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mercoledì 4 dicembre 2024

Camminare per la pace e la felicità

 Dal sito di Flip News - Articolo di Roberto Fantini      https://www.flipnews.org/index.php/life-styles/spirituality/item/4168-camminare-per-la-pace-e-la-felicita-l-insegnamento-di-thich-nhat-hanh.htm

Prendi la mia mano
Cammineremo.
Semplicemente cammineremo.
Ci godremo il camminare
Senza pensare di arrivare da nessuna parte.
Cammina serenamente.
Cammina gioiosamente.
La nostra è una camminata di pace.
E’ una camminata di felicità.   
            -   Thich Nhat Hanh

Innumerevoli sono i doni lasciateci dal pensiero e dall’insegnamento del Maestro Zen vietnamita Thich Nhat Hanh. Alla base di tutti, credo sia possibile individuare un fondamentale minimo comun denominatore:  la volontà di travasare, nell’alienata ed alienante vita quotidiana del mondo contemporaneo, i grandi tesori della spiritualità buddhista, in maniera semplificata e laicizzata, rendendoli, perciò, più facilmente comprensibili e condivisibili.

In questo modo, benché tutta la vera anima del suo pensiero sia indissolubilmente connessa con la migliore tradizione buddhista, è riuscito a proporci un’etica ed una prassi educativa di universale respiro, volte a superare la visione di noi stessi come enti separati dagli altri individui e dall’intera realtà, e riuscendo così a farsi comprendere ed amare anche da chi si riconosce in altre esperienze religiose, nonché da chi si dichiara agnostico o ateo.

Thich Nhat Hanh (Thay per i suoi seguaci ed amici) è conosciuto, in particolar modo, per le pratiche di meditazione introdotte e diffuse nel mondo occidentale, oggi adottate (anche se non sempre in maniera adeguata) da un numero sempre crescente di persone alla ricerca di un maggiore equilibrio interiore e di una maggiore armonia psicofisica.   

Il grande monaco vietnamita iniziò a proporre insegnamenti in Occidente già all’inizio degli anni Settanta: fondamentale risultò l’apparizione di un suo libro nel 1975, intitolato The Miracle of Mindfulness (pubblicato poi in Italia da Ubaldini-Astrolabio, con il titolo di Il miracolo della presenza mentale), nel quale venivano presentate nuove pratiche meditative da lui sviluppate. Fra di esse, una che è stata accolta con favore da molti occidentali avvicinatisi al suo pensiero è la Meditazione camminata.
“Questa particolare modalità meditativa (forse la pratica che meglio incarna l’intima poesia e la delicata mitezza dell’animo dello straordinario maestro zen) è nata dalla constatazione che, nella nostra vita quotidiana, siamo prevalentemente dominati dall’”abitudine di correre”: “Ricerchiamo la pace, il successo, l’amore – sempre di corsa – e i nostri passi sono uno dei mezzi con i quali scappiamo dal momento presente.

Ma la vita e la pace sono disponibili soltanto nel momento presente.
Per quelli come noi – ci spiega Thay – che hanno l’abitudine di correre sempre, fare un passo smettendo di correre è una rivoluzione.” E la pace diventa disponibile se saremo in grado di entrare in contatto con la Terra, toccandola con i piedi “con molta dolcezza e felicità”, riuscendo ad immergerci a fondo nel qui e ora.
La meditazione camminata (da praticare non soltanto nei parchi e in luoghi isolati, ma anche nel trambusto delle grandi città, in casa, al lavoro, ecc.) è proposta come una vera forma di “resistenza” nei confronti di un intero sistema di vita collettiva imperniato sul correre frenetico e alienante in vista di innumerevoli obiettivi fuori e lontani da noi. Come un modo per “recuperare la nostra sovranità su noi stessi, rivendicare la nostra libertà e camminare sulla Terra da persone libere.”

Ogni nostro passo (compiuto da soli o con altri meditanti) può trasformarsi, quindi, in un atto di resistenza, anzi in un atto di vera liberazione: si cammina  per camminare, non per arrivare, per “godere di camminare”, per godere del fatto che ogni passo ci avvicina sempre più alla nostra vera casa, quella del qui e ora. Ognuno di noi, camminando su questa Terra, in “consapevolezza, concentrazione e visione profonda”, è in grado di compiere uno straordinario “miracolo”, quello di “diventare pienamente vivo e rendere possibili la gioia e la felicità” ”  *

In questa prospettiva, nella mattinata di sabato scorso 30 novembre, nel cuore di Villa Borghese (Roma)    si è svolta una Meditazione Camminata Internazionale sul tema “Entrare in contatto con la semplicità”, a cui hanno aderito diverse decine di persone, in contatto spirituale con innumerevoli altri partecipanti presenti in almeno altre 56 città di altri 21 Paesi, da Amsterdam a Bogotà, da Parigi a Vienna e Phnom Phen.**

In questo tipo di esperienze, ogni passo è destinato a trasformarsi in un vero e proprio liberatorio atto di ribellione e noncollaborazione nei confronti di un sistema reificante e mercificante che ci rapina del nostro tempo, della nostra capacità di empatizzare con il nostro prossimo e con le infinite manifestazioni della Vita.

Indubbiamente efficace per illustrare lo spirito che pervade simili iniziative è la poesia del nostro monaco intitolata “Contemplazioni sulla semplicità”.

Che io possa rendermi conto che nella mia vita ci sono già condizioni più che sufficienti per essere felice.
Che io possa paragonarmi meno agli altri e trovare la mia misura.
Che io possa semplicemente camminare, lasciando che preoccupazioni e paure si calmino.
Che io possa imparare a lasciar andare le mie richieste e aspettative.
Che io possa entrare in contatto con la gioia e la libertà di una vita semplice scelta da me stesso.
Che io possa lasciare andare le cose inutili e liberarmi dal bagaglio interiore.
Che io possa sperimentare la gioia di dare senza aspettative.
Che io possa dimorare semplicemente e felicemente nel momento presente, notando che non c’è nulla che io debba fare.
Che io possa invitare le persone che raramente sono soddisfatte a unirsi a me nello spirito durante la camminata.
Che tutti gli esseri siano felici
.

Note:  *Roberto Fantini e Cesare Maramici, THICH NHAT HANH UN SENTIERO TRA LE STELLE, Edizioni Efesto, Roma 2024, pp. 34-5.

**Le meditazioni camminate internazionali sono organizzate da sangha e gruppi Wake Up nella tradizione di Thich Nhat Hanh, dall’Ordine dell’Interessere e da gruppi locali del Network for Mindful Business, spesso in collaborazione con altri gruppi locali che amano la meditazione camminata e sono ispirati dal tema.

mercoledì 20 novembre 2024

Respirare - di Federico Dainin Jôkô Sensei

Federico Dainin Joko Sensei ha ricevuto lo shiho, la certificazione da cuore a cuore dal suo maestro Pierre Taigu Sensei ed è diventato maestro zen e il 93esimo patriarca della tradizione Soto.   In questo breve testo spiega l'importanza del respiro nella pratica dello Zazen (sedersi in meditazione).

Nel praticare Zazen è importante, prima di iniziare, salutare lo spazio in cui ci sediamo per prendere coscienza che ci siamo; per educarci ad essere consapevoli di ciò che andremo a fare, del luogo in cui ci troviamo e dove posiamo la nostra presenza.   
Salutiamo il cuscino e in seguito ci giriamo di 180 gradi e salutiamo coloro che sono di fronte al nostro cuscino. È un gesto rituale che ci fa salutare il luogo in cui ci troviamo senza dimenticare che in un altro posto vicino così come lontano, visibile e invisibile, altri luoghi diversi dal nostro meritano la nostra attenzione e il nostro rispetto.   In questo modo salutiamo la presenza del mondo intero; con la stessa intensità, la stessa profondità, con la stessa fede, lo stesso coinvolgimento del corpo e dello spirito.

