla anche della teoria dei quattro stati di coscienza: Il sonno profondo spegne anche la mente e permette di uscire temporaneamente dal manifesto e realizzare l’unione con l’Assoluto: In realtà i primi riferimenti al quarto stato di coscienza sono piuttosto tardi.  L’iniziale identificazione di turiya con la morte si trasforma nel concetto di liberato-in-vita (jīvan-mukti), segnando il passaggio ad una diversa prospettiva: le leggi che regolano la vita e la morte, lo scorrere dei flussi vitali, il riassorbimento del sé nell’Assoluto sono imprescindibili.
Lo strumento principale del saggio è il mantra: egli usa il potere della parola, già teorizzato nei Veda. Il mantra è espressione del Brahman, non uno strumento per invocarlo, ma piuttosto una manifestazione del divino come potere e coscienza. “Il mantra ha infiniti poteri perché è la divinità stessa”. L’ascesa del Sé è resa possibile dalla pratica dei mantra (in particolare del praṇava mantra oṃ) che hanno la qualità di attivare le connessioni tra i soffi vitali e i cinque raggi del sole (l’Assoluto) e rendere possibile la risalita del Sé lungo le canalizzazioni sottili.  Cominciano a comparire i primi termini tecnici fino all’elaborazione del primo sistema yoga a sei limbi. 

In ordine cronologico.
    • Al 8.15 la ChU accenna a ciò che verrà successivamente definito prathyāhāra, dichiarando che il ritiro dei sensi verso il Sé in associazione a regole comportamentali conduce all’uscita dal ciclo delle rinascite e all’unione con l’Assoluto.
    • Māṇḍkūya Upaniṣad – MaU (VIII sec. a.C.) – lunga solo 12 versi, tratta esclusivamente della sillaba OṂ e descrive il collegamento tra essa e i quattro stati di coscienza: le tre componenti del fonema, a, u, m corrispondono rispettivamente allo stato di veglia, sonno, sonno profondo. “L’oṃ senza misura è il Quarto, di là da ogni sviluppo di manifestazione, benefico, non duale. Così la sillaba oṃ è l’ātman. Colui che conosce ciò, immerge l’atmān [manifesto] nell’ātman [supremo]” (1.12)
    • Taittirīya Upaniṣad – TaitU (VI-V sec. a.C.) – compare il termine yoga ātman (2.4.1).
    • Kātha Upaniṣad – Kā hU (V sec. a.C) – compare il termine “adhyātman yoga” per riferirsi ad una pratica il cui fine é la realizzazione del divino (deva) nascosto nel cuore (1.2.12). Si cita anche “il fermo controllo dei sensi che conduce alla ferma attenzione, condizione di equilibrio interiore” (2.3.10–11).
    • Maitrāyaṇiya Upaniṣad – MaitU (II sec. a.C) – primo riferimento a un sistema sestuplice, cinque dei sei elementi preannunciano il sistema a otto lembi di Patañjali. 

Alchimia, tantra e haṭha yoga si combineranno nelle recensioni meridionali con il mantra e tāraka yoga (yoga del suono e della visione) di quelle settentrionali. Il Sāṃkhya, invece, teorizzava l’assoluta separazione tra Spirito e Materia e spiegava il manifesto come il risultato di una progressiva differenziazione della Prakṛti. Al centro della sua teoria era la classificazione (enumerazione) del reale in 25 categorie (tattva), ordinate in cinque classi di cinque. La manifestazione (Prakṛti ) è una catena di legami causali che fluisce dal sottile al grossolano. Questo sistema venne preso in blocco dal Vedānta e ricontestualizzato: il molteplice trae origine da un principio, l'Uno, o da altra realtà prima che esprime da sé il molteplice con assoluta libertà, identica a necessità assoluta. 

Il dualismo sāṃkhyano è riportato nella teoria metafisica esposta negli Yoga Sūtra (III.13-15, III.44) dove si parla di Prāṇa, apāna, udāna, vyāna, samāna. Sostanza e azione non sono separati, ogni termine indica contemporaneamente un soffio vitale e la sua funzione. 

Rendere fedelmente la storia delle Upanishad é opera impossibile: molteplici sono le aree in ombra, numerosissimi i testi che ancora devono passare il vaglio della filologia, molto scarse le fonti consultabili.
Le Upaniṣhad dello Yoga possono essere elencate tra i testi che, a lungo snobbati dall’interesse dei praticanti come degli studiosi di yoga, stanno oggi destando un rinnovato interesse. Come accennato, si tratta di testi ortodossi, redatti in ambiente vedāntino. Una buona parte del contenuto dei testi che costituiscono l’espanso canone meridionale viene estrapolato da opere sanscrite compilate tra XI e XV secolo, opere che descrivono un metodo che pone l’enfasi su una varietà di nuove pratiche fisiche, conosciuto come haṭha yoga. Troviamo il primo riferimento a un metodo chiamato haṭha yoga in un testo sanscrito dell’XI secolo.

Le Upanishad dello yoga - 2

 Dal sito di Gianfranco Bertagni: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/meditazione/upyoga.pdf

Le Upaniṣad dello Yoga dimostrano la parentela con almeno due tradizioni: le Upaniṣad classiche e i Tantra.
La grande confusione che è stata fatta dagli studiosi nel datare le YU, ha  generato grossi errori interpretativi, e questi preziosi testi sono stati lasciati ai margini degli interessi non solo della ricerca accademica ma anche dei praticanti o studiosi di Yoga. Le Upaniṣad dello Yoga rientrano nella più ampia categoria delle Upaniṣad minori. Le Upaniṣad vengono generalmente classificate in classiche e minori. Le prime risalgono all’era precristiana mentre le minori sono di diversi secoli successive – si tratta per la maggior parte di testi medievali composti tra il IX e il XV (ma fino al XVIII) secolo – e rispecchiano gli insegnamenti esoterici delle tante tradizioni del brahmanesimo medievale.    La data di composizione delle Upaniṣad minori è incerta per quasi tutti i testi. Alcuni studiosi considerano le Upaniṣad dello Yoga e le Samnyāsa Upaniṣad come testi scritti durante il V secolo dell’era cristiana (Yoga: Immortality and Freedom). Però la ricerca successiva ha dimostrato che questo è altamente improbabile, poiché sono troppi i riferimenti a testi medievali.
Una datazione errata può generare una catena di false conclusioni, errori che sconvolgono i flussi d’influenza, alterando completamente la storia dei movimenti religiosi e intellettuali.

Secondo il contesto e la data di creazione le YU sono divisibili in almeno due canoni:                            •canone settentrionale – 11 testi, composti tra IX e XIII secolo nel nord dell'India forse nella zona di Varanasi. I temi sono: mantra yoga, tāraka yoga                                                                                •canone meridionale.

