venerdì 29 marzo 2024

Riassunto del libro Thich Nhat Hanh. Un sentiero tra le stelle

Estratto del libro Thich Nhat Hanh. Un sentiero tra le stelle. Autori: Roberto Fantini e Cesare Maramici.

Il monaco zen vietnamita Thich Nath Hanh (1926 - 2022), uno dei maggiori esponenti del pensiero buddhista contemporaneo, rappresenta uno di quei rari straordinari Maestri di Saggezza capaci di illuminare, con il proprio insegnamento e con il proprio impegno di vita, un’intera epoca, seminando un messaggio di Amore, Gioia e Compassione, rivolto a credenti e non credenti, in vista di un mondo rifondato sui valori della Consapevolezza, del Dialogo, della Nonviolenza e della Pace. Nel periodo presente, così denso di incognite oltremodo inquietanti e angoscianti, entrare in contatto con il messaggio di questo grande mistico potrà certamente costituire un messaggio di speranza. Con questo libro, seppur in maniera sintetica ed essenziale, si è tentato di presentare la ricchezza filosofica e la forte valenza pedagogica e terapeutica del suo pensiero.

Tra la fine del 1946 e il 1954, Thich Nhat Hanh assistette alla tragedia della guerra d’Indocina, poi divenuta, con l’intervento statunitense, guerra del Vietnam negli anni '60. Thich Nhat Hanh ha presto concepito una forma di buddhismo impegnato che potesse rispondere concretamente alle esigenze della società, dando vita al movimento di resistenza nonviolenta dei "Piccoli Corpi di Pace": gruppi di laici e monaci che si prodigavano per ricostruire i villaggi bombardati e tutto ciò che era stato distrutto dalla guerra. 

Si reca negli Stati Uniti e in Europa per sostenere la causa della pace e per chiedere la fine delle ostilità in Vietnam. E’ durante questo viaggio che incontra Martin Luther King, che, nel 1967, lo propone  come candidato al Premio Nobel per la Pace, definendolo “un apostolo della pace e della non violenza” e sostenendo che “le sue idee per la pace, se applicate, costruirebbero un monumento all’ecumenismo, alla fratellanza mondiale, all’umanità”.  

Nel 1975, Thay pubblica il libro Il miracolo della presenza mentale. Come ebbe a dire Jon Kabat-Zinn, è stato “il primo libro che abbia portato all’attenzione di un ampio pubblico di lettori l’argomento della consapevolezza. Ha aperto nuovi orizzonti nella scena della meditazione della fine degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, portando la pratica fuori dalla sala di meditazione e mostrando in che modo la consapevolezza potesse trovare applicazione nella vita di tutti i giorni”. 

Nello stesso anno (1975), fonda la Comunità Sweet Potato (“Patata dolce”), vicino a Parigi, che, nel 1982, viene trasferita in una proprietà molto più ampia, il Plum Village (vicino a Bordeaux in Dordogna). Nel 2008, fonda Wake Up (“Svegliati!”), un movimento mondiale seguito da migliaia di giovani che si impegnano in pratiche di vita consapevole, e  lancia a livello internazionale un programma di formazione per insegnanti, le Wake Up Schools.  All'età di 80 anni dichiara: “Nel buddhismo vediamo che l’insegnamento si compie non solo parlando, ma anche vivendo la propria vita. La tua vita è ciò che insegni, è il messaggio che trasmetti”

In seguito all’ictus subito nel 2014, smette l'insegnamento diretto, anche se come lui stesso dice "Anche con l'esempio si può insegnare".  Oltre centomila praticanti hanno ricevuto i “Cinque Addestramenti alla Consapevolezza” al Plum Village.  

La pratica della consapevolezza è un “importante agente di trasformazione e di guarigione”, che può consentirci di smettere di essere vittime della distrazione, interrompendo di cercare “la felicità in qualche altro posto, ignorando e distruggendo i preziosi elementi di felicità che sono già presenti dentro di noi e intorno a noi.” La consapevolezza ci permette di cessare di innaffiare i “semi di infelicità” presenti in noi, spingendoci ad innaffiare, invece, con premurosa cura, “i semi della pace, della gioia e della felicità.

 Thich Nhat Hanh è noto per essere il padre della meditazione consapevole o  mindfulness, il suo insegnamento, pur restando pienamente inserito nel flusso della tradizione zen,  è volto a ridurre al minimo il formalismo rituale, favorendone, in tal modo, la comprensione da parte degli occidentali. Invece di usare i koan - interrogativi enigmatici che i maestri sottopongono ai loro studenti per stimolarne il risveglio – Thich Nhat Hanh ricorre alle metafore. Non cerca di fare proselitismo; chiunque ha la possibilità di assistere agli insegnamenti e chiunque è benvenuto nel "Sangha", la comunità dei praticanti.

The Miracle of Mindfulness, pubblicato nel 1975 (poi tradotto in italiano con il titolo Il miracolo della presenza mentale), presentava nuove pratiche meditative da lui sviluppate.  La “meditazione non deve essere intesa come evasione, ma come un incontro sereno con la realtà”, un modo di scoprire come vivere pienamente il momento presente: "Non lasciare che la mente divaghi nei ricordi del passato o nelle aspettative del futuro".

Tra gli insegnamenti chiave di Thich Nhat Hanh troviamo la consapevolezza del respiro e la camminata meditativa. Camminare in meditazione significa essere consapevoli ad ogni passo del contatto dei nostri piedi con il terreno e sincronizzare i passi al ritmo del nostro respiro: “Percependo la Terra come un bodhisattva cammineremo sul pianeta con lo stesso rispetto che avremmo nel camminare in un edificio di culto o in qualsiasi spazio sacro.”   

Punto chiave del suo insegnamento è la compassione che si estende anche alla natura e a tutto ciò che ci circonda, incoraggiandoci a coltivare "l'interessere", un ben preciso senso di interconnessione con tutto l'universo.  Thay ci invita a vedere come siamo tutti interconnessi e come le nostre azioni influenzino continuamente il mondo intorno a noi.  E’  fortemente orientato al non dualismo, e si propone di superare quella visione di noi stessi come entità separate dalle altre persone e dal resto della realtà che è fonte di enorme sofferenza, sia individuale che collettiva. Tutti i fenomeni dell’intero universo saranno quindi da osservare e da intendere alla luce dell’interdipendenza: “Niente può esistere di per sé.”

Il maestro vietnamita puntualizza che il meditante non dovrebbe mai  limitarsi a praticare soltanto per veder sorgere nella propria mente i cosiddetti “Quattro incommensurabili stati mentali” (amore, compassione, gioia ed equanimità), ma anche per far sì che essi penetrino nel mondo, per mezzo di parole e azioni.  Un altro punto cardine del suo insegnamento è che la pace interiore e la felicità sono disponibili solo nel presente. Una delle sue frasi più note è : "La presenza mentale aiuta a vivere in profondità ogni momento della vita".  Siamo chiamati a trasformare il momento presente nel “momento più meraviglioso” e possiamo riuscirci a condizione di imparare a fermare la nostra sciocca corsa verso il futuro e smettendo di torturarci per il passato.  E lo sviluppo della consapevolezza in quanto “nostra luce interiore” sarà facilitato dalla pratica della meditazione. Il nirvana - ci dice - è la liberazione da tutte le idee e le opinioni: “Quando entri in contatto con la realtà non hai più opinioni. Hai la saggezza”.  

Secondo Thich Nhat Hanh, la mindfulness buddhista è sempre socialmente impegnata, concentrata sul rimedio alle cause della sofferenza e dell'oppressione del mondo. E poiché i suoi obiettivi sono alleviare la sofferenza collettiva attraverso la riduzione dell'avidità, dell'odio e dell'illusione, la mindfulness buddhista può servire come pratica di sostegno per un sistema sociale più inclusivo e come forza profetica per sfidare le iniquità strutturali ed economiche che hanno schiavizzato gli oppressi, i poveri e gli affamati.  

Thich Nath Hanh è stato un maestro di eticità e il suo insegnamento è caratterizzato da:              

  • impegno sociale; 
  • comunicazione accessibile; 
  • geniale quanto coraggiosa capacità di mettere determinate tecniche meditative (adeguatamente semplificate ed essenzializzate, ma mai banalizzate o mercificate) a disposizione delle donne e degli uomini occidentali;
  • forte interesse pedagogico;
  • grande sforzo divulgativo;
  • straordinaria capacità di applicare gli antichi insegnamenti alle particolari problematiche del mondo contemporaneo.    
  • sincera disponibilità al dialogo inter-religioso;

In piena sintonia con il pensiero teosofico e con quello gandhiano, quindi, sostiene che nessuna singola tradizione religiosa  può ritenersi depositaria del monopolio dell’intera verità. “Dobbiamo cogliere - dice - i valori migliori delle diverse tradizioni e lavorare insieme per rimuovere le tensioni fra le tradizioni stesse: solo così potremo offrire un’opportunità alla pace. 

Altro tema particolarmente a cuore di Thich Nhat Hanh è l'ambiente e l'ecologia. Thay, con la sua Lettera d’amore alla Madre Terra, dopo avere espresso più volte commozione di fronte alla grande armonia del cosmo, denuncia l’operato dell’essere umano che sta creando squilibri, inquinando l’atmosfera, e gli oceani, invitandoci tutti a ritrovare il nostro vero ruolo che è quello di proteggere la Madre Terra. 

Thich Nhat Hanh affronta anche il rapporto tra dolore e sofferenza. Il dolore può anche essere inevitabile, ma il fatto di soffrire o meno dipende da noi. Soffrire è una scelta, noi scegliamo se soffrire o meno. Nascita, vecchiaia e malattia sono naturali. È possibile non soffrire a causa loro, ma soltanto se siamo in grado di accettarle come parte della vita. Possiamo sempre scegliere di non soffrire, benché vi siano dolore o malattia. La vita e la nostra particolare situazione dipendono dal nostro modo di guardare.