Il cuscino, sia pulito o pieno di polvere, ben centrato sulla stuoia o un po’ di traverso, ci ricorda come è la nostra vita, magari perfetta in una giornata briosa, oppure in una giornata grigia, in un momento di felicità o infelicità, di dolore o di gioia, salutiamo questa vita che è lì in quel momento, così com’è.     

Tutto questo (salutare il cuscino, quindi voltarsi e salutare tutte le persone sedute e tutte quelle presenti nel mondo) rappresenta molto più di un semplice gesto rituale; con questi gesti esprimiamo la fede nello Zazen e coltiviamo l'entusiasmo, perché salutando ogni volta che ci sediamo e che ci alziamo, riconosciamo che non è più lo stesso cuscino e non c’è più la presenza di poco prima. Gli altri, tutt’intorno a noi, non sono più gli stessi e tutto ricomincia da capo.   Questo semplice gesto invita ad avere fiducia in tutto ciò che accadrà.

Se è vero che nel Buddismo Zen non c’è una credenza particolare e un Dio, c’è comunque una nozione di fede. Una fede nell’eterno cambiamento delle cose, nell’eterno stato di novità delle cose, a condizione d’essere presenti e coscienti in quel preciso momento.  La fede che tutto andrà bene, e anche quando tutto sembra non andare, tutto va bene così com’è. Perché anche in questi “non va” le cose sono esattamente così come dovrebbero esistere in quel momento.

Poi, la prima cosa che facciamo dopo questo rituale è sederci. Avviciniamo le nostre gambe, se possiamo, in mezzo Loto o in Loto completo e ci abbandoniamo alla terra, semplicemente abbandonando tutto. E in questo corpo seduto in contatto con la terra, iniziamo prendere coscienza che il mondo in cui viviamo ci permette di essere vivi, semplicemente.
Seduti, realizziamo il miracolo profondo d’essere qui, su questa terra, poiché il vero miracolo non è quello di camminare sull’acqua, ma è quello di poter camminare in questa terra. Questa vita non è che una continua scoperta miracolosa, perché non ci è dovuto l’essere presenti in questa terra, non è per forza un nostro diritto. E’ prima di tutto, un dono, una possibilità, un’opportunità, una fortuna. 

In una postura dritta cominceremo davvero respirare con il ventre e riempire il corpo d’aria. Ad ogni inspirazione andiamo sempre più profondamente dentro di noi, ad ogni espirazione andremo e sempre più intensamente, verso il vuoto.

E'  l’attività stessa della nostra vita, che rallenta e che scende in profondità, sempre più in profondità. Nel più profondo del profondo, come una pietra che cade nell’oceano... fino a quando non ci sarà più niente, solo un profondo senso di vacua serenità.

Questa grande profondità in noi è sempre stata calma e pacifica. L'unica differenza tra l'ordinario e la meditazione è che in meditazione iniziamo davvero a frequentare questa pace e più la frequentiamo, più questa si sviluppa.  Il cuore dello Zazen è riuscire a distribuire correttamente il respiro. Il buon respiro è naturale ed estremamente profondo. In realtà, non abbiamo bisogno di nient'altro. Tutto ciò che conta è in questo respiro. L'inspirazione non è comandata, ma naturale, a seconda della gabbia toracica, e l’espirazione è controllata, profonda e attiva.

Ad ogni ispirazione, riporremo l’attenzione su tutto ciò che attraversa la nostra vita. Tutto. I suoni del cortile, i suoni del nostro cuore, la musica, il vicino che si muove, i rumori interni, i pensieri, le immagini ecc ... Osserviamo. E mentre espiriamo, affideremo al respiro tutto ciò che abbiamo osservato e che ci osserva e lo lanceremo nel vuoto. Non lo rifiutiamo, lo rilasciamo nel vuoto e lo liberiamo. Così, respiro dopo respiro, impariamo a liberarci di tutte le cose, di tutti gli esseri, di tutto ciò che abita dentro di noi.

Questo è il cuore di Zazen, pratica di liberazione e libertà, che passa per il respiro. Non abbiamo bisogno del maestro per questo, dobbiamo solo meditare davvero con il respiro costantemente e seriamente. La prima cosa che facciamo quando veniamo al mondo è un’ispirazione molto violenta e forte. I polmoni si aprono in un colpo solo ed è impressionante al punto da farci piangere. L’ultima cosa che facciamo prima di andarcene, di lasciare questa vita, è un’espirazione.
Il respiro è il fulcro della nostra vita. Perché tra questo primo e l'ultimo momento, la nostra vita sarà solo una serie di ispirazioni ed espirazioni.

Lo Zazen è solo questo. E’ coltivare l’attività dell’essere vivi. Potremmo porre fine a tutte le cerimonie, tutti i canti, tutte le pratiche formali, tutti gli insegnamenti dei maestri in Kesa rosso, lasciare cadere tutto e la sola cosa che resterebbe di questa pratica di Zazen, è coltivare il respiro che viene, che ci rende coscienti, che va e che ci libera.
Quando sono davvero consapevole del mio respiro, quando mi capita, mentre medito, di essere davvero consapevole di ciò che osservo, come se fossi davvero un tutt’uno con ciò che mi attraversa, e consapevole di avere questo potere di lasciare andare tutto nel respiro, e quando entro, quando lo provo tutto questo, ne sono incredibilmente scosso. E’ qualcosa che mi nutre per settimane. Questa consapevolezza che la vita è in me, mi rende sensibile, mi rende disponibile a tutto e allo stesso tempo mi libera da tutto. È meraviglioso.
E’ questo il risveglio. Questa vita che mi abita, che da’ il ritmo alla mia esistenza, sia che sia stato buono o cattivo. Attraverso lo Zazen viviamo l’esperienza di questa vita che va e viene in noi….

venerdì 1 novembre 2024

Boir la lune et chevaucher les nuages - Federico Dainin Joko Sensei (2)

Federico Dainin Joko Sensei ha ricevuto lo shiho, la certificazione da cuore a cuore dal suo maestro Pierre Taigu Sensei ed è diventato maestro zen e il 93esimo patriarca della tradizione Soto.     

Devi amare senza limiti il solo essere con il quale dovrai vivere tutta la vita: te stesso. Ed è come bere la luna o come cavalcare le nuvole.

 La prima cosa che si fa quando si sta in meditazione (zazen) è sedersi, tranquillizzarsi e vedere chiaramente la propria vita. La prima cosa che constatiamo, è che siamo insoddisfatti, saltiamo da esperienza a esperienza, senza fermarsi. La prima causa di questa insoddisfazione è di non sapere chi siamo veramente, E se non sai chi sei veramente, non puoi amarti.   Se non ti ami profondamente, avrai sempre bisogno dell'amore degli altri per soddisfare la tua esistenza. Dobbaimo imparare ad amarci e così la nostra vita non dipenderà dagli altri. Certo l'amore degli altri è una immensa ricchezza, ma se un domani questo amore verrà a mancare, la nostra vita non ne risulterà devastata.  La distinzione tra Amore e amore è che l'Amore è libero e l'amore è interessato.  Il modo in cui riusciamo ad amarci condiziona il modo in cui amiamo gli altri. Se noi ci amiamo solo al verificarsi di determinate condizioni, allora anche l'amore verso gli altri sarà sottoposto a determinate condizioni da soddisfare. Se l'amore verso noi stessi è stabile, gratuito, profondo, e liberato, sarà lo stesso verso gli esseri che noi amiamo.  L'amore per se stessi non è un atto egoista.  Amarsi e proteggersi non significa tagliarsi dal mondo, ma al contrario ancorarsi per essere forti nel mondo.  Significa anche essere liberi, indipendenti e autentici  e riuscire a non trasferire le nostre sofferenze sugli altri.
I darani sono delle formule esoteriche d'invocazione, che spesso risalgono al tantrismo cinese. Noi abbiamo paura, le nostre vite sono debordanti di paure. Anche quando ci crediamo forti, abbiamo paura. Non dimenticare che morirai, Non dimenticare che sei in vita.
 