Le Upaniṣad dello Yoga non rappresentano un’unica tradizione o un’unica scuola di pensiero, sono dei testi eterogenei. Ciò che le accomuna è il fatto di iscriversi nella tradizione vedāntina: la verità genuina sperimentata dall’individuo è la verità assoluta di tutto l’esistente. L’intero universo è brahman: aham brahmāsi, “io sono l’essere eterno”, so’ ham “ io sono Quello.
La disciplina dello yoga del suono, mantra e nada yoga, è il tema dominante nei testi del canone settentrionale, il corpo yogico viene descritto in termini di prāṇa (soffio vitale), manas (mente), śikhā (fiamma), vāyu (venti), marman (punti vitali), dvāra (porte del corpo sottile), tutti concetti che risuonano con immagini tantriche e haṭha yogiche dello stesso periodo.  
Lo yoga descritto è, quando specificato, un sistema a sei limbi, uguale a quello che troviamo per la prima volta nella Maitrāyaṇīya Upaniṣad (e successivamente associato allo yoga tantrico buddhista e allo yoga di Gorakh).
Brahmavidyā Upanishad – Gli insegnamenti segreti dell’arcana scienza di Brahman. L’haṃsa che sale e scende 21600 volte al giorno è conosciuta come So’ham, Io sono Quello.
La Kṣurika Upaniṣad si concentra sulla descrizione della pratica e degli effetti della pratica di dhāraṇā, che, come un coltello/rasoio trancia i legami che tengono prigioniera l’anima-haṃsa permettendole di uscire dal ciclo delle rinascite. La pratica inizia in un luogo appartato e silenzioso. Qui l’adepto assume una postura di meditazione e ritira i sensi all’interno (pratyāhāra), proprio come una tartaruga ritira le proprie membra. Grazie allo Yoga delle dodici misure (mātrā) e all’uso della sacra sillaba Oṃ, egli riempie progressivamente il corpo d’aria. Chiude le porte del corpo, trattiene l’aria inspirata, poi l’espira lentamente attraverso le narici, facendola salire verso l’alto. Dominati i sensi, divenuto maestro di sé stesso, pratica il controllo del respiro.
Ci sono 72000 altre nāḍī, l’adepto deve tagliarle con la meditazione, con la pura forza dello yoga, lasciando intatta solo la suṣumṅā. Chi realizza l’identità con il Brahman attraverso la suṣumṅā è liberato dal ciclo delle rinascite. Quando il rasoio della fissazione-della-mente (dhāraṇā), della sillaba Oṃ, affinato dalla pratica del controllo del respiro (prāṇāyama) e affilato sulla pietra della rinuncia, taglia la trama della vita, l’adepto è liberato per sempre dai suoi legami, esce dal ciclo delle trasmigrazioni, diviene immortale.
Nella Nādabindu Upanishad la meditazione non conduce alla condizione di jīvanmukta, liberato in vita, ma “educa”, prepara, ad uno stato che può essere raggiunto solo con la morte (videhamukti). I versi 18-20 spiegano lo yoga come un percorso graduale: la mente (manas) si libera progressivamente dalla tirannia dei guṇa e dei sensi, e si dissolve nella pura coscienza.
Amtabindu Upanishad – il Jiva (cioè il Sè contenuto nel corpo sottile e grossolano) resta immutabile e non viene toccato dai cambiamento.  Questa Upaniṣad porta il lettore nell’universo del mantra yoga proprio della tradizione vedāntina medievale. Ha una vocazione prettamente dottrinale e l’unica tecnica cui fa riferimento è la meditazione sulla sillaba aum (e oṃ). Il punto di partenza della riflessione è la mente (manas): “Della mente si dice che sia di due tipi: pura e impura. Impura se è posseduta dal desiderio, pura se è liberata dal desiderio”. La mente legata agli oggetti dei sensi è causa di schiavitù, la mente libera dal desiderio per gli oggetti dei sensi è alla base della liberazione dell’uomo.
Dhyānabindu Upanishad  -L’oṃ è l’arco, la mente la freccia e il Brahman il bersaglio. Grazie all’attenzione concentrata la mente colpirà come una freccia il bersaglio del Brahman.  Lo Yoga  riguarda la recitazione della sacra sillaba oṃ. Su una scala di importanza ascendente vengono prima i fonemi (akşara) a, u e m, seguono poi ānusvara (il bindu), la risonanza (nāda) e infine il silenzio in cui si dissolve il suono.
Si dice che nello spazio di un giorno e di una notte, il Jīva mormora il mantra Haṃ-sa 21600 volte: respirando ripete incessantemente “Io sono Quello”. Questo è Ajapā Gāyatrī, il mantra che porta gli yogī al nirvana e non ha eguali. Anche kuṇḍalinī viene ricordata: la dea addormentata alla base della suṣumṇā ne chiude con la bocca la base, la porta che conduce alla sede del Brahman. Quando l’unione di agni, manas e prāṇā la risveglia, buca il passaggio e risale verso l’alto. Ottiene la liberazione colui che con le mani unite in preghiera, il corpo stabile in padmāsana, il mento premuto con forza contro il petto, la mente fissa in dhyāna inspira e trattiene in kumbhaka. Quando la kuṇḍalinī sale fino alla gola (al viśuddha cakra) lo yogī fa esperienza delle prime siddhi (poteri soprannaturali). Jālandharabandha impedisce che il nettare cada su agni bija e che vāyu diventi instabile. Viene poi descritta khecarīmudrā che consiste nel portare la lingua indietro e inserirla nella cavità del cranio.
Hamsa Upanishad. Il tema centrale dell’Upaniṣad è la teoria dell’Haṃsavidyā, che viene introdotta attraverso un dialogo tra Gautama e Sanatsujāta. Gautama chiede a Sanatsujāta di spiegarli il cammino della brahmavidyā, l’arcana scienza dell’assoluto e questi gli risponde descrivendogli la teoria dell’Haṃsa. Si tratta di un sapere segreto, un tesoro che porta beatitudine e salvezza e può essere comunicato solo al ricercatore sincero che abbia le passioni sotto controllo, sia devoto al guru e sempre in contemplazione dell’haṃsa. L’haṃsa viene descritta come l’ātman: pervade i corpi delle creature viventi come l’olio è presente nel seme e il fuoco nel combustibile. La conoscenza dell’haṃsa è raggiungibile attraverso lo yoga: contraendo l’ano lo yogī fa risalire il soffio vitale attraverso i sei cakra: mūlādhāra, svādhiṣṭāna, maṇipura, anāhata, viśuddha, e infine ājñā . Qui meditando raggiunge lo stato Nir-vikalpa-samādhi e beve il nettare generato dall’unione di Luna, Sole e Fuoco.
La meditazione sull’ajapā-mantra-haṃsa porta a sperimentare Nāda-Brahman nel centro del cuore (anāhata). Il suono si manifesta in 10 caratterizzazioni diverse, simile a una campana, un flauto, un’arpa, e così via. A ognuna corrispondono effetti precisi ma solo il decimo suono, quando Nāda somiglia al tuono, va tenuto in considerazione: è su di esso che lo yogin deve focalizzarsi per diventare Parabrahman.
 Advayatāraka Upanishad. Il testo espone concisamente e in uno stile simile a quello aforistico delle Upaniṣad settentrionali la dottrina segreta del tāraka yoga, il cui fine è il superamento dei cicli di morte e rinascita  e il raggiungimento dell’Assoluto non duale (advaya).    
Vengono anche elencate le caratteristiche del vero maestro (deve conoscere i Veda, essere devoto di Viṣṇu, libero dalla gelosia, puro, conoscitore dello Yoga e dei suoi intenti) e viene fornita una spiegazione etimologica della parola guru. Gu sono le tenebre, Ru significa distruttore. Il vero Maestro è quindi colui che dissipa le tenebre.
Darśana Upanishad. L'Upanishad inizia con un'invocazione al Divino: Insegnami, o Signore, la scienza dello Yoga, completa dei suoi otto gradini, poiché so che conoscendola posso diventare un liberato-in-vita. Il testo si presenta come una lunga e dettagliata esposizione dell’ottuplice yoga di Patañjali, arricchita con una descrizione della geografia del corpo sottile e della rete delle nāḍī.             Le dieci sezioni (khanda) di cui si compone si dividono nel modo seguente:
1.yama (25 śloka): non violenza, aderenza al Vero (tutto è Brahman), astinenza dal furto, castità, compassione, equanimità, autocontrollo, fermezza (nel considerare i Veda come l’unico modo per superare le sofferenze dell’esistenza e nel credere “Io sono l’ātman e nient’altro”), moderazione nella dieta, pulizia del corpo e della mente (contemplazione)
2. niyama (16 śloka): tapas o penitenze come prescritte nei Veda, soddisfazione, fede nella Śruti e nella Smṛti, generosità, devozione a Īśvara (che significa avere un cuore libero dalle passioni, parlare sincero, azione libera da violenza), fede nelle Scritture, modestia nelle azioni, preghiera
3. āsana (13 śloka): Svastikāsana, Gomukhāsana, Padmāsana, Vīrāsana, Siṃhāsana, Bhadrāsana, Muktāsana, Mayūrāsana, Sukhāsana
4. corpo sottile e nāḍī (63 śloka)
5. estensione del quarto khanda e tecniche di purificazione interiore (14 śloka)
6. prāṇāyāma (51 śloka)
7. pratyāhāra (14 śloka)
8. dhāraṇa (9 śloka)
9. dhyāna (6 śloka)
10. samādhi (12 śloka)
“Bisogna mettere impegno nelle āsana” dice l’Upaniṣad poiché “ad averne la padronanza si regna sui tre mondi; ma poi bisogna provare a padroneggiare il prāṇāyāma” (3.12). Prima di passare al prāṇāyāma il testo si dilunga nella descrizione del corpo sottile e del sistema delle nāḍi. Delle 72000 che percorrono il corpo solo 14 sono importanti: Suṣumṇā, Piṅgalā, Īḍā, Sarasvatī, Pūṣā, Varuṇā, Hastijihvā, Yaśasvinī, Alambusā, Kuhū, Viśvodārā, Payasvinī, Śaṅkhinī e Gāmdhārā. Di queste Suṣumṇā, Piṅgalā e Īḍā sono le più importanti e una è la più importante di tutte: Brahma nāḍi, la Suṣumṇā, corrispondente alla spina dorsale, Vīṇā-daṇḍa.
Durante l’inspirazione (addominale attraverso Īḍā) la mente rimane focalizzata sulla lettera A (del praṇava mantra oṃ), durante la ritenzione sulla lettera U, durante l’espirazione (attraverso Piṅgalā) sulla lettera M. Allo stesso modo si ripete inspirando da Piṅgalā ed espirando da Īḍā, la mente concentrata sulle lettere A-U-M. Questa pratica va ripetuta quotidianamente. La settima sezione è dedicata a pratyāhāra, che consiste nel forzare violentemente i sensi a ritirarsi verso l’interno.
Di dhyāna vengono date nella nona sezione due brevi descrizioni: meditazione sul Brahman qualificato (è la meditazione sul Signore Īśvara, la verità, l’esistenza, il Brahman trascendente, Colui che ha ribaltato verso l’alto il corso del Retas, il seme virile) e sul Brahman non qualificato (la verità non duale , il puro, l’eterno, senza inizio né fine, il non grossolano e il non-sottile, l’intangibile, l’impercettibile, l’immisurabile, che è Essere, Coscienza, Beatitudine. La pratica di dhyāna porta alla conoscenza del Vedānta. Samādhi è la nascita di coscienza relativa all’identità e unità di Jīvātman e Paramātman. Così come lo spazio nel vaso è uguale allo spazio intorno a te, allo stesso modo non c’è che un unico ātman. Così deve ripetersi lo yogī: “Non sono il corpo, né i soffi vitali, né i sensi, né la mente. Io sono il testimone, io sono Śiva”, questo è il Samādhi. Come le onde e la schiuma che sorgono dall’oceano e in esso di nuovo scompaiono, così il mondo nasce e si dissolve in me. La mente separata non esiste. Quando la coscienza risplende nella mente lo Yogin raggiunge il Brahman. Quando vede nel suo ātman tutti gli esseri, e in tutte le creature il suo ātman, egli diviene Brahman.

Per la Tattva Upanishad, la più importante, vedi articolo successivo.

Yogatattva Upanishad

La Yogatattva Upanishad  si propone infatti di svelare “la vera natura dello Yoga” e aiutare i praticanti ad arrivare al kaivalya. L’essenza dello Yoga viene presentata con le otto tappe; inoltre si parla degli effetti e degli ostacoli della pratica, dei poteri ottenibili, della dieta da adottare. Vengono trattati anche il  prāṇāyama e dharaṇā. Qui non è Śiva a svelare la conoscenza dello Yoga ma Viṣṇu. Un giorno il Puruṣa Supremo si recò da Viṣṇu, chiedendogli di spiegargli gli otto aṅga dello Yoga.  -

Questo è quello che il Signore Viṣṇu gli insegnò:

•Le anime individuali sono schiave dell’Illusione (maya): solo la conoscenza del brahman libera l’individuo dalle sue afflizioni, la malattia, la vecchiaia, la morte, la rinascita. Alcuni cercano la via nella pratica rituale e nella liturgia, ma si sbagliano, solo l’ātman può conoscere l’ātman.  
•Per questo stesso motivo l’Assoluto da cui tutto deriva non può essere rivelato dalle Scritture
•Com’è che l’anima Universale prese la forma dell’anima individuale? All’origine dei tempi l’anima universale si muoveva sulle acque come una brezza sottile. Poi l’Ego iniziò a manifestarsi in Essa. Al suo interno le tre qualità (guṇa) erano in equilibrio. Da qui nacquero i cinque elementi sottili e i cinque grossolani. Quando un’entità di questo tipo è affetta dai beni e dai mali dell’esistenza terrena viene chiamata jīva, anima individuale
•Essa ritrova la sua natura d’ātman solo con lo Yoga e con la conoscenza, che permette innanzitutto di discernere ciò che vale davvero la pena di conoscere, ossia il brahman supremo, indiviso e senza macchia, Essere, Coscienza, Beatitudine, Colui che trascende i tre momenti cosmici (creazione, conservazione, distruzione), Colui che trascende ogni manifestazione e ogni conoscenza.

•Per quanto riguarda lo Yoga se ne conoscono diversi: 

•Il mantra Yoga, adatto ai poco dotati d’intelletto, che consiste nel ripetere incessantemente (japa) per 12 anni delle formule e dei bija-mantra, attraverso i quali poco alla volta si ottengono la scienza e poteri come quello di divenire piccoli quanto un atomo .
 •Il laya-Yoga consiste nel dissolvere l’attività mentale, tenendo senza sosta la mente concentrata in meditazione sul Signore senza limiti.

 •Lo hatha Yoga è la forma più elevata di Yoga e comprende otto gradi (aṅga):
1.Le 10 astensioni (yama), di cui la più importante è astenersi dal cibo troppo ricco.
2.Le 10 osservanze (niyama) di cui la più importante è la non-violenza (ahiṁsā).
3.Le innumerevoli posture (āsana) insegnate dai maestri dello Yoga, di cui ottanta sono importanti ma solo quattro indispensabili: la Perfetta (Siddhāsana), il Loto (Padmāsana), il Leone (Siṁhāsana), la Prosperità (Bhadrāsana).  
4.La disciplina del soffio (prānāyama ). Per praticare con efficacia lo yogin costruirà una capanna né alta né bassa, munita solo di una piccola porta; ne purificherà il suolo con urina di vacca o succo di limone e si occuperà di tenerla pulita. Lo yogin farà bruciare dell’incenso, stenderà a terra un tappeto, una pelle d’antilope o una lettiera fatta d’erba e vi si sederà nella Postura del Loto. Tenendo il corpo diritto per prima cosa onorerà una divinità di sua scelta a mani giunte, poi chiuderà col pollice destro la narice destra (apertura di piṅgalā) e inalerà attraverso la narice sinistra (apertura di īḍā). Tratterà quanto possibile poi espirerà lentamente, senza forzare, dalla narice sinistra. Poi inspirerà nuovamente dalla narice sinistra, portando l’aria fino al ventre e riempiendolo progressivamente, ivi la tratterà il più a lungo possibile, poi espirerà dolcemente, senza forzare, dalla narice destra (. Continuerà inspirando da una narice ed espirando dall’altra, alternativamente, secondo il ritmo seguente: inspiro – 16 unità di tempo : ritenzione – 64 unità : espiro – 32 unità (1:4:2), 4 volte al giorno, (mattino, mezzogiorno, sera, mezzanotte) fino a 80 cicli ogni volta. Dopo tre mesi i canali īḍā e piṅgalā saranno purificati e l’adepto diventerà luminoso, sottile, perderà peso e il fuoco della digestione arderà maggiormente. Se egli osserverà le prescrizioni riuscirà a trattenere il fiato per quanto tempo vorrà (Kevala Kumbhaka - Ritenzione Perfetta, inspirazione ed espirazione saranno come abolite ed egli potrà qualunque cosa nei tre mondi. Gli effetti di questa pratica (la ritenzione del respiro) non tarderanno a comparire: sudorazione abbondante, tremori, poi lo Yogin seduto nella Posizione del Loto comincerà a saltare come una rana; in seguito i movimenti cesseranno e il corpo leviterà senza  muoversi. Compariranno anche altri siddhi : il praticante dormirà pochissimo, produrrà escrezioni minime, non avrà emorragie, sbavamenti, sudori profusi, cattivi odori, sarà risparmiato da tutte le miserie del corpo. Progredendo nella Ritenzione del Soffio acquisterà una forza prodigiosa, diventerà bello come il Dio dell’Amore e le donne non gli resisteranno, ma lui si asterrà per evitare di disperdere il seme, così che il suo odore si mantenga gradevole. Solo nel suo raccoglimento, lo Yogin praticherà la ripetizione costante della sacra sillaba OṀ, con allungamento della vocale, in questo modo eliminerà il karma prodotto prima di intraprendere il cammino dello Yoga.
5.La ritrazione dei sensi (pratyāhāra), ottenuta con la Ritenzione del respiro.
6.La fissazione del pensiero (dharaṇ ) o attenzione concentrata su un unico oggetto. Qualunque cosa veda, senta, odori, gusti, tocchi, lo yogin dovrà riconoscervi la sua anima. Dovrà esercitarsi in questa pratica tutti i giorni per tre ore applicandosi senza pigrizia; in questo modo otterrà poteri meravigliosi: sentirà e vedrà da lontano, arriverà lontano in un istante, acquisterà perfezione nel linguaggio, potrà prendere qualsiasi e nessuna forma, trasformare il rame o qualsiasi metallo in oro, fino al potere straordinario di viaggiare attraverso lo spazio cosmico. Ma egli, volendo realizzare completamente lo Yoga, considererà questi siddhi come degli ostacoli, non li cercherà né se ne vanterà. Al contrario agirà nel mondo come un uomo comune, uno spirito semplice, addirittura un sordo-muto. Poi viene descritta Paricaya, grazie alla quale il soffio si unisce al Fuoco della Base, per poi essere condotto fino nella Suṣumnā; dopo aver preso la forma e la funzione dell’Energia-attorcigliata (la kuṇḍalinī) allora vi penetra anche la mente dello yogin: quando questo avviene si verifica Paricaya.
Esiste poi una meditazione sui cinque elementi conosciuta come “Quintuplice Fissazione”(Pancha dharaṇā): l’adepto fa entrare il respiro nelle zone associate all’elemento terra, poi acqua, fuoco, aria e etere, ripetendo la sillaba corrispondente, meditando sul dio di ciascuna e trattenendo il respiro per 5 volte 80 misure. Terra, acqua, fuoco e aria non costituiranno più alcun pericolo per lui, egli conquisterà il potere di viaggiare negli spazi cosmici godendo ovunque deciderà di fermarsi di una beatitudine senza eguali. Nulla, nemmeno la morte, potrà più toccarlo.                                                                              7.La meditazione profonda (dhyāna) che si pratica trattenendo il respiro per 60 volte 80 misure. La meditazione si definisce “saguṇa” (con qualità) quando ha per oggetto una divinità: praticandola si conquistano molteplici poteri tra cui quello di ridurre il corpo alla dimensione di un atomo. Quando riesce a praticare la meditazione “nirguṇa” (senza qualità), in dodici giorni l’adepto ottiene il samādhi.  
8.L’estati finale (samādhi). 

•A quanto descritto bisogna aggiungere i sigilli e diverse contrazioni muscolari, non tutti indispensabili: Jalāṁdhara Bandha, Uḍḍiyāṇa Bandha, Mandha e Maha Bandha, Khecharī Mudrā, Vajroli, Amaroli e Sahajoli, che così vengono descritte: Mahā Bandha – piede sx sotto l’ano stendere la gamba dx e tenere a due mani il piede dx; inclinare la testa fino a toccare il petto con il mento, inspirare, trattenere quanto possibile, espirare; ricominciare invertendo la posizione. Mahā Vedha – variante di Maha Bandha in cui il flusso di vāyu viene bloccato dall’interno attraverso Jalāṁdhara-bandha in modo da riempire completamente i due canali īḍā e piṅgalā. Khecarī Mudrā – ripiegare indietro la lingua fino a che poggi nella cavità del cranio, dietro la glottide; si pratica fissando l’attenzione sul punto tra le sopracciglia. Uddiyāṇa Bandha – la contrazione grazie a cui il prāṇā risale lungo la Suṣumnā fin sopra la testa. Yoni-bandha: grazie a una contrazione della regione genitale attuata da una pressione dei talloni apāna risale verso l’alto. Mūla Bandha – la contrazione che permette l’unione di prāṇa e apāna. Viparītakaraṇī – testa in basso, piedi in aria, è praticata con piacere anche dagli adepti più avanzati poiché protegge da molte malattie. Praticata quotidianamente favorisce il fuoco gastrico (bisogna nutrirsi in maniera più abbondante altrimenti finirà col consumare il corpo). Un minuto il primo giorno, due il secondo e così via, aumentando progressivamente la durata. In tre mesi spariranno rughe e capelli grigi e se la si pratica per tre ore tutti i giorni, si sconfiggerà la morte. Vajrolī – chi lo pratica acquisisce tutti i poteri e la realizzazione suprema è a portata di mano.
•Gi ostacoli da superare saranno molti, la pigrizia, l’incostanza, le cattive frequentazioni, la magia, il desiderio di oro o donne. Questi miraggi dovranno essere tenuti a distanza. Il praticante dovrà star lontano dal fuoco, evitare il bagno mattutino, i digiuni inopportuni e tutto ciò che causa escrezioni corporee eccessive, e non viaggerà (47-48).
•Per quanto riguarda la dieta lo yogin eviterà cibi piccanti, sale, mostarda, ogni alimento acido, forte, astringente o aspro ed eviterà di assumere troppi legumi. Gli alimenti favorevoli alla pratica dello Yoga sono invece i latticini, il burro chiarificato, cereali bolliti, fave e riso (49-50).
•Superate tutte queste tappe e gli ostacoli che le caratterizzano, l’adepto è pronto a divenire Viṣṇu stesso. Chiuse le nove porte, lo yogin inspira e ritira i sensi all’interno, il soffio inspirato si innalza, poi resta immobile al centro del corpo come la fiamma di una lampada. L’adepto è entrato in kaivalya, stato trascendente di assoluta indipendenza, lo spazio infinito in cui l’anima diviene misura di tutte le cose.
Bhadra significa benedetto, fortunato, prospero. Bhadrāsana viene anche chiamata posizione del trono o Farfalla. Kevala kumbhaka è la cessazione spontanea (e quindi ‘isolata’ ossia non combinata) del respiro simultanea al samādhi.
Altre forme di kumbhaka sono conosciute come sahita kumbhaka. Sahita significa “combinato con qualcosa”, il che implica necessariamente una performance, uno sforzo, una pratica non spontanea finalizzata allo spontaneo kevala kumbhaka. 

Associazioni di ogni elemento con: zona del corpo – forma geometrica – colore – sillaba – divinità : -Elemento terra – pṛthvī – tra i piedi e le ginocchia – quadrato – giallo – LAṀ – Brahman (Dio color dell’oro, a quattro volti e quattro braccia). - Elemento acqua – āpas  – tra le ginocchia e l’ano – mezzaluna – bianco – VAṀ – Viṣṇu Nārāyaṇa (Dio a quattro braccia, porta un diadema di cristallo e una veste di seta bianca). - Elemento fuoco – agni – tra l’ano e il cuore – triangolo – rosso – RAṀ – Rudra (il Dio a tre occhi dal corpo cosparso di cenere che esaudisce tutte le preghiere e risplende come il sol levante). - Elemento aria – vāyu  – tra il cuore e le sopracciglia – esagono – nero – YAṀ – Īśvara (l’onnisciente, l’onnipresente). - Elemento etere – ākāśa  – tra le sopracciglia e la sommità della testa – cerchio – tendente al blu – HAṀ – Śiva (che ha l’aspetto di una goccia-di-luna e somiglia all’Etere stesso), Sadāśiva (Divinità del colore del cristallo limpido, con la testa ornata da una mezzaluna, Dio a cinque teste ognuna delle quali con tre occhi, con dieci braccia ornate di gioielli e armi e il cui corpo è per metà quello di Umā (la Dea), Colui che esaudisce le preghiere, Causa Prima dell’universo). 

Per una descrizione “moderna” della meditazione sui cinque elementi secondo Sivananda vedi (in inglese) :http://sivanandaonline.org/public_html/cmd=displaysection&section_id=1359&parent=639&format=html

L'Hatha yoga e le Upanishad dello yoga

 Cos’è lo haṭha yoga? Dal sito di Gianfranco Bertagni. A fine Ottocento Monier-Williams definí lo haṭha Yoga come uno “Yoga dello sforzo” e viene trattato nella Haṭhapradīpikā di Svātmārāma.    Gli studiosi del XX secolo parlano di sforzo esercitato nella pratica o di estrema, faticosa e vigorosa disciplina.   http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/meditazione/upyoga.pdf   -

Nello stesso periodo in cui in Europa si mettevano le basi di questa interpretazione, in Bengala Vivekananda si preparava a diffondere nel mondo intero la sua lettura neo-vedāntina degli Yoga Sūtra di Patañjali e del “vero yoga”. Nel suo famoso testo Raja Yoga del 1896, a proposito dello haṭha yoga egli scrive: “Le sue pratiche sono molto difficili, e non possono essere apprese in un giorno, e, non portano a una crescita spirituale”.
Il fine primo dello haṭha yoga, ossia “far vivere gli uomini a lungo” attraverso la cura del corpo e una perfetta salute, è un fine inferiore (Singleton 2009: 71). 

Il successo degli insegnamenti di Vivekananda aiutò a diffondere il pregiudizio secondo cui lo haṭha Yoga sarebbe una degenerazione dello yoga di Patañjali, lo yoga classico, puro e filosofico. La visione dello haṭha yoga come pratica faticosa, dolorosa e inferiore non è tuttavia una novità ottocentesca. Molti testi indiani medievali e moderni esprimono vie soteriologiche fondate sulla gnosi. Alcuni testi ritengono inutili le faticose pratiche fisiche, tutto ciò che lo yogi deve fare è: 1-sedere in quiete e immobile. 2- risvegliare e far muovere kuṇḍalinī verso l’alto, “Haṭha” si riferisce quindi ad azioni che invertono e trasgrediscono l’ordine naturale.  La pratica deve, comunque,  essere accurata e graduale, soprattutto quando si tratta di tecniche respiratorie, mudrā e bandha, pena l’invecchiamento e la malattia.
“Si deve imparare a coltivare il respiro; altrimenti esso uccide lo yogi” (Haṭhapradīpikā 2.15,). L’interpretazione di haṭha yoga come “sforzo violento” non ha dunque alcun fondamento. La preservazione e sublimazione del bindu veniva identificata con pratiche ascetiche (tapas) e con un’inversione di rotta dell’energia.
L’ayurveda si sviluppa intorno a questa concezione, operando a livello di ricostituzione e mantenimento dei fluidi vitali attraverso l’uso di sostanze vegetali e minerali. “Il seme é la materia grezza ed il combustibile di qualsiasi trasformazione psicochimica cui si sottopone lo yogin, l’alchimista o il praticante tantrico.  Il controllo dei flussi vitali (i prāṇa vāyu) – è  un percorso di risalita in cui il praticante trafigge i sei centri o ruote di energia (i cakra) disposti lungo il canale centrale.
A cavallo tra Ottocento e Novecento vennero tradotti in inglese tre testi di haṭha Yoga, Haṭhapradīpikā, Geraṇḍasaṃhitā e Śivasaṃhitā, che andarono a costituire il canone haṭha yogico.  La sintesi Haṭhayogica sembra seguire il medesimo, fondamentale principio operativo delle pratiche erotico-mistiche del tantrismo indù. Nel Tantra l’unione sessuale, l’abbandono del seme maschile (l’offerta sacrificale) nelle fauci ardenti dell’organo sessuale femminile viene assimilato ad un sacrificio, i cui benefici ricadono sul sacrificante.

Breve storia dello haṭha yoga. Il periodo classico dello haṭha Yoga viene fatto iniziare con la Haṭhapradīpikā, un’antologia composta da Svātmārāma nel XV sec. che raccoglie citazioni da testi precedenti tra cui Amanaskayoga, Vasiṣṭhasaṃhitā, Candrāvalokana e otto testi tra cui •Gorakṣaśataka (XIII sec.) - •Śivasaṃhitā (secondo Mallinson anteriore al 1500 d.C.),  •Śarṅgadharapaddhati (1363 d.C.) – antologia di versi di argomenti vari che include gli insegnamenti sulle cinque mudrā del Dattātreyayogaśāstra.  Si parla di due tipi di haṭha yoga, quello di Gorakṣa per come lo possiamo trovare nel Vivekamārtaṇḍa, e quello di Mārkaṇḍeya che é un aṣṭaṅgayoga come quello di Pātañjali. 

Per riassumere, le fonti antecedenti allo Haṭhapradīpikā descrivono lo haṭha yoga come un metodo soteriologico basato su tecniche fisiche conosciute col nome di mudrā finalizzate a indirizzare i soffi vitali nel canale centrale, la suṣumṇā, e far risalire il seme, bindu, fino alla testa. Le più importanti tra queste tecniche, vajrolimudrā e khecarīmudrā, compaiono per la prima volta in un testo viṣṇuita, il Dattātreyayogaśāstra, dove vengono presentate come tecniche per preservare il seme. Altri testi sovrappongono a questo modello quello dello śivaismo Kaula, origine delle meditazioni su kuṇḍalinī.
La Haṭhapradīpikā, unendo questi due paradigmi, suggella una fase di profondo sincretismo: nella sua sintesi di un vasto spettro di pratiche sorte e sviluppatesi in ambienti differenti, opera spesso una loro rielaborazione e ricontestualizzazione, così come successivamente vedremo accadere nelle YU.
La maggior parte dei testi di haṭha yoga dimostra una totale incuranza per questioni di ordine metafisico, come quasi a dire: lo yoga funziona comunque, indipendentemente dall’approccio filosofico del praticante. La mancanza di un rigido ed esplicito orientamento religioso o filosofico ha permesso la diffusione mondiale dello yoga ai giorni nostri.
Haṭhapradīpikā é anche il primo testo che pone le āsana non sedute come pratica di base fondamentale: “Le āsana sono descritte per prime perché sono la prima tappa dello haṭha. Danno stabilità, salute e leggerezza del corpo” (HP 1.17).  Con la Haṭhapradīpikā siamo dunque di fronte ad un’appropriazione e ricontestualizzazione in cornice śivaita/vedāntina di alcune tecniche nate in ambiente viṣṇuita.
Nella Haṭhapradīpikā troviamo mudrā, 8 āsana sedute 7 āsana non-sedute si trovano in testi anteriori  a partire dal X sec.,  kumbhaka.  I versi che descrivono sūryā, śītalī, bhastrikā e ujjāyī kumbhaka sono presi dal Gorakṣaśataka, per i restanti quattro, sītkārī, bhrāmarī, mūrcchā e plāvinī, la fonte non é stata identificata. In questo testo vengono citate tecniche di laya yoga, tecnica che implica il tapparsi le orecchie con due dita e ascoltare i suoni interiori. La Haṭhapradīpikā é il primo testo in cui vengono citati i sei atti purificatori, ma possiamo inferire per similitudine che nauli fosse praticato almeno a partire dal XIII secolo, all’epoca del Dattātreyayogaśāstra, primo testo a parlare di vajrolīmudrā, che usa nauli per risucchiare liquido su per l’uretra. La Haṭhapradīpikā comprende dunque le tecniche fisiche di un’antica tradizione ascetica.
La pratica dello yoga viene citata anche in testi come il Mahābhārata.
I fondatori dello  haṭhayoga vennero identificati con Matsyendra e Gorakṣa, i capostipiti dell’ordine Nāth. Tale tradizione é quella del layayoga o yoga della dissoluzione. I suoi membri erano alchimisti tantrici devoti di divinità femminili note come yoginī, praticanti di kuṇḍalinīyoga. La Haṭhapradīpikā esprime non solo l’integrazione di due prospettive pratiche, ma anche un momento della storia della filosofia indiana in cui le metafisiche non-dualiste śivaita e vedāntina venivano sintetizzate.  Lo haṭha yoga assorbì così diverse pratiche e concetti śivaiti in concomitanza con il declino dello Śivaismo e l’ascesa del Vedānta a paradigma filosofico-religioso dominante.
Oggi la pratica dello haṭha yoga é tra i Nāth praticamente inesistente. Possiamo inoltre notare che nessuno dei guru dello yoga moderno puó dirsi parte della tradizione nāth: il filone settentrionale rappresentato da Swami Sivananda della Divine Society e Swami Satyananda della Bihar School of Yoga si iscrivono piuttosto entro la tradizione dei saṃnyāsī Daśanāmī. La tradizione meridionale di Krishnamacharya e dei suoi tre principali diffusori, T.K.V Desikachar, K. Pathabi Jois e B.K.S Iyengar, sono invece parte della piú ampia corrente del Shri Sampradaya, o Vishishtadvaita Vedānta (“non-dualismo qualificato”), fondata da Ramanuja, a sua volta strettamente connessa con gli ambienti in cui vennero redatti i primi testi di haṭha yoga come il Dattātreyayogaśāstra e i testi contenenti insegnamenti sulle āsana non sedute.
Nei testi haṭha yogici si ritrovano due tradizioni sovrapposte: •la più antica, quello dell’ascetismo itinerante, caratterizzata dalla pratica di tapas: controllo del respiro e del seme come strumenti per ottenere salute, lunga vita e controllo sulla mente. •lo yoga tantrico, caratterizzato, nelle sue formulazioni originarie (testi composti tra V e X secolo) da meditazioni su elementi sempre più sottili, percorso rappresentato talvolta dall’ascesa di kuṇḍalinī lungo la suṣumṇā e i cakra o padma (loto).          Le Upaniṣad Classiche con la loro rivoluzionaria internalizzazione del sacrificio, avevano aperto il cammino a tutto un nuovo modo di guardare al divino, caratterizzato tra le altre cose da una nuova incredibile possibilità, quella di realizzare il mokṣa in vita. La tradizione ascetica come quella tantrica si sviluppano su questo sostrato filosofico: per entrambe la pratica ha come fine la trasformazione del praticante in un jīvanmukta, un liberato in vita.
Quello che le distingue sono i cammini percorsi e l’approccio alle conseguenze della pratica. Entrambe le tradizioni fanno riferimento a poteri soprannaturali, “effetti collaterali” (i siddhi) della pratica stessa, già descritti da Patañjali negli Yoga Sūtra (Terzo Libro, Vibhuti Pada). Nella tradizione ascetica questi superpoteri sono considerati degli impedimenti, nella tradizione tantrica, al contrario, la capacità di agire sul reale, manipolarlo a proprio piacimento e godere di piaceri ultramondani (bhoga) viene talvolta a rappresentare il fine stesso del percorso spirituale.
Le agiografie interne al Nāth Sampradaya dichiarano che fu Gorakṣa nel XII secolo a fondare le 12 suddivisione dell’ordine. Nel 1906 che viene fondata la prima organizzazione che riunisce i diversi lignaggi Nāth. 
I Nāth, come i Saṃnyāsī, sono devoti di Śiva, anche se molti Saṃnyāsī portano sulla fronte il segno distintivo dei viṣṇuiti. Nel mito è Śiva a essere lo yogī per eccellenza: é lui che insegna lo yoga a Parvati e agli uomini. Yoga, ascetismo e Śivaismo sono oggi strettamente associati uno all’altro.
Sono molte però le fonti che dimostrano uno stretto legame tra yoga e viṣṇuismo: nel Mahābhārata (200 a. C. – 300 d.C.) l’epiteto mahāyogī (grande yogī) è riferito si a Śiva, ma nella maggior parte dei casi a Viṣṇu o a yogī non śivaiti, come Vyāsa e Mārkaṇḍeya. In generale poi lo Yoga del Mahābhārata é immerso in un contesto apertamente viṣṇuita.
I Rāmānandī, sono asceti devoti di Rām, una delle più importanti incarnazioni di Viṣṇu, e praticano il rituale vedico ortodosso, sono strettamente vegetariani, si vestono solo di bianco e disprezzano il nudismo. Comunque le vicinanze con i seguaci di Siva sono molte: oltre a rappresentare una comune tradizione ascetica, le loro organizzazioni e iniziazioni sono molto simili.
La formalizzazione dell’ordine Saṃnyāsī portò all’unione di molte tradizione ascetiche differenti e il termine generico viene usato per indicare l’asceta.        
Nāth e Yoga. Il Nāth Sampradāya comprende oggi un ordine di asceti rinuncianti e una casta di padri di famiglia. Entrambi i gruppi fanno risalire l’origine del movimento a un gruppo di nove guru Nāth, il primo dei quali è Ādinātha, “il primo Nāth”, identificato con Śiva.  Oggi l’hatha yoga è di orientazione apertamente śivaita.
Gorakṣa è considerato il fondatore dello haṭha yoga, le cui tecniche fisiche rappresentano l’internalizzazione di alcune pratiche sessuali della tradizione del Kaula Tantra.
La riforma del tantrismo iniziata da Matsyendra e documentato nella Matsyendrasaṃhitā, è un processo in cui il complesso e trasgressivo rituale tantrico veniva internalizzato e semplificato.  Non ci uniamo a una donna ma alla suṣumnā nāḍī, dal corpo sinuoso come erba kuśa; se dobbiamo unirci in un amplesso, questo avviene nel vuoto della nostra mente non in una vagina.
Nello Haṭhapradīpikā lo scarso interesse per le siddhi, a cui viene dedicato molto meno spazio che in altri testi “classici” come gli Yogasūtra, è in linea con la “purificazione” del contributo tantrico di cui abbiamo parlato. Le pratiche fisiche, āsana, kumbhaka, ṣaṭ karmāṇi, hanno effetti fisici che sostengono il cammino del praticante verso il vero fine della pratica, che è mokṣa, la liberazione.
Lo Haṭhapradīpikā, con il suo successo, segna l’affermazione dello haṭha yoga come metodo dominante dello yoga della liberazione.
L’italiano Ludovico de Varthema che viaggiò in India nel 1505-1506 parla di yogī sposati e di un re degli yogi, potentissimo signore a capo di circa “trentamila persone” Altre fonti descrivono gli yogī come detentori di siddhi, irrispettosi dell’ortodossia brahmanica (cfr. White 2009 per una storia degli yogī). A partire dal XVII secolo però gli yogī diventano celibi.
In Nepal il culto di Gorakṣa e Matsyendra si diffonde a partire dal XIV secolo. Gorakṣa, grande yogī tantrico, segue la tradizione espressa nella Matsyendrasaṃhitā. Il suo yoga combina visualizzazioni della risalita di kuṇḍalinī con altre pratiche tantriche, incluse quelle sessuali. Poi le pratiche sessuali vengono internalizzate, si diffonde il celibato e sorge l’archetipo dell’asceta indiano.
La criminalizzazione dello yogī coltivata come strumento propagandistico dai britannici e la progressiva demilitarizzazione dei monaci guerrieri nei territori controllati dalla compagnia delle Indie, portò gli ordini monastici verso forme più estetiche e devozionali, in linea con un movimento di riforma interna al mondo indiano precedente all’intervento della Compagnia, ed espresso soprattutto nel devozionalismo viṣṇuita e in quello Sikh.
Sopraffatti dalla Pax Britannica e la caduta dei loro ultimi principi-patroni da un lato e dall’affermarsi del devozionalismo hindu dall’altro, gli yogī vennero ridotti allo status di mendicanti.
Molti testi diffondono ‘erronea identificazione di Nāth e yogī. In Rajasthan,  i Nāth hanno fondato diversi ashram e svolgono per i loro benefattori rituali vedici, canti devozionali e altre attività assolutamente nuove.
Śivānanda Sarasvatī nel suo Yogacintāmaṇi (opera enciclopedica che cita secondo P.K.Gode 90 opere differenti e risalente al XVI-inizio XVII secolo) e Nārāyaṇa nei suoi commentari alle Upaniṣad (tra XVI e XVII secolo) si rifanno entrambi all’autorità di Gorakṣa, alla Haṭhapradīpikā e ad altre opere della letteratura Haṭhayogica. Nella prima metà del XVIII secolo nel momento della compilazione del corpus delle 108 Upaniṣad, alcune di queste opere vennero utilizzate per ampliare certi testi upaniṣadici esistenti, dimostrando l’autorità che il sapere yogico dei nātha aveva anche in ambiente vedāntino non dualista.

sabato 22 aprile 2023

L'innocente interazione tra sua Santità il Dalai Lama e il bambino indiano

How and why an innocent interaction between His Holiness the Dalai Lama and a young Indian boy has been sensationalized into a clickbait story with leading titles and fake descriptions, and a carefully spliced video.  

Come e perché un'innocente interazione tra Sua Santità il Dalai Lama e un giovane indiano è stata sensazionalizzata in una storia di clickbait con titoli e descrizioni false e un video accuratamente montato.

https://www.youtube.com/watch?v=bT0qey5Ts78

https://www.youtube.com/watch?v=P38uylAkhHU

venerdì 21 aprile 2023

Spiriti d'Oriente - articolo sull'episodio riguardante il Dalai Lama

"La nostra pigrizia intellettuale spiana la strada alla propaganda, ai regimi, alle dittature invisibili".

 “Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che fanno il male, ma a causa di quelli che guardano senza fare niente” -  Albert Einstein.

"Soprattutto in questo periodo così oscuro caratterizzato dalla pandemia e dalla guerra tra Russia ed Ucraina, chi non prende posizione diventa complice".

Sotto è riportato l'articolo del Foglio sull'episodio riguardante il Dalai Lama.


 

Riconosciuto un bambino, come reincarnazione dell'ultimo grande maestro tibetano della Mongolia

(ANSA) - NEW DELHI, 28 marzo 2023 - Il Dala Lama, leader spirituale del buddismo tibetano, nel corso di tre giorni di insegnamenti rivolti alla comunità dei tibetani di origine mongola a Dharamsala, la città indiana dove vive da rifugiato, ha riconosciuto un bambino di otto anni, come reincarnazione dell'ultimo grande maestro tibetano della Mongolia.
Il quotidiano Hindustan Times scrive che il bimbo era già stato "consacrato" nel monastero tibetano di Gandan, nella capitale mongola di Ulan Bator, prima di essere presentato al Dalai Lama che lo ha accettato come decima reincarnazione del Rinpoche (venerabile maestro) mongolo Khalkha Jetsun Dhampa.
Il bambino, di cui non viene rivelata l'identità, è nato negli Stati Uniti ed è figlio di un ricco uomo d'affari mongolo. Il riconoscimento, tuttavia, non si traduce in una designazione alla possibile successione del Dalai Lama che, giunto ormai alla soglia degli 88 anni, ha ripetutamente affermato di non avere ancora deciso se indicare o meno a chi lasciare la guida spirituale. E se lo dovesse fare, nella comunità internazionale del buddismo tibetano sono almeno mille i lama, ovvero i maestri, riconosciuti come reincarnazioni di precedenti leader spirituali. Riconoscimento che avviene grazie a segnali che loro stessi danno o tramite le indicazioni di oracoli o delle persone a loro vicine.

Il riconoscimento del bambino ha però un'importanza politica, perché mira a rivitalizzare la presenza del buddismo tibetano nella Mongolia, il Paese asiatico "schiacciato" tra Russia e Cina dove, nel sedicesimo secolo, il re Altan Khan, convertitosi al buddismo, conferì il titolo di Dalai Lama (Oceano di saggezza) al maestro Gelugpa Sonam Gyatso, terzo esponente del lignaggio mongolo.

Da tempo non erano stati riconosciuti lama mongoli rilevanti e il lignaggio rischiava di interrompersi: l'identificazione del piccolo rappresenta l'ennesima azione politica dell'anziano leader spirituale tibetano che non smette di lottare, dal suo esilio in India, per il suo Paese occupato dal 1950 da Pechino.  L'azione mira a contrastare l'influenza cinese in Mongolia.


Il Panchen Lama

Il Paṇchen Lama, è un importante titolo assegnato a un lignaggio di lama incarnati.  Il Monastero di Tashilhunpo è la sede tradizionale del Pan Chen Bla Ma  che è stata la seconda carica più importante lamaistica del Tibet fino al 1950.
Durante l'invasione cinese molti testi sono andati distrutti e lo stesso monastero è stato in parte distrutto. Sede per più di 4000 monaci era una delle strutture più importanti nella cultura tibetana. Oggi è sotto la stretta sorveglianza cinese perché ritenuto pericoloso.

Il "Panchen Lama" è un titolo e non una persona. Questo titolo è assegnato solo ai riconosciuti come discendenti di Lama, letteralmente il significato pan chen vuol dire grande studioso. Questo titolo viene tramandato da moltissimo tempo, il primo Panchen Lama fu Khedrup Gelek Pelzang 1385.


Il Panchen Lama attuale è  Gedhun Choekyi che è nato nel 1989, ed riconosciuto come undicesimo Pachen Lama, seconda maggiore carica del buddhismo tibetano. L'attuale Dalai Lama lo elevò allo stato di Panchen Lama nel maggio 1995, all'età di 6 anni. Lo stesso anno la "Repubblica" Cinese lo rapì, con tutta la famiglia, sostituendone con un altro di loro interesse e sotto il loro controllo.  Il "Falso Panchen Lama" sostituito dalla Cina ha il compito di modificare la tradizione e obbedire al partito. Gyaltsen Norbu, il Panchen Lama nominato da Pechino, nel 2021 ha affermato che le “forze anti-cinesi” interferiscono negli affari interni del Tibet per ragioni politiche e per ostacolarne lo sviluppo.

Solo le Nazioni Unite e Amnesty International  hanno fatto sentire la loro voce ed hanno chiesto notizie e spiegazioni. Di Gedhun Choekyi e della sua famiglia si sono perse ogni tipo di tracce.

Il Consiglio dei diritti Umani dell'ONU  ha discusso in data 2 Luglio 2019 a Ginevra in merito alla faccenda del piccolo (ormai 31 anni ... ) Panchen Lama ed ha invitato la Cina a rendere pubblico il luogo in cui si trova. La risposta Cinese è stata la seguente: il bambino e i suoi genitori “sono stati affidati al Partito Comunista per essere protetti dai tentativi di rapimento messi in atto dai seguaci del Dalai Lama, il bambino è al sicuro come richiesto dai genitori”.

La repressione religiosa non è una novità in Cina ma sta costantemente crescendo. Milioni di Tibetani subiscono da decenni il controllo statale sull’esercizio della loro religione, ma lo stesso vale anche per i Cristiani e per i seguaci del movimento Falun Gong. Attualmente chi maggiormente subisce le violenze di Pechino sono però i credenti musulmani nellregione dello Xinjiang. Almeno 1,5 milioni di musulmani dello Xinjiang sono internati in campi di lavoro forzato e l’intera regione viene monitorata tramite un controllo digitale senza precedenti.

La cerimonia: i voti del Bodhisattva

I quattro grandi voti fatti da un Bodhisattva sono:     

  • Faccio voto di liberare gli innumerevoli esseri senzienti nella vera natura.
  • Faccio voto di estirpare le infinite contaminazioni nella vera natura.
  • Faccio voto di apprendere gli incalcolabili insegnamenti nella vera natura.
  • Faccio voto di realizzare la suprema Via del Buddha nella vera natura.

Dal Sūtra della rete di Brahma (Brahmajāla Sūtra) - I precetti del Bodhisattva sono i seguenti:

  1. Non uccidere. Proteggere e incoraggiare a proteggere la vita.
  2. Non prendere ciò che non è stato dato. Coltivare e incoraggiare la felicità degli esseri senzienti.
  3. Non indulgere in comportamenti sessuali irresponsabili. Coltivare e incoraggiare il rispetto e la temperanza.
  4. Non parlare falsamente. Coltivare e incoraggiare la giusta conoscenza.
  5. Non vendere o dare bevande alcoliche e droghe. Coltivare e incoraggiare la chiarezza mentale.
  6. Non pettegolare sugli errori dei praticanti buddhisti. Coltivare e incoraggiare l’armonia con gli altri.
  7. Non lodare se stesso e sminuire gli altri. Coltivare e incoraggiare lo spirito di servire tutti gli esseri.
  8. Non essere avari e non ingiuriare. Coltivare e incoraggiare la generosità.
  9. Non nutrire ira e rancore. Coltivare e incoraggiare pace e comprensione.
  10. Non diffamare i Tre Gioielli.  Coltivare e incoraggiare profondo rispetto per Buddha, Dharma e Sangha
     

I precetti minori:  

  1.     Non mancare di portare rispetto ai Maestri, ai monaci e a coloro che hanno preso i precetti da più tempo.
  2.     Non consumare bevande alcoliche, né incoraggiare altri a farlo.
  3.     Non cibarsi della carne di nessun essere senziente. Chi mangia carne non fa germogliare la radice della grande compassione e recide il seme della buddhità presente in lui stesso e causa paura negli animali.
  4.     Non mangiare i cinque tipi di piante pungenti: aglio, cipolla, scalogno, porro, erba cipollina. (Questi, se mangiati cotti, aumentano il desiderio sessuale; se crudi l'ira.)
  5.     Non mancare di insegnare come fare pentimento a colui che è stato visto violare i precetti.
  6.     Non mancare di ospitare, fare offerte e chiedere insegnamenti ad un Maestro di Dharma venuto per una visita da molto lontano.
  7.     Non mancare di ascoltare le spiegazioni dei Sūtra e degli insegnamenti morali, là dove si trovi un maestro di Dharma.
  8.     Non parlar male, essere in opposizione all'insegnamento mahāyāna o seguire insegnamenti in disaccordo con il Dharma.
  9.     Non trascurare chi sta male. Si dovrebbe a lui/lei provvedere come si facessero offerte al Buddha.
  10.     Non possedere armi o usare trappole per distruggere la vita. Tanto meno vendicarsi della morte di qualcuno, persino di quella dei propri genitori.
  11.     Non agire come emissario della nazione dove tale impegno può causare guerre e uccisione di esseri senzienti.
  12.     Non far commercio di schiavi, schiave o animali domestici a fini alimentari.
  13.     Non calunniare la gente virtuosa (monaci, monache, saggi, maestri).
  14.     Non accendere fuochi distruttivi per pulire foreste, specie nei periodi in cui vi è più vita e vegetazione.
  15.     Non dare insegnamenti parziali o devianti. Insegnare a tutti la via del Bodhisattva per realizzare la natura di Buddha.
  16.     Non dare insegnamenti senza prima aver studiato e ben compreso il loro significato profondo. Non insegnare per profitto personale.
  17.     Non rendersi amici dei potenti per esigere viveri, danaro o prestigio.
  18.     Non insegnare come un Maestro senza un'adeguata comprensione del Dharma e mancando di osservare i precetti.
  19.     Non parlare maliziosamente e con doppiezza creando discordia e disarmonia tra le persone virtuose.
  20.     Non mancare di coltivare la mente compassionevole per soccorrere gli esseri senzienti in pericolo di morte liberandoli dalle loro sofferenze, come ad esempio gli animali dalla macellazione. Durante infiniti eoni, tutti gli esseri senzienti possono essere stati nostro padre e nostra madre.
  21. Non rispondere all'odio con l'odio né cercare vendetta né comportarsi con violenza.  Togliere la vita ad un altro essere per vendicarsi è contrario alla filialità (perché siamo tutti interrelati attraverso eoni di rinascite).   Un Bodhisattva novello non deve essere arrogante e rifiutarsi di ricevere istruzioni sul Dharma da un maestro di condizioni più umili, povero o che ha disabilità fisica.
  22. Non inorgoglirsi della propria conoscenza del Dharma, né rifiutare di insegnare a chi chiede insegnamenti.
  23. I precetti del Bodhisattva vengono dati da un Maestro di Dharma che a sua volta li ha ricevuti in trasmissione. Tuttavia se nel raggio di circa 500 km non ci sono Maestri di Dharma, eccezionalmente, dopo almeno sei giorni di pratiche di pentimento e di purificazione, ci si può conferire da soli i precetti. Ciò deve avvenire di fronte all’immagine del Buddha, soltanto dopo aver ricevuto, come auspicio, una visione a testimoniarne la sincerità.
  24.     Non trascurare di studiare e praticare gli insegnamenti mahāyāna dedicandosi a quelli non buddhisti.     Un abate o un responsabile della comunità dovrebbe amministrare bene le risorse di cui dispone e le offerte, così mantenendo l’armonia nel Sangha.
  25.     Non si deve mancare di trattare allo stesso modo dei residenti i monaci in visita al tempio, offrendo loro sistemazione e vitto adeguati al loro grado di anzianità monastica. Li si dovrebbe, inoltre, invitare alle cerimonie in cui vi sono donazioni.
  26.     Non accettare per sé stessi le offerte che appartengono al Sangha. Prendere per sé stessi ciò che è stato offerto alla comunità è come rubare quello che appartiene agli otto campi dei meriti: Buddha, saggi, Maestri di Dharma, Maestri dei precetti, monaci e monache, madri, padri, malati.
  27.     Nel fare offerte i donatori non dovrebbero discriminare tra monaci e monache, amici e altri.
  28.     Non sostentarsi sfruttando la prostituzione o esercitando magia, divinazione, lettura delle mani, produzione di veleni, addestramento di falchi e cani per la caccia, macellazione di animali ecc.
  29. Un bodhisattva monaco o monaca non deve compiere mediazioni negli affari dei laici, p. es. agire per combinare matrimoni, creando così karma di attaccamento.  
  30. Se per un bodhisattva laico è difficile essere sempre vegetariano, dovrebbe esserlo almeno per sei giorni al mese o per tre mesi l'anno.
  31.     Non evitare di riscattare oggetti sacri quando si trovino in situazioni di abuso o contrabbando, nonché cercare di liberare i monaci e le monache che siano stati imprigionati o schiavizzati.
  32.     Non nuocere ad esseri senzienti, facendo commercio di armi, rubando i beni altrui, oppure allevando cani, maiali e altri animali per farne commercio (e quindi ucciderli per fini alimentari).
  33.     Non guardare esercitazioni militari, combattimenti tra uomini o animali. Non indulgere nell'ascoltare musica mondana, non giocare d'azzardo o predire il futuro.
  34.     Non perdere mai la determinazione adamantina di studiare e mantenere i precetti del Bodhisattva. Nel fare ciò si mantiene costantemente bodhicitta (la mente del risveglio), senza rischiare di regredire.
  35.     Non trascurare di fare “grandi” voti personali, ad es. rispettare e aiutare i propri genitori e Maestri di Dharma, praticare con buoni compagni della Via, comprendere profondamente il Dharma.
  36.     Non trascurare di adempiere ai propri grandi voti, generati per prevenire la mente dall'essere coinvolta in azioni che portino a rompere i precetti.
  37.    Il bodhisattva novello dovrebbe recitare i precetti due volte al mese. b) Nei periodi di ritiro il Bodhisattva dovrebbe evitare luoghi pericolosi, come i paesi governati dai tiranni, giungle remote, foreste infestate da animali feroci, zone avversate da calamità naturali.
  38.     Non trascurare di avere un comportamento umile e rispettoso nei confronti dei membri più anziani del Sangha, lasciando loro i posti a sedere davanti.
  39.     Non trascurare di parlare del Dharma e della moralità per il bene di tutti; incitare a edificare templi, monasteri e stūpa; recitare i testi sacri per il bene dei malati o delle vittime di calamità.
  40. Non discriminare nel conferire i precetti del Bodhisattva: sia questi una persona nobile, un ricco, uno povero, un monaco, una monaca, un laico, una laica, una prostituta, un deva, uno schiavo, un asessuato, un omosessuale, uno straniero o altro.  Comunque, le persone che hanno commesso uno delle sette gravissime trasgressioni non possono ricevere i precetti del Bodhisattva in questa vita.  Le sette gravissime trasgressioni sono: ferire il Buddha, uccidere un arhat, matricidio, patricidio, uccidere il proprio Maestro spirituale, uccidere il proprio Maestro di Vinaya, creare divisione nel Sangha.
  41. Il Bodhisattva monaco o monaca dovrebbe usare abiti di colore monastico (ocra, zafferano, porpora, bordeaux, marrone) distinguendosi in tal modo dai laici.
  42.     Non insegnare il Dharma per denaro, fama o potere personale. Non impartire i precetti del Bodhisattva a chi, avendo commesso una o più delle dieci gravi trasgressioni, non abbia osservato un periodo di ravvedimento per almeno sei giorni.
  43.     Non recitare i grandi precetti dei Buddha dinanzi a persone che non li abbiano ancora ricevuti, che non sono buddhisti o che seguono vie errate.
  44.     Non avere intenzioni di violare e aggirare i precetti. Chi fa ciò non è degno di ricevere le offerte dei donatori.
  45.     Non mancare di rispettare e recitare i Sūtra mahāyāna e i testi dei precetti. Andrebbero conservati, ricopiati e distribuiti. Non si dovrebbe porre sopra di essi oggetti mondani e non poggiarli per terra.
  46.     Non mancare di diffondere la conoscenza del Dharma agli esseri senzienti. Ovunque il Bodhisattva si trovi, dovrebbe aiutare tutti gli esseri a sviluppare bodhicitta (la mente del risveglio), insegnando anche agli animali.
  47.     Non insegnare il Dharma occupando una posizione inferiore, sedendo in basso o rimanendo in piedi di fronte a coloro che ricevono l'insegnamento. (Eccezione: chi ha difficoltà fisica può sedere sulla sedia quando l’insegnante di Dharma siede sul cuscino in basso.)
  48.     Non abusare della propria eventuale influente posizione per stabilire regole o leggi che contrastino con le regole morali del Buddhadharma.
  49.     Non nuocere al Dharma, ad es. insegnando a uomini di potere in maniera arrogante o entrando nei loro intrighi e causando in tal modo rischi di persecuzione a monaci, monache e praticanti.

    Il Bodhisattva non deve vendicare nemmeno la morte dei suoi genitori. Astenendosi, così, dall'uccidere, interrompe la catena karmica di violenza, piantando nel presente semi di saggezza e compassione per il futuro. Più trasgressioni gravi una persona commette e più un Bodhisattva dovrebbe avere compassione! Questo insegnamento esiste perché ci sono persone che compiono molte trasgressioni. I Bodhisattva più coraggiosi sono quelli che dimorano nei luoghi ove maggiore è la sofferenza!

vedi sito: http://www.bodhidharma.info/musangam/2017/12/14/cerimonia-i-voti-del-bodhisattva

sabato 15 aprile 2023

Infine, inaspettata, l'illuminazione arrivò

Mentre stavo facendo yoga, improvvisamente e inaspettatamente, sentii una presenza, e una luce si propagò in tutta la stanza...

Le polemiche sul gesto del Dalai Lama.

Su tutti i media gira un video che è stato ripreso durante un evento il 28 febbraio scorso, quando l’87enne Dalai Lama ha parlato a un gruppo di studenti nel tempio Tsuglagkhang di Dharamshala, nel nord dell’India. Nel filmato si vede un ragazzino che si avvicina a un microfono e chiede al leader spirituale buddista: “Posso abbracciarti?”. Il Premio Nobel per la Pace invita il bambino sul palco,  i due si toccano con la testa, prima che il Dalai Lama dica: “CheLa Sa”. Poi i due si abbracciano, e più avanti nel video, il Dalai Lama fa il solletico al bambino sotto le ascelle.

In seguito alle polemiche relative all'episodio di cui è stato protagonista il Dalai Lama, ho selezionato un paio di interventi nei social in cui mi sono più identificato:

Il primo intervento è di Piero Head Tron Delfino - Amministratore del gruppo Facebook Dalai Lama Italia. 

Quando, ci formiamo un'opinione su qualsiasi questione senza considerare il contesto, stiamo scegliendo di mantenere un importante grado di ignoranza nel nostro ragionamento, quindi farò un ultimo commento sull'abbraccio richiesto alla SS Dalai Lama e che ha suscitato tanta polemica in Occidente.
Una delle ripetute accuse che sono state mosse deriva dalla confusione sull'espressione tibetana "GeCheLé Dyip", "CheLa Sa".
Nella cultura tibetana è comune che i nonni diano ai nipoti un piccolo dolce o cibo direttamente dalla bocca a bocca. 
Dopo, quando non hanno più nulla in bocca, gli dicono "CheLa Sa", "mangiami la lingua", che equivale a dire "Ti ho dato tutto il mio amore e i dolci, quindi l'ultima cosa che posso offrirti è la mia lingua, perciò "mangiami la lingua". ”
È un'abitudine affettuosa e innocente, molto comune nella regione di Amdo da cui è originario il Dalai Lama e che i bambini conoscono bene, ma logicamente questo viene percepito in modo molto diverso quando si traduce erroneamente in inglese come "succhiami la lingua".
Quest'errore di traduzione in inglese (anche da parte del Dalai Lama stesso) è quello per cui Sua Santità si è scusata, "per il dolore che le sue parole hanno potuto causare".
Un'altra questione che è stata discussa a lungo è quella di come il giovane ha percepito questa situazione. Per la cronaca, condivido le dichiarazioni pubbliche fatte da questo giovane e sua madre alla fine dell'evento (circa due mesi fa).
https://www.facebook.com/LamaTrinle/videos/150318354661457
https://www.facebook.com/LamaTrinle/videos/6389306294453239
Capisco che tutto questo può essere stato scomodo e addirittura irritante, visto da una prospettiva decontestualizzata, in un video manipolato, ma ora sono disponibili tutte le informazioni complete e veritiere, e le persone sincere hanno la possibilità di accettare e accettare le cose come sono state e ritirare le gravi accuse, diffamazioni e insulti gratuiti che si sono rivolti contro un essere che ha dato tutta la vita alla pace e al servizio del bene comune.

L'altro intervento è di  Tenzin Peljor è un monaco che da anni si occupa di “problemi complicati del Buddismo tibetano”, come riporta il suo blog, che vanta milioni di visitatori. Peljor racconta agli utenti gli abusi sessuali all’interno della sua comunità, abusi nella maggior parte delle volte avvolti in una coltre di silenzio.
A detta di Peljor chi ha diffuso il video integrale avrebbe inserito emoji con abbracci e altri elementi simili e molto probabilmente in prima battuta quello che è stato recepito è stato solo un gesto affettuoso, comunque “disturbante”, ma assimilabile ad uno scherzo. Peljor ricorda infatti che il Dalai Lama “è una personalità molto calorosa, goliardica, che spesso cerca il contatto fisico”. “Ho conosciuto il Dalai Lama – continua il monaco – posso testimoniare che ha sempre la tendenza allo scherzo, al contatto fisico, me lo ricordo con i nativi americani che prendeva i gioielli che avevano indosso e se li portava a pochi centimetri dagli occhi, ridendo. Altre volte prendeva i capelli di qualcuno e se li metteva sul mento, come una barba. A volte, nel tentativo di esprimere vicinanza, può superare qualche confine. Questa volta, indubbiamente, è successo".


Rompere o non rompere una relazione?

Dal Blog di Christophe André. - Il problema con gli strizzacervelli è che se si fa loro una domanda, ne sentiranno un'altra dietro. Ad esempio, se si chiede loro: "Come si fa a sapere se è il caso di rompere con qualcuno?", saranno più interessati alla domanda: "Perché si entra e si rimane in una relazione? Poiché sono uno psichiatra, questa è la domanda su cui il mio cervello ha lavorato..

Ed ecco alcune risposte...  

Se ci si impegna in una relazione di coppia, e se si persiste, è perché, a parte il masochismo, si trovano più benefici che vincoli.  Per esempio, è perché in coppia proviamo emozioni piacevoli, più di quando eravamo soli: amare, ammirare, ridere, condividere, dare e ricevere affetto... ;

È che proviamo anche meno emozioni spiacevoli: la coppia ha generalmente un effetto protettivo sulle nostre paure, sulla nostra depressione, sulla nostra rabbia e sul rischio di soffrire di gravi disturbi psichiatrici;
Infine, la coppia, almeno quella che funziona bene, è un potente fattore di sviluppo personale: il nostro partner ci rassicura sui nostri lati positivi e ci spinge a coltivarli, ci mette in guardia da quelli negativi e ci spinge a cambiarli.

E poi, nella coppia, almeno in teoria, almeno all'inizio, c'è l'amore...  L'amore è un'emozione, e un'emozione è necessariamente deperibile. Le moderne teorie della psicologia scientifica definiscono, con argomenti convincenti, l'amore come uno stato di risonanza emotiva tra due persone: una risonanza reciproca, simultanea, che porta al desiderio di fare del bene all'altro.

L'amore non è quindi uno stato permanente - ma è invece, infinitamente rinnovabile nel corso della vita, a patto che vi si dedichi un po' di impegno e di attenzione. Le parole importanti sono "sforzo" e "attenzione": Sì, l'amore è un lavoro duro. Se questi sforzi e queste attenzioni non ci sono, l'amore muore e la coppia con esso. Niente di quello che abbiamo detto prima funziona: le emozioni piacevoli vissute insieme diventano più rare, quelle spiacevoli più numerose, abbiamo la sensazione che l'altra persona non ci aiuti più a progredire...

Dobbiamo quindi interrompere tutto? In ogni caso, dobbiamo porci questa domanda, ma dobbiamo stare attenti a due grandi minacce!
- La prima è quella della coppia usa e getta, della pigrizia legata alla nostra epoca consumistica e narcisistica: la relazione non mi soddisfa più? Come farei con un oggetto rotto, lo butto via, invece di cercare prima di tutto di capire, migliorare, riparare...
- L'altra minaccia è quella della pigrizia, ma una pigrizia opposta, non più legata all'impulsività e all'impazienza, ma all'inerzia: sento che le cose non vanno più bene, ma continuo, non prendo decisioni. È quanto descrive Christian Bobin nel suo libro La folle allure: "La vita di coppia è senza fondo, immensa. Può essere devastata da una parte e continuare tranquillamente da un'altra. La vita di coppia è un animale grande e resistente, lento a morire".

Quindi, quando l'amore è in declino, cosa si deve fare per questo grande animale che è la coppia? Rianimazione o eutanasia?  Si può cominciare a parlarne: tra i membri della coppia, certo, ma anche con parenti e amici, con professionisti della psicologia.

Per cercare di non banalizzare l'esperienza della coppia, che è così appagante quando funziona. E cercare di non renderla troppo sacra: la felicità viene da molti altri legami oltre a quello amoroso. Perché tutti sanno che non c'è solo l'amore nella vita, e che la vita è bella, per tutti, in coppia o da soli...

Come? Non ho risposto alla domanda? Sì, ma lo sai bene, è sempre così con gli strizzacervelli...

Come cambiare la tua mente - Michael Pollan

Come cambiare la tua mente è un testo del  2019 dove Michael Pollan, saggista gastronomico,  presenta un modo totalmente innovativo per entrare nelle profondità della nostra mente, nel nostro sub-conscio o inconscio, ossia attraverso delle sostanze psichedeliche. Nella consistente letteratura generata dalla sua scoperta a oggi, le sostanze psicadeliche sono sempre state presentate come una via d'accesso privilegiata e niente affatto spiacevole ― a dimensioni della coscienza che ci sono precluse.

Nel testo  Pollan riesce a portare il lettore con sé alla scoperta tanto della storia della psichedelia, quanto soprattutto dei suoi effetti, che prova in prima persona testando in modo illegale ma controllato varie sostanze, dalla psilocibina (il principio attivo dei funghi magici), all’LSD, passando per l’infuso amazzonico dell’ayahuasca e arrivando addirittura alla 5-MeO-DMT (la molecola psicoattiva presente nei rospi del genere Bufo), facendosi accompagnare nei test dalla supervisione di psicologi o psichiatri che, clandestinamente, consentono ai loro assistiti di provare queste sostanze, ritenute sin dagli anni ’60 un ottimo coadiuvante per il trattamento terapeutico. 

Negli ultimi anni, tuttavia, la ricerca scientifica più avanzata lavora su virtù molto diverse degli «acidi», a cominciare dalla loro efficacia contro patologie infide quali le dipendenze, l'emicrania, le fasi acute della depressione. È un argomento molto difficile da affrontare. Il testo è un diario di viaggio e la cronaca di un lungo esperimento, dove Pollan incontra una serie di uomini e donne straordinari ― guru veri o presunti, scienziati serissimi, medici di frontiera ―, e poi decide di provare in prima persona  gli effetti della sostanza stupefacente sulla mente  e che cosa intendessero i profeti del lisergico per «toccare Dio».  

Una delle caratteristiche delle sostanze psichedeliche è quella di portare, oltre un certo dosaggio, alla cosiddetta ego dissolution, una dimensione in cui crollando gli automatismi costruiti nel corso del tempo dal nostro Io, diventa possibile scoprire nuove possibili soluzioni al di fuori di schemi ormai irrigiditi. Queste dinamiche erano state intuite già da Aldous Huxley, che nel testo Le porte della percezione le aveva chiamate “valvola di riduzione”. Con questa metafora lo scrittore britannico indicava la capacità di una mente sotto l’effetto di psichedelici di scardinare il consueto assetto esperienziale, in un meccanismo che porta il soggetto a percepire l’intera gamma della varietà e complessità degli stimoli che incessantemente il mondo ci invia, senza passare attraverso il filtro di sintesi messo a punto dal cervello umano per ottimizzare il flusso degli impulsi e organizzare le singole decisioni (un sistema eccellente per la gestione della vita di tutti i giorni ma che tende a spingerci su percorsi già noti). 

Queste dinamiche, un tempo solo intuite,  sono state di recente dimostrate grazie al lavoro del gruppo di ricerca della Beckley Foundation di Londra, guidato da Robin Carhart-Harris, che ha mappato con la tecnologia del brain imaging (un sistema di osservazione che consente di studiare il flusso ematico e il consumo di ossigeno) il cervello di soggetti cui era stata fatta assumere della psilocibina. Dallo studio è emerso come nelle scansioni si osservasse un sorprendente “silenziamento” della DMN (la “rete della modalità di default”, anche nota come “connettività funzionale intrinseca”), ossia il direttore d’orchestra delle funzioni cerebrali. “Nel momento in cui l’attività di quest’ultima si riduce drasticamente” – ci spiega Pollan – “sembra che abbia luogo una temporanea scomparsa dell’ego, e che i consueti confini sperimentati tra sé e mondo esterno, tra soggetto e oggetto, si dissolvano tutti. Comunque sia, mettere fuori servizio questa rete particolare può darci accesso a stati di coscienza straordinari”, e succede anche dell’altro, mentre la DMN allenta la sua presa, le altre zone del cervello mostrano un deciso aumento di attività, iniziando a dialogare tra loro, saltando proprio l’intermediazione di quella che Huxley chiamava ‘valvola di riduzione’.

“Questa disinibizione” – continua Pollan – “potrebbe spiegare come mai, con gli psichedelici, materiali ai quali la coscienza non ha accesso nel normale stato di veglia – compresi ricordi, emozioni e, a volte, traumi infantili rimasti a lungo sepolti – affiorino invece alla superficie della nostra consapevolezza”. Grazie a queste scoperte la ricerca in corso negli ultimi anni è vista come una promettente nuova frontiera per il trattamento di tutta una serie di patologie, che tra loro hanno in comune analoghi meccanismi di rigidità sistemica. Tra questi figurano le dipendenze, l’ansia della morte nei soggetti afflitti da tumore, la depressione e anche le forme più resistenti di emicrania, in un contesto che vede ormai ridursi in modo drastico l’efficacia dei farmici a base di barbiturici e antipsicotici maggiori. Robin Carhart-Harris a riguardo cita una significativa affermazione del terapeuta psichedelico Stanislav Grof: “Gli psichedelici saranno per la comprensione della mente quello che il telescopio è stato per l’astronomia e il microscopio per la biologia”.

Il testo di Michael Pollan cerca anche di ricostruire in modo avvincente la storia della psichedelia, dalla scoperta casuale e quasi miracolosa di una molecola dagli effetti imprevedibili come quella dell’acido lisergico, da parte del chimico svizzero Albert Hofmann, al programma Mk-Ultra, il programma di ricerca top secret della stessa CIA che dal 1953 al 1964 ha cercato di capire se gli psicolitici potessero servire come siero della verità, come arma biologica o come agente per il controllo della mente. Pochi anni dopo e ancora nel pieno di questo fermento tutte le sostanze venivano messe al bando.
Un altro dei personaggi memorabili incontrati da Pollan, è il micologo Paul Statmets, massimo esperto mondiale del genere fungino Psilocybe. Anche i funghi giocano un ruolo decisivo in questa storia, e non solo per via di quelli provvisti di psilocibina, ma anche perché, benché molti lo ignorino, la stessa LSD è stata sintetizzata da Hofmann a partire da un fungo, ossia l’ergot (o Claviceps purpurea), un piccolo parassita della segale cornuta.
Pollan parla anche di Stamets un singolare personaggio che pratica «micorisanamento»” – “il termine indica l’uso di funghi per bonificare aree inquinate e risolvere problemi di scorie industriali” o usa i funghi come  ‘micopesticidi’ per uccidere formiche o altri insetti.  Stamets parla anche della rete creata dai miceti (la parte sotterranea dei funghi), una sorta di “internet naturale della Terra” la più vasta e intelligente del pianeta.

Oggi, osserva Rick Doblin (fondatore della MAPS, la Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies), si assiste ad una sorta di Rinascimento psichedelico, che consente finalmente anche in Italia di vincere decenni di pregiudizi e trattare questa materia (da cui possono sorgere, oltre alle soluzioni farmacologiche, sorprendenti rivelazioni mistiche) con consapevolezza.  Bisogna ricordare che la diffusione degli psichedelici negli Stati Uniti tra anni ’50 e ’60 non era certo confinata all’area di protesta dei figli dei fiori, l’LSD era nelle università e nei salotti della New York bene, oltre a circolare tra gli attori del cinema hollywoodiano, come Cary Grant, o tra i grandi musicisti della scena rock (basti nominare John Lennon, Bob Dylan, Mick Jagger e Keith Richards, tra i tanti artisti che si recarono in Messico in pellegrinaggio dalla curandera Maria Sabina).

Michael Pollan ha dato al testo un taglio scientifico per inserirlo in modo più efficace, nell’attuale dibattito internazionale. Il libro negli Stati Uniti è stato in vetta alle classifiche del New York Times per diciotto settimane consecutive, imponendosi indubbiamente come il saggio dell’anno. Ma non credo che l’autore ignori che il potenziale di queste sostanze non sia da limitarsi agli impieghi medicinali. Nell’ultimo capitolo del libro lo scienziato Roland Griffiths dice: «Tutti noi dobbiamo affrontare la morte», «Sarà qualcosa di troppo prezioso per limitarlo ai malati».

Introduzione al Blog

Il Blog è nato nel marzo 2021, in tempo di pandemia, per comunicare e condividere le mie letture e i miei interessi personali.  Nel blog c...