Attraverso la meditazione – puntualizza Thich Nath Hanh – potremmo arrivare alla conoscenza di un’unica cosa: "che nascita e morte non ci riguardano mai e in nessun modo.”  Se riuscissimo a osservare attentamente i grandiosi processi cosmici, non dovrebbe risultare difficile superare la paura della morte.  “La nostra vera casa è nel qui e ora. Il passato se n’è andato e il futuro non è ancora arrivato". 

Thich Nhat Hanh è autore di circa 130 libri, di cui una settantina tradotti in italiano, che vanno dai manuali classici sulla meditazione, la consapevolezza e il buddhismo impegnato, poesie, racconti per bambini e commenti su antichi testi buddhisti, frutto di una vita di insegnamento, di studio, di creatività e di realizzazioni spirituali.

Scrittore poliedrico, Thich Nhat Hanh ha affrontato svariate tematiche come l'Etica, le Relazioni, l’Ecologia, esplorando anche i possibili punti d’incontro tra le grandi tradizioni del buddhismo e del cristianesimo.

Con questo libro, seppur in maniera sintetica ed essenziale,  si è tentato di presentare la ricchezza filosofica e la forte valenza pedagogica e terapeutica del suo pensiero.

Il libro si può trovare al seguente link: https://www.edizioniefesto.it/collane/lumen/774-thich-nath-hanh-un-sentiero-tra-le-stelle 

Filmati su Thay:    https://www.youtube.com/watch?v=IZkjX_c4hm4

 https://www.youtube.com/watch?v=SNRvtJ6nQhw  Buddhist Chant Namo Avalokiteshvara a Plum Village

https://www.youtube.com/watch?v=t5Ka2RS0UC4  https://www.youtube.com/watch?v=eiaxqGsyld8

domenica 17 marzo 2024

Convegno BeYoga Beyond

Potete rivedere gli interventi fatti dai relatori al convegno BeYoga Beyond promosso dalla Federazione Europea di Yoga nei giorni 9 e 10 marzo 2024     cliccando su questi link:
 

https://www.facebook.com/share/3hev8T5AYrmJt8EF/

mercoledì 13 marzo 2024

Ricerca sul Buddhismo in Italia

Promossa dall’Unione Buddhista Italiana e realizzata in collaborazione con un gruppo di ricercatori delle Università di Padova e Torino, la ricerca "Il buddhismo in Italia" offre una riflessione sui cambiamenti all’interno del campo delle religioni contemporanee. I risultati della ricerca sono stati presentati il 12 marzo 2024. https://unionebuddhistaitaliana.it/comunicati-stampa/buddhismo-in-italia-ricerca-ubi/    Rapporto completo: https://unionebuddhistaitaliana.it/wp-content/uploads/2024/03/RAPPORTO-FINALE-UBI-2023.pdf


Perché si diventa buddhisti in Italia? Qual è la percezione che i praticanti buddhisti in Italia hanno di sé e della propria tradizione in Italia? Chi sono i buddhisti oggi? Cosa conoscono gli italiani del Buddhismo e come vedono coloro che si definiscono buddhisti?

Le domande che hanno guidato le varie tappe dell’indagine hanno restituito un’immagine a tutto tondo non solo dell’identità, delle pratiche e delle credenze dei partecipanti dei 64 centri UBI, ma hanno approfondito anche le percezioni e le rappresentazioni che gli italiani che non si identificano con questa religione hanno dei praticanti buddhisti in Italia, assieme alle opinioni dei buddhisti italiani che non afferiscono ai centri UBI (Unione Buddhista Italiana).

Secondo l’ultimo rapporto realizzato da CESNUR (2022) i praticanti di tradizione buddhista in Italia sono 342mila, pari allo 0,6% della popolazione residente. L'indagine è riuscita a combinare metodi qualitativi e quantitativi coinvolgendo più di 300 persone con interviste in profondità e a raccogliere più di 500 questionari di persone frequentanti i centri dell’Unione Buddhista Italiana in un contesto italiano caratterizzato da una forte presenza del cattolicesimo. La raccolta dei dati tramite strumenti qualitativi ha previsto la predisposizione di tre tracce di intervista a seconda che gli intervistati fossero buddhisti partecipanti alle attività dei centri UBI (137 interviste raccolte), buddhisti non afferenti all’UBI (51 interviste) oppure non buddhisti (130 interviste, tra le quali 30 con testimoni privilegiati).

“Questa ricerca rappresenta un unicum a livello italiano ed Europeo per tracciare i molteplici volti del Buddhismo in Italia” – sottolinea Filippo Scianna, Presidente dell’Unione Buddhista Italiana. “Il Buddhismo si inserisce in una società che, nella sua maggioranza, buddhista non è. Diventa quindi molto interessante capire come viene percepito internamente, da chi frequenta i centri UBI e dai buddhisti o centri che non afferiscono all’UBI, ed esternamente, dai non buddhisti. Dalla ricerca emerge come il Buddhismo offra la possibilità di dare risposte molto flessibili alle sfide della contemporaneità oltre a una straordinaria capacità di interpretare le istanze più diverse del contesto socioculturale in cui viviamo”.

Dall’indagine emerge come ad essere preponderante sia la componente femminile (58%) dei praticanti, e una presenza abbastanza consistente di over 60 (33%) rispetto a quella degli under 35 (26%). Dal punto di vista sociodemografico è possibile delineare un identikit del buddhista medio: donna di mezza età, con un profilo socioeconomico e culturale mediamente alto. La ricerca ha cercato di comprendere a quali categorie viene principalmente associato il Buddhismo. Il 36,3% degli intervistati lo considera una filosofia di vita, il 18,7% una religione, il 13,5% lo associa all’amore universale e alla compassione, e il 13,1% ad una scienza della mente.
Per la maggior parte degli intervistati la conoscenza del Buddhismo è avvenuta in modo autonomo tramite le reti familiari (6,6%), il partner (4,3%) o gli amici (13,9%).

L’adesione al Buddhismo è dettata principalmente da necessità individuali, spirituali e personali. Tra i principali motivi che hanno determinato l’avvicinamento alla pratica buddhista vi sono i benefici spirituali che questa potrebbe portare, la visione del Buddhismo come una via di salvezza alla sofferenza, la ricerca di risposte alle proprie domande e la convinzione che la morale buddhista possa davvero aiutare l’umanità a progredire. È interessante notare come il Buddhismo sia capace di evidenziare alcuni dei nodi rilevanti del cambiamento sociale e culturale che caratterizza le società contemporanee in Occidente. L’attenzione all’ambiente, la difesa dei diritti umani e una particolare sensibilità per le questioni di genere e le disuguaglianze sono alcuni degli elementi che conferiscono al Buddhismo una connotazione attraente per i non praticanti. Il Buddhismo impegnato sembra essere uno degli asset più importanti del capitale simbolico del Buddhismo in Italia.

Considerando ad esempio il tema della parità di genere gli intervistati mostrano un elevato grado di accordo (6.83/7) rispetto alla leadership religiosa femminile. Nella realtà dei fatti all’interno dei centri aderenti all’UBI ci sono 17 responsabili su 57 di genere femminile (pari al 30% del totale). Questo risultato si discosta in positivo dai dati che riguardano la maggioranza di altre organizzazioni laiche o religiose. 

Perché si diventa buddhisti in Italia? Sicuramente la ricerca spirituale e le sofferenze esistenziali giocano un ruolo preponderante nel far avvicinare le persone al Buddhismo. Tra le interviste raccolte emerge da parte delle persone un’insoddisfazione nei confronti dei valori dominanti della società accanto a una domanda di senso che fatica a trovare risposta. Il Buddhismo viene quindi scelto perché al suo interno si respira una più grande libertà nel ricercare un senso per la propria esistenza, una libertà che non preclude la possibilità di riscoprire le proprie radici cristiane e cattoliche ma in una luce diversa e con una prospettiva più inclusiva. Per il 58% degli intervistati l’apertura al pluralismo e la diversità religiosa sono verità importanti da trovare in tutte le religioni. L’adesione al Buddhismo per 7 intervistati su 10 non va letta in termini di conversione. Per molti, essere buddhista, non significa tagliare di netto con il passato quanto più intraprendere un percorso capace di allargare le proprie prospettive. 

Il buddhismo, a detta di chi lo pratica, sembra avere una capacità maggiore, rispetto al cattolicesimo, di rispondere alle esigenze della modernità, soprattutto sul versante del dialogo con la scienza e della fiducia nelle possibilità della mente dell’uomo. Le pratiche della meditazione e dello yoga, in questa prospettiva, vengono inserite in una cornice di autonomia del soggetto alla ricerca del benessere personale e della propria autorealizzazione.

La ricerca ha sottolineato che il Buddhismo in Italia suscita una curiosità dettata dal fascino dell’esotico, spesso le conoscenze sono del tutto approssimative tanto da arrivare a confondere il Buddhismo con l’induismo. A costruire l’immaginario collettivo, oltre alle figure di leader religiosi come il Dalai Lama, sono anche i film, la letteratura e la musica. A tutti sarà capitato di leggere Siddharta o di vedere al cinema sette anni in Tibet. Si tratta di suggestioni che consentono ai non praticanti di farsi un’idea di massima su questa religione. Tra le persone il Buddhismo è percepito come pacifico, non autoritario e poco interessato a fare proselitismo ed è guardato in modo favorevole perché portatore di valori che non mettono al centro la frenesia dell’efficienza, ma al contrario rispettano i ritmi della natura e i bisogni profondi degli individui.

Sintetizzando quanto raccontato dagli intervistati, nell’immaginario degli italiani il buddhismo sembra configurarsi secondo quattro tipologie: un buddhismo di matrice religiosa praticato da pochi; un buddhismo di moda legato a pratiche molto diffuse come lo yoga o la mindfulness; un buddhismo privatizzato e spirituale che risponde alla ricerca di senso individuale, slegato dai dogmi delle tradizioni religiose; un buddhismo terapeutico, legato al benessere psicofisico personale.

L'indagine è stata allargata anche ai non praticanti buddhisti e grazie a questo ampio sguardo è possibile comprendere la straordinaria capacità del Buddhismo di interpretare le istanze più diverse della nostra società offrendo risposte flessibili o comunque non dogmatiche alle sfide della contemporaneità”.

Di centri, associazioni e gruppi che in maniera più o meno stringente si ricollegano al buddhismo, ne sono stati individuati 478. Le più rilevanti organizzazioni buddhiste mappate sono il Buddhismo della Via di Diamante, la Soka Gakkai, l’Ordine dell’Interessere e Essere Pace.

venerdì 8 marzo 2024

Shintoismo in Giappone

Lo shintoismo ( “via degli dei”) o scintoismo, viene considerato la religione autoctona e più antica del Giappone.

Lo shintoismo: non ha un fondatore, né un testo sacro, né un “Dio” unico superiore. Ci sono comunque dei testi base dello shintoismo che sono il Kojiki e il Nihon Shoki. Sono opere che narrano le origini mitologiche del Giappone e vennero fatte redigere dalla famiglia imperiale nell’VIII secolo per giustificare la propria egemonia sugli altri clan e attribuirsi antenati divini. Lo shintoismo non è particolarmente interessato alla morte e all’aldilà (che rientrano più nell’orbita buddhista), ma a tutto ciò che concerne la vita in questo mondo, la natura, gli inizi e la trasformazione. Lo shintoismo non è nemmeno centrato su una dottrina morale specifica. Alla base dello shintoismo abbiamo la presenza del sacro nella natura e nei fenomeni che la circondano, e il praticante vuole mantenere l’armonia con queste forze e  ottenere favori e protezione da queste forze.

Una delle preoccupazioni principali dello shintoismo è la purezza e gli esseri umani nascono puri e la purezza è la loro condizione naturale. Capita, però, che si contaminino, ad esempio nel contatto coi morti, e che debbano quindi purificarsi con appositi riti e pratiche. La purezza è un ideale che compare già nel mito di Izanagi e Izanami, raccontato nel Kojiki e nel Nihon Shoki. Secondo la leggenda, alla morte della dea Izanami, suo marito Izanagi andò nell’aldilà per tentare (invano) di recuperarla. Al ritorno in questo mondo dovette purificarsi per essere entrato in contatto con la morte, e lo fece immergendosi nel fiume Tachibana.
Questo mito è rappresentativo per due motivi: ci fa capire che la morte è considerata impura. Lo stesso vale per la malattia, il sangue mestruale o quello del parto. È una credenza che ha avuto una certa importanza nella creazione della casta degli intoccabili, i burakumin. Questa classe era in parte composta da gente che lavorava a contatto con il sangue o con i morti.

Il secondo elemento importante è il ruolo purificatore dell’acqua. Per accorgersi della sua importanza, basta visitare qualunque tempio: prima di entrare bisogna sciacquarsi mani e bocca in una specie di fontana chiamata chōzu-ya o temizu-ya. Analogamente, non è raro vedere persone spargere acqua davanti a casa o al proprio negozio. Altri elementi purificatori sono il fuoco e il sale: quest’ultimo viene usato per purificare il ring nel sumo.

Essendo una religione di stampo animistico e politeista, lo shintoismo riconosce numerose divinità o spiriti, dette kami. Questi kami sono delle entità intangibili che eccellono nel loro essere, sia esso buono o cattivo. Sono qualunque cosa generi timore o rispetto. In concreto, possono essere fenomeni naturali, elementi animati o inanimati: la dea del sole Amaterasu (l’antenata della dinastia imperiale) e gli imperatori morti sono dei kami, ma lo possono essere anche gli antenati, piante, rocce e animali. Il loro numero è infinito. Essendo una religione “sincretica”, che cioè assorbe e unisce elementi presi da diverse tradizioni, lo shintoismo ha accolto al proprio interno anche divinità di origine cinese e indiana.
Anche il concetto di kami è qualcosa di “sentito”, di “avvertito”, che non è facile definire logicamente o descrivere a parole. Nello shintoismo di stato, nato a fine Ottocento, anche l’imperatore vivente era considerato un kami.

Il rito, più che la dottrina, è il cuore dello shintoismo, ed è una componente molto importante della cultura giapponese in generale.  Ci sono riti legati alle varie tappe della vita:  la nascita, la crescita,  il raggiungimento della maggiore età, , il matrimonio, ecc  per invocare la protezione dei kami.Ci sono riti come il jinchisai per purificare il sito di un nuovo cantiere edile, come l’umi-biraki  per inaugurare la stagione balneare e lo yama-biraki  per inaugurare quella del trekking.  Durante i riti, ma anche nelle normali visite, è possibile imbattersi nelle miko, le aiutanti. Queste non sono sacerdotesse, ma ragazze laiche che danno una mano nella gestione del santuario e a volte si esibiscono nelle danze sacre. Sono distinguibili per i pantaloni (hakama) rossi e la casacca bianca. Non ci sono funzioni religiose settimanali: la gente visita il tempio quando vuole, magari in occasione di riti speciali o matsuri.  Lo scopo delle visite al tempio non è legato all’espiazione di peccati o a benefici nell’aldilà, ma è più immediato e terreno. Di solito si prega per invocare protezione da pericoli e calamità, per la salute, la prosperità e il successo (agli esami di ammissione, ad esempio).

Poi ci sono i matsuri (festival) legati principalmente ai vari periodi dell’anno (Capodanno) e al raccolto (in primavera e in autunno). Durante le feste, solitamente, c’è una parte di purificazione seguita da offerte di cibo e preghiere, danze e musica. Le preghiere recitate dal kannushi (il sacerdote) sono composte in un linguaggio aulico e si chiamano norito.

I luoghi di culto shintoisti si chiamano solitamente “jinja”. Anche se questo termine si traduce come  “santuario”, “jinja” indica tutta l’area sacra, non solo l’edificio principale. Un tempo, infatti, non c’erano edifici permanenti: iniziarono a svilupparsi solo sotto la spinta del buddhismo (ai cui templi rimasero annessi fino a fine Ottocento).  Oggi, tipicamente, un jinja è composto da diversi elementi:     Torii: il portale d’ingresso nell’area sacra. È spesso dipinto di rosso e, nella versione più semplice, è formato da due colonne sormontate da una specie di architrave.
    Chōzu-ya o temizu-ya: una struttura con una fontana e dei mestoli in cui eseguire la purificazione rituale di mani e bocca prima di accedere al santuario.
    Haiden: il padiglione in cui i fedeli possono pregare. Le preghiere di solito non sono molto elaborate e la visita dura pochi minuti. In genere si svolge così: si fa un’offerta simbolica (una moneta da 5 yen è considerata benaugurante) e, se presente, si suona una piccola campana appesa sopra l’offertorio per attirare l’attenzione del kami e purificare l’aria. Dopodiché si fanno due inchini, si battono le mani due volte, si recita dentro di sé una preghiera (una richiesta, non una formula prestabilita) e, infine, si fa un altro inchino.
    Honden: il sancta sanctorum in cui può entrare solo il sacerdote (kannushi) e che contiene lo shintai, un oggetto simbolico in cui risiede il kami. Spesso si tratta di uno specchio. Lo shintai non è il kami, ma solo un oggetto che esso abita per essere accessibile agli umani.
    Alcuni templi non hanno un honden, perché lo shintai è un elemento naturale. L’esempio più famoso è quello del santuario di Ōmiwa, a Nara, dove lo shintai è la montagna.
    Yoshiro: è un oggetto che, come un parafulmini, attrae il kami e gli offre uno spazio fisico da occupare temporaneamente. Lo shintai è quindi uno yoshiro. Può essere un albero, una roccia, una katana o una montagna, e rappresenta la forma più primitiva del jinja. Di solito gli yoshiro sono identificabili perché sono circondati da grandi corde attorcigliate (shimenawa) decorate con strisce di carta a zig-zag.

Spesso nei santuari (ma anche nei templi buddhisti) sono presenti dei posti in cui appendere gli ema e, separatamente, gli omikuji. I primi sono delle tavolette di legno con un’immagine, in origine un cavallo. Il nome significa infatti “cavallo disegnato”, e si riferisce al fatto che, in passato, i ricchi offrissero ai kami questi animali, che sono considerati il loro mezzo di trasporto. Sul retro dell’immagine si può scrivere una richiesta per il kami (in qualunque lingua) e appenderla per fargliela arrivare.
Gli omikuji, invece, sono delle specie di oracoli scritti su carta che si estraggono a sorte e rivelano il futuro di una persona. In teoria, quelli negativi andrebbero appesi per scongiurare la cattiva sorte, ma spesso la gente appende anche quelli con i buoni auspici in segno di ringraziamento.

Al di fuori dello shintoismo più istituzionalizzato sopravvivono molte credenze popolari, parte del substrato da cui ha attinto la religione ufficiale. Lo shintoismo come lo conosciamo oggi è un prodotto di fine Ottocento. Nella sua formazione possiamo distinguere tre fasi:

1. Le origini delle credenze. La prima fase coincide con lo sviluppo di credenze sciamaniche e animistiche, nate probabilmente nel Nord-est asiatico e portate dalle popolazioni mongole. In questa fase non esisteva l’idea di una religione che si chiamasse “shintoismo”, e, siccome non c’era la scrittura, è difficile conoscerne i dettagli.  Per lungo tempo la popolazione giapponese fu organizzata in base ai clan, e ciascuno aveva le proprie credenze e divinità. Nel tempo, le varie fazioni iniziarono a unirsi sotto la guida di un unico clan, il cui dominio si espanse nel resto dell’arcipelago. Si tratta degli Yamato, che diedero origine alla linea imperiale che continua ancora oggi. La religione e la mitologia del clan dominante divennero quindi quelle condivise dal Paese, ma anche i miti degli altri gruppi vennero assorbiti e riorganizzati per costruire un sistema che mettesse al centro l’imperatore.

2. Le origini del termine.  La parola “shintoismo” comparve con l’arrivo del buddhismo nel VI secolo d.C., quando si cercò di trovare un termine per definire tutto ciò che non era buddhismo. Anche in questo caso, quindi, non si trattava necessariamente di un’unica religione organizzata in modo sistematico, ma di un insieme di pratiche e credenze.  Il fatto, però, che si inizi a parlare di shintoismo insieme al buddhismo getta le basi per lo sviluppo di questa seconda fase: la fusione tra i due culti. Per molti secoli, in Giappone, non si sentì la necessità di separare nettamente shintoismo e buddhismo. L’idea di esclusività propria dei grandi culti monoteisti qui non è mai arrivata. Le due religioni si influenzarono a vicenda e divennero inscindibili. Non si parlava tanto di “shintoismo” in sé, in quanto questo era un’usanza in senso ampio, non una religione che si professava. I kami furono visti inizialmente come protettori del buddhismo, poi come entità intrappolate nel ciclo delle rinascite e infine come bodhisattva, esseri illuminati. Per tutti questi motivi, i templi shintoisti e buddhisti sorgevano nello stesso luogo.

3. Le origini del sistema religioso organizzato. La “terza nascita” dello shintoismo risale all’epoca Meiji, a fine Ottocento. Il Giappone si stava aprendo all’Occidente dopo 250 anni di isolamento e sentiva il bisogno di definire la propria identità per evitare di essere fagocitato. Cercò nella propria cultura qualcosa di “originale” e autoctono, e lo trovò nello shintoismo. Mentre il buddhismo venne visto come una dottrina importata e corrotta, lo shintoismo venne esaltato come vera religione nazionale. Per la prima volta, quindi, si crearono due culti distinti.

In questa fase si cercò di analizzare e sistematizzare questa religione, stabilendo cosa fosse shintoista e cosa no. Nello stesso periodo nacque anche lo shintoismo di stato, che venne usato per sostenere il nazionalismo e la militarizzazione di inizio Novecento. Questa dottrina dava grande importanza al culto dell’imperatore, considerato un kami vivente.

Lo shintoismo di stato venne smantellato dopo la seconda guerra mondiale. Al giorno d’oggi, molti giapponesi si dichiarano atei, ma tantissimi fanno visita a un santuario a Capodanno (hatsumode), o magari in vista degli esami. Tra i santuari più famosi ci sono infatti i Tenmangū, dedicati a Tenjin, il kami protettore dello studio. Molto popolari sono anche quelli consacrati a Inari, che protegge le messi e gli affari e che ha come messaggero una volpe. Tante grandi aziende, tra cui la Shiseido, hanno un santuario dedicato a Inari nei loro edifici.
Il santuario Fushimi Inari è una tappa obbligata a Kyoto, ma ce ne sono tantissimi altri in Giappone. 

Dal sito:  https://volcanohub.com/ 

Lezioni di Yoga alla scuola O. Respighi, Spinaceto - Roma

Poi per chi fosse interessato faccio lezione di Yoga tradizionale alla scuola secondaria "O Respighi" via Gigliozzi, 35  a Spinaceto  - Roma il giovedì alle ore 16,30-17,45.   Le lezioni sono gratuite e aperte al territorio.

 

Gautama Buddha

Gautama Buddha visse nel VI secolo a.C., un'epoca di straordinario fermento intellettuale e spirituale in tutto il mondo antico. All'incirca negli stessi anni in Cina due giganti del pensiero e della coscienza, Lao-Tze e Confucio, danno forma a quelle che resteranno nel corso dei millenni le caratteristiche fondamentali della riflessione filosofica, della cultura, dell'arte e della religione cinese.  In Grecia i filosofi presocratici gettano le basi del pensiero filosofico e scientifico di tutto l'Occidente.  In India ferve una ricerca filosofica e spirituale intensa, con grandi centri di sapere, innumerevoli scuole e accesi dibattiti, e nascono più o meno contemporaneamente in questi anni il buddismo e il jainismo.   

A partire più o meno dal 1000 a.C., accanto alla tradizione vedica e braminica, si è andata sviluppando un'importante corrente spirituale, che trova espressione nei testi delle Upanishad.  Ed è a questo mondo culturale, in particolare al mondo dei 'saggi della foresta', che appartengono i concetti fondamentali di cui Buddha si serve nel suo insegnamento.  In questo senso si può dire che egli sia stato non tanto portatore di una nuova visione, quanto di un approccio esperienziale dotato di una nuova freschezza e universalità, un approccio rivolto a tutti coloro che erano disposti a metterlo in pratica anziché a una ristretta cerchia di asceti e di mistici.  

La vita del Buddha è ampiamente circondata di leggende.  Ma abbiamo ragione di ritenere che queste leggende contengano un nocciolo di verità e alludano a una personalità storica relativamente ben individuata. La figura storica è quella del principe Siddhartha Gautama, nato nel 563 a.C., figlio del sovrano del piccolo regno del clan Shakya, ai piedi dell'Himalaya, nella regione che è oggi al confine fra l'India e il Nepal.  Era a quei tempi una regione prospera, a cavallo delle vie commerciali di accesso alla valle del Gange, che doveva quindi conoscere un notevole sviluppo urbano.
Buddha perciò crebbe in un ambiente ricco e raffinato, a contatto con quanto di meglio la cultura dei suoi tempi poteva offrire. Da questo mondo si staccò per diventare un 'monaco mendicante' (bhikkhu) e trascorse la seconda parte della propria vita in estrema semplicità, viaggiando per l’India e insegnando il cammino dei risveglio (Buddha è un appellativo che significa appunto 'risvegliato') a tutti coloro che si raccoglievano intorno a lui.  Morì verso il 483 a.C.

Intorno a questi dati fioriscono suggestive leggende del suo insegnamento. Una di queste, è la storia secondo cui il giovane principe sarebbe stato tenuto accuratamente al riparo da ogni contatto con tutto ciò che nella vita umana costituisce debolezza, infermità, bruttezza, sofferenza.  Per anni fu tenuto lontano da ogni esperienza riguardante la malattia o la morte.  Ma un giorno egli convinse il suo auriga a portarlo a fare un giro fuori dalle mura del palazzo.  In questa gita si imbatté prima in un malato, poi in una vecchia, poi in un cadavere.  Questi incontri furono per lui una specie di rivelazione.  Questa era dunque la realtà sottostante alle dorate apparenze della sua vita di svaghi e di piaceri.  Il quarto incontro fu con un bhikkhu immerso in meditazione. L’immagine di quell'uomo restò impressa nella memoria del principe Siddhartha e fu come un presentimento del cammino che lui stesso avrebbe più tardi intrapreso.

Un'altra storia suggestiva riguarda l'illuminazione, il momento del risveglio.  Lasciata la casa paterna, Siddhartha visse per anni nelle foreste, praticando forme estreme di ascetismo.  Era questa una nobile e antica tradizione di ricerca spirituale: per ottenere la liberazione dalla ruota karmica, che ci tiene vincolati all'esistenza condizionata, e prigionieri della sofferenza, occorre andare al di là di ogni attaccamento, e questo era appunto il senso delle pratiche ascetiche degli eremiti della foresta.  Siddhartha, si dedicò dunque con estremo rigore a queste pratiche, digiunando, dormendo sulla nuda terra, meditando incessantemente, fino a ridursi allo stremo delle forze e a un soffio dalla morte.  Invano, malgrado tutti i suoi sforzi, la porta della liberazione restava ostinatamente chiusa.  Finché giunse a perdere ogni speranza.  Capace appena di trascinarsi, si sedette ai piedi di un albero.  Tutto era vano.  Cessato ogni sforzo, caduto anche il desiderio della liberazione, si abbandonò semplicemente al puro 'esserci'.  Senza più cercare nulla, senza più sperare nulla, senza più desiderare nulla, Siddhartha semplicemente restò seduto ai piedi dell'albero. Era la notte della prima luna piena di primavera.  Una giovane contadina, scambiando quella figura per un dio, gli portò delle offerte di cibo.  Poiché il suo digiuno non aveva più ragione di essere, Siddhartha mangiò e in quell'abbandono una pace sconosciuta lo avvolse.  La sua coscienza divenne un lago limpido e immobile, uno specchio vuoto.  E quando la stella del mattino sorse sopra l'orizzonte egli non c'era più.  La fiamma dell'esistenza separata si era spenta in lui.  Ciò che pulsava in lui era il cuore dell'esistenza stessa. 1 suoi occhi erano diventati finestre sull'infinito.  Non c'era più in lui alcuna resistenza all'infinita danza della vita/morte/vita.  Nulla che si ponesse come separato rispetto al tutto.  Non c'era più un io, ma solo una presenza, Buddha, 'il risvegliato'.

Secondo una leggenda sarebbe stato il dio creatore stesso, Brahma, a convincere Gautama Buddha a prendere la via dell'insegnamento, a cercare di indicare agli esseri umani il cammino della liberazione che egli aveva trovato.  Questo divino intervento allude a una certa paradossale situazione in cui Buddha, come i mistici di ogni luogo e di ogni tempo, venne a trovarsi.  All'esperienza sublime che trascende ogni esperienza, si accompagna la chiara realizzazione che questa perfetta beatitudine è la natura intrinseca di tutti gli esseri.  Ogni essere umano, ogni essere senziente, è potenzialmente un Buddha. É un Buddha addormentato, un Buddha in attesa di svegliarsi.  Il passo che conduce dalla sofferenza alla gioia è brevissimo, anzi, non è nemmeno un passo.  E la beatitudine del Buddha è tanto grande, che vuole essere condivisa, trabocca, si riversa naturalmente verso tutti gli esseri viventi.  Come non condividere con tutti questo destino sublime che appartiene loro di diritto?
Eppure, nello stesso tempo, e qui sta il paradosso, come condividerlo?  Come comunicare un'esperienza che sta del tutto al di fuori della mente, una realtà che può solo essere sperimentata in uno spazio di non-mente?  Con quali parole esprimere l'inesprimibile, quando la mente a cui il linguaggio appartiene è l'ostacolo stesso all'esperienza che si vuole comunicare?  Ogni illuminato, a quanto pare, si trova di fronte a questo dilemma.  Il grande mistico cinese Lao-Tze inizia il suo libro, il Tao Te Ching, dicendo: «Il Tao di cui si può parlare non è l'eterno Tao».
Bisogna perciò, secondo la leggenda, che sia un dio a spingere Buddha a tentare l'impossibile, a comunicare l'incomunicabile, a fare del suo stesso essere un invito, un dito che indica la luna.  Il dito non è la luna e molti si attaccheranno al dito senza vedere la luna.  Ma alcuni che hanno occhi per vedere, vedranno.  E se anche un solo essere dovesse accogliere l'invito al risveglio, questo basterebbe a giustificare tutta una vita spesa a 'far girare la ruota del dharma', a parlare della legge eterna, dell'eterno essere-così delle cose.

Dhammapada, Il libro più amato dal Canone Buddista

Il Dhammapada, il 'cammino dei dharma', è una traccia dell'insegnamento del Buddha.  Nell'intero vastissimo canone delle scritture buddiste, non abbiamo nulla che possiamo indicare con certezza come testuali parole del Buddha.  Ma non c'è dubbio che questi testi, consegnati alla scrittura parecchio tempo dopo la morte dei maestro, riflettono lo sforzo devoto dei discepoli diretti e di quelli delle generazioni successive, di tramandare il più fedelmente possibile le parole del Buddha.  Significativamente certi testi cominciano con le parole:    «Così ho udito ... » É una locuzione che esprime insieme lo sforzo di fedeltà e l'umiltà di chi riferisce.  Non 'così ha detto Buddha', ma 'così ho udito'.  Fra il messaggio che viene dalla dimensione al di là della mente e quello che la mente è in grado di ricevere e di capire c'è uno iato: «Così ho udito ... ».



Il Dhammapada è una raccolta, compilata parecchi anni dopo la morte di Buddha (probabilmente fra uno e quattro secoli), di aforismi tramandati e ricordati come parole del maestro.  Non contiene nulla delle elaborate discussioni e narrazioni che caratterizzano i testi più estesi, Qui troviamo solo lapidarie e spesso poetiche affermazioni ed esortazioni, raccolte per temi (la consapevolezza, la mente, la gioia, il piacere, l’ira, eccetera).  Questi 'temi' sono a volte solo metafore ricorrenti (i fiori, le migliaia, l'elefante); a volte è solo la presenza di una certa parola a giustificare la collocazione di un aforisma entro un certo tema.  Non si può dire dunque che si tratti di una raccolta veramente organica.  A volte, inoltre, è lecito supporre che strati di interpretazioni successive si siano sovrapposti a ciò che 'è stato detto'.
Ciononostante questa piccola raccolta contiene un tesoro inestimabile, ci comunica qualcosa del sapore dell'insegnamento di quest'uomo straordinario.  In essa forse più che in ogni altro testo abbiamo la sensazione che Buddha stia parlando a noi direttamente, per 'ammonirci, guidarci, distoglierci dall'errore'.  Ed è probabilmente questa qualità che ha fatto di questo libricino forse il più amato e il più letto dell'intero canone buddista.

Il primo e fondamentale dei concetti trattati è proprio quello di risveglio, bodhi, illuminazione o liberazione.  'Risveglio' presuppone un sonno: il sonno, di cui qui si tratta, non è altro che lo stato della nostra coscienza ordinaria.  La concezione sottostante, è che la nostra ordinaria percezione di noi stessi e del mondo sia fondamentalmente 'illusione'.  Viviamo in un mondo di miraggi e di fantasmi, agiamo tutto un nostro teatro interno di sogni e di proiezioni.
Al centro di questo mondo c'è un'illusione o errore fondamentale: l'illusione dell'esistenza di un 'sé', l'illusione che ci fa credere di esistere come qualcosa di individuato e separato dal tutto. É un po' come se un'onda credesse di esistere separatamente dal mare.  Le onde si raccolgono, si frangono, si rimescolano nel mare.  L’acqua stessa che le forma non è mai la stessa. L’onda è solo un disegno che emerge e si dissolve nel caleidoscopico movimento complessivo dell'acqua.  Ma, se l'onda si identifica con la propria esistenza separata, essa viene a trovarsi inevitabilmente in una lotta disperata con la realtà della propria impermanenza.  Il sé, che si illude di esistere non può che attaccarsi a tutto ciò che nutre la sua esistenza separata e cercare di respingere tutto ciò che avvicina la sua dissoluzione nel tutto. L’illusione primaria dell'esistenza di un sé, è perciò immediatamente seguita da due movimenti della coscienza: attrazione e repulsione, desiderio e avversione, odio, paura.  L’illusione primaria è il nocciolo di quella che i buddisti caratterizzano come 'ignoranza': uno stato di offuscamento in cui non siamo in grado di percepire la realtà delle cose.  E questa terna, ignoranza, desiderio, avversione, si trova al centro della ruota della vita e della morte, un curioso mandala circolare che descrive simbolicamente il fatale avvicendarsi di nascita, crescita, invecchiamento, morte e rinascita.  Perduti in questo ciclo del samsara, dell'esistenza illusoria, gli esseri si trascinano di vita in vita, inseguendo un sogno impossibile, eternamente prigionieri della disillusione, della sofferenza e della morte.
La più lapidaria enunciazione di questo stato di cose è costituita dalle cosiddette 'quattro nobili verità, di Buddha.  Esse sono: l'esistenza è sofferenza; questa sofferenza ha un'origine; essa ha anche una fine; il cammino che conduce al risveglio porta alla fine della sofferenza.  Cioè: l'illusione di esistere separatamente, ci pone in conflitto con l'effettivo essere-così delle cose e ci pone perciò in una situazione cronica di sofferenza.  Questa sofferenza ha la sua origine nell'ignoranza, nel desiderio e nell'avversione.  Perciò chi va al di là di ogni desiderio e di ogni avversione, chi si risveglia dal sonno dell'ignoranza, trascende ogni sofferenza.  Non è più identificato con il proprio corpo e, anche se il corpo muore, la sua coscienza vive in tutto l'universo.  Ma, la sua coscienza, non è più questo frammento che si è illuso di esistere separatamente e che ha viaggiato di corpo in corpo: essa è semplicemente 'la' coscienza, la coscienza dell'universo, la coscienza del tutto.

L’idea sottostante almconcetto di reincarnazione è quella di karma, secondo cui ogni azione lascia delle tracce sottili nella coscienza di chi la compie, tracce, che a loro volta facilitano il prodursi di certe azioni e di certe circostanze nella vita della persona. Il pensiero orientale assume che questo rapporto di consequenzialità non si limiti all'ambito di una sola vita, ma si estenda anche al di là della morte, in un ciclo di trasmigrazioni che il sé illusorio percorre, sospinto dalla molla del desiderio e dell'avversione e condizionato dalle tracce delle proprie passate azioni ed esperienze.
Non è necessario condividere questo presupposto per cogliere l'essenza del discorso di Buddha.  Dal punto di vista di Buddha, il ciclo delle reincarnazioni, è solo la metafora con cui la mente orientale si rappresenta l'esistenza di un sé separato, mentre il pensiero occidentale, se la rappresenta con la metafora di un'unica vita seguita da un aldilà o dal nulla eterno, secondo le credenze.  Né l'una né l'altra vanno prese sul serio: entrambe descrivono qualcosa che ha comunque un'esistenza soltanto illusoria.  E interessante notare che questo non è soltanto il punto di vista di Buddha, ma anche quello delle più raffinate conoscenze sulla materia di cui disponiamo oggi.  Dal punto di vista della fisica per esempio, l'idea dell'esistenza autonoma di un corpo è del tutto astratta e formale, nel contesto di quel viluppo indivisibile di campi interagenti che è l'immagine della realtà fornita dalle teorie più recenti.
Più vicina alla nostra esperienza diretta, è forse una semplice interpretazione psicologica dell'idea di reincarnazione.  La vita del nostro corpo e della nostra coscienza è un flusso costante: in un certo senso moriamo e rinasciamo ogni momento.  E ogni momento rinasciamo portando con noi le tracce del nostro passato, il nostro karma istante per istante.  In questo senso il Dhammapada è un invito a concentrare tutta la nostra attenzione, tutta la nostra energia, tutta la nostra consapevolezza, tutta la nostra capacità di risveglio in ogni attimo di vita.  Ogni attimo di luce si lascia dietro una scia di luce.  Se in questo istante sei sveglio, attento, cosciente, è più facile che tu sia sveglio, attento cosciente nel prossimo istante.  

A volte può sembrare che il Dhammapada abbia toni di negazione della vita nei suoi aspetti concretamente sensibili.  Un enunciato come 'l'esistenza è sofferenza' o l'invito a trascendere ogni desiderio, possono essere letti come negazione della gioia e della bellezza, di questo miracoloso divino caleidoscopio di illusioni in cui viviamo.  E non c'è dubbio che in una parte notevole dell'ortodossia buddista, come del resto di quella cristiana, tutta una dottrina e una pratica sono condizionate da questo approccio anti-vitale.  Ma, fortunatamente, nel buddismo sopravvivono anche tradizioni che leggono il messaggio di Buddha in maniera diversa.  Secondo queste letture l'invito non è a 'rinunciare al mondo', a minimizzare il godimento del corpo e l'esperienza sensibile, a rifugiarsi nell'ascesi, anche se questo può essere un passo utile in una certa fase del cammino.  Non dimentichiamo che Buddha raggiunse la liberazione quando si spinse al di là anche delle sue pratiche ascetiche.

Nel buddismo Zen c'è una curiosa serie di dieci immagini, detta 'i dieci tori Zen', che descrive il cammino verso l'illuminazione. Nell'ultima di queste immagini il protagonista, raggiunta l'illuminazione, ritorna verso la piazza del mercato con un recipiente di vino in mano.  Se c'è una rinuncia cruciale nel cammino verso la liberazione, essa non è la rinuncia al mondo, ma la rinuncia al punto di vista dell'io separato, al sofferente egoismo con cui cerchiamo di realizzare i 'nostri' fini.  Ogni altra rinuncia, ogni altra pratica ascetica, come vari aforismi del Dhammapada suggeriscono, è un'arma a doppio taglio: nel sonno dell'io essa può trasformarsi in un nuovo attaccamento, in ambizione spirituale, in un modo per sotterrare conflitti e dubbi.  Il più sottile attaccamento, l'ultimo ostacolo, sembra essere proprio il desiderio dell'illuminazione.  Perciò, dice l'ultimo capitolo del Dhammapada, il bramino 'non desidera nulla, né in questo né nell'altro mondo'.    

L’Obon, noto come festa delle lanterne, in Giappone

L’Obon, anche noto come festa delle lanterne, è il giorno giapponese dei morti, e, insieme al Capodanno, è una delle ricorrenze principali del Paese.


L’Obon è considerata una festa buddhista, ma, come spesso succede, incorpora anche elementi preesistenti o derivanti da altre tradizioni. Il culto degli antenati, infatti, in Giappone esisteva già prima dell’avvento del buddhismo ed è presente nello shintoismo, la religione “autoctona” del Paese, oltre che nel confucianesimo e nel taoismo.

In Giappone, nel culto degli antenati pre-buddhista, c’erano due feste principali in cui le anime dei defunti tornavano in questo mondo: il Capodanno e quello che oggi chiamiamo Obon. Nel tempo, il Capodanno è stato assorbito principalmente dalla sfera shintoista, e si è quindi dato risalto alle anime come “kami” (divinità o spiriti dello shintoismo), simboleggiate dalla figura di Toshigami.
Anche le famiglie di fede shintoista, comunque, festeggiano l’Obon.
Ufficialmente, l’origine dell’evento (e del nome) viene fatta risalire a “Urabon”, la traslitterazione del sanscrito “ullambana” (che vuol dire “appeso a testa in giù”, in riferimento al patimento delle anime tormentate). Il termine si riferisce a un sutra omonimo in cui si racconta la storia di Mokuren, un discepolo di Buddha che raggiunse uno stato superiore di conoscenza. Usando questa sua capacità, riuscì a scoprire che lo spirito di sua madre si trovava nel regno delle anime affamate. Mokuren cercò di darle da mangiare, ma appena prima di entrarle in bocca, il cibo prendeva fuoco.
Si rivolse quindi a Buddha per chiedergli come aiutarla, e lui gli rispose che nel quindicesimo giorno del settimo mese lunare avrebbe dovuto offrire cibo e bevande alla comunità monastica, e che quelle offerte si sarebbero trasmesse a sua madre.

Anche se questa storia è all’origine del nome ed è stata collegata alla festa, l’usanza di accogliere le anime dei morti e offrire loro del cibo non esiste nel buddhismo indiano, ma proviene da tradizioni preesistenti assorbite dal buddhismo stesso durante la sua diffusione in Cina e in Giappone.

Si dice che il primo Obon in Giappone sia stato organizzato nel VII secolo, ma per lungo tempo rimase un evento limitato alla corte imperiale e ai nobili.
Solo nel periodo Edo (1603-1868) iniziò a essere festeggiato anche dalle masse. Sembra che questa diffusione sia in parte dovuta alla produzione di massa e al successivo calo dei prezzi delle candele, che permisero a molte più persone di provvedere a lanterne e decorazioni. A metà Seicento, inoltre, il governo militare aveva istituito il sistema danka, per cui ogni famiglia doveva essere affiliata a un tempio buddhista. Fu così che l’Obon venne inglobato nei riti di questa religione.

L’Obon oggi è soprattutto una festa in cui si torna in famiglia, si sta insieme e magari si visitano le tombe dei propri cari. Solo pochi giapponesi mantengono le antiche tradizioni, che comunque variano enormemente da zona a zona.

Il primo giorno del settimo mese lunare viene anche chiamato “kamabuta tsuitachi”: è il giorno in cui gli inferi si “scoperchiano” e lasciano uscire le anime. Da questa data iniziano le visite alle tombe e si cominciano i preparativi per accogliere gli spiriti degli antenati.
In alcune regioni si taglia l’erba lungo i fiumi e ai margini delle strade che scendono dalle montagne. Questo serve per agevolare il passaggio delle anime che, secondo lo shintoismo, vivono sui monti, nei corsi d’acqua e nel mare. Ecco quindi un esempio di un particolare shintoista inserito in una festa considerata buddhista.
Con l’apertura degli inferi non escono solo le anime benevole degli antenati, ma anche gli spiriti “cattivi”. In alcune zone si diceva che da questo giorno bisognasse stare attenti quando si faceva il bagno nei laghi, nei fiumi e nel mare: si rischiava infatti di essere trascinati a fondo dallo spirito inquieto di qualche morto annegato.

Il 7º giorno è quello in cui iniziano ufficialmente i preparativi più concreti. Si dispone un altarino (shōryōdana) su cui verranno messe le offerte per gli spiriti in visita. In molte regioni del Giappone si preparano un cetriolo e una melanzana con 4 stecchini conficcati a mo’ di zampe per simboleggiare un cavallo e una mucca. Il primo, più veloce, serve a portare l’anima del defunto a casa; la seconda, più lenta, serve a farla tornare con calma nell’aldilà, magari carica dei doni ricevuti.

Il 13º giorno si accendono i fuochi di benvenuto (muakebi) per guidare le anime nel loro viaggio di ritorno a casa. Le modalità variano a seconda delle zone: ci possono essere lanterne appese davanti alle case (in questo caso, le lanterne bianche indicano che si tratta del primo Obon dalla morte del familiare), oppure fuochi lungo i fiumi, sulla spiaggia, nei cimiteri. La tradizione prevede anche che si accendano piccoli fuochi davanti a casa. Un tempo alcune famiglie, se vivevano vicino al cimitero, si recavano alla tomba dei loro cari con delle torce di paglia. Ne accendevano una sulla tomba, e poi una a ogni incrocio fino alla porta di casa, per evitare che le anime si perdessero.
Dalla sera del 13º giorno, inoltre, si mettono le offerte ai defunti sull’altare preparato in precedenza.

Intorno al 14º-15º giorno si invitano i monaci a recitare sutra. Per tutto il tempo in cui gli spiriti stanno in casa, ricevono 3 pasti al giorno, sempre serviti sullo shōryōdana.

La sera del 16º giorno (a volte del 15º) si accendono i fuochi di commiato (okuribi) per guidare le anime nel loro ritorno all’aldilà. L’evento più famoso è il Daimonji di Kyoto (ovvero il Gozan no okuribi), in cui 5 fuochi a forma di simboli giganti vengono accesi sulle montagne intorno alla città.
In alcune zone si usano anche lanterne fluttuanti sull’acqua o barche, dato che, come abbiamo visto, le anime vivono nei fiumi o nel mare. A Nagasaki, ad esempio, a portare via gli spiriti sono delle grandi barche che, dopo una processione per la città, vengono messe in mare. A Morioka, nella prefettura di Iwate, si appicca il fuoco a una barca di diversi metri che poi viene messa a galleggiare sul fiume.

Il 15º o 16º giorno si svolgono anche le famose bon-odori, le danze tipiche di questa festa. Anche se hanno origine nelle nembutsu-odori, delle danze religiose in cui al ballo si accompagnava un’invocazione a Buddha (chiamata appunto “nembutsu”), oggi l’elemento religioso è per lo più sparito e sono diventate delle grandi feste a cui partecipano tutti. Anche l’accompagnamento musicale è il più disparato, e si va dai taiko (i tamburi) alla musica pop. Per i giapponesi, le bon-odori sono anche un’occasione per rivedere i propri compaesani trasferitisi in città, o per gironzolare tra le bancarelle della festa. I tre principali eventi di bon-odori in Giappone sono quelli di Nishinomai, nella prefettura di Akita (a nord), l’Awa-odori nello Shikoku e il Gujō-odori nella prefettura di Gunma (nel centro). Nel 2022 alcuni tipi bon-odori, insieme ad altri balli tradizionali, hanno ricevuto lo status di patrimonio culturale immateriale dall’UNESCO.

A livello nazionale, la grande maggioranza delle persone festeggia l’Obon a metà agosto.
Anche se, a differenza del Capodanno, l’Obon non è un giorno festivo, tante aziende chiudono e molti giapponesi prendono ferie per tornare dalle loro famiglie d’origine.
Prima l’Obon si teneva dal 13º al 16º giorno del settimo mese lunare, col passaggio al calendario gregoriano, nel 1873, alcune zone hanno mantenuto il riferimento al settimo mese e hanno iniziato a festeggiarlo a luglio. Altre, per evitare che la festa coincidesse con un un periodo in cui c’è molto lavoro nei campi, hanno deciso di fissare una data più vicina a quella del calendario lunare: dal 13 al 16 agosto. A Okinawa, invece, si è continuato a osservare il calendario lunare, quindi la data varia ogni anno.

Dal sito:  https://volcanohub.com/

Il confucianesimo in Giappone

Quando pensiamo alle religioni e filosofie seguite in Giappone, probabilmente ci vengono in mente il buddhismo e lo shintoismo. Il confucianesimo sembra essere invisibile, eppure ha avuto un impatto enorme sul piano sociale, politico e morale del Giappone. Molte caratteristiche che ci sembrano tipicamente giapponesi (l’importanza dell’armonia, il rispetto dell’ordine sociale) affondano le radici proprio nel confucianesimo. Anche tanti principi del bushidō, il codice morale dei samurai, derivano da questa disciplina. Se il confucianesimo è diventato invisibile in Giappone non è perché non esista, ma proprio perché alcuni suoi insegnamenti si sono fusi così profondamente con la cultura nipponica da non poterne più essere scissi.

Il confucianesimo, anche se contiene elementi religiosi, è una dottrina incentrata sull’essere umano da una prospettiva secolare: più che proiettare il significato della vita in una dimensione “altra” e in ricompense ultraterrene, il confucianesimo si concentra su questo mondo. Non vuole salvare gli individui, ma creare benessere collettivo nella società. I templi confuciani nel Paese si contano sulle dita di una mano (Lo Yushima Seido è uno dei più importanti e pochi templi confuciani), e probabilmente nessun giapponese si professa confuciano.

Lo scopo del confucianesimo è infatti il raggiungimento dell’armonia sociale. Questa è possibile solo se ognuno conosce il proprio ruolo e adempie ai doveri che gli spettano, educandosi ed elevandosi moralmente. In generale, con “confucianesimo” si intende una filosofia/religione/dottrina politica iniziata da Confucio nel VI secolo a.C. e poi sviluppatasi nel corso di più secoli, evolvendosi in quello che viene chiamato “neoconfucianesimo”. 

Concretamente, questa disciplina comprende una miriade di modi di pensare e di comportarsi sviluppatisi in Cina e che sono stati uniti in un sistema coerente durante la dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.), quindi secoli dopo la nascita di Confucio. I pensatori politici della dinastia Han hanno usato frammenti di scritti attribuiti a Confucio e ad altri pensatori per creare un apparato testuale e un’ideologia più ampi e coerenti. Gli occidentali hanno chiamato l’intera dottrina “confucianesimo” che riunisce varie correnti di pensiero. A differenza di Buddha, Confucio, pur essendo un grande maestro, non si considerava l’inventore di nessuna filosofia: l’ideale che promuoveva era un ritorno ai princìpi e alle virtù dei saggi sovrani dell’antichità, una specie di età dell’oro esistita secoli prima di lui.

Il principio del confucianesimo
è quello di spronare le persone a impegnarsi per elevarsi moralmente. Ha quindi fiducia nella capacità dell’uomo di perfezionarsi e dà grande enfasi allo studio e alla formazione. D’altra parte, dirà Mencio, uno dei grandi pensatori confuciani, la natura umana è buona, quindi l’uomo deve “solo” realizzare la sua vera natura (questo è anche uno dei principi cardini del buddhismo).
La condizione ideale a cui aspira un confuciano è quella di principe in senso morale, di uomo esemplare. Tutti, a cominciare dai sovrani, devono studiare e perfezionarsi. Chi governa deve essere di esempio per generare la giusta trasformazione morale della società. Non può aspettarsi dagli altri qualità che lui per primo non ha.

Le virtù cardinali dell’uomo esemplare sono cinque:

  •  Benevolenza. È la capacità di interagire con gli altri pensando al loro bene. È la virtù centrale, e va mostrata soprattutto nei confronti dei propri sottoposti.
  •  Rettitudine, giustizia: si riferisce alla non corruttibilità, alla capacità di mantenere la propria integrità e di comportarsi in modo equo, senza pensare al tornaconto personale. È anche senso del dovere, responsabilità.
  •  Correttezza rituale: è un concetto complesso che esprime una comprensione del proprio posto e ruolo nella società, un’adesione alle regole rituali e a quelle del comportamento sociale.
  •  Saggezza o conoscenza: è il discernimento, la capacità di distinguere comportamenti corretti o deviati negli altri.
  • Integrità o affidabilità, l’essere degni di fiducia.

Un altro importante concetto, nell’etica confuciana, è la pietà filiale che non è semplicemente rispetto verso i propri genitori, ma un codice di condotta che si applica anche fuori dalle mura domestiche. È il rispetto per le gerarchie e per i superiori e si manifesta anche nei cinque principali rapporti sociali del confucianesimo: governante – suddito, padre-figlio, marito – moglie, fratello maggiore – fratello minore, amico – amico.
Ovviamente Confucio si è soffermato anche su altre virtù, come la lealtà/fedeltà  e il coraggio, che spinge una persona ad agire secondo giustizia. Non bisogna però confondere le idee di pietà filiale e lealtà con la cieca obbedienza: come il “sottoposto” (figlio, suddito) deve essere rispettoso e leale, così il “superiore” deve fornire un esempio morale, mostrare benevolenza e prendersi cura dei suoi “sottoposti”. Le relazioni richiedono quindi una sorta di corrispondenza.

Durante la dinastia Song (960-1279), in Cina si sviluppa il neoconfucianesimo, una dottrina nata nell’VIII secolo. La diffusione del buddhismo sprona i confuciani ad ampliare la  propria visione metafisica per poter competere e distinguersi da questa nuova religione. Il confucianesimo si oppone soprattutto alla visione del buddhismo zen e all’idea che tutto sia vacuità e impermanenza. Per i neoconfuciani, il mondo che percepiamo è del tutto reale. La realtà è composta da una forza generativa, una sostanza capace di assumere varie forme, detta ki e organizzata secondo il principio razionale ri, che le dà ordine intelligibile. Il neoconfucianesimo non si limita a opporsi al buddhismo, ma ne incorpora anche alcuni elementi. Ad esempio adotta e adatta la meditazione seduta dello zen (zazen).

Il confucianesimo arriva in Giappone nel VI secolo d.C., insieme al buddhismo, e viene applicato soprattutto alla sfera politica e amministrativa. Nella Costituzione dei 17 articoli emanata dal principe Shōtoku nel 604 d.C., il primo articolo fa riferimento proprio all’armonia. Il documento stabilisce princìpi confuciani per l’organizzazione della società: importanza della gerarchia, lealtà, obbedienza, decoro rituale, moderazione.
Nel periodo Edo (1603-1868) il Giappone è governato dagli shogun (shogun era un titolo equivalente al grado di generale, ereditario e conferito ai dittatori politici e militari a partire dal 1192). Dopo un periodo di battaglie, il Paese vive una fase di stabilità, ma anche di isolamento: i contatti con l’esterno vengono infatti ridotti all’osso e regolamentati.
La società è organizzata in un sistema gerarchico ben strutturato, ed è facile immaginare l’interesse della classe dominante per alcuni elementi della dottrina confuciana. In verità, però, in questo periodo il confucianesimo è anche in gran parte sinonimo di cultura e si diffonde per il suo legame con l’istruzione.
In quest’epoca di pace e prosperità, i mercanti si arricchiscono e vogliono concedersi un’istruzione raffinata. I samurai, che non sono impegnati a combattere, si dedicano allo studio. E le scuole sono confuciane.
Quando, nel periodo Meiji (1868-1912), con il ripristino del potere imperiale e l’apertura all’Occidente, la politica giapponese prende una piega più conservatrice e nazionalista, alcuni filosofi invocano un ritorno all’etica nazionale, un’ideologia intrisa di principi confuciani come la lealtà e la pietà filiale.
A quest’epoca si deve anche l’elaborazione del bushidō, il codice morale dei samurai. Anche se in teoria le idee che raccoglie risalgono all’epoca feudale, infatti, il bushidō è in verità una creazione del Novecento che promuove un’ideologia politica ed etica al servizio dello stato. E i concetti confuciani di lealtà e coraggio, travisati, si adattano benissimo a questo tipo di ideologia.
Le nozioni confuciane, insieme al bushidō, vengono così adattate e fatte confluire nell’ideologia militarista e imperialista della metà del ‘900 per promuovere l’indiscussa fedeltà all’imperatore e lo spirito di sacrificio.
A causa di questa manipolazione, nel periodo postbellico il confucianesimo verrà visto con un certo sospetto. I suoi principi, però, saranno ormai diventati parte integrante della cultura giapponese.

Il confucianesimo oggi, in Giappone
si manifesta nelle gerarchie sociali basate sull’anzianità. È nell’ideale di “armonia” che rifugge il confronto e lo scontro in favore della negoziazione. È nell’importanza dello studio e nell’enfasi sull’apprendimento per emulazione.
È anche nelle parole. Il termine “università” (daigaku) è il titolo di uno dei quattro libri del neoconfucianesimo. Il confucianesimo ha anche fornito una base linguistica e concettuale per l’assorbimento delle filosofie e delle scienze occidentali arrivate nell’era Meiji. Molti termini coniati per tradurre concetti occidentali utilizzano parole confuciane. “Logica” (ronri), ad esempio, contiene gli ideogrammi di discussione (ron) e di ri, il famoso principio razionale introdotto dal neoconfucianesimo.
Persino i nomi delle epoche imperiali sono quasi sempre stati presi dai classici confuciani. In Giappone, ogni volta che un nuovo imperatore sale al trono inizia una nuova epoca. I nomi dei periodi più recenti (Meiji, Taishō, Shōwa e Heisei) derivavano dai Cinque Classici confuciani. Nel 2019, però, è iniziata l’epoca Reiwa ( il “wa” in Reiwa significa Armonia), e per la prima volta si è scelta una parola presa dal Man’yoshu, la più antica raccolta di poesie classiche giapponesi. 

Dal sito:  https://volcanohub.com/ 

giovedì 7 marzo 2024

Il buddhismo Giapponese

Il buddhismo ha svolto un ruolo fondamentale nella storia giapponese. Oltre a essere una delle
due principali religioni del Paese (l’altra è lo shintoismo), è stato anche il mezzo con cui sono
arrivati in Giappone tantissimi elementi culturali dal continente.


Lo scopo del buddhismo è superare la sofferenza che deriva dall’attaccamento e dal desiderio, liberarsi dal ciclo delle reincarnazioni e raggiungere la condizione di nirvana. Non è importante definire una divinità da adorare o dei dogmi: ciò che conta è aiutare gli individui a liberarsi. In questa prospettiva, il buddhismo non è un fine. È un “veicolo” che traghetta i fedeli dalla sofferenza alla saggezza. In generale, possiamo dividerlo in tre correnti:

  • Theravāda: i suoi praticanti dichiarano di aderire più strettamente alle dottrine originali del Buddha storico. Per loro, l’illuminazione può essere raggiunta solo da chi abbandona la vita secolare per dedicarsi alla disciplina buddhista. È la corrente dominante nel sud-est asiatico.
  • Mahāyāna (o “del grande veicolo”): secondo questa corrente, chiunque può raggiungere la salvezza. Sono importanti le figure dei bodhisattva, cioè i praticanti che hanno già raggiunto l’illuminazione, ma scelgono di continuare a reincarnarsi per aiutare le persone a raggiungere il nirvana. La corrente Mahāyāna è la più seguita in Cina e in Giappone. Jizo in Giappone è uno dei bodhisattva più venerati, protettore di bambini e viaggiatori
  • Vajrayāna: buddhismo tantrico o esoterico, sviluppatosi a partire dal Mahayana. È seguito soprattutto in Tibet. Il termine “tantrico” si riferisce all’importanza data alla ripetizione di formule sacre (mantra), alla meditazione con l’uso dei mandala, alle visualizzazioni e ai gesti rituali per comunicare lo stato di buddha e raggiungerlo. Tutto questo può solo essere appreso con un maestro, rendendo queste dottrine “esoteriche”, cioè per iniziati. La figura centrale di questo tipo di buddhismo in Giappone è Dainichi Nyorai, il primo buddha ad averlo predicato.

Il buddhismo, nato in India intorno al V secolo a.C., giunse in Giappone solo nel VI secolo d.C., dopo un viaggio di oltre 1.000 anni e 5.000 chilometri. Attraversando secoli e civiltà, assorbì elementi delle culture con cui entrò in contatto e venne interpretato in modi diversi, portando alla formazione di più “scuole”. Quando sbarcò in Giappone, l’aristocrazia lo vide soprattutto come uno strumento per governare il paese, per compiere riti protettivi e per partecipare alla più ampia e sofisticata scena culturale del continente.

Fin dagli inizi il buddhismo, che arrivava già permeato da secoli di convivenza con confucianesimo e taoismo, si mescolò anche con lo shintoismo. Le due religioni, non essendo “esclusiviste” come i grandi monoteismi mediorientali, vissero in simbiosi fino a fine Ottocento. In particolare, come aveva già fatto con le divinità induiste (Un Nio, guardiano dei templi è un esempio di divinità induista incorporata nel buddhismo), il buddhismo integrò i kami shintoisti nella propria sfera. Inizialmente questi erano visti come creature soggette alla reincarnazione, e che quindi andavano liberate. In seguito vennero considerati manifestazioni di buddha o bodhisattva.

Già il principe Shōtoku, nel VII secolo, aveva cercato di amalgamare shintoismo, confucianesimo e buddhismo definendoli rispettivamente le radici, il tronco e i fiori del sistema religioso giapponese.
La fusione tra buddhismo e shintoismo venne messa in crisi a fine Ottocento, quando il governo ordinò la separazione dei due culti. Ne seguì un movimento a volte anche violento di discriminazione, espropriazione e chiusura dei templi. Questa politica, però, fu perseguita solo parzialmente.

Ai giorni nostri, anche se templi buddhisti e santuari shintoisti sono distinti, le pratiche religiose dei giapponesi mescolano varie tradizioni. Molti si definiscono “atei” proprio perché l’idea di “religione” è occidentale. Evoca riti strutturati e coerenti, mentre per un giapponese è normalissimo andare a un tempio shintoista a Capodanno o prima di un esame e visitare le tombe dei propri cari in un cimitero buddhista. Le usanze e credenze quotidiane hanno attinto da tutte le religioni disponibili (buddhismo, shintoismo, confucianesimo, taoismo) e non sono più identificate in nessuna di queste singolarmente.  

C'è il Buddhismo basato sul jiriki. Per le scuole di questo gruppo, la salvezza si può raggiungere con le proprie forze, grazie ad autodisciplina e meditazione.
Poi ci sono le scuole esoteriche/tantriche. Infatti in un primo periodo il buddhismo si legò principalmente alla corte, dove si diede maggiore enfasi ai riti e alle formule magiche.

Nel periodo Heian (794-1185) nacquero due scuole importanti, che ebbero un ruolo fondamentale nell’armonizzare shintoismo e buddhismo:

  • La scuola Tendai: si basa sul Sutra del Loto e sull’idea che tutto e tutti siano illuminati in potenza, perché ogni cosa ha una natura di Buddha. In questo senso è il connubio perfetto per l’animismo dello shintoismo. La scuola Tendai cerca di arrivare a una sintesi delle correnti buddhiste capendo l’unità che le accomuna. Nell’Enryaku-ji, il monastero sede del movimento, si insegnavano elementi di venerazione di Amida (tipici della scuola Jōdō), meditazione, pratiche esoteriche e precetti dei bodhisattva. Il tempio, situato sul monte Heian, vicino a Kyoto, divenne uno dei centri di formazione buddhista più importanti dell’epoca: lì studiarono i fondatori di molte delle principali correnti buddhiste successive.
  • La scuola Shingon (“Vera Parola”): venne introdotto da Kūkai, anche noto come Kōbō Daishi. È una scuola più prettamente esoterica che mescola a componenti native elementi magici indiani e dell’Asia Centrale. Uno di questi è il rituale del goma, un fuoco sacro in cui vengono bruciate le offerte e che ha radici negli antichi riti vedici indiani. Il tempio Kongobuji è il tempio principale della corrente Shingon.

Lo zen. Zen è la traslitterazione abbreviata del sanscrito dhyāna, che significa “meditazione”. Anche il buddhismo zen è arrivato in Giappone dalla Cina, dove era noto come Chán ed era stato introdotto nel VI secolo d.C. dal leggendario monaco Bodhidharma. In Cina questa dottrina si stabilizzò e, come sempre succede, assimilò alcuni elementi locali, in particolare taoisti.
Questa scuola arrivò in Giappone solo nel XII secolo, e i suoi rami principali (Rinzai e Sōtō) sono stati fondati da ex monaci Tendai.
Secondo il buddhismo zen, siamo tutti buddha in potenza, dobbiamo “solo” accorgercene risvegliandoci.
La verità, però, non si può insegnare o comunicare a parole: va vissuta personalmente e direttamente. Il risveglio (satori) non è una questione di studio o di ragionamento, ma un’intuizione. Lo strumento principale di cui ci si serve è lo zazen (meditazione da seduti). Nella scuola Rinzai, a questo si affiancano anche i kōan, delle specie di indovinelli che non possono essere risolti con la logica (“Che rumore fa una mano che applaude da sola?”).

Come abbiamo visto, lo zen, come tutto il buddhismo in Giappone, è stato un vascello che ha fatto arrivare nel Paese molti elementi estetici e artistici dalla Cina. Anche se la religione ha avuto un ruolo determinante nella loro introduzione e diffusione, è molto riduttivo ritenerli una sua emanazione o un suo prodotto.  Il ruolo centrale dello zen nell’arte (comprese le arti marziali), nelle discipline e nelle anime dei giapponesi è in buona parte un’interpretazione nata all’inizio del Novecento. In Occidente Suzuki Daisetsu è stato il più famoso promotore di queste idee.

Buddhismo basato sul tariki.
È il gruppo di cui fanno parte le scuole più seguite in Giappone. Per le dottrine di questo gruppo, la salvezza si raggiunge solo con la fede, affidandosi alla benevolenza e al potere di un Buddha (solitamente Amida).
Per capire le motivazioni di questa scuola bisogna guardare il periodo storico: dopo anni in cui i monaci buddhisti erano coinvolti in episodi di corruzione e complotti politici, nel XII secolo si era aperta un’epoca di guerre, calamità e carestie. Sembrava, insomma, che fosse giunta l’era del Mappō, o della degenerazione della legge del Buddha, in cui il mondo diventa così corrotto che la gente non può più mettere in pratica gli insegnamenti buddhisti e non può salvarsi con le proprie forze. In tempi così infausti, l’unica speranza era affidarsi ad Amida.

Questo fu anche il periodo in cui il buddhismo si diffuse alla popolazione: erano quindi necessari approcci più semplici, invece di riti e dottrine complicate. Come abbiamo visto, una delle soluzioni che si svilupparono fu lo zen, basato sul jiriki.

Tra le principali scuole basate sul tariki, invece, troviamo:

  • - Jōdō-shū (Scuola della Terra Pura): fondata in India intorno al I-II secolo d.C., in Giappone faceva originariamente parte della scuola Tendai, da cui si separò nel periodo Kamakura (XII secolo). Il nome si riferisce al “Paradiso Occidentale” in cui i credenti rinascono dopo la morte. Lì, ad aspettarli, ci sarà il Buddha Amida (l’ex monaco indiano Dharmakara) che li aiuterà a raggiungere il nirvana. L’obiettivo, quindi, attraverso la fede e le buone azioni, non è raggiungere direttamente il nirvana, ma rinascere in questo paradiso. Non è importante studiare i sutra o meditare, quanto piuttosto dimostrare la propria devozione con il nembutsu, cioè evocando il nome del Buddha Amida.
  • - Jōdō Shinshū (Vera Scuola della Terra Pura): è una versione più “radicale” della precedente. Rifiuta tutti i sutra a parte quello della Terra Pura e toglie ogni valore ai “meriti” individuali per rinascere nel paradiso. Le pratiche e le azioni sono inutili perché denotano una mancanza di totale affidamento e non sono accessibili a tutti. L’unico modo per salvarsi è la fede assoluta, l’abbandono ad Amida.  Il Grande Buddha di Kamakura (una città giapponese sul mare a sud di Tokyo) rappresenta Amida, la figura principale del buddhismo della Terra Pura.  Il Buddhismo della Terra Pura, la cui corrente principale, maggioritaria e diffusa è nota anche come amidismo, è un ramo del buddhismo Mahāyāna, che enfatizza i rituali e le pratiche devozionali, ed è attualmente una delle scuole di buddhismo dominanti nell'Asia orientale, dove divide la scena con lo zen.

Poi c'è la scuola di Nichiren: questa scuola prende il nome dal suo fondatore, anche lui formatosi nella scuola Tendai. Rappresenta una via di mezzo tra l’approccio jiriki e quello tariki. Secondo Nichiren, che si considerava un bodhisattva, il Sutra del Loto era l’insegnamento supremo e l’unica via per la salvezza. In questo era intransigente, e denunciò le altre correnti buddhiste per avere travisato la verità.  Le due pratiche religiose principali sono la contemplazione di una specie di mandala da lui concepito (honzon) e la ripetizione, sia vocale che nei gesti, della lode al Sutra del Loto (Namu Myōhō renge kyō). Da questa scuola hanno avuto origine molte “nuove religioni” giapponesi, tra cui la controversa Soka Gakkai, un movimento nato nel 1930 che dichiara di avere 12 milioni di fedeli nel mondo. È centrata anch’essa sul Sutra del Loto, e fino al 1991 era il braccio laico della scuola Nichiren Shōshū. Nel 1964 alcuni suoi membri hanno fondato un partito politico, il Kōmeitō, che è il terzo partito del Giappone.

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