Uno degli elementi base dell'insegnamento buddhista è la vacuità, che è completamente diversa dal concetto di vuoto, dal nulla. La vacuità è lasciarsi andare, comprendere che quello che può essere bello per me può essere brutto per te. Quello che costituisce la tua felicità oggi, può diventare il tuo peggiore incubo. Questa sofferenza può trasformarsi in un momento di grazia. Quello che hai amato per venti anni può diventare il tuo peggiore nemico. Il tuo nemico può diventare il tuo miglior amico.  Questo significa che la vacuità non è il vuoto. 
La vacuità è il cambiamento permanente di tutte le cose. La vacuità è la promessa che tutto può succedere, che ad ogni istante tutto è nuovo. E' capire che noi possiamo mettere delle etichette quanto vogliamo, ma non sono che illusioni. Tutto cambia senza sosta.  Se apro la mano dell'esistenza, posso dare e ricevere... Sarebbe bello fare di ogni istante un'eternità.  La vacuità può essere considerata una forma di non-attaccamento, ossia fare l'esperienza di tutto senza attaccarsi a qualcosa.  L'essere vivi comporta che tutto cambia senza sosta. E questo perchè tutto è meravigliosamente vuoto.
Dobbiamo combattere e dimenticare le nostre paure che ci allontanano dall'altro, dalla vita, dal presente e inevitabilmente da noi.  La nostra esistenza è pavimentata di rimpianti, la paura dei sogni, la paura di rivelarti per quello che sei, la paura di dire "ti amo", o io non sono d'accordo,  tu mi hai ferito, mi hai mentito, ecc.  La paura di non essere accettato per quello che siamo, paura di impressionare o di deludere, tutte queste paure ci portano più o meno inconsciamente a rinunciare a vivere. 
Lo zen non è una religione, ma non è necessaria una religione per elevare spiritualmente l'uomo. La religione dello zen è l'uomo in tutta la sua bellezza e complessità. Vivere in armonia con l'universo e i suoi abitanti. La religione dello zen è "io non so" che può accogliere il Tutto, e permette di vivere in armonia con tutte le religioni e con l'ateismo.
Zazen è ritornare allo stato originale, è ritornare alla natura originale e gustare una grande pace, una grande serenità che sorge nell'abbandono meditativo.  non bisogna dimenticare questa pace profonda che ci abita anche nel ritmo della quotidianità, anche nei giorni di tempesta quando la superficie delle cose è mossa. Segui il tuo respiro che va e viene nell'immobilità del corpo, attraverso il respiro prendiamo coscienza della nostra vita, più il respiro è cosciente, più la vita è presente. Prendiamo consapevolezza della benevolenza che si trova da sempre dentro di noi.  Noi possiamo rendere il mondo più bello con una parola : "Ti amo, tu conti per me, grazie, tu sei prezioso"...

Nello zen, l'alimentazione è essenziale come la meditazione. Il responsabile della cucina è la persona più importante nel tempio dopo l'abate.  Quando si diventa monaci, durante la cerimonia d'iniziazione si ricevono due strumenti: la "kesa", la veste degli illuminati che si mette durante la meditazione, e la "patra", la ciotola che serve per mangiare durante il giorno. 
L'arte del mangiare nella pratica zen si chiama Shojin Ryori e che si traduce in profondo entusiasmo. Mangiare con coscienza e etica ci ricollega alle stagioni e al tempo. 
Nella cucina zen non c'è carne, nè pesce per rispettare il voto di non prendere la vita. Comunque il vegetarianismo non è un dogma. 
Altra tecnica meditativa è la serena marcia senza aspettative (kinhin) seguendo coscientemente il ritmo del respiro.

Boir la lune et chevaucher les nuages - Federico Dainin Joko Sensei (1)

Federico Dainin Joko Sensei ha ricevuto lo shiho, la certificazione da cuore a cuore dal suo maestro Pierre Taigu Sensei ed è diventato maestro zen e il 93 patriarca della tradizione Soto.          

L'insegnamento che i  maestri zen offrono spontaneamente durante la meditazione seduta  è un luogo intimo, fragile come un fiore e tagliente come una spada. Non insegnano seguendo i testi ma partendo dalla loro vita. La via dello zen implica un combattimento feroce con il proprio ego e le proprie illusioni. Presuppone l'ascolto del solo vero maestro: la tua esistenza e tutto quello che esprimi.   

Devi amare senza limiti il solo essere con il quale dovrai vivere tutta la vita: te stesso. Ed è come bere la luna o come cavalcare le nuvole.

 Lo zen è il ramo giapponese del buddhismo che accorda una grande importanza alla meditazione seduta silenziosa (che è anche il cuore della pratica buddhista mahayana). In questa filosofia dell'essenziale, della vita al presente (qui e ora), la meditazione è la via privilegiata per trovare l'armonia e conoscersi meglio. I valori dello zen sono la pace interiore, l'amore di sé e del  prossimo, compassione, indulgenza, risveglio... 

Attraverso lo zen si può riuscire a conoscersi, amarsi, a riconciliarsi con la propria storia; Si diventa più compassionevole verso gli altri, come se non eravamo più al centro del mondo. Lo zen ti invita a smettere di cercare di essere felice per cominciare finalmente ad essere. 

La meditazione (zazen) non è che questo: percepire il mistero dell'esistenza, conoscerci per capire il mondo, amarci pienamente per poter amare, accettare la complessità e l'estrema semplicità della vita per poter capire quella degli altri, cessare di avere dei rimpianti e fantasmi, per viverla come siamo capaci di fare, liberarci delle nostre illusioni che sono fonte di sofferenza e ridare al mondo il suo splendore.  Zazen è anche diventare consapevoli della purezza originale che si nasconde in fondo ad ogni essere sensibile.  E' anche fare l'esperienza dell'interessere (termine creato da Thich Nhat Hanh) e che quindi tutti esseri sono correlati.    Segui il soffio, diventa quello che sei!

Durante lo zazen (za significa seduto e zen significa meditazione) il maestro condivide le sue esperienze con i suoi discepoli e questa pratica è chiamata kusen. Questo insegnamento non è preparato, ma sorge dal reale dell'stante e si offre non come un sapere, ma piuttosto come l'esperienza condivisa della Via. Praticare la via del Buddha è dimenticare tutto quello che si crede di sapere su se stessi, fino a dimenticarsi di se stessi, permettere così ad ogni cosa di apportarci un insegnamento. Diventare una pura presenza e prepararsi a ricevere se stessi con amore. Non è facile oggi trovare il tempo per incontrare se stessi e riuscire a fare un gesto d'amore verso se stessi.      

Noi cerchiamo tutti l'amore, lo chiediamo e vogliamo darlo e questa è una cosa nobile. Voler essere amati e sentire il bisogno di amare è giusto. Soltanto che i nostri amori sono spesso maldestri, imperfetti, squilibrati, e si trasformano spesso in inganno e sofferenza.  Perche?   Perchè abbiamo dimenticato che il primo essere verso cui dirigere il nostro amore, la nostra compassione siamo noi stessi. Raramente siamo in grado di prenderci in considerazione e così la nostra esistenza è un abisso vuoto d'amore. Portare uno sguardo d'amore su se stessi, è cominciare ad essere pieni, a essere pienezza. Questo significa accordarsi fiducia, profondamente, senza limiti e indipendentemente di tutto e tutti. Potrai vivere anche con la sconfitta e la sofferenza, e sarai capace di vedere la bellezza anche nelle situazioni più cupe. E in questa bellezza troverai la sorgente della vita.    La tua vita è una tela bianca sulla quale tu decidi in qualsiasi momento di dipengere la felicità o l'insoddisfazione.    Ogni vita la sua felicità, la sua storia e le sue prove.

Importante è sapere se tu hai sufficientemente fiducia per fare in modo che, anche dopo una notte di tristezza e disperazione, tu sei in grado di vivere, restare in piedi e fare quello che è necessario per te, per quelli che ti amano, e per quelli che ti sono vicini. Quello che conta è la luce interiore che è dentro di te anche nelle notti più nere.          La luce della luna è dolce come la luce che brilla in te.

Proteggi la tua mente, mantienila chiara e serena. Non lasciate che qualcosa vi maltratti, vi cambi o vi vincoli.   Sei capace di sopportare la calunnia, il tradimento, restando fedele a quello che sei?

L'individuo dovrebbe lasciarsi andare alla danza della vita, approfittando delle belle esperienze e accettando le brutte. Dobbiamo far si che tutti i tradimenti, le delusioni, le sofferenze che abbiamo vissuto ci aprano all'esterno invece di rinchiuderci nella paura. Importante è non lasciarci condizionare dalle ferite del passato, o dalla paura delle ferite che potrei ricevere. 

Meditare è praticare per percepirci e conoscerci per quello che siamo. Meditare è andare all'incontro con l'essere più prezioso di tutta la tua vita: Te stesso.  Non c'è nessun luogo dove tu non sei. 

Se  sei solo in una stanza oscura con una sola candela, tu vedrai appena intorno a te, ma se altre persone ti raggiungono, ciascuno con la sua candela, allora si riuscirà a illuminare il mondo intero. 

Mi sono liberato del superfluo e mi sono sbarazzato dei miei desideri.  

Nello zazen, seduto, non fai altro che essere presente, e questo senza che la tua vita dipenda dai fenomeni dell'esistenza.  Zazen è apprendere a praticare profondamente con tutto quello che siamo. Non per liberarci da qualcosa, ma per considerare tutto e per accettare quello che siamo fino a che la nostra vita ridiventi uguale alla nostra pratica meditativa.      Rivelarci ci riconcilia con noi stessi.  In zazen cessiamo di dipendere dalle nostre emozioni e dai nostri pensieri, ma li contempliamo. Nel silenzio meditativo tu puoi percepire che tu fai parte di qualcosa di più grande, più vasto. Segui il respiro e contemplati con amore, con benevolenza, resta seduto con tutto quello che tu sei. Libero ad ogni istante. Nella pratica come nella vita. Inspira e espira.    Abbandona il tuo corpo alla posizione; la tua presenza è la vita che risponde alla vita. Sii soltanto questa presenza che non si aspetta niente, che non è altro che apertura, accettazione, disponibilità.

Se apprendi semplicemente a essere, allora la tua vita non dipenderà nè dalla sofferenza, nè dalla gioia, nè dal lavoro, nè dall'amore, nè dall'odio, ecc. Vivi come pratichi, Pienamente, semplicemente. 

Se lasci che la pratica della meditazione zazen, ti unifichi e ti riveli, quando amerai qualcuno, tu amerai veramente. E anche se di fronte a te, non ci sarà l'altrettanto amore che speravi;  importante è aver amato, non di essere stati amati.

Viene al mondo con le mani vuote, se ne va con le mani vuote. Ecco l'essere umano.

Noi cerchiamo senza sosta di vivere la vita, ma non lasciamo mai vivere la vita in noi.

C'è un luogo profondo e intimo in cui si sperimenta la libertà e la bellezza interiore, che non dipende nè dalla vita, nè dalla morte, nè dalla gioia, nè dalla tristezza: la nostra vera natura. Arrivare a questo è arrivare al risveglio, che viene chiamato nirvana, l'illuminazione. 

Se cominci ad accettarti così come sei, allora fai il primo passo verso il paese della bellezza, della tua grande libertà.

Si viene in questo mondo con le mani vuote, e si partirà un giorno con le mani vuote. Comprendere questo vuoto è il regalo più bello che la Via possa farci. Questo vuoto è la nostra vera natura.  In zazen si sperimenta questo vuoto meraviglioso, questa vasta vacuità.

Apprendi a morire, non della morte ultima, ma della morte che ti aspetta al passare di ogni istante della tua esistenza. E ad ogni istante, rinascere.  Accettando la vita e la morte si diventa pura presenza e si prova un'infinità libertà.

Il Mondo è il momento in cui maestro e discepoli si confrontano apertamente e pubblicamente sugli insegnamenti (del dharma).  Ogni insegnamento viene percepito in maniera unica e diversa da ogni allievo a secondo della esperienza vissuta. Non esiste uan verità assoluta.

Nello zen a poco a poco anche i piccoli gesti del quotidiano eseguiti con grazia e presenza diventano una cerimonia, come nel dojo (luogo deputato per la pratica religiosa).

Quando si vuole qualche cosa si perde tutto, e quando non si vuole niente si possiede il Tutto, allora il mondo intero è nelle tue mani. Se tu non trovi qui la felicità, nella tua vita attuale in questo momento dove ti trovi, Dove speri di trovarla?

martedì 25 giugno 2024

Thomas Merton - Mistici e maestri zen

Thomas Merton (1915-1968)  è stato uno scrittore e monaco cristiano statunitense dell'ordine dei Trappisti, autore di oltre sessanta tra saggi e opere in poesia e in prosa dedicati soprattutto ai temi dell'ecumenismo, del dialogo interreligioso, della pace.  Vedi: https://www.thomasmerton.eu/thomas-merton/         

 In questo testo Mistici e maestri zen,  Thomas Merton presenta il buddhismo e in particolare si sofferma sullo zen.  Il concetto di Bhudda-natura è al centro di tutti gli esseri.

L'Occidente attribuisce al buddhismo l'etichetta di panteismo e nirvana,  e l'idea che la meditazione zen sia un riposo nell'assenza individuale che sopprime tutti i bisogni e interessi nella realtà esterna e storica.

La parola  zen deriva dal cinese ch'an che designa un certo tipo di meditazione, ma lo zen non è un metodo di meditazione, nè una pratica spirituale.  E' un'esperienza, e una vita,  non è una religione, non è una filosofia, non è un sistema di pensiero, né una dottrina, nè un'ascesi.   Daisetz Suzuki ha ripetuto più volte che lo zen non è un misticismo.  Lo Zen ha avversione per ogni forma di dualismo tra materia e spirito, lo zen è volto a un'illuminazione derivante dal superamento di tutte le relazioni e opposizioni soggetto-oggetto in un vuoto puro. Non è una visione di Buddha  o un'esperienza  di una relazione con un Essere supremo considerato oggetto della conoscenza e percezione.  Lo Zen non afferma, nè nega, semplicemente è. Si può dire che sia un'ontologica conoscenza dell'essere puro oltre il soggetto e l'oggetto, un'immediata intuizione dell'essere così com'è.  I maestri zen arrivano a dire "se incontri Buddha uccidilo" ,  e rifiutano di rispondere a domande speculative e metafisiche.  Lo Zen non è un sistema di monitoraggio panteistico, e rifiuta qualsiasi affermazione sulla struttura metafisica dell'essere e sull'esistenza, mirando direttamente all'essere.

Lo zen  è la lenta combinazione del buddhismo Mahayana e del taoismo, e poi portato in Giappone e perfezionato.  Sono le strofe attribuite al mitico Bodhidarma ( sesto secolo d.C.) a definire lo zen: "Una speciale tradizione fuori delle scritture (sutra) con nessuna dipendenza da parole e lettere, occorre mirare direttamente all'anima dell'uomo, vedere dentro la propria natura e così raggiungere la condizione di Buddha".  Lo Zen insiste sulla pratica concreta più che su studio e riflessione intellettuale.    Nello zen si giunge all'essere mente anziché avere la mente. L'insistenza zen è la consapevolezza di una piena realtà spirituale e la realizzazione della vacuità di tutte le realtà limitate o particolareggiate, la mia identità non deve essere ricercata dalla separazione, ma dall'unione con tutto ciò che è.  Non è una negazione ma la più alta affermazione dell'identità, nell'uno e con l'Uno.

Il momento più critico per la storia dello zen cinese è la rottura tra la scuola settentrionale e quella meridionale (settimo secolo), nella scelta del sesto patriarca Hui Neng.       

Shen Hsiu (scuola settentrionale - Soto), uno degli aspiranti al ruolo di patriarca scrisse: "il corpo è l'albero della bodhi, la mente è simile a un limpido specchio diritto, abbi cura di spolverarlo continuamente, fa che nessun grano di polvere vi si posi".

Hui Neng (scuola meridionale - Rinzai) scrisse: "il bodhi non è simile a un albero, il limpido specchio in nessun posto è dritto, fondamentalmente nessuna cosa esiste: dov'è dunque il grano di polvere che deve posarsi?"

Suzuki spiega che quando i sutra affermano che tutte le cose sono vuote, inesistenti e fuori dalla casualità, questa affermazione non è il risultato di un ragionamento metafisico, ma esprime l'esperienza buddhista più profonda. Lo Zen di Hui Neng non è una tecnica di ontroversione, con la quale si cerca di escludere il mondo esterno, eliminare i pensieri inquietanti, stare seduti in meditazione. Lo Zen non è misticismo composto da introversione e rinuncia. Per Hui Neng l'illuminazione sarebbe giunta all'improvviso da sé, tenendo in poco conto la pratica dello zazen (la pratica meditativa), in quanto tutta la vita era zen.  Non c'è nessun raggiungimento, e quindi affannarsi a cercare una "via" al raggiungimento è pura illusione. Non si raggiunge lo zen con la meditazione che spolvera lo specchio, ma con l'oblio di sé nel presente esistenziale della vita qui e ora.

Oggi noi ci tormentiamo con l'eredità di quella autoconsapevolezza cartesiana secondo la quale l'io empirico è il punto di partenza di un progresso intellettuale infallibile verso la verità e lo spirito, sempre più raffinato, astratto e immateriale.

Nello zen ci trasformiamo nella luce (prajna), "diventiamo" quella luce che di fatto "siamo". La relazione soggetto-oggetto che esiste nell'io empirico è soppressa nel vuoto, che però non è negazione. Nella realizzazione il vuoto non può essere opposto al pieno, ma vuoto e pieno sono Uno, Zero equivale all'infinito. Il vuoto di tutte le forme limitate è la pienezza dell'Uno. 

Quando non vi è un dimorare del pensiero in nessun luogo e su nessuna cosa, questo è essere liberi, il non dimorare in nessun luogo è la radice della vita. Un maestro zen ha detto:  " vedere dove non c'è qualcosa, questo è il vero vedere, questo è l'eterno vedere".  La contemplazione del vuoto ha delle affinità ben precise con note testimonianze di mistica cristiana.

Sempre secondo lo zen: "Dal principio nessuna cosa è. È nulla è questo nulla che c'è, è sunyata, vuoto, non-mente, la non oggettiva presenza del non-vedere".

Il vescovo cattolico e missionario francese Padre Domoulin (1808-1838) ci offre una bella immagine del maestro giapponese zen Dogen (tredicesimo secolo) la cui illuminazione avvenne in un austero monastero zen dove si praticava meditazione, dotato di alto spirito etico, praticava un ascetismo gioioso, e meditava sulla transitorie delle cose terrene. Tra i buddhisti la sua dottrina è chiamata la religione del solo zazen ed è considerata un ritorno alla pura tradizione di Buddha. 

Comunque Dogen si avvicina a Hui Neng quando insegna ai monaci zen di non desiderare nessuna speciale esperienza di illuminazione durante lo zazen, in quanto l'illuminazione è già presente nello stesso zazen; Lo zazen contiene in sè le sostanze e la realtà dell'illuminazione ( qui si discosta da Hui Neng). Dogen fa riferimento alla scuola Soto, segue le linee tracciate da Shen Hsiu: ponendo l'enfasi su meditazione, ascetismo e metodo. 

La scuola Rinzai segue le linee di Hui Neng che non esclude la meditazione ma la considera in modo diverso: invece di svuotare la mente dai concetti sedendo quietamente, cerca di immergere il discepolo zen nel satori, in una intuizione metafisica dell'essere col non-vedere e il vuoto, lottando col koan. Non-vedere e non-mente non sono rinunce ma realizzazioni. Il vedere senza soggetto e oggetto è un vedere puro, la mente che è vacuità, vuoto e sunyata è la mente prajna (conoscenza  e contemplazione), il fondo metafisico dell'essere. 

Padre Dumoulin vedeva un vero misticismo nei maestri zen come Dongen, mentre non era ispirato dalla tradizione Rinzai con i koan, con le loro risposte violente e irriverenti del maestro (come bruciare la statua di Buddha per scaldarsi in una notte d'inverno).

Hui Neng quando parla di non-vedere, e di non-mente, non definisce uno stato psicologico, ma un'intuizione metafisica del fondo dell'essere, una autoconsapevolezza dell'essere vuoto che è il prajna mente. Il vuoto è inteso come termine metafisico che designa il vuoto dell'essere puro. Questo vuoto è infinito. Suzuki dice che per lo zen zero, è uguale a infinito. Il vuoto infinito è dunque la totalità e la pienezza infinita. 

Per la scuola meridionale  non si può fare di una regola uno specchio, anche pulendo a fondo, così non si può diventare un Buddha stando seduti in meditazione.  Non esiste Essere che non sia Vedente che è a sua volta Agente, questi tre termini sono sinonimi e intercambiabili. Questa struttura trinitaria suggerisce  una esperienza del fondo dell'essere come vuoto puro (sunyata)  che è luce (prajna) che illumina ogni cosa e atto puro  perchè e pienezza e totalità ( di essere-vuoto senza limitazione di sorta). Il fondo-Essere non si distingue da sé stesso come Luce e come Atto.  Per Daisetz Suzuki che è il più importante interprete della tradizione Rinzai "la cosa più importante di tutte è l'amore", l'adempimento nell'amore che non ci si aspetterebbe di trovare in Hui Neng. 

Lo zen Rinzai e tutt'altro che una mistica di passività e di rinuncia. Non è un calarsi nella propria interiorità, e rinuncia, ma una completa liberazione dalla schiavitù di un interno limitato e soggettivo.  L'obiettivo di Hui Neng è la diretta consapevolezza nella quale si forma la verità che ci rende liberi, non la verità come oggetto di sola conoscenza, ma quella vissuta è sperimentata in consapevolezza concreta ed esistenziale. Per questa ragione le attività e gli interessi esteriori non devono essere considerati ostacoli, al contrario lo zen si manifesta in essi come in ogni altra cosa, compreso il mangiare, il dormire e le più umili funzioni materiali.

Forse Hui Neng non fu il vero autore del testo Scrittura programmata, il manifesto ufficiale della scuola meridionale. È l'unico testo buddhista cinese che si sia affermato come scrittura nel senso dei sutra. Ma non fu mai proposto dai maestri zen ai loro discepoli, in quanto lo zen è un'esperienza che deve essere trasmessa senza i sutra. Comunque nel testo è contenuta la definizione di illuminazione come la intendeva Hui Neng che veniva raggiunta all'improvviso quindi non per gradi e non come risultato di una meditazione o altra disciplina.

Le grandi tradizioni cinesi - Thomas Merton

Thomas Merton (1915-1968)  monaco trappista e poeta, tra il 1944 e il 1968 scrisse qualcosa come cinquanta libri, senza includere le lettere, i diari e i saggi che sono stati pubblicati postumi. E' stato un pensatore che ha fatto scuola nei tre ambiti tematici religiosi più importanti dell’ultima metà del XX secolo: ecumenismo, giustizia sociale e spiritualità contemplativa.    

In Cina ci sono tre grandi tradizioni: confucianesimo, taoismo e buddhismo. Il buddhismo cinese è un amalgama del buddhismo mahayana dell'India e taoismo; portava un grande messaggio di speranza, ma è arrivato tardi e non ha influenzato molto il pensiero cinese.  La scuola più importante in Cina è la scuola Ju fondata da Kung Tzu che i primi missionari chiamarono Confucio. Il discepolo più conosciuto è Meng Tzu conosciuto in Occidente come Mencio.  Il padre del taoismo è stato il mistico Lao Tzu, e la sua affascinante opera, il Tao Te Ching (la via e il suo potere) è stato il classico cinese più tradotto.  Meng Tzu e Lao Tsu vissero entrambi nel sesto secolo A.C. e sono contemporanei di Gautama Buddha.     

Lao Tzu condivideva con Kung Tzu la venerazione del passato e del mondo arcaico, riteneva artificiale ogni sistematizzazione e ordine sociale. Per lui il governo, la politica, gli stessi sistemi etici per quanto buoni potessero essere rappresentavano un pervertimento della naturale semplicità dell'uomo. Rendevano l'uomo competitivo, egoista e aggressivo e portavano a idee illusorie da cui nascevano odi, scismi, guerre e la distruzione della società. L'ideale per il taoismo sono le piccole comunità primitive formate da villaggi, abitati da  uomini semplici, disinteressati in perfetta armonia con il segreto, ineffabile Tao. Il risultato dell'anarchia implicità aveva ben poco da offrire agli uomini che desideravano cambiare e migliorare la vita in società.  

Il fondamento della scuola Ju ossia del confucianesimo è la persona umana e le sue relazioni con le altre persone nella società. Lo Ju è una dottrina umanista, personalista, etica e universale.  Anche i comunisti si richiamano a volte allo Ju sulla formazione della persona e il suo posto in società.  La saggezza di Confucio non risiede tanto nella sua conoscenza della natura umana quanto nella fede nell'uomo. Mincio il suo discepolo immortalò questo concetto nella parabola della montagna Ox:  "questa montagna un tempo era fitta di boschi, vicino a un villaggio, gli uomini tagliato o gli alberi, e quando i germoglio ripresero a crescere portano le greggi. Nessuno credeva che lamontagna fosse stata un tempo così boscosa. Così avviene nell'uomo: è naturalmente incline alla virtù, ma le sue azioni, in una società ingorda e avida, distruggono ogni prova della sua innata bontà così che egli appare naturalmente cattivo".

I confuciani credevano che una società governata da un principe giusto avrebbe riportato alla luce la bontà nascosta dei sudditi. Questa società doveva essere unita da un ordine sociale che trovava forza nei riti liturgici, il Li, che oltre il culto del cielo sono anche l'espressione di quelle relazioni affettive e dell'armonia che legano gli esseri umani. Kung Tzu credeva che gli uomini potessero essere buoni, in una società etica, che rispettasse le loro virtù nascoste; Lo Ju era una specie di umanitarismo con un sacro senso della volontà del cielo che doveva riflettersi nella società umana.  

Se uno doveva essere saggio per vivere secondo il taoismo, doveva essere anche un uomo di profonda umiltà, interiorità e pazienza per soddisfare i principi del confucianesimo.  I taoista hanno meno interesse per l'uomo che per il Tao e diffidano di ogni forma di educazione. Credono che il Tao nascosto possa manifestarsi e realizzare l'intimo e imperscrutabile significato nell'uomo se questo lasciasse tranquillo se stesso e la sua natura. Quindi i mistici predicava un ritorno alle radici e il rispetto della natura al suo stato primitivo. Il taoismo non è non-azione totale, ma piuttosto non-attivismo. 

In contrasto con Meng Tzu erano Mo Tzu e la scuola legalista che sostenevano che l'uomo è fondamentalmente cattivo e doveva essere obbligato a uniformare la sua condotta a un astratto amore universale con la forza della legge, obbedire a un potere arbitrario con la minaccia di punizioni. Il fondatore del legalità fu Hsun Tzu nel terzo secolo avanti Cristo

I legalisti si servivano della cupidigia dell'uomo, dei suoi interessi egoistici, per volgersi ai loro fini politici, al potere (shih). I riti, la saggezza, il sentimento umanitario dello Ju non servono a niente. La legge rimpiazza tutto, inclusa la morale, la religione e la coscienza. Contemplano la minaccia della punizione severa, e l'unica norma è il volere arbitrario del sovrano. Lo scopo del legalismo è rendere lo Stato così potente da eliminare tutti i nemici e allora così ci sarà la pace.  E a poco a poco i legalisti cominciarono ad abolire il confucianesimo, proposero lo sterminio di tutti gli studiosi, di incendiare tutte le biblioteche e così molti libri antichi andarono distrutti. I seguaci della scuola Ju giustiziati.

Fortunatamente la scuola confuciana rinacque sotto la dinastia Han ( secondo secolo a.C.). La filosofia continuò ad essere la forza più vitale della Cina. Per secoli, l'istruzione degli studenti cinesi ebbe come base, legalmente e ufficialmente, lo studio dei quattro classici confuciani: Dissertazioni, la Grande scienza, la Dottrina di mezzo, insieme al libro di Meng Tzu. Per capire la Cina e indispensabile leggere questi quattro libri.  

La base della filosofia di Kung è la legge naturale, il Tao stesso, ma il Tao etico, la via dell'uomo, più che il Tao metafisico o l'imperscrutabile via di Dio.  I taoisti sono interessati alla metafisica i confuciani all'etica Tao.  Questo concetto è spesso confuso, solo nella Dottrina di mezzo è ben evidenziata questa differenza. Il punto di partenza del confucianesimo è che esiste una realtà trascendente e oggettiva chiamata cielo, e ci sono altre realtà, quelle mutevoli e contingenti della terra e dell'uomo  che possono essere in ordine o disordine, sono in ordine quando sono in armonia col cielo, che è la realtà finale. La filosofia di Kung è una sapienza, non una dottrina, ma un modo di vita impregnato di verità. I riti o il Li erano l'espressione visibile della realtà nascosta dell'universo, della sapienza divina  nelle cose umane e nell'ordine sociale. Partecipando ai riti l'uomo acquista coscienza, matura, si trasforma e con lui la società.

La grande Scienza riporta che il giusto agire dipende dalla coscienza della persona che agisce, dalla verità interiore.  Si può raggiungere l'illuminazione con l'azione intelligente. L'etica confuciana è il frutto della coscienza spirituale e del lavoro. Occorre portare l'inconscio e l'oscuro nel fuoco della chiarezza con azione giusta al momento giusto, con consapevezza ispirata ai principi etici e sacri, e sapere cosa si deve fare. Splendido concetto e civile di azione etica. La grande Scienza è la chiave del pensiero classico cinese, in Cina la legge della natura non fu un'astrazione filosofica ma una forza viva che ebbe un richiamo religioso nel cuore e nella coscienza del popolo.  Il punto di partenza dell'educazione confuciana è dunque di coltivare la persona e formare una classe dirigente di discepoli umani e illuminati. Il saggio deve portare la sua saggezza ad agire in armonia con gli atti saggi di coloro che vivono intorno a lui.

Tra i classici cinesi oltre al famoso Tao Te Ching troviamo il Hsiao Ching, che è il classico dell'amore filiale, che rappresenta un testo confuciano di taoismo. Per i confuciani l'amore filiale era la radice principale che penetrava più profondamente nel mistero del Tao etico. "Ching" in Cina è tradotto con "classico" quindi i Ching sono testi autorevoli, perchè ha origine da un'autorità più alta dell'uomo. Il Tao The Ching ditingue un Tao noto da un Tao ignoto e innominato, e ci autorizza a cercare qualcosa che corrisponda alla nostra nozione di Dio al di sopra e al di là del cosmo.  La saggezza del Tao Te Ching conduce allo zen, che è una trasmissione senza nessun Ching che passa inesplicabilmente da maestro a discepolo senza parole ma attraverso koan.

Che cosa è il Tao?  i saggi rispondevano "Non lo so. E' la forma senza forma, l'immagine senza immagine". Il Wu wei è un'espressione tecnica taoista e zen, non è un principio attivo, è l'attività suprema, perchè agisce in stato di riposo, agisce senza sforzo. Il mondo è un vaso sacro che non si deve manomettere, nè cercare di afferrare. Nel capitolo 67esimo del Tao Te Ching ci sono delle affinità col cristianesimo: nel Tao si trovano tre tesori: carità, frugalità, e non voler essere primo nel mondo. Poichè io sono misericordioso, io posso essere bravo... perchè il cielo verrà a salvare i misericordiosi e a proteggerli con la sua misericordia.  "Se uno rinuncia all'amore e al coraggio, rinuncia al controllo e alla riserva di energia, rinuncia a rimanere indietro e si spinge avanti, è un uomo perduto!"

Il testo Hsiao Ching parla della pietà filiale e del fatto che noi siamo accolti come un dono dai nostri genitori, e dobbiamo nutrire la più grande gratitudine verso di loro. Quando i nostri genitori sono vecchi dobbiamo ritornare da loro per assiterli amorevolmente. L'imperatore è al vertice, tutti dipendono da lui, ed egli dovrebbe idealmente essere capace dell'amore più vasto e  illimitato. Non esiste una subordinazione cieca agli anziani, al contrario bisogna correggere il padre quando sbaglia e il ministro deve correggere il principe quando erra.

Buddhsimo Zen.  I monaci zen sono noti per la semplicità e austerità della loro vita, per il lavoro manuale, l'estrema severità nella vita in comune. Il monastero zen ha una sala di meditazione chiamata zendo, il monaco zen non rimane vincolato ad una comunità, ed è libero di andare in un altro monastero. Con la formazione sarà in grado di raggiungere una maturità e libertà spirtuale e potrà proseguire da solo il cammino verso l'illuminazione mediante la pratica dei precetti (sila) , della meditazione (dhyana), e della saggezza (prajna).  Il Buddha  disse al suo discepolo Ananda "Non rifugiarti in niente che sia fuori di te, tieni ferma la verità come una lampada e un rifugio, e non cercare rifugio in qualcosa fuori di te". Occorre essere sempre attivo, padrone di sè e di animo pacato (corrisponde all'ascetismo individualista Theravada ed è un concetto molto lontano dalla fiducia cristiana nella "grazia". Lo zen non fa affidamento all'autorità delle scritture (sutra), nè si affida a regole o metodi.   Nel buddhismo mahayana ci sono esempi di fede profonda nel Buddha come nell'amidismo (buddhsimo della terra Pura).

Bodhidharma (VI secolo dopo Cristo) riassume il programma zen in questo modo: "Una speciale tradizione fuori dalle scritture, nessuna dipendenza da parole e lettere, mirare direttamente all'anima dell'uomo, vedere dentro la propria natura e così raggiungere la condizione di Buddha".

I monaci zen sono accusati di essere Non intellettuali, preferivano l'esperienza diretta alla conoscenza astratta e teorica acquistata leggendo e studiando, ma non negarono mai che la lettura e lo studio al momento opportuno, potessero contribuire a rendere più valido l'addestramento spirituale. I maestri zen evitano accuratamente che i discepoli si attacchino agli insegnamenti di Buddha, per questo molte frasi di maestri sembrano assurdità. spesso erano volutamente privi di senso da un punto di vista logico. Nello zen si pratica un non attaccamento, la via della vacuità, mancanza di oggetto e la non-mente. Hui Neng disse: "se hai nel cuore la nozione di purezza e ti attacchi ad essa, converti la purezza in falsità". 

La vera illuminazione si trova nell'azione, lo zen è una piena consapevolezza del dinamismo e della spontaneità della vita.  Lo zen richiede un'attenzione totale, rivolta alla vita nella sua realtà concreta, esistenziale, qui e ora. La mente ordinaria di ognuno di noi è il Tao.   Bisogna evitare l'illusione di trovare la via nei sutra e nei testi, ma anche l'illusione di trovarla stando seduti in quieta meditaazione.  

L'ordinaria esperienza della vita quotidiana è il luogo dove cercare l'illuminazione. Il mistico zen cerca di sbarazzarsi di quell'io e di tutte le sue attività al fine di scoprire la spontaneità profonda che viene dal fondo dell'Essere (dall'io originale, dalla mente Buddha o prajna,  in termini cinesi dal Tao)  per diventare una lampada per sè bisogna sbarazzarsi del sè empirico.  Spesso i maestri zen trasmettono questi insegnamenti con severità e spietatezza. La vita monastica buddhista è soprattutto una vita di pellegrinaggio (angya) il cui scopo è di convincere il monaco che tutta la sua vita è una ricerca, in esilio, la sua vera casa.  Tutta la vita monastica è un pellegrinaggio, e il soggiorno al monastero è solo un'interruzione. Solo quando è accordato al monaco l'accesso alla sala di meditazione (zendo), il monaco comincia a far parte della comunità. Ed è li che il monaco passa buona parte della giornata. in posizione di loto meditando sul koan (una massima enigmatica) assegnatogli dal roshi ( maestro). I koan sono usati solo nella scuola Rinzai.

Anche se i rituali non sono molto elaborati, sono comunque presenti come mettere per esempio delle candele davanti alla statua di Buddha, anche i sutra a volte vengono letti.  L'addestramento del monaco fatto dal maestro sembra avere come scopo di spingere il monaco in una notte oscura.  Comunque durante la giornata i monaci partecipano alla cerimonia del thè, a incontri di judo tra di loro,  lavorano la terra e vanno in cerca di elemosine. La questua e il lavoro manuale sono importanti per inculcare loro lo spirito di povertà e umiltà. Il monaco sente di non aver diritto di condividere il pane se non c'è in lui l'intenzione ferma di giungere all'illuminazione e aprire il suo occhio spirituale (l'occhio prajna). 

Lo zen è un tipo di  spiritualità filosofica ed esistenzialista capace di portare l'uomo a un vero confronto con se stesso, con la realtà e col suo simile. Comunque senza dimensione religiosa è difficilmente spiegabile di come il monachesimo zen abbia potuto sopravvivere tutti questi secoli. 

Un maestro zen ha detto: " quando avrai raggiunto uno stato di perfetta immobilità e incoscienza, tutti i segni della vita si cancelleranno e ogni traccia di limitazione svanirà, nessun pensiero disturberà la tua coscienza, quando all'improvviso vedrai una luce effondersi in tutto il suo splendore. La tua esistenza è sciolta da ogni limitazione".

Il koan è il cuore dell'insegnamento zen della scuola Rinzai; per arrivare al cuore del koan, per gustarne l'essenza, bisogna penetrare nel cuore della vita stessa quale fondo della propria coscienza. uno sperimenta se stesso come l'interrogativo proposto. Il koan non è diverso dall'io, è una figura criptica dell'io. Nei tuoi interrogativi non avrai più coscienza,  ma avvertirai solo il vuoto. Quando scomparirà anche la consapevolezza del vuoto, capirai che non c'è nessun Buddha al di fuori della mente e nessuna mente al di fuori del Buddha. L'esperienza zen è una liberazione dalla nozione di io e mente, tuttavia non è annullamento e pura incoscienza, ma al contrario una specie di supercoscienza. L'illuminazione in questo senso di una nuova identità e consapevolezza non è la fine ma il vero principio. Il punto di partenza per raggiungere il kensho o l'ulteriore e originale illuminazione, e di farlo verificare dal roshi (maestro).

Il koan tende a liberare anche la coscienza individuale dai desideri dissolvendo proprio la sua individualità. Lo zen perciò nega un valore speciale all'esperienza limitata e transitoria dell'io costituito dal piccolo nodo dei desideri lasciatici in eredità dalla nostra storia morale (karma).  Tende a una coscienza pura non limitata da progetti e desideri.  Senza eliminare quello che noi chiamiamo "io" non si potrà avanzare nella pratica. 

Per riassumere lo scopo del koan zen è di portare lo studioso, mediante una pratica interiore e severa, e con la guida e supervisione del suo roshi, a uno stato di coscienza pura. La meditazione intensa sul koan in un ambiente monastico tende a rompere la continuità storica di un io sociale e convenzionale e iniziare una nuova e più intima storia personale di ricerca. La consapevolezza finale della coscienza zen non è la perdita dell'io, ma la scoperta e la dotazione dell'io in tutto e per tutto. Quando  l'attività della tua mente sarà esausta e la capacità di pensare sarà estinta, sorgerà una grande fiamma di vitalità.

La pratica dello zen mira all'approfondimento, alla purificazione e alla trasformazione della coscienza, opera in profondità e va oltre la psicologia del profondo. 

L'obiettivo dello Zen è quello del buddhismo in generale: "l'emancipazione finale dal dualismo". Il buddhismo non afferma Dio nè lo nega in quanto considera tali affermazioni dualistiche. Il raggiungimento della condizione di Buddha, non è diventare simile a Buddha, ma è un risveglio ontologico al fondo ultimo dell'essere, o al Buddha che ognuno è.  Per lo zen non esiste alcun vero Buddha all'infuori dell'uomo che si sveglia al suo "Vero Io".  Questo "Vero Io" è la mente originale, informale, il nulla, il Sunyata

Accostando questo concetto alla realtà possiamo dire che il cuore dello zen è quella imperturbata percezione dell'Uno nei Più, del Vuoto nella vita quotidiana e del mondo ordinario che ci circonda, è il fondamento dell'umanesimo zen al giorno d'oggi.   Il Nirvana non è che la realizzazione da parte dell'uomo del suo "Vero Io" esistenziale, come fondo sia dell'io ordinario sia del mondo opposto ad esso... il Nirvana non è semplicemente transpersonale, ma anche, al tempo stesso personale.  

Il Nirvana non è un'evasione dai fenomeni e dal mondo d'ogni giorno con i suoi problemi e rischi, ma una realizzazione di quel Vuoto e Vero Io che è il fondo ontologico comune sia della libertà personale sia del mondo oggettivo e problematico.

venerdì 29 marzo 2024

Riassunto del libro Thich Nhat Hanh. Un sentiero tra le stelle

Estratto del libro Thich Nhat Hanh. Un sentiero tra le stelle. Autori: Roberto Fantini e Cesare Maramici.

Il monaco zen vietnamita Thich Nath Hanh (1926 - 2022), uno dei maggiori esponenti del pensiero buddhista contemporaneo, rappresenta uno di quei rari straordinari Maestri di Saggezza capaci di illuminare, con il proprio insegnamento e con il proprio impegno di vita, un’intera epoca, seminando un messaggio di Amore, Gioia e Compassione, rivolto a credenti e non credenti, in vista di un mondo rifondato sui valori della Consapevolezza, del Dialogo, della Nonviolenza e della Pace. Nel periodo presente, così denso di incognite oltremodo inquietanti e angoscianti, entrare in contatto con il messaggio di questo grande mistico potrà certamente costituire un messaggio di speranza. Con questo libro, seppur in maniera sintetica ed essenziale, si è tentato di presentare la ricchezza filosofica e la forte valenza pedagogica e terapeutica del suo pensiero.

Tra la fine del 1946 e il 1954, Thich Nhat Hanh assistette alla tragedia della guerra d’Indocina, poi divenuta, con l’intervento statunitense, guerra del Vietnam negli anni '60. Thich Nhat Hanh ha presto concepito una forma di buddhismo impegnato che potesse rispondere concretamente alle esigenze della società, dando vita al movimento di resistenza nonviolenta dei "Piccoli Corpi di Pace": gruppi di laici e monaci che si prodigavano per ricostruire i villaggi bombardati e tutto ciò che era stato distrutto dalla guerra. 

Si reca negli Stati Uniti e in Europa per sostenere la causa della pace e per chiedere la fine delle ostilità in Vietnam. E’ durante questo viaggio che incontra Martin Luther King, che, nel 1967, lo propone  come candidato al Premio Nobel per la Pace, definendolo “un apostolo della pace e della non violenza” e sostenendo che “le sue idee per la pace, se applicate, costruirebbero un monumento all’ecumenismo, alla fratellanza mondiale, all’umanità”.  

Nel 1975, Thay pubblica il libro Il miracolo della presenza mentale. Come ebbe a dire Jon Kabat-Zinn, è stato “il primo libro che abbia portato all’attenzione di un ampio pubblico di lettori l’argomento della consapevolezza. Ha aperto nuovi orizzonti nella scena della meditazione della fine degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, portando la pratica fuori dalla sala di meditazione e mostrando in che modo la consapevolezza potesse trovare applicazione nella vita di tutti i giorni”. 

Nello stesso anno (1975), fonda la Comunità Sweet Potato (“Patata dolce”), vicino a Parigi, che, nel 1982, viene trasferita in una proprietà molto più ampia, il Plum Village (vicino a Bordeaux in Dordogna). Nel 2008, fonda Wake Up (“Svegliati!”), un movimento mondiale seguito da migliaia di giovani che si impegnano in pratiche di vita consapevole, e  lancia a livello internazionale un programma di formazione per insegnanti, le Wake Up Schools.  All'età di 80 anni dichiara: “Nel buddhismo vediamo che l’insegnamento si compie non solo parlando, ma anche vivendo la propria vita. La tua vita è ciò che insegni, è il messaggio che trasmetti”

In seguito all’ictus subito nel 2014, smette l'insegnamento diretto, anche se come lui stesso dice "Anche con l'esempio si può insegnare".  Oltre centomila praticanti hanno ricevuto i “Cinque Addestramenti alla Consapevolezza” al Plum Village.  

La pratica della consapevolezza è un “importante agente di trasformazione e di guarigione”, che può consentirci di smettere di essere vittime della distrazione, interrompendo di cercare “la felicità in qualche altro posto, ignorando e distruggendo i preziosi elementi di felicità che sono già presenti dentro di noi e intorno a noi.” La consapevolezza ci permette di cessare di innaffiare i “semi di infelicità” presenti in noi, spingendoci ad innaffiare, invece, con premurosa cura, “i semi della pace, della gioia e della felicità.

 Thich Nhat Hanh è noto per essere il padre della meditazione consapevole o  mindfulness, il suo insegnamento, pur restando pienamente inserito nel flusso della tradizione zen,  è volto a ