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venerdì 8 marzo 2024

Shintoismo in Giappone

Lo shintoismo ( “via degli dei”) o scintoismo, viene considerato la religione autoctona e più antica del Giappone.

Lo shintoismo: non ha un fondatore, né un testo sacro, né un “Dio” unico superiore. Ci sono comunque dei testi base dello shintoismo che sono il Kojiki e il Nihon Shoki. Sono opere che narrano le origini mitologiche del Giappone e vennero fatte redigere dalla famiglia imperiale nell’VIII secolo per giustificare la propria egemonia sugli altri clan e attribuirsi antenati divini. Lo shintoismo non è particolarmente interessato alla morte e all’aldilà (che rientrano più nell’orbita buddhista), ma a tutto ciò che concerne la vita in questo mondo, la natura, gli inizi e la trasformazione. Lo shintoismo non è nemmeno centrato su una dottrina morale specifica. Alla base dello shintoismo abbiamo la presenza del sacro nella natura e nei fenomeni che la circondano, e il praticante vuole mantenere l’armonia con queste forze e  ottenere favori e protezione da queste forze.

Una delle preoccupazioni principali dello shintoismo è la purezza e gli esseri umani nascono puri e la purezza è la loro condizione naturale. Capita, però, che si contaminino, ad esempio nel contatto coi morti, e che debbano quindi purificarsi con appositi riti e pratiche. La purezza è un ideale che compare già nel mito di Izanagi e Izanami, raccontato nel Kojiki e nel Nihon Shoki. Secondo la leggenda, alla morte della dea Izanami, suo marito Izanagi andò nell’aldilà per tentare (invano) di recuperarla. Al ritorno in questo mondo dovette purificarsi per essere entrato in contatto con la morte, e lo fece immergendosi nel fiume Tachibana.
Questo mito è rappresentativo per due motivi: ci fa capire che la morte è considerata impura. Lo stesso vale per la malattia, il sangue mestruale o quello del parto. È una credenza che ha avuto una certa importanza nella creazione della casta degli intoccabili, i burakumin. Questa classe era in parte composta da gente che lavorava a contatto con il sangue o con i morti.

Il secondo elemento importante è il ruolo purificatore dell’acqua. Per accorgersi della sua importanza, basta visitare qualunque tempio: prima di entrare bisogna sciacquarsi mani e bocca in una specie di fontana chiamata chōzu-ya o temizu-ya. Analogamente, non è raro vedere persone spargere acqua davanti a casa o al proprio negozio. Altri elementi purificatori sono il fuoco e il sale: quest’ultimo viene usato per purificare il ring nel sumo.

Essendo una religione di stampo animistico e politeista, lo shintoismo riconosce numerose divinità o spiriti, dette kami. Questi kami sono delle entità intangibili che eccellono nel loro essere, sia esso buono o cattivo. Sono qualunque cosa generi timore o rispetto. In concreto, possono essere fenomeni naturali, elementi animati o inanimati: la dea del sole Amaterasu (l’antenata della dinastia imperiale) e gli imperatori morti sono dei kami, ma lo possono essere anche gli antenati, piante, rocce e animali. Il loro numero è infinito. Essendo una religione “sincretica”, che cioè assorbe e unisce elementi presi da diverse tradizioni, lo shintoismo ha accolto al proprio interno anche divinità di origine cinese e indiana.
Anche il concetto di kami è qualcosa di “sentito”, di “avvertito”, che non è facile definire logicamente o descrivere a parole. Nello shintoismo di stato, nato a fine Ottocento, anche l’imperatore vivente era considerato un kami.

Il rito, più che la dottrina, è il cuore dello shintoismo, ed è una componente molto importante della cultura giapponese in generale.  Ci sono riti legati alle varie tappe della vita:  la nascita, la crescita,  il raggiungimento della maggiore età, , il matrimonio, ecc  per invocare la protezione dei kami.Ci sono riti come il jinchisai per purificare il sito di un nuovo cantiere edile, come l’umi-biraki  per inaugurare la stagione balneare e lo yama-biraki  per inaugurare quella del trekking.  Durante i riti, ma anche nelle normali visite, è possibile imbattersi nelle miko, le aiutanti. Queste non sono sacerdotesse, ma ragazze laiche che danno una mano nella gestione del santuario e a volte si esibiscono nelle danze sacre. Sono distinguibili per i pantaloni (hakama) rossi e la casacca bianca. Non ci sono funzioni religiose settimanali: la gente visita il tempio quando vuole, magari in occasione di riti speciali o matsuri.  Lo scopo delle visite al tempio non è legato all’espiazione di peccati o a benefici nell’aldilà, ma è più immediato e terreno. Di solito si prega per invocare protezione da pericoli e calamità, per la salute, la prosperità e il successo (agli esami di ammissione, ad esempio).

Poi ci sono i matsuri (festival) legati principalmente ai vari periodi dell’anno (Capodanno) e al raccolto (in primavera e in autunno). Durante le feste, solitamente, c’è una parte di purificazione seguita da offerte di cibo e preghiere, danze e musica. Le preghiere recitate dal kannushi (il sacerdote) sono composte in un linguaggio aulico e si chiamano norito.

I luoghi di culto shintoisti si chiamano solitamente “jinja”. Anche se questo termine si traduce come  “santuario”, “jinja” indica tutta l’area sacra, non solo l’edificio principale. Un tempo, infatti, non c’erano edifici permanenti: iniziarono a svilupparsi solo sotto la spinta del buddhismo (ai cui templi rimasero annessi fino a fine Ottocento).  Oggi, tipicamente, un jinja è composto da diversi elementi:     Torii: il portale d’ingresso nell’area sacra. È spesso dipinto di rosso e, nella versione più semplice, è formato da due colonne sormontate da una specie di architrave.
    Chōzu-ya o temizu-ya: una struttura con una fontana e dei mestoli in cui eseguire la purificazione rituale di mani e bocca prima di accedere al santuario.
    Haiden: il padiglione in cui i fedeli possono pregare. Le preghiere di solito non sono molto elaborate e la visita dura pochi minuti. In genere si svolge così: si fa un’offerta simbolica (una moneta da 5 yen è considerata benaugurante) e, se presente, si suona una piccola campana appesa sopra l’offertorio per attirare l’attenzione del kami e purificare l’aria. Dopodiché si fanno due inchini, si battono le mani due volte, si recita dentro di sé una preghiera (una richiesta, non una formula prestabilita) e, infine, si fa un altro inchino.
    Honden: il sancta sanctorum in cui può entrare solo il sacerdote (kannushi) e che contiene lo shintai, un oggetto simbolico in cui risiede il kami. Spesso si tratta di uno specchio. Lo shintai non è il kami, ma solo un oggetto che esso abita per essere accessibile agli umani.
    Alcuni templi non hanno un honden, perché lo shintai è un elemento naturale. L’esempio più famoso è quello del santuario di Ōmiwa, a Nara, dove lo shintai è la montagna.
    Yoshiro: è un oggetto che, come un parafulmini, attrae il kami e gli offre uno spazio fisico da occupare temporaneamente. Lo shintai è quindi uno yoshiro. Può essere un albero, una roccia, una katana o una montagna, e rappresenta la forma più primitiva del jinja. Di solito gli yoshiro sono identificabili perché sono circondati da grandi corde attorcigliate (shimenawa) decorate con strisce di carta a zig-zag.

Spesso nei santuari (ma anche nei templi buddhisti) sono presenti dei posti in cui appendere gli ema e, separatamente, gli omikuji. I primi sono delle tavolette di legno con un’immagine, in origine un cavallo. Il nome significa infatti “cavallo disegnato”, e si riferisce al fatto che, in passato, i ricchi offrissero ai kami questi animali, che sono considerati il loro mezzo di trasporto. Sul retro dell’immagine si può scrivere una richiesta per il kami (in qualunque lingua) e appenderla per fargliela arrivare.
Gli omikuji, invece, sono delle specie di oracoli scritti su carta che si estraggono a sorte e rivelano il futuro di una persona. In teoria, quelli negativi andrebbero appesi per scongiurare la cattiva sorte, ma spesso la gente appende anche quelli con i buoni auspici in segno di ringraziamento.

Al di fuori dello shintoismo più istituzionalizzato sopravvivono molte credenze popolari, parte del substrato da cui ha attinto la religione ufficiale. Lo shintoismo come lo conosciamo oggi è un prodotto di fine Ottocento. Nella sua formazione possiamo distinguere tre fasi:

1. Le origini delle credenze. La prima fase coincide con lo sviluppo di credenze sciamaniche e animistiche, nate probabilmente nel Nord-est asiatico e portate dalle popolazioni mongole. In questa fase non esisteva l’idea di una religione che si chiamasse “shintoismo”, e, siccome non c’era la scrittura, è difficile conoscerne i dettagli.  Per lungo tempo la popolazione giapponese fu organizzata in base ai clan, e ciascuno aveva le proprie credenze e divinità. Nel tempo, le varie fazioni iniziarono a unirsi sotto la guida di un unico clan, il cui dominio si espanse nel resto dell’arcipelago. Si tratta degli Yamato, che diedero origine alla linea imperiale che continua ancora oggi. La religione e la mitologia del clan dominante divennero quindi quelle condivise dal Paese, ma anche i miti degli altri gruppi vennero assorbiti e riorganizzati per costruire un sistema che mettesse al centro l’imperatore.

2. Le origini del termine.  La parola “shintoismo” comparve con l’arrivo del buddhismo nel VI secolo d.C., quando si cercò di trovare un termine per definire tutto ciò che non era buddhismo. Anche in questo caso, quindi, non si trattava necessariamente di un’unica religione organizzata in modo sistematico, ma di un insieme di pratiche e credenze.  Il fatto, però, che si inizi a parlare di shintoismo insieme al buddhismo getta le basi per lo sviluppo di questa seconda fase: la fusione tra i due culti. Per molti secoli, in Giappone, non si sentì la necessità di separare nettamente shintoismo e buddhismo. L’idea di esclusività propria dei grandi culti monoteisti qui non è mai arrivata. Le due religioni si influenzarono a vicenda e divennero inscindibili. Non si parlava tanto di “shintoismo” in sé, in quanto questo era un’usanza in senso ampio, non una religione che si professava. I kami furono visti inizialmente come protettori del buddhismo, poi come entità intrappolate nel ciclo delle rinascite e infine come bodhisattva, esseri illuminati. Per tutti questi motivi, i templi shintoisti e buddhisti sorgevano nello stesso luogo.

3. Le origini del sistema religioso organizzato. La “terza nascita” dello shintoismo risale all’epoca Meiji, a fine Ottocento. Il Giappone si stava aprendo all’Occidente dopo 250 anni di isolamento e sentiva il bisogno di definire la propria identità per evitare di essere fagocitato. Cercò nella propria cultura qualcosa di “originale” e autoctono, e lo trovò nello shintoismo. Mentre il buddhismo venne visto come una dottrina importata e corrotta, lo shintoismo venne esaltato come vera religione nazionale. Per la prima volta, quindi, si crearono due culti distinti.

In questa fase si cercò di analizzare e sistematizzare questa religione, stabilendo cosa fosse shintoista e cosa no. Nello stesso periodo nacque anche lo shintoismo di stato, che venne usato per sostenere il nazionalismo e la militarizzazione di inizio Novecento. Questa dottrina dava grande importanza al culto dell’imperatore, considerato un kami vivente.

Lo shintoismo di stato venne smantellato dopo la seconda guerra mondiale. Al giorno d’oggi, molti giapponesi si dichiarano atei, ma tantissimi fanno visita a un santuario a Capodanno (hatsumode), o magari in vista degli esami. Tra i santuari più famosi ci sono infatti i Tenmangū, dedicati a Tenjin, il kami protettore dello studio. Molto popolari sono anche quelli consacrati a Inari, che protegge le messi e gli affari e che ha come messaggero una volpe. Tante grandi aziende, tra cui la Shiseido, hanno un santuario dedicato a Inari nei loro edifici.
Il santuario Fushimi Inari è una tappa obbligata a Kyoto, ma ce ne sono tantissimi altri in Giappone. 

Dal sito:  https://volcanohub.com/ 

L’Obon, noto come festa delle lanterne, in Giappone

L’Obon, anche noto come festa delle lanterne, è il giorno giapponese dei morti, e, insieme al Capodanno, è una delle ricorrenze principali del Paese.


L’Obon è considerata una festa buddhista, ma, come spesso succede, incorpora anche elementi preesistenti o derivanti da altre tradizioni. Il culto degli antenati, infatti, in Giappone esisteva già prima dell’avvento del buddhismo ed è presente nello shintoismo, la religione “autoctona” del Paese, oltre che nel confucianesimo e nel taoismo.

In Giappone, nel culto degli antenati pre-buddhista, c’erano due feste principali in cui le anime dei defunti tornavano in questo mondo: il Capodanno e quello che oggi chiamiamo Obon. Nel tempo, il Capodanno è stato assorbito principalmente dalla sfera shintoista, e si è quindi dato risalto alle anime come “kami” (divinità o spiriti dello shintoismo), simboleggiate dalla figura di Toshigami.
Anche le famiglie di fede shintoista, comunque, festeggiano l’Obon.
Ufficialmente, l’origine dell’evento (e del nome) viene fatta risalire a “Urabon”, la traslitterazione del sanscrito “ullambana” (che vuol dire “appeso a testa in giù”, in riferimento al patimento delle anime tormentate). Il termine si riferisce a un sutra omonimo in cui si racconta la storia di Mokuren, un discepolo di Buddha che raggiunse uno stato superiore di conoscenza. Usando questa sua capacità, riuscì a scoprire che lo spirito di sua madre si trovava nel regno delle anime affamate. Mokuren cercò di darle da mangiare, ma appena prima di entrarle in bocca, il cibo prendeva fuoco.
Si rivolse quindi a Buddha per chiedergli come aiutarla, e lui gli rispose che nel quindicesimo giorno del settimo mese lunare avrebbe dovuto offrire cibo e bevande alla comunità monastica, e che quelle offerte si sarebbero trasmesse a sua madre.

Anche se questa storia è all’origine del nome ed è stata collegata alla festa, l’usanza di accogliere le anime dei morti e offrire loro del cibo non esiste nel buddhismo indiano, ma proviene da tradizioni preesistenti assorbite dal buddhismo stesso durante la sua diffusione in Cina e in Giappone.

Si dice che il primo Obon in Giappone sia stato organizzato nel VII secolo, ma per lungo tempo rimase un evento limitato alla corte imperiale e ai nobili.
Solo nel periodo Edo (1603-1868) iniziò a essere festeggiato anche dalle masse. Sembra che questa diffusione sia in parte dovuta alla produzione di massa e al successivo calo dei prezzi delle candele, che permisero a molte più persone di provvedere a lanterne e decorazioni. A metà Seicento, inoltre, il governo militare aveva istituito il sistema danka, per cui ogni famiglia doveva essere affiliata a un tempio buddhista. Fu così che l’Obon venne inglobato nei riti di questa religione.

L’Obon oggi è soprattutto una festa in cui si torna in famiglia, si sta insieme e magari si visitano le tombe dei propri cari. Solo pochi giapponesi mantengono le antiche tradizioni, che comunque variano enormemente da zona a zona.

Il primo giorno del settimo mese lunare viene anche chiamato “kamabuta tsuitachi”: è il giorno in cui gli inferi si “scoperchiano” e lasciano uscire le anime. Da questa data iniziano le visite alle tombe e si cominciano i preparativi per accogliere gli spiriti degli antenati.
In alcune regioni si taglia l’erba lungo i fiumi e ai margini delle strade che scendono dalle montagne. Questo serve per agevolare il passaggio delle anime che, secondo lo shintoismo, vivono sui monti, nei corsi d’acqua e nel mare. Ecco quindi un esempio di un particolare shintoista inserito in una festa considerata buddhista.
Con l’apertura degli inferi non escono solo le anime benevole degli antenati, ma anche gli spiriti “cattivi”. In alcune zone si diceva che da questo giorno bisognasse stare attenti quando si faceva il bagno nei laghi, nei fiumi e nel mare: si rischiava infatti di essere trascinati a fondo dallo spirito inquieto di qualche morto annegato.

Il 7º giorno è quello in cui iniziano ufficialmente i preparativi più concreti. Si dispone un altarino (shōryōdana) su cui verranno messe le offerte per gli spiriti in visita. In molte regioni del Giappone si preparano un cetriolo e una melanzana con 4 stecchini conficcati a mo’ di zampe per simboleggiare un cavallo e una mucca. Il primo, più veloce, serve a portare l’anima del defunto a casa; la seconda, più lenta, serve a farla tornare con calma nell’aldilà, magari carica dei doni ricevuti.

Il 13º giorno si accendono i fuochi di benvenuto (muakebi) per guidare le anime nel loro viaggio di ritorno a casa. Le modalità variano a seconda delle zone: ci possono essere lanterne appese davanti alle case (in questo caso, le lanterne bianche indicano che si tratta del primo Obon dalla morte del familiare), oppure fuochi lungo i fiumi, sulla spiaggia, nei cimiteri. La tradizione prevede anche che si accendano piccoli fuochi davanti a casa. Un tempo alcune famiglie, se vivevano vicino al cimitero, si recavano alla tomba dei loro cari con delle torce di paglia. Ne accendevano una sulla tomba, e poi una a ogni incrocio fino alla porta di casa, per evitare che le anime si perdessero.
Dalla sera del 13º giorno, inoltre, si mettono le offerte ai defunti sull’altare preparato in precedenza.

Intorno al 14º-15º giorno si invitano i monaci a recitare sutra. Per tutto il tempo in cui gli spiriti stanno in casa, ricevono 3 pasti al giorno, sempre serviti sullo shōryōdana.

La sera del 16º giorno (a volte del 15º) si accendono i fuochi di commiato (okuribi) per guidare le anime nel loro ritorno all’aldilà. L’evento più famoso è il Daimonji di Kyoto (ovvero il Gozan no okuribi), in cui 5 fuochi a forma di simboli giganti vengono accesi sulle montagne intorno alla città.
In alcune zone si usano anche lanterne fluttuanti sull’acqua o barche, dato che, come abbiamo visto, le anime vivono nei fiumi o nel mare. A Nagasaki, ad esempio, a portare via gli spiriti sono delle grandi barche che, dopo una processione per la città, vengono messe in mare. A Morioka, nella prefettura di Iwate, si appicca il fuoco a una barca di diversi metri che poi viene messa a galleggiare sul fiume.

Il 15º o 16º giorno si svolgono anche le famose bon-odori, le danze tipiche di questa festa. Anche se hanno origine nelle nembutsu-odori, delle danze religiose in cui al ballo si accompagnava un’invocazione a Buddha (chiamata appunto “nembutsu”), oggi l’elemento religioso è per lo più sparito e sono diventate delle grandi feste a cui partecipano tutti. Anche l’accompagnamento musicale è il più disparato, e si va dai taiko (i tamburi) alla musica pop. Per i giapponesi, le bon-odori sono anche un’occasione per rivedere i propri compaesani trasferitisi in città, o per gironzolare tra le bancarelle della festa. I tre principali eventi di bon-odori in Giappone sono quelli di Nishinomai, nella prefettura di Akita (a nord), l’Awa-odori nello Shikoku e il Gujō-odori nella prefettura di Gunma (nel centro). Nel 2022 alcuni tipi bon-odori, insieme ad altri balli tradizionali, hanno ricevuto lo status di patrimonio culturale immateriale dall’UNESCO.

A livello nazionale, la grande maggioranza delle persone festeggia l’Obon a metà agosto.
Anche se, a differenza del Capodanno, l’Obon non è un giorno festivo, tante aziende chiudono e molti giapponesi prendono ferie per tornare dalle loro famiglie d’origine.
Prima l’Obon si teneva dal 13º al 16º giorno del settimo mese lunare, col passaggio al calendario gregoriano, nel 1873, alcune zone hanno mantenuto il riferimento al settimo mese e hanno iniziato a festeggiarlo a luglio. Altre, per evitare che la festa coincidesse con un un periodo in cui c’è molto lavoro nei campi, hanno deciso di fissare una data più vicina a quella del calendario lunare: dal 13 al 16 agosto. A Okinawa, invece, si è continuato a osservare il calendario lunare, quindi la data varia ogni anno.

Dal sito:  https://volcanohub.com/

Il confucianesimo in Giappone

Quando pensiamo alle religioni e filosofie seguite in Giappone, probabilmente ci vengono in mente il buddhismo e lo shintoismo. Il confucianesimo sembra essere invisibile, eppure ha avuto un impatto enorme sul piano sociale, politico e morale del Giappone. Molte caratteristiche che ci sembrano tipicamente giapponesi (l’importanza dell’armonia, il rispetto dell’ordine sociale) affondano le radici proprio nel confucianesimo. Anche tanti principi del bushidō, il codice morale dei samurai, derivano da questa disciplina. Se il confucianesimo è diventato invisibile in Giappone non è perché non esista, ma proprio perché alcuni suoi insegnamenti si sono fusi così profondamente con la cultura nipponica da non poterne più essere scissi.

Il confucianesimo, anche se contiene elementi religiosi, è una dottrina incentrata sull’essere umano da una prospettiva secolare: più che proiettare il significato della vita in una dimensione “altra” e in ricompense ultraterrene, il confucianesimo si concentra su questo mondo. Non vuole salvare gli individui, ma creare benessere collettivo nella società. I templi confuciani nel Paese si contano sulle dita di una mano (Lo Yushima Seido è uno dei più importanti e pochi templi confuciani), e probabilmente nessun giapponese si professa confuciano.

Lo scopo del confucianesimo è infatti il raggiungimento dell’armonia sociale. Questa è possibile solo se ognuno conosce il proprio ruolo e adempie ai doveri che gli spettano, educandosi ed elevandosi moralmente. In generale, con “confucianesimo” si intende una filosofia/religione/dottrina politica iniziata da Confucio nel VI secolo a.C. e poi sviluppatasi nel corso di più secoli, evolvendosi in quello che viene chiamato “neoconfucianesimo”. 

Concretamente, questa disciplina comprende una miriade di modi di pensare e di comportarsi sviluppatisi in Cina e che sono stati uniti in un sistema coerente durante la dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.), quindi secoli dopo la nascita di Confucio. I pensatori politici della dinastia Han hanno usato frammenti di scritti attribuiti a Confucio e ad altri pensatori per creare un apparato testuale e un’ideologia più ampi e coerenti. Gli occidentali hanno chiamato l’intera dottrina “confucianesimo” che riunisce varie correnti di pensiero. A differenza di Buddha, Confucio, pur essendo un grande maestro, non si considerava l’inventore di nessuna filosofia: l’ideale che promuoveva era un ritorno ai princìpi e alle virtù dei saggi sovrani dell’antichità, una specie di età dell’oro esistita secoli prima di lui.

Il principio del confucianesimo
è quello di spronare le persone a impegnarsi per elevarsi moralmente. Ha quindi fiducia nella capacità dell’uomo di perfezionarsi e dà grande enfasi allo studio e alla formazione. D’altra parte, dirà Mencio, uno dei grandi pensatori confuciani, la natura umana è buona, quindi l’uomo deve “solo” realizzare la sua vera natura (questo è anche uno dei principi cardini del buddhismo).
La condizione ideale a cui aspira un confuciano è quella di principe in senso morale, di uomo esemplare. Tutti, a cominciare dai sovrani, devono studiare e perfezionarsi. Chi governa deve essere di esempio per generare la giusta trasformazione morale della società. Non può aspettarsi dagli altri qualità che lui per primo non ha.

Le virtù cardinali dell’uomo esemplare sono cinque:

  •  Benevolenza. È la capacità di interagire con gli altri pensando al loro bene. È la virtù centrale, e va mostrata soprattutto nei confronti dei propri sottoposti.
  •  Rettitudine, giustizia: si riferisce alla non corruttibilità, alla capacità di mantenere la propria integrità e di comportarsi in modo equo, senza pensare al tornaconto personale. È anche senso del dovere, responsabilità.
  •  Correttezza rituale: è un concetto complesso che esprime una comprensione del proprio posto e ruolo nella società, un’adesione alle regole rituali e a quelle del comportamento sociale.
  •  Saggezza o conoscenza: è il discernimento, la capacità di distinguere comportamenti corretti o deviati negli altri.
  • Integrità o affidabilità, l’essere degni di fiducia.

Un altro importante concetto, nell’etica confuciana, è la pietà filiale che non è semplicemente rispetto verso i propri genitori, ma un codice di condotta che si applica anche fuori dalle mura domestiche. È il rispetto per le gerarchie e per i superiori e si manifesta anche nei cinque principali rapporti sociali del confucianesimo: governante – suddito, padre-figlio, marito – moglie, fratello maggiore – fratello minore, amico – amico.
Ovviamente Confucio si è soffermato anche su altre virtù, come la lealtà/fedeltà  e il coraggio, che spinge una persona ad agire secondo giustizia. Non bisogna però confondere le idee di pietà filiale e lealtà con la cieca obbedienza: come il “sottoposto” (figlio, suddito) deve essere rispettoso e leale, così il “superiore” deve fornire un esempio morale, mostrare benevolenza e prendersi cura dei suoi “sottoposti”. Le relazioni richiedono quindi una sorta di corrispondenza.

Durante la dinastia Song (960-1279), in Cina si sviluppa il neoconfucianesimo, una dottrina nata nell’VIII secolo. La diffusione del buddhismo sprona i confuciani ad ampliare la  propria visione metafisica per poter competere e distinguersi da questa nuova religione. Il confucianesimo si oppone soprattutto alla visione del buddhismo zen e all’idea che tutto sia vacuità e impermanenza. Per i neoconfuciani, il mondo che percepiamo è del tutto reale. La realtà è composta da una forza generativa, una sostanza capace di assumere varie forme, detta ki e organizzata secondo il principio razionale ri, che le dà ordine intelligibile. Il neoconfucianesimo non si limita a opporsi al buddhismo, ma ne incorpora anche alcuni elementi. Ad esempio adotta e adatta la meditazione seduta dello zen (zazen).

Il confucianesimo arriva in Giappone nel VI secolo d.C., insieme al buddhismo, e viene applicato soprattutto alla sfera politica e amministrativa. Nella Costituzione dei 17 articoli emanata dal principe Shōtoku nel 604 d.C., il primo articolo fa riferimento proprio all’armonia. Il documento stabilisce princìpi confuciani per l’organizzazione della società: importanza della gerarchia, lealtà, obbedienza, decoro rituale, moderazione.
Nel periodo Edo (1603-1868) il Giappone è governato dagli shogun (shogun era un titolo equivalente al grado di generale, ereditario e conferito ai dittatori politici e militari a partire dal 1192). Dopo un periodo di battaglie, il Paese vive una fase di stabilità, ma anche di isolamento: i contatti con l’esterno vengono infatti ridotti all’osso e regolamentati.
La società è organizzata in un sistema gerarchico ben strutturato, ed è facile immaginare l’interesse della classe dominante per alcuni elementi della dottrina confuciana. In verità, però, in questo periodo il confucianesimo è anche in gran parte sinonimo di cultura e si diffonde per il suo legame con l’istruzione.
In quest’epoca di pace e prosperità, i mercanti si arricchiscono e vogliono concedersi un’istruzione raffinata. I samurai, che non sono impegnati a combattere, si dedicano allo studio. E le scuole sono confuciane.
Quando, nel periodo Meiji (1868-1912), con il ripristino del potere imperiale e l’apertura all’Occidente, la politica giapponese prende una piega più conservatrice e nazionalista, alcuni filosofi invocano un ritorno all’etica nazionale, un’ideologia intrisa di principi confuciani come la lealtà e la pietà filiale.
A quest’epoca si deve anche l’elaborazione del bushidō, il codice morale dei samurai. Anche se in teoria le idee che raccoglie risalgono all’epoca feudale, infatti, il bushidō è in verità una creazione del Novecento che promuove un’ideologia politica ed etica al servizio dello stato. E i concetti confuciani di lealtà e coraggio, travisati, si adattano benissimo a questo tipo di ideologia.
Le nozioni confuciane, insieme al bushidō, vengono così adattate e fatte confluire nell’ideologia militarista e imperialista della metà del ‘900 per promuovere l’indiscussa fedeltà all’imperatore e lo spirito di sacrificio.
A causa di questa manipolazione, nel periodo postbellico il confucianesimo verrà visto con un certo sospetto. I suoi principi, però, saranno ormai diventati parte integrante della cultura giapponese.

Il confucianesimo oggi, in Giappone
si manifesta nelle gerarchie sociali basate sull’anzianità. È nell’ideale di “armonia” che rifugge il confronto e lo scontro in favore della negoziazione. È nell’importanza dello studio e nell’enfasi sull’apprendimento per emulazione.
È anche nelle parole. Il termine “università” (daigaku) è il titolo di uno dei quattro libri del neoconfucianesimo. Il confucianesimo ha anche fornito una base linguistica e concettuale per l’assorbimento delle filosofie e delle scienze occidentali arrivate nell’era Meiji. Molti termini coniati per tradurre concetti occidentali utilizzano parole confuciane. “Logica” (ronri), ad esempio, contiene gli ideogrammi di discussione (ron) e di ri, il famoso principio razionale introdotto dal neoconfucianesimo.
Persino i nomi delle epoche imperiali sono quasi sempre stati presi dai classici confuciani. In Giappone, ogni volta che un nuovo imperatore sale al trono inizia una nuova epoca. I nomi dei periodi più recenti (Meiji, Taishō, Shōwa e Heisei) derivavano dai Cinque Classici confuciani. Nel 2019, però, è iniziata l’epoca Reiwa ( il “wa” in Reiwa significa Armonia), e per la prima volta si è scelta una parola presa dal Man’yoshu, la più antica raccolta di poesie classiche giapponesi. 

Dal sito:  https://volcanohub.com/ 

giovedì 7 marzo 2024

Il buddhismo Giapponese

Il buddhismo ha svolto un ruolo fondamentale nella storia giapponese. Oltre a essere una delle
due principali religioni del Paese (l’altra è lo shintoismo), è stato anche il mezzo con cui sono
arrivati in Giappone tantissimi elementi culturali dal continente.


Lo scopo del buddhismo è superare la sofferenza che deriva dall’attaccamento e dal desiderio, liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni e raggiungere la condizione di nirvana. Non è importante definire una divinità da adorare o dei dogmi: ciò che conta è aiutare gli individui a liberarsi. In questa prospettiva, il buddhismo non è un fine. È un “veicolo” che traghetta i fedeli dalla sofferenza alla saggezza. In generale, possiamo dividerlo in tre correnti:

  • Theravāda: i suoi praticanti dichiarano di aderire più strettamente alle dottrine originali del Buddha storico. Per loro, l’illuminazione può essere raggiunta solo da chi abbandona la vita secolare per dedicarsi alla disciplina buddhista. È la corrente dominante nel sud-est asiatico.
  • Mahāyāna (o “del grande veicolo”): secondo questa corrente, chiunque può raggiungere la salvezza. Sono importanti le figure dei bodhisattva, cioè i praticanti che hanno già raggiunto l’illuminazione, ma scelgono di continuare a reincarnarsi per aiutare le persone a raggiungere il nirvana. La corrente Mahāyāna è la più seguita in Cina e in Giappone. Jizo in Giappone è uno dei bodhisattva più venerati, protettore di bambini e viaggiatori
  • Vajrayāna: buddhismo tantrico o esoterico, sviluppatosi a partire dal Mahayana. È seguito soprattutto in Tibet. Il termine “tantrico” si riferisce all’importanza data alla ripetizione di formule sacre (mantra), alla meditazione con l’uso dei mandala, alle visualizzazioni e ai gesti rituali per comunicare lo stato di buddha e raggiungerlo. Tutto questo può solo essere appreso con un maestro, rendendo queste dottrine “esoteriche”, cioè per iniziati. La figura centrale di questo tipo di buddhismo in Giappone è Dainichi Nyorai, il primo buddha ad averlo predicato.

Il buddhismo, nato in India intorno al V secolo a.C., giunse in Giappone solo nel VI secolo d.C., dopo un viaggio di oltre 1.000 anni e 5.000 chilometri. Attraversando secoli e civiltà, assorbì elementi delle culture con cui entrò in contatto e venne interpretato in modi diversi, portando alla formazione di più “scuole”. Quando sbarcò in Giappone, l’aristocrazia lo vide soprattutto come uno strumento per governare il paese, per compiere riti protettivi e per partecipare alla più ampia e sofisticata scena culturale del continente.

Fin dagli inizi il buddhismo, che arrivava già permeato da secoli di convivenza con confucianesimo e taoismo, si mescolò anche con lo shintoismo. Le due religioni, non essendo “esclusiviste” come i grandi monoteismi mediorientali, vissero in simbiosi fino a fine Ottocento. In particolare, come aveva già fatto con le divinità induiste (Un Nio, guardiano dei templi è un esempio di divinità induista incorporata nel buddhismo), il buddhismo integrò i kami shintoisti nella propria sfera. Inizialmente questi erano visti come creature soggette alla reincarnazione, e che quindi andavano liberate. In seguito vennero considerati manifestazioni di buddha o bodhisattva.

Già il principe Shōtoku, nel VII secolo, aveva cercato di amalgamare shintoismo, confucianesimo e buddhismo definendoli rispettivamente le radici, il tronco e i fiori del sistema religioso giapponese.
La fusione tra buddhismo e shintoismo venne messa in crisi a fine Ottocento, quando il governo ordinò la separazione dei due culti. Ne seguì un movimento a volte anche violento di discriminazione, espropriazione e chiusura dei templi. Questa politica, però, fu perseguita solo parzialmente.

Ai giorni nostri, anche se templi buddhisti e santuari shintoisti sono distinti, le pratiche religiose dei giapponesi mescolano varie tradizioni. Molti si definiscono “atei” proprio perché l’idea di “religione” è occidentale. Evoca riti strutturati e coerenti, mentre per un giapponese è normalissimo andare a un tempio shintoista a Capodanno o prima di un esame e visitare le tombe dei propri cari in un cimitero buddhista. Le usanze e credenze quotidiane hanno attinto da tutte le religioni disponibili (buddhismo, shintoismo, confucianesimo, taoismo) e non sono più identificate in nessuna di queste singolarmente.  

C'è il Buddhismo basato sul jiriki. Per le scuole di questo gruppo, la salvezza si può raggiungere con le proprie forze, grazie ad autodisciplina e meditazione.
Poi ci sono le scuole esoteriche/tantriche. Infatti in un primo periodo il buddhismo si legò principalmente alla corte, dove si diede maggiore enfasi ai riti e alle formule magiche.

Nel periodo Heian (794-1185) nacquero due scuole importanti, che ebbero un ruolo fondamentale nell’armonizzare shintoismo e buddhismo:

  • La scuola Tendai: si basa sul Sutra del Loto e sull’idea che tutto e tutti siano illuminati in potenza, perché ogni cosa ha una natura di Buddha. In questo senso è il connubio perfetto per l’animismo dello shintoismo. La scuola Tendai cerca di arrivare a una sintesi delle correnti buddhiste capendo l’unità che le accomuna. Nell’Enryaku-ji, il monastero sede del movimento, si insegnavano elementi di venerazione di Amida (tipici della scuola Jōdō), meditazione, pratiche esoteriche e precetti dei bodhisattva. Il tempio, situato sul monte Heian, vicino a Kyoto, divenne uno dei centri di formazione buddhista più importanti dell’epoca: lì studiarono i fondatori di molte delle principali correnti buddhiste successive.
  • La scuola Shingon (“Vera Parola”): venne introdotto da Kūkai, anche noto come Kōbō Daishi. È una scuola più prettamente esoterica che mescola a componenti native elementi magici indiani e dell’Asia Centrale. Uno di questi è il rituale del goma, un fuoco sacro in cui vengono bruciate le offerte e che ha radici negli antichi riti vedici indiani. Il tempio Kongobuji è il tempio principale della corrente Shingon.

Lo zen. Zen è la traslitterazione abbreviata del sanscrito dhyāna, che significa “meditazione”. Anche il buddhismo zen è arrivato in Giappone dalla Cina, dove era noto come Chán ed era stato introdotto nel VI secolo d.C. dal leggendario monaco Bodhidharma. In Cina questa dottrina si stabilizzò e, come sempre succede, assimilò alcuni elementi locali, in particolare taoisti.
Questa scuola arrivò in Giappone solo nel XII secolo, e i suoi rami principali (Rinzai e Sōtō) sono stati fondati da ex monaci Tendai.
Secondo il buddhismo zen, siamo tutti buddha in potenza, dobbiamo “solo” accorgercene risvegliandoci.
La verità, però, non si può insegnare o comunicare a parole: va vissuta personalmente e direttamente. Il risveglio (satori) non è una questione di studio o di ragionamento, ma un’intuizione. Lo strumento principale di cui ci si serve è lo zazen (meditazione da seduti). Nella scuola Rinzai, a questo si affiancano anche i kōan, delle specie di indovinelli che non possono essere risolti con la logica (“Che rumore fa una mano che applaude da sola?”).

Come abbiamo visto, lo zen, come tutto il buddhismo in Giappone, è stato un vascello che ha fatto arrivare nel Paese molti elementi estetici e artistici dalla Cina. Anche se la religione ha avuto un ruolo determinante nella loro introduzione e diffusione, è molto riduttivo ritenerli una sua emanazione o un suo prodotto.  Il ruolo centrale dello zen nell’arte (comprese le arti marziali), nelle discipline e nelle anime dei giapponesi è in buona parte un’interpretazione nata all’inizio del Novecento. In Occidente Suzuki Daisetsu è stato il più famoso promotore di queste idee.

Buddhismo basato sul tariki.
È il gruppo di cui fanno parte le scuole più seguite in Giappone. Per le dottrine di questo gruppo, la salvezza si raggiunge solo con la fede, affidandosi alla benevolenza e al potere di un Buddha (solitamente Amida).
Per capire le motivazioni di questa scuola bisogna guardare il periodo storico: dopo anni in cui i monaci buddhisti erano coinvolti in episodi di corruzione e complotti politici, nel XII secolo si era aperta un’epoca di guerre, calamità e carestie. Sembrava, insomma, che fosse giunta l’era del Mappō, o della degenerazione della legge del Buddha, in cui il mondo diventa così corrotto che la gente non può più mettere in pratica gli insegnamenti buddhisti e non può salvarsi con le proprie forze. In tempi così infausti, l’unica speranza era affidarsi ad Amida.

Questo fu anche il periodo in cui il buddhismo si diffuse alla popolazione: erano quindi necessari approcci più semplici, invece di riti e dottrine complicate. Come abbiamo visto, una delle soluzioni che si svilupparono fu lo zen, basato sul jiriki.

Tra le principali scuole basate sul tariki, invece, troviamo:

  • - Jōdō-shū (Scuola della Terra Pura): fondata in India intorno al I-II secolo d.C., in Giappone faceva originariamente parte della scuola Tendai, da cui si separò nel periodo Kamakura (XII secolo). Il nome si riferisce al “Paradiso Occidentale” in cui i credenti rinascono dopo la morte. Lì, ad aspettarli, ci sarà il Buddha Amida (l’ex monaco indiano Dharmakara) che li aiuterà a raggiungere il nirvana. L’obiettivo, quindi, attraverso la fede e le buone azioni, non è raggiungere direttamente il nirvana, ma rinascere in questo paradiso. Non è importante studiare i sutra o meditare, quanto piuttosto dimostrare la propria devozione con il nembutsu, cioè evocando il nome del Buddha Amida.
  • - Jōdō Shinshū (Vera Scuola della Terra Pura): è una versione più “radicale” della precedente. Rifiuta tutti i sutra a parte quello della Terra Pura e toglie ogni valore ai “meriti” individuali per rinascere nel paradiso. Le pratiche e le azioni sono inutili perché denotano una mancanza di totale affidamento e non sono accessibili a tutti. L’unico modo per salvarsi è la fede assoluta, l’abbandono ad Amida.  Il Grande Buddha di Kamakura (una città giapponese sul mare a sud di Tokyo) rappresenta Amida, la figura principale del buddhismo della Terra Pura.  Il Buddhismo della Terra Pura, la cui corrente principale, maggioritaria e diffusa è nota anche come amidismo, è un ramo del buddhismo Mahāyāna, che enfatizza i rituali e le pratiche devozionali, ed è attualmente una delle scuole di buddhismo dominanti nell'Asia orientale, dove divide la scena con lo zen.

Poi c'è la scuola di Nichiren: questa scuola prende il nome dal suo fondatore, anche lui formatosi nella scuola Tendai. Rappresenta una via di mezzo tra l’approccio jiriki e quello tariki. Secondo Nichiren, che si considerava un bodhisattva, il Sutra del Loto era l’insegnamento supremo e l’unica via per la salvezza. In questo era intransigente, e denunciò le altre correnti buddhiste per avere travisato la verità.  Le due pratiche religiose principali sono la contemplazione di una specie di mandala da lui concepito (honzon) e la ripetizione, sia vocale che nei gesti, della lode al Sutra del Loto (Namu Myōhō renge kyō). Da questa scuola hanno avuto origine molte “nuove religioni” giapponesi, tra cui la controversa Soka Gakkai, un movimento nato nel 1930 che dichiara di avere 12 milioni di fedeli nel mondo. È centrata anch’essa sul Sutra del Loto, e fino al 1991 era il braccio laico della scuola Nichiren Shōshū. Nel 1964 alcuni suoi membri hanno fondato un partito politico, il Kōmeitō, che è il terzo partito del Giappone.

Dal sito:  https://volcanohub.com/ 

mercoledì 6 marzo 2024

Relazioni ...

Le relazioni interpersonali sono un momento fondamentale della pratica. Essere presenti nelle relazioni è difficile, ma allo stesso tempo nutriente, sia per noi stessi che per gli altri.

Spesso manchiamo di coerenza nelle nostre relazioni, tanto che finiamo per sviluppare la sindrome "molte relazioni, nessuna relazione".
Avere molte relazioni può sembrare una grande apertura interpersonale, mentre in realtà è una fuga da una vera relazione.

Le relazioni sono un potente mezzo di purificazione mentale, e come dice Krishnamurti: "La relazione è un processo di auto-rivelazione, ci rivela a noi stessi".

Dobbiamo scegliere a chi dedicare la nostra attenzione e farlo in profondità.


lunedì 4 marzo 2024

Teosofia e buddhismo. - H. P. Blavatsky

In questo articolo (Les Cahiers Theosophiques N. 111 ) H. P. Blavatsky asserisce che il Buddhismo e la Società Teosofica hanno delle dottrine identiche, uno stesso scopo, e si rifanno a una sorgente comune. Questa sorgente che è orientale, è pienamente messa in luce dalle ricerche dei sapienti e dalla pubblicazione di testi originali. https://www.theosophie.fr/cahiers-theosophiques/                              https://www.theosophie.fr/cahiers-theosophiques-66-a-125/

La prima parte dell’articolo è consacrata alla biografia del principe Sakyamuni, a una corta esposizione e a un riassunto storico del buddhismo fino all’era cristiana. Parla del Nirvana asserendo che non vuole dire annichilazione e che l’idea del nulla è assolutamente estranea all’India, che l’obiettivo del Buddha fu di sottrarre l’umanità alle miserie della vita terrestre e ai suoi ritorni alterni. La parola Nirvana vuole dire estinzione, per esempio di una lampada sulla quale si soffia, ma vuole anche dire assenza di vento.
Presso i bramani, il prete è il mediatore tra l’uomo e la divinità, trasmette a Dio l’offerta e l’adorazione dei fedeli; Dio in ritorno concede le sue grazie e i suoi aiuti nella vita; nel giorno della morte, Dio riceve i fedeli tra gli eletti. Per far si che questo scambio sia possibile, è necessario che Dio sia concepito come un essere individuale, come una persona, in qualche modo come il re dell’universo, distribuendo il suoi favori secondo la sua volontà, senza dubbio anche secondo giustizia  … niente di simile c’è nel Buddhismo.  Dato che non c’è un Dio personale, non ci sono santi-sacrifici, non ci sono intermediari …                Questo Buddha non è un dio che si implora; fu un uomo  che arrivò al grado supremo di saggezza e virtù Quanto alla natura del principio  assoluto delle cose, che le altre religioni nominano Dio, la metafisica buddhista la concepisce in un’altra maniera e non ne fa un essere separato dall’universo …  In secondo luogo, il Buddha aprì la sua chiesa a tutti gli uomini, senza distinzione di origini, di casta, di patria, di colore, di sesso: “la mia legge, diceva, è una legge di grazia per tutti”. Era la prima volta che appariva nel mondo una religione universale.  Fino a quel tempo, ogni Paese aveva la propria, da dove gli stranieri erano esclusi. Si può sostenere che nei primi anni della sua predicazione, il riformatore non ebbe in vista la distruzione delle caste, ma l’uguaglianza degli uomini fu una delle basi della sua dottrina; i libri buddhisti sono pieni di dissertazioni, di recite e di parabole il cui scopo è di dimostrala. La libertà ne era la conseguenza.  Non si nasceva buddhista, lo si diventava per scelta volontaria e dopo una specie di stage che il richiedente doveva seguire. Una volta membro della Comunità, non si distingueva più dagli altri fratelli; l’unica superiorità che si poteva acquisire era quella della scienza e della virtù … Questo amore reciproco, questa fraternità, si estendeva alle donne e faceva della Comunità una sorta di famiglia.  Comparando la vita di Cristo con quella di Buddha, si vede che le loro biografie si dividono in due parti, la leggenda ideale e i fatti reali. La parte leggendaria è identica nelle due. E' soltanto al concilio di Nizza che il Cristianesimo rompe ufficialmente con il buddhismo; tuttavia è durante il concilio che prende piede la formula; “ Buddha, Dharma, Sangha".
 I manichei  e i cristiani derivano la loro dottrina dal Buddhismo, di conseguenza una lotta mortale si creò tra di loro, quando la chiesa cristiana prese corpo e pretese di possedere sola ed esclusivamente la verità.   La persecuzione fu terribile nei confronti del manicheismo e ci furono degli attacchi anche nei confronti dei teosofi. Nessuna società è stata più ferocemente calunniata e perseguitata dall’odio teologico, che l’associazione teosofica e i suoi fondatori, dopo che le chiese cristiane si sono ridotte a non impiegare altre armi che il linguaggio. E "L’elemento buddhista del cristianesimo è rimasto velato”.
Uno dei fenomeni più interessanti, se non tra i più inattesi, è il tentativo fatto di costituire nel mondo una società nuova, appoggiata sugli stessi fondamenti del buddhismo.
Benchè agli inizi, la sua crescita non fu rapida, si diffuse senza rumore e senza violenza. Non  aveva nemmeno un nome definitivo, suoi membri si raggruppavano sotto nomi orientali, messi nelle testate delle loro pubblicazioni: Isis, Lotus, Sfinx, Lucifero. Il nome comune che prevalse fu quello di Società Teosofica.
Questa società fu fondata nel 1875, a New York, da un piccolo gruppo di persone, inquiete della rapida decadenza delle idee morali nell'era presente. Questo gruppo si chiamò: “Società teosofica ariana di New York”,  L’epiteto di ariano indicava che la Società si separava dal mondo semita, e soprattutto dai dogmi ebrei. Uno dei principi della società era la neutralità in materia di sette, e la libertà dello sforzo personale verso la scienza e la virtù.
La società non ha né finanziamenti, né padroni, agisce con le sole risorse eventuali. Non ha niente di mondano, non ha alcun spirito settario, non ha nessun interesse, Si è data un ideale morale molto elevato, combattere il vizio e l’egoismo. Tende all’unificazione delle religioni, che considera come identiche nella loro origine filosofica, ma riconosce la supremazia della verità. Il Lotus, la rivista mensile che pubblicva a Parigi ha preso per epigrafe il motto sanscrito del Maharaja di Benares: “Satya nasti paro dharmah, non c’è religione più elevata della verità”.
Con questi principi e nel tempo in cui nacque, la società non poteva imporsi delle più cattive condizioni di esistenza. Tuttavia si è sviluppata con una stupefacente rapidità. In America le varie anime della società si sono federate intorno a una di esse, la sezione di Cincinnati.
Visto il secondo oggetto che si propone l’associazione è lo studio delle letterature, delle religioni, delle scienze ariane e orientali, e che una parte dei suoi membri persegue l’interpretazione degli antichi dogmi mistici e delle leggi inesplicabili della natura, si potrebbe vedere in essa una specie di accademia ermeneutica. Una dichiarazione pubblicata nelle rivista Lucife recitava:  “Non è teosofo chi non pratica l’altruismo; chi non è preparato a condividere il suo ultimo pezzo di pane con il più debole o più povero di lui, chi neglige di aiutare l’uomo, suo fratello, quale che sia la sua razza, sua nazione e la sua credenza, in qualche luogo o qualche tempo  dove lo vede sofferente, e fa le orecchie sorde al grido della miseria umana, chi sente calunnaire un innocente, teosofo o no, senza prendere la sua difesa, come lo farebbe per lui stesso”. 

Questa dichiarazione è puramente buddhista, le pubblicazioni pratiche della società sono dei libri buddhisti tradotti o delle opere originarie ispirate dall’insegnamento del Buddha. La Società ha dunque un carattere buddhista. Il buddhismo vero e originale non è una setta o una religione, è piuttosto una riforma morale e intellettuale, che non esclude nessuna credenza, ma non ne adotta nessuna. E’ quello che fa la Società Teosofica.
Il buddhismo primitivo è questa magnifica fioritura di virtù, di purezza e di amore di cui il Buddha getta le semenze sul suolo dell’India. Il codice di morale stabilito dal Buddha è il più grande tesoro che sia stato donato all’umanità, questa religione, o piuttosto questa filosofia, si avvicina alla verità o scienza segreta, molto di più che qualsiasi altra forma o credenza esoterica. Noi non possiamo proporre un ideale morale più elevato che questi nobili principi di fraternità, di tolleranza e di distacco, e la morale buddhista rappresenta quasi la morale teosofica. In una parola, non potremmo che onorarci chiamandoci buddhisti, se noi non avessimo l’onore di essere teosofi.

Ma la società Teosofica si difende seriamente, e non soltanto per la forma, dal fatto di essere stata creata “per propagare i dogmi del Buddha”.  La nostra missione non è di propagare il buddhismo; noi siamo indipendenti da qualsiasi formula, da qualsiasi rituale, da qualsiasi esoterismo. I presidenti della Società si sono dichiararsi personalmente buddhisti, e questo glielo abbiamo abbastanza rimproverato, uno di essi ha consacrato la vita alla rigenerazione di questa religione nella sua terra di origine. Ma questo non impegna il corpo teosofico come tale, nei confronti del buddhismo.

Il Buddhismo attuale ha bisogno di essere rigenerato, sbarazzato di tutte le superstizioni e di tutte le restrizioni che lo hanno invaso come delle erbe parassite, noi avremo gran torto di fare un innesto di una gemma giovane e sana su un ramo che ha perduto la sua vitalità, benchè sia meno secco degli altri ramoscelli. E’ infinitamente più saggio andare subito alle radici, alle sorgenti pure e inalterabili dove il buddhsimo ha tratto la sua potente caratteristica. Noi possiamo rischiararci direttamente alla pura “Luce dell’Asia”; perché ci soffermeremo nella sua ombra deformata? Malgrado il carattere sintetico e teosofico del buddhismo primitivo, il buddhismo attuale è diventato una religione dogmatica e si è diviso in sette numerose e eterogenee.  

La  posizione essenziale della società teosofica è quella di affermare e di mantenere la verità comune a tutte le religioni, la vera verità, che non hanno potuto sporcare le invenzioni, le passioni, né i bisogni dell’età. Pretendere di reinstallare la religione del Buddha sulle rovine di quella di Gesù, questo sarebbe dare all’albero morto il sostegno di un bastone secco. La nostra stessa critica ci avverte che l’umanità è stanca delle parole come Dio, religione. Notiamo, a tal proposito, che il termine teosofia, che significa saggezza divina, non implica necessariamente la credenza di un Dio personale. 

No, il sangha dei buddhsiti non può essere ristabilito nella nostra civilizzazione. Quanto al Buddha lui-stesso, noi lo veneriamo come il più grande saggio e il più grande benefattore dell’umanità, e noi non perdiamo nessuna occasione di rivendicare i suoi diritti all’ammirazione universale. Ma in presenza di questa legge terribile che fa sempre degenerare l’ammirazione in adorazione  e questa in superstizione, in presenza di questa cristillazione disperante  che si opera nei  cervelli disposti all’idolatria e ne esclude tutto quello che non è l’idolo, sarebbe saggio di reclamare per il fratello maggiore di Gesù il posto stretto dove questo ultimo subì un culto sacrilego? 

Purtroppo, può essere che ci siano degli uomini assai egoisti per non sapere amare che un essere, abbastanza servili per non volere servire che un maestro alla volta!
Resta dunque il Dharma: noi abbiamo detto in quale alta stima noi teniamo la morale buddhista. Ma la Teosofia si occupa di altre cose che di regole di comportamento: realizza questo miracolo di poter riunire una morale pre-buddhista a una metafisica pre-vedica e a una scienza pre-ermetica.         
Lo sviluppo teosofico  fa appello a tutti i principi dell’uomo, alle sue facoltà intellettuali come alle sue facoltà spirituali.
I buddhisti possono accontentarsi della lettera morta delle dottrine di Siddhartha Buddha, in quanto fino a quel giorno, non ce n’é di più nobile, fortunatamente; non c’è qualcuno che possa produrre degli effetti più importanti sull’etica delle masse.  C’è comunque una dottrina esoterica, una filosofia che nobilità l’anima, dietro il corpo esteriore del buddhismo ecclesiastico. 

I tre oggetti del programma teosofico possono essere riassunti da tre parole Amore, Scienza, Virtù, e ciascuno è inseparabile dagli altri due.  Rivestita da questo triplice protezione, la società teosofica compirà il miracolo e abbatterà i dragoni della lotta per l’esistenza.
La salvezza è nell’indebolimento del senso di separazione tra le unità che compongono il tutto sociale, e questo risultato non può essere raggiunto che per un procedimento di illuminazione interiore. La violenza non assicurerà mai il pane e il conforto per tutti, e non è nemmeno attraverso una fredda politica di ragionamento diplomatico che sarà conquistato il regno di pace e amore, di aiuto reciproco e di carità universale, la terra promessa dove ci sarà “ del pane per tutti”. Quando si comincerà a comprendere che è precisamente l’egoismo personale e feroce,  la sola causa della miseria umana, che è ancora l’egoismo nazionale questa volta, e la vanità dello Stato, che provocano i governi e gli individui ricchi a nascondere degli enormi capitali e a renderli improduttivi erigendo delle splendide chiese e mantenendo un numero di vescovi pigri, veri parassiti delle loro truppe; allora solamente l’umanità proverà di rimediare al male universale con un cambiamento radicale di politica. 

Questo cambiamento, solo le dottrine teosofiche possono compierlo pacificamente.  Questo per l’unione stretta e fraterna dei Sé superiori degli uomini, per la crescita della solidarietà d’anima, per lo sviluppo di questo sentimento che ci fa soffrire pensando alle sofferenze altrui, che potrà essere inaugurata la regola dell’uguaglianza e della giustizia per tutti, e che si stabilirà il culto dell’amore, della scienza e della virtù, definito in questo ammirabile assioma “Non c’è religione più elevata della verità”. 

lunedì 29 gennaio 2024

Giuseppe Giovanni Lanza del Vasto - servitore di pace

Lanza del Vasto (1901-1981), poeta, pellegrino, patriarca, profeta, sembra aver vissuto molte vite in una sola.  La sua vita, così come il suo pensiero, comprende e unisce fra di loro universi molto differenti: poesia, metafisica, scultura, musica medievale, vita comunitaria, lavoro manuale, azione non-violenta.     Nato in una famiglia aristocratica dell’Italia meridionale, Lanza studia a Parigi, poi a Firenze e a Pisa dove, nel 1928, consegue la Laurea in Filosofia. Dotato di notevoli capacità intellettuali, ma anche di intenso gusto per la vita, esita fra dedicarsi alla carriera universitaria o dedicarsi all’arte. Frequenta scrittori ed artisti del suo tempo, instaura una forte amicizia con Luc Dietrich (un giovane scrittore francese che ebbe una vita breve e tormentata).         

Gli  anni centrali della sua vita sono difficili da riassumere per la ricchezza di incontri e di viaggi che racchiude. Da solo e a piedi egli percorre l’Italia e la Grecia, va in pellegrinaggio fino a Gerusalemme, soggiorna a Firenze, Berlino, Roma, Parigi, Marsiglia.
Sempre perseguendo il suo progetto di sistema filosofico, egli continua a elaborarlo e ne parla con alcuni noti intellettuali : Gabriel Marcel, Maurice de Gaudillac, Simone Weil…

Ben presto il desiderio di “guardare il mondo negli occhi” lo induce però a lanciarsi verso altri e più distanti orizzonti. In India, che percorre da Ceylon all’Himalaya, il poeta filosofo diventa vagabondo e Pellegrino. Lanza va in India per imparare a “divenire migliore cristiano”, non per esotismo orientale, e la non-violenza gli appare come la traduzione sociale e politica delle Beatitudini.

Il punto centrale del viaggio è rappresentato dal suo incontro decisivo con Gandhi nel 1937, il quale gli dona un nuovo nome: Shantidas, servitore di pace. Da quel momento in poi tutta la sua vita sarà segnata dalla non-violenza, non quale semplice ideale morale, ma come leva per una trasformazione spirituale e sociale. Sulle pendici dell’Himalaya egli sente una  chiamata a far conoscere questo messaggio in Occidente.

Di ritorno in Francia, nel 1938, egli si trova avvolto dalla barbarie della Guerra e scrive “Le Pèlerinage aux Sources" (Pellegrinaggio alle Sorgenti), diario del suo viaggio, che viene pubblicato nel 1943, rendendolo famoso. Nel 1944 alcune persone cominciano a riunirsi in rue Saint-Paul, a Parigi, per ascoltarlo commentare i Vangeli. 

Il suo grande progetto è quello di fondare un “Ordine gandhiano d’Occidente” di ispirazione cristiana, aperto ad ogni uomo di buona volontà. Ma gli anni della guerra lo costringono ad avere pazienza. Nel 1948 fonda la “Comunità dell’Arca”, alla quale dedicherà I suoi successivi trentatre anni di vita, portando nel mondo intero un messaggio di saggezza e di pace. Muore in Spagna il 5 gennaio 1981, nel suo ottantesimo anno...

https://www.lanzadelvasto.com/it/  Libri:   Che cosa è la nonviolenza;  Pellegrinaggio alle sorgenti; L'arca aveva una vigna per vela.

sabato 30 dicembre 2023

A nous la liberté! (1): Comment se libérer de nos peurs, de nos préjugés, de nos dépendances.

A nous la liberté è un  testo del 2019 scritto da di Christophe André , Alexandre Jollien, Matthieu Ricard.                                

Essere liberi: la grande sfida della vita Come progredire verso la libertà interiore, quella che ci permette di affrontare con serenità gli alti e bassi della vita e di liberarci dalle cause della sofferenza? Fin dall'infanzia siamo ostacolati da paure, pregiudizi e mille condizionamenti che ci impediscono di essere felici. Intraprendere l'avventura della libertà interiore significa disfare una per una tutte queste sbarre, quelle che abbiamo forgiato noi stessi e quelle che ci sono state imposte dalla società della prestazione, del consumismo e della competizione. Questo libro, scritto a tre voci da uno psichiatra, un filosofo e un monaco, ci invita a intraprendere un viaggio gioioso per liberarci dalle nostre prigioni e avvicinarci agli altri.     

C.A. Tutte le perdite di libertà esterne hanno origine dalla perdita di libertà interiore: le nostre sofferenze e paure sono le prigioni invisibili da cui abbiamo fatica a uscire. La malattia non è la sola causa delle restrizioni alla nostra libertà, la vita quotidiana ci tende una serie di tranelli, noi consacriamo le nostre energie mentali e fisiche a dei compiti triviali, a volte necessari, negligiando quello che dà un senso alla nostra vita. Dovremmo riuscire a trovare tempo per portare la nostra attenzione sulla natura,  riflettere sui nostri ideali, meditare sulla gratitudine e la compassione. Questa libertà di scegliere di restare un essere umano e non di trasformarsi in lavoratore-consumatore, è una libertà interiore che devo far vivere dentro di me.

M.R. la libertà esteriore e interiore, come la salute fisica e mentale, si influenzano reciprocamente. Ci sono individui che vivono in condizioni esteriori favorevoli, e che sull'intero si sentono prigionieri del loro mentale e ci sono eremiti che sprigionavano una grande libertà interiore e vivevano in caverne. Il medico del Dalai Lama Tenzin Choedrak è riuscito a trovare in una forma di libertà interiore la forza di sopportare la prigione e la tortura.

C.A. Quello che può  aiutarci è coltivare in noi le capacità di ammirazione per queste persone, vedere quello che gli altri esseri ordinari o eccezionali, possono insegnarci e dire che se riuscissimo a compiere anche un piccolo tratto del loro cammino, sarà  già  passionale e liberatorio.

A.J.  Avere come obiettivo la libertà interiore, il lavoro su se stessi,  non deve distogliere da un sano impegno per un mondo più giusto, ugualitario e più generoso. E' più facile forse lavorare su se stessi che affrontare una malattia grave, o restare senza risorse economiche.

C.A. Mi credo libero, penso di essere libero, Ma siamo veramente liberi? Spinoza dice che gli uomini si ingannano credendosi liberi. Andrè-Compe-Sponville dice: "Non si nasce liberi, ma lo si diviene, e non è mai finita".  Quello che mi rallegra è  di sapere che mi sono liberato di un'inqietudine, di una dipendenza, di un'abitudine. Importante è lavorare sulle proprie libertà, conservare la lucidità sulle zone di non libertà (abitudine o condizionamenti) e gioire di essere in vita.

M.R. Molte persone seguono il loro train-train quotidiano senza cercare di liberarsi dal loro condizionamento, ne cercare di liberarsi sulle cause della loro sofferenza.

C.A. Nella vita ci sono molti obblighi e doveri, come di guadagnare per vivere, ma anche queste situazioni possiamo viverle diversamente. Per esempio, la sera, dopo una giornata di lavoro, un paziente mi chiama, la prima reazione è dire che mi pesa  e non mi sento libero. Importante è avere una libertà interiore nel compiere degli atti che hanno un senso, anche se non hai scelto. Ossia mettere gioia e libertà in una situazione in cui non hai liberamente scelto di impegnarti. Quindi pensi "è  importante per quella persona che la richiamo",  "se la richiami, fallo con gioia"."cerca di essere veramente presente".

M.R. Sforzandosi di conquistare la nostra libertà esteriore e di contribuire a quella di altri, non dobbiamo negligiare di progredire sulla strada della libertà interiore, che ci permetterà di affrontare gli alti e bassi dell'esistenza, e alla fine del cammino liberarci della sofferenza e delle sue cause.

Capitolo. 1  Acrasia. 

A.J.  Acrasia, o debolezza della volontà. In altre parole non faccio il bene che voglio, e faccio il male che non voglio fare, la nostra impotenza a cambiare le cose, può portare all'alcolismo e alla tossico dipendenza, si può trovare un parallelismo con la persona che vede aprirsi davanti a sè un abisso che separa, da una parte, il suo ideale di vita, le sue convinzioni e le sue aspirazioni  e dall'altra parte comportamenti e atti; da qui la necessità di una pacificazione interna.

C.A  Acrasia designa l'incapacità di mantenete i nostri impegni e risoluzioni (quelli fattibili nelle condizioni attuali). Voglio, posso, ma non lo faccio. Siamo spesso acrasici per incapacità ad affrontare una difficoltà, o per abitudine.

M.R. Acrasia corrisponde alla terza firma di pigrizia, 1 - fare il meno possibile, 2- rinunciare prima di cominciare, 3- sapere cosa è essenziale, e fare mille cose per evitare di farlo. Cedere alle tentazioni è facile, per liberarsene è necessario un grande sforzo.

C.A. ho la sensazione che le società contemporanee, potrebbero essere qualificare acrasiogene, per le loro contraddizioni, da una parte ci mandano una serie di informazioni necessarie per stare bene e dall'altra lasciamo le aziende sommergerci di tentazioni (consumare cattivo cibo, alcol,  sesso e tabacco). Non ho mai capito come è possibile che lo Stato permetta di vendere alcool alle stazioni di benzina sulle autostrade.  Risolvere questi conflitti è difficile: da una parte devi bloccare certi atteggiamenti (mangiare meno, bere meno) e dall'altra forzarsi a sviluppare altri comportamenti ( mangiare legumi, essere benevolente, coltivare pensieri ottimisti). Meno è più - coinvolgono dei circuiti celebrali diversi. Vedi gli studi di Olivier Houdé, prof. alla Sorbona. Per evolvere la nostra capacità di giudizio e i nostri comportamenti, dobbiamo attivare certe capacità, flessibilità, logica, distacco e inibirne altre come automatismi, pregiudizi, ecc. 

A.J.  credere di poter cambiare le nostre abitudini a 180 gradi batrendo le mani è un'illusione, perché non accettare con umiltà le nostre debolezze, le nostre ferite, le nostre mancanze.

M.R. non serve a niente dare lezioni agli altri  se noi stessi non abbiamo questa libertà interiore. Non poter fare una cosa è diverso da non volere. A volte è necessario procedere con gradualità.

A.J. dovremmo liberarci, con forza e energia,  delle nostre abitudini  e condizionamenti. E' un lungo cammino, la volontà indica il cammino, ma non è il motore, non dovremmo darci degli obiettivi, ma non dovremmo volere troppo.

M.R.  le nostre motivazioni sono la barra del battello, e determinano la direzione del nostro percorso, la volontà è il vento che gonfia le vele e ci permette di arrivare al buon porto.

A.J. Quando siamo stanchi di nuotare nell'oceano dell'esistenza, è importante la presenza, l'incontro con il saggio per rianimarci, senza rimproveri.

C.A. ho spesso la sensazione che il sentimento che ci porta all'acrasia non è la mancanza di volontà ma l'intolleranza all'incertezza, alla sofferenza. Spesso quando si apprende di avere una malattia grave ci facciamo prendere da scenari negativi (non ne uscirò, ecc ). In questo caso, occorre rimanere calmi, aspettare che passi, e cercare di mantenere la direzione...

A.J. una volta una amica di Matthieu, mi ha detto "è un bordello, ma non c'è problema", e questa frase me la ripeto come un mantra. Ci sono due tipi di sofferenze: terremoti, malattie, morte, handicapp e una serie di psicodrammi costruiti dall'ego.

M.R.l'Acrasia è anche legata a una mancanza di coerenza, a una dissonanza cognitiva tra i nostri ideali, i nostri valori e i nostri comportamenti ( vedi i politici, ecc). Il Buddha ci ha indicato il cammino, ma siamo noi che dobbiamo percorrerlo. Il saggio è una specie di polo magnetico per la bussola di quelli che lo incontrano. Qualcuno afferma che non è possibile cambiare, ma le neuroplasticità ha confermato la capacità del cervello di cambiare a tutte le età, quindi possiamo sviluppare capacità umane essenziali come l'attenzione, l'equilibrio emotivo e la benevolenza in qualsiasi momento. In ogni caso senza allenamento continuo  non ci sarà nessun cambiamento. L'esperienza mostra che persone partite da uno stato di insoddisfazione sono arrivate a una grande libertà interiore, e dei saggi gioiscono di una libertà interiore irreversibile. Queste testimonianze mostrano che la trasformazione è possibile, occorre adottare un atteggiamento positivo, ho dei punti deboli,  esistono opportunità per migliorare.

venerdì 29 dicembre 2023

A nous la liberté! (2) Comment se libérer de nos peurs, de nos préjugés, de nos dépendances.

A nous la liberté è un  testo del 2019 scritto da di Christophe André , Alexandre Jollien, Matthieu Ricard.                                   

Essere liberi: la grande sfida della vita Come progredire verso la libertà interiore, quella che ci permette di affrontare con serenità gli alti e bassi della vita e di liberarci dalle cause della sofferenza? Fin dall'infanzia siamo ostacolati da paure, pregiudizi e mille condizionamenti che ci impediscono di essere felici. Intraprendere l'avventura della libertà interiore significa disfare una per una tutte queste sbarre, quelle che abbiamo forgiato noi stessi e quelle che ci sono state imposte dalla società della prestazione, del consumismo e della competizione. Questo libro, scritto a tre voci da uno psichiatra, un filosofo e un monaco, ci invita a intraprendere un viaggio gioioso per liberarci dalle nostre prigioni e avvicinarci agli altri.     

 Essere dipendenti.  

 C.A. E' non poter più fare a meno di una sostanza  di un rapporto, di un comportamento. La dipendenza tossica riduce considerevolmente la nostra libertà,  il dipendente vive nell'attesa di ripetere l'esperienza, subisce un impoverimento della visione dell'esistenza. E' l'alienazione suprema, sa cosa dovrebbe fare, ma è impossibile farlo.  Ho fatto un'esperienza con un videogioco dove ho constatato che la perdita di libertà può manifestarsi anche in persone equilibrate e felici. Lo slogan "è più forte di te!"

M.R. La volontà del dipendente è indebolità, e con esso anche la capacità di cambiamento e la parte del cervello chiamata ippocampo.

C.A. Per cambiare occorre tempo, in quanto le nostre abitudini sono impresse nei circuiti neuronali, e occorre riconfigurarli. Ai progressi spesso segue una ricaduta.Tutti i cambiamenti,  anche emotivi, al 90% sono il frutto di un lavoro costante, regolare e paziente. C'è la dipendenza anche alla ruminazione e al lamentarsi e non fare sforzi per cambiare.

M.T. Eckhart Tolle lo chiama il corpo di sofferenza, quando l'ego fallisce nella sua ricerca di trionfo, si ricostituire un'identità diventando una vittima. Si cristallizza una nuova forma di esistenza e la distinzione tra me e l'altro, si dice tutti sono contro di me, si costruisce una nicchia dove può darsi una nuova identità a cui aggrapparsi.

C.A. Può succedere che una persona è arrivata al fondo, e accade un evento che produce uno stato di risveglio particolare.

M.R. Per uscire da una dipendenza, si può usare come strategia di contrapporre qualcosa di incompatibile. Per esempio mio padre alla dipendenza all'alcol contrapponeva il desiderio di scrivere.  Posso desiderare in modo malato qualcosa o qualcuno senza riceverne alcun piacere.

C.A. La dipendenza affettiva è un bisogno normale di cui perdiamo il controllo. Non esiste una persona perfettamente autonoma e indipendente sul piano affettivo, e bisogna aggiungere che gli esseri umani sono animali sociali. Noi non esitiamo a condividere tutto con una sola persona, ma abbiamo diverse figure di riferimento. Dovremmo amarci e aiutarci reciprocamente, ma senza soffocare gli altri. Se abbiamo una sola figura di riferimento diventa una dipendenza. I vantaggi sono ricevere amore e sicurezza, gli svantaggi perdita della libertà e dell'abbandono.

M.R. La pienezza, non significa essere pieni di qualcosa, si tratta di un sentimento di coerenza e soddisfazione profonda che è pieno in sé stesso, di libertà interiore, di pace e unità, libero da mancanza, di attrazione e repulsione, i meditanti tendono verso questo stato. E' possibile fare esperienza di momenti di pienezza anche camminando in una foresta o seduti davanti ad un lago di montagna.

C.A. siamo dipendenti di alcol, sesso, amore, zuccheri, di cose che soddisfano i nostri bisogni. Bisogna ri-orientarci verso altri modi di soddisfare questi bisogni, esplorare nuove vie, la vita è la più efficace delle terapie, restare nella quotidianità, agire, uscire; Incontri, scoperte ti porteranno a trovare nuovi ambienti, nuove emozioni e nuove risorse e soluzioni.

giovedì 7 dicembre 2023

Rapporto tra spiritualità, religione e ateismo

In questo articolo cercherò di affrontare il complesso rapporto tra spiritualità e religione e ateismo, e proverò a mettere in evidenza i tentativi fatti da grandi personaggi per trovare un punto in comune tra i vari percorsi spirituali.

Partiamo da una citazione di Andrè Comte Sponville, un noto filosofo francese che io adoro: “Non possiamo fare a meno della comunione, della fedeltà, dell’amore, ma nemmeno della spiritualità. In Occidente, la spiritualità si è socialmente identificata durante i secoli con una religione (il cristianesimo), e si è finito per credere che religione e spiritualità siano sinonimi”      ( André Comte_Sponville, Bernard Feillet, Alain Rémond, A-ton-besoin d’une religion?, Les Editions de l’Atelier, 2003).

Innanzitutto, la spiritualità può essere definita come un cammino interiore che aiuta il praticante a trovare il vero e profondo Sé, ovvero a ritrovare il rapporto perduto con il Tutto, l’Assoluto, con l’Essere supremo (se siamo credenti), con tutti gli altri esseri viventi e manifestare la natura divina che esiste eternamente in noi.
La spiritualità è qualcosa di diverso dalla religione. La spiritualità si riferisce a esperienze mistiche, stati di coscienza non ordinari e queste esperienze hanno caratteristiche svincolate totalmente dalle società e dal tempo in cui si manifestano. Il cuore del percorso spirituale è il bisogno dell’io di andare oltre se stesso, di trascendere i propri limiti. La religione istituzionale, invece, è il tentativo sistematico e interessato di spiegare queste esperienze e le spiegazioni sono sempre date tramite metafore o concetti circoscritti in un certo tempo e in una certa cultura.  

Le religioni dovrebbero unire le persone dando a ciascuno una sensazione di eguaglianza al di là dello stato sociale di appartenenza e dovrebbero  aiutarle a superare la paura della morte. Hanno anche un grande potere politico e sociale sulle persone che ha spesso generato guerre, astio e dissensi fra le persone e la spiritualità non ha niente a che vedere con le fazioni e le differenze di punti di vista. Il percorso spirituale può essere aiutato dal credo religioso, ma allo stesso tempo può essere deviato poiché l’enfasi sulle credenze porta ad una spropositata crescita dell’ego, nonché ad un senso di superiorità (credendo di essere detentori di verità) rispetto alle altre persone annullando il sentimento della compassione in senso buddhista che è alla base della evoluzione personale e spirituale. Quello che è necessario sono delle regole di vita e una direzione da seguire.

La spiritualità è universale ed ha una dimensione personale, la religione no.

Lo scopo di una religione è far sì che una comunità religiosa abbia un rapporto con la divinità. Il fondatore della religione specificherà quali strumenti (dogmi, luoghi speciali, danze, libri, preghiere, riti, cerimonie, droghe, ecc. ) usare per avere delle esperienze spirituali e con quale linguaggio comunicarle e condividerle. Spesso i grandi mistici non fanno ricorso a questi strumenti. E’ per questo che le istituzioni religiose, il più delle volte, non amano i loro mistici. I mistici intraprendono la loro ricerca interiore in totale libertà e indipendenza e, non avvertono minimamente il bisogno di una religione.

Come precisa Padre Antonio Gentili,  "se approfondissimo veramente il significato di religione scopriremmo che non c'è molta differenza tra percorso spirituale e religione e che per 'religione' (in latino, relìgio: rilego), si deve intendere l’esperienza del legame che unisce l’umano con il Divino; un’esperienza che implica una rilettura (latino: relègere, rileggere) del proprio vissuto, una più profonda scelta di vita (latino: reelìgere, scegliere di nuovo) e infine la coltivazione di un’attitudine improntata a 'devozione' verso la Divinità (latino: rèligens)"  (Frasi di Padre Antonio Gentili, Yoga Yournal del luglio 2016).
Quindi, non bisogna confondere “la religione” con l’assetto istituzionale, dogmatico che l’accompagna e determina l’appartenenza a una determinata “confessione”.
In questo contesto tutte le discipline tendenti allo sviluppo delle capacità umane finalizzate all’auto-realizzazione favoriscono l’apertura al sacro, al Divino. Anche il praticante yoga, dopo aver eliminato l’ego, raggiungendo il silenzio mentale si abbandona al Divino. Questi aspetti sono le premesse e i pilastri stessi di un’autentica religiosità. La ricerca spirituale non deve necessariamente accompagnarsi all’idea di Dio, religione o illuminazione.

Adesso proviamo a vedere il rapporto tra ateismo e cammino spirituale. Sempre Andrè Comte Sponville scrive: “Troppo spesso la religione istituzionale ha prodotto e alimentato il conflitto tra l’intelligenza e la fede, finendo, con un’insistenza plurisecolare, per fornire di esse un’immagine che appare inevitabilmente antitetica”. Il dogma diventa antitetico a qualsiasi puro spirito di ricerca spirituale ed ha prodotto come reazione l’ateismo.
Tutti, anche i non credenti e gli atei possono rivendicare una propria dimensione spirituale. Il grande mistico indiano Ramakrishna, insegnò che persino l’ateismo può essere, per alcuni, un passo verso l’illuminazione e far parte, quindi, dell’evoluzione spirituale di un individuo: “Se un ateo è sinceramente convinto di svilupparsi attraverso un grande impegno e sforzo personale, consapevole di essere un ricercatore della verità, allora come l’aria fresca passa attraverso una finestra aperta, così la verità si rivela alla mente lasciata aperta da un sincero spirito di ricerca”. L’unico ostacolo al progresso è il chiudere l’entrata della comprensione “con le imposte dell’egocentrismo”.
 “La storica antitesi fra religione e scienza, fede e ragione, spiritualità e ateismo - in cui l’Occidente sembra essersi imprigionato come in una trappola culturale - può certamente trovare una via di uscita nel momento in cui si pone la seguente domanda: siamo sicuri che l’oggetto d’interesse della ricerca spirituale debba necessariamente accompagnarsi all’idea di Dio nel modo in cui questa è abitualmente espressa in Occidente?" -  David Donnini

La spiritualità, quindi, non è necessariamente associata a una religione o a un Dio. Basta dare uno sguardo in Oriente, al buddhismo o al taoismo, per scoprire che esistono immensi spazi di spiritualità che non hanno niente a che vedere con la fede in un Dio trascendente, personale e creatore. 

Il cuore del percorso spirituale e della meditazione è il bisogno dell’io di andare oltre sé stesso, di trascendere i propri limiti, perdere il senso di dualità (sé stesso – mondo) e arrivare a un senso di pienezza, al cuore dell’essere, al cuore del mistero dell’essere. 

Del resto, lo stesso XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso afferma: “non credo che la religione sia indispensabile per la vita spirituale ”.  Per il buddhismo la spiritualità consiste anche nello sviluppo della pratica contemplativa e dello sviluppo intenzionale di qualità interiori come la compassione, la gentilezza, l’attenzione e la calma mentale. 

Nel 1966 Thich Nhat Hanh, il monaco zen recentemente scomparso,  fonda l’Ordine dell’Interessere per sottolineare quanto tutti noi siamo collegati e interdipendenti.  E' importante sviluppare le nostre qualità innate come l'altruismo disinteressato e la benevolenza, creare una rete di relazioni basate sulla compassione reciproca estendendola  anche alla natura e a tutto ciò che ci circonda, coltivare "l'interessere", un ben preciso senso di interconnessione con tutto l'universo.  Thich Nhat Hanh, in piena sintonia con il pensiero teosofico e con quello gandhiano, sostiene che nessuna singola tradizione religiosa  può ritenersi depositaria del monopolio dell’intera verità. “Dobbiamo cogliere -dice - i valori migliori delle diverse tradizioni e lavorare insieme per rimuovere le tensioni fra le tradizioni stesse: solo così potremo offrire un’opportunità alla pace".
La via che viene insistentemente proposta (e praticata) è quella del dialogo, attraverso il quale i credenti di varie tradizioni potranno riconoscere somiglianze e differenze.
Ovviamente, affinché possa crearsi un prezioso rapporto di dialogo costruttivo, capace, al contempo, sia di indurre a comprendere e ad amare maggiormente le proprie radici, sia di assaporare ed anche assimilare le cose migliori delle altre fedi e dottrine, dovranno essere abbandonate le pretese di primato e di monopolio, come quella espressa da Giovanni Paolo II nel suo Varcare la soglia della speranza, che, presentando il Cristianesimo, secondo la consolidata tradizione cattolica, come “l’unica via di salvezza”, renderebbe, di fatto, impossibile qualsiasi sincero dialogo, fomentando, altresì, discriminazione  e intolleranza.

Molti grandi mistici indiani come ad esempio Ramakrishna e Swami Yukteswar (maestro di Yogananada), ben prima di Papa Francesco e del Dalai Lama, sottolinearono che che "esiste una armonia e un'unità di fondo tra tutte le religioni".   

Swami Yukteswar (maestro di Yogananda) nel testo La Scienza Sacra mostra "che solo pochi esseri particolarmente dotati riescono a sottrarsi all'influenza del proprio credo e a scorgere l'identità perfetta delle verità sostenute da tutte le grandi religioni.  Tra gli insegnamenti spirituali orientali e quelli occidentali non solo non esistono reali divergenze, ma neppure vere contraddizioni. Spesso, invece, le varie religioni innalzano barriere quasi insormontabili che minacciano di dividere per sempre il genere umano".   

Ramakrishna,  insegnò che Dio può essere visto in vari modi e che "l’essenza della religione è la realizzazione di Dio". Dimostrò con la sua vita che Dio è una Realtà che può essere sperimentata non solo da pochi eletti, ma da tutti gli uomini di buona volontà, a prescindere dalle differenze di razza, religione o stato sociale. L’accettazione di tutte le religioni denota un’attitudine illuminata che è il risultato di un confronto serio con sentieri spirituali diversi. L’armonia non deve significare non seguire nessuna religione in particolare, perché ciò sarebbe altrettanto inutile del fanatismo. E’ necessario seguire la via verso cui ci si sente più portati e seguirla con zelo. 
Se non si è in grado di comprendere, almeno a livello intellettuale, il valore delle altre vie spirituali, è certo che non si sarà in grado di comprendere pienamente nemmeno la propria. 
E’ l’esperienza che rende l’opinione conoscenza e l’intellettualismo saggezza.  
Lo stesso Buddha disse “non dovete accettare i miei insegnamenti, dovete investigare su quello che vi dico. Non accettate le mie parole come vere, verificate tutto”. 

Ramakrishna disse che "la Realtà è Una e sempre la stessa, la differenza sta solo nel nome e nella forma. È come l'acqua, che nelle diverse lingue è chiamata con nomi diversi, tipo 'jal', 'pani' e così via. In un lago ci sono tre o quattro pontili. Gli indù che attingono acqua ad uno di essi la chiamano 'jal'. I mussulmani, che la attingono a un altro, la chiamano 'pani' e gli inglesi, ad un terzo, la chiamano 'water'. Si tratta sempre della stessa cosa chiamata con tre nomi diversi. Allo stesso modo, alcuni chiamano la Realtà col nome di 'Allah', alcuni la chiamano col nome 'Dio', alcuni col nome 'Brahman ', alcuni con 'Kali', ed altri ancora con 'Rama', 'Gesù', 'Durga' e 'Hari'".

A me sembra che la religione cristiana, e cattolica in particolare, non cambi molto nel corso dei tempi e che non ci siano aperture verso altre spiritualità. Papa Francesco, ha sottolineato più volte il primato della fede. Insomma, qualche esperienza metodologica proveniente da altri universi religiosi potrà pur essere accolta all’interno della pratica della preghiera cristiana, ma ciò non dovrà minimamente introdurre diverse prospettive dottrinali, né insinuare dubbi teologici, né contaminare o illanguidire i contenuti del Credo cattolico dogmaticamente definiti. . “Il cristiano, quando prega, – ha detto – non aspira alla piena trasparenza di sé, non si mette in ricerca del nucleo più profondo del suo io.”  Questo perché la “preghiera del cristiano è anzitutto incontro con l’Altro, con l’Altro ma con la A maiuscola: l’incontro trascendente con Dio.”  E a guidarci, come si afferma già nel Catechismo della Chiesa cattolica, sull’unica via della preghiera rappresentata da Gesù, dovrà essere lo Spirito Santo, senza il quale, nessuna meditazione o percorso autenticamente cristiano sarebbe possibile. (Vedi le parole di Papa Francesco quando si è trovato ad affrontare il tema della meditazione nell’Udienza Generale del 28 aprile 2021, dedicata alla Catechesi sulla preghiera).

Per poter creare un prezioso rapporto di dialogo costruttivo, capace, al contempo, sia di indurre a comprendere e ad amare maggiormente le proprie radici, sia di assaporare ed anche assimilare le cose migliori delle altre fedi e dottrine, dovrebbero essere abbandonate le pretese di primato e di monopolio, come quella espressa da Giovanni Paolo II nel suo Varcare la soglia della speranza, che, presentando il Cristianesimo, secondo la consolidata tradizione cattolica, come “l’unica via di salvezza”, renderebbe, di fatto, impossibile qualsiasi sincero dialogo.

Bisogna evidenziare che recentemente alcuni teologi cristiani hanno provato a  costruire un ponte tra le varie spiritualità tentando di elaborare una definizione di sacro più ampia, sottolineando l'anelito verso il divino da parte dell’essere umano. L'Archetipo del monaco, un testo del 2022 di Antonio Dorella, evidenzia come varie forme dell'attuale religiosità provino a incontrarsi su un terreno comune:  la "spiritualità individuativa", che è uno spazio del sacro, contemporaneamente laico e confessionale, un raccordo fra i due mondi.  L'autore presenta, in questo libro, il pensiero e le vicissitudini di cinque ricercatori spirituali:  Raimon Panikkar, Hans Küng, Matthew Fox, Eugen Drewermann e Leonard Boff che sono gli apripista di un nuovo, affascinante modello di umanità.  Per questi tentativi di universalizzare ed allargare la visione spirituale, questi autori sono stati in vari modi, per periodi brevi o lunghi,  emarginati e allontanati dalla Chiesa Cattolica. 

Oggi è chiamata in causa non una particolare forma di religione; ma la religione in se stessa e solo il movimento ecumenico tra le religioni e lo sforzo di ciascuna ad accettare e apprezzare la verità e santità che si trova nelle altre religioni, può rispondere al bisogno di religiosità dell’uomo moderno.” (Bede Griffiths: Matrimonio tra Oriente e Occidente, p.30, pubblicato negli anni '80).   Bede Griffiths ( 1906, 1993) nato Alan Richard Griffiths e conosciuto anche alla fine della sua vita come Swami Dayananda, era un prete cattolico di origine britannica e monaco benedettino che visse in ashram nel sud dell'India e divenne un noto yogi. Griffiths faceva parte del movimento Christian Ashram

Altri tentativi di incontro tra Occidente e Oriente, in modo particolare tra yoga e religione cristiana, sono stati fatti da grandi personaggi come Padre Anthony Elenjimjttam (padre domenicano e monaco buddhista) ; Padre Antonio Gentili, Padre Mariano Ballester (ideatore della meditazione profonda e autoconoscenza MPA) e il monaco Axel Bayer.  Il grande Maestro yoga Giorgio Furlan (uno dei fondatori della federazione yoga italiana e morto nel 2021)  organizzava tutti gli anni una conferenza dal titolo "Incontro Oriente - Occidente".

Il pensiero di Padre Anthony Elenjimjttam si fonda sull'assoluta uguaglianza tra la filosofia orientale e quella occidentale, a partire dalla filosofia indo-vedica, a quella greca, fino al pensiero occidentale legato al cristianesimo. Ciò che cambia è il linguaggio, le parole che vengono utilizzate, ma permane una similitudine di fondo".   Ha ideato anche il "Mandala degli 8 sentieri" chiamato anche "Mandala Cosmico".   J.B. Sparks lo costruì con l'idea che tutti gli uomini potessero unirsi in un unico modo di sentire e concepire la spiritualità. In questo mandala troviamo rappresentati il "Cristianesimo", l'"Umanismo filosofico", il "Taoismo e Confucianesimo", il "Zoroastrismo o Mazdeismo", il "Buddhismo", l'"Induismo Yoga", l'"Islam" e l'"Ebraismo".

Axel Bayer (1970 -) , è un monaco benedettino dell'Eremo di Camaldoli. È laureato in lingue, lettere e teologia, pratica yoga e meditazione da 20 anni ed è insegnante dell' Himalayan Yoga Institute, fondato da Swami Rama. Dopo essersi diplomato, ha trascorso un periodo di approfondimento e di pratica intensa a Rishikesh in India. Da molti anni propone corsi di meditazione e iniziative che mettono in dialogo la tradizione cristiana con la sapienza dell'Oriente.

Padre Antonio Gentili (1937- ) è un religioso barnabita, con licenza in teologia e laurea in filosofia. Preparato conoscitore delle religioni e delle spiritualità orientali ma profondamente radicato nella tradizione cristiana, pratica yoga e guida di corsi di meditazione e preghiera profonda, aperti a ogni categoria di persone. Per lui, la meditazione è un prezioso strumento per avvicinarsi a Dio. Padre Gentili cerca – anche attraverso numerose pubblicazioni – di ravvivare, senza travisamenti, una fede che in questi ultimi decenni mostra segni di crisi sempre più evidenti. Propone un’apertura mistica del cuore, la contemplazione, una vita ascetica e sacramentale autentica.
Padre Gentili fa, spesso, una correlazione tra i precetti morali dello yoga (yama) che governano le nostre interazioni con gli altri, ahimsa (la non violenza), satya (la verità), asteya (il non rubare), bramacharya (la moderazione) e aparigraha (la non possessività), con i Comandamenti cristiani. Tutte le grandi tradizioni sapienziali e spirituali dell’umanità hanno come finalità di promuovere un’autentica qualità delle vita. E quindi ad alimentare nel cuore dell’uomo pace, gioia, amore, compassione e speranza.

Aleyamma o Suor Infant Tresa “La yogi di Cristo” (1951-), nasce nel nel Kerala (regione nel sud dell’India), uno degli Stati indiani in cui il cattolicesimo è molto presente e diventa suora a 19 anni. Nel 1985 – iniziò a fare yoga perchè aveva un terribile mal di schiena che l'obbligava a portare un corsetto speciale. Incontrò un maestro di yoga presso l’università dove studiava che gli consigliò una serie di esercizi da fare e  dopo poco tempo il problema alla schiena era scomparso. Da allora la preghiera mattutina di suor Infant Tresa comincia con Padre nostro e namasté (il saluto dello yoga), dimostrando che non vi è contraddizione alcuna tra la vita da religiosa cattolica e lo yoga che diventa un'estensione della sua vita religiosa. Per trent’anni ha praticato yoga e in età da pensione ha deciso di diventare insegnante di yoga. Gestisce e supervisiona due centri di yoga nel Kerala.

«All’inizio – racconta – alcuni erano perplessi che una suora insegnasse yoga, ma non mi sono mai fatta scoraggiare dai dubbi delle persone». «Spesso i cristiani sono perplessi per i mantra che si recitano durante la pratica, ma questo non è un fatto centrale: io per esempio durante la seduta di yoga recito preghiere cristiane». «Non c’è niente di contraddittorio con la fede cristiana; –. È per ignoranza che una parte dei cristiani si oppongono allo yoga, dicendo che appartiene all’induismo.  Lo yoga non è legato a nessuna religione, ma è un contributo dell’antica India al resto del mondo. È una pratica olistica che unendo fisico, mente, intelletto, emozione e spirito fa sentire meglio l’uomo, gli regala la pace e lo avvicina a Dio. Inoltre, cambia la mentalità: aiuta ad essere meno materialisti e a liberarsi dal consumismo. Ecco perché le persone oggi lo praticano indifferentemente da religione, lingua e comunità di appartenenza». La pratica aiuta tutti a sperimentare la pace che Gesù ci ha promesso ».  Suor Tresa afferma: “Non andrò mai contro la chiesa se mi chiedesse di lasciare lo yoga, ma sono assolutamente certa che la chiesa non chiederà mai a me o a nessuno di rinunciare allo yoga; poiché esso non ha nulla che contraddica la fede o gli insegnamenti cristiani, visto che con lo yoga tutti possiamo diventare esseri umani e cattolici migliori" Anzi il mio vescovo, la mia congregazione, i miei superiori e tutti i miei colleghi mi sostengono e incoraggiano.  Oggi, con l'aiuto dei media e della consapevolezza, le persone sono meglio informate e stanno realizzando i valori nello yoga.  "Lo yoga, una pratica che – sostiene  suor Infant Tresa – non solo non è in contraddizione con la vita da religiosa e col cristianesimo ma aiuta ad essere cattolici migliori".. 

Padre Mariano Ballester (1935 - 2021), gesuita spagnolo, direttore spirituale del Collegio Internazionale del Gesù, ha messo a punto negli anni '70 un metodo di “meditazione silenziosa” che ha chiamato MPA, Meditazione Profonda e Autoconoscenza. Questo metodo si avvale largamente di esercizi basati sul respiro; è un metodo di evoluzione personale che coniuga introspezione e silenzio. 
Ha creato, inoltre, l'associazione senza fini di lucro "Meditazione Profonda e Autoconoscenza (MPA)”, che si propone di diffondere la pratica della MPA attraverso incontri di formazione e di valorizzazione umana e spirituale della persona con la finalità di guidarla verso la sorgente dell'essere. Ogni persona, nessuna esclusa, è portatrice spesso inconsapevole, di un “seme spirituale”. Questo seme, il centro dell’Essere, non può essere disatteso perché la sua non apertura limita la realizzazione più profonda dell'essere umano.  “L'uomo è un ricercatore, nel senso di colui che ricerca qualcosa che non riesce a comprendere e che i fedeli chiamano Dio. Attorno alla meditazione profonda, infatti, si riuniscono soprattutto gli scettici, gli atei, non credenti in generale: ricercatori provenienti dalla strada che cercano qualcosa. Questa ricerca passa attraverso la conoscenza profonda di se stessi e si conclude solo grazie ed attraverso lo spirito.”

 In Occidente c’è il problema di conciliare le proprie tradizioni spirituali con le offerte che provengono dall’Oriente. Negli anni trenta, Carl Gustav Jung pubblicò un libricino Lo yoga e l’Occidente, in cui asseriva che "lo yoga è il metodo più adatto a fondere insieme corpo e spirito, una delle più grandi invenzioni mai create dallo spirito umano". Però raccomandava: “studiate lo yoga, imparerete tantissime cose, ma prima di iniziare a praticarlo dovete conoscere voi stessi”, perché “non sappiamo chi pratica lo yoga. Non ci conosciamo".  "L'Occidente deve trovare il suo yoga".

Il sogno di tutti i grandi saggi e maestri, dal neoplatonismo di Ammonio Sacca all’umanesimo di Pico della Mirandola, dalla teosofia di  Madame Blavatsky al pensiero nonviolento di Aldo Capitini e di Thich Nath Hanh è il seguente: le diverse scuole religiose,  impegnandosi con grande serietà  in un dialogo fiduciosamente aperto e animato da  spirito di autentico ecumenismo, potranno, nello stesso tempo, riscoprire gli aspetti più preziosi della propria dottrina e apprezzare ed apprendere fruttuosamente gli elementi di maggior valore presenti in ciascun credo. 

Introduzione al Blog

Il Blog è nato nel marzo 2021, in tempo di pandemia, per comunicare e condividere le mie letture e i miei interessi personali.  Nel blog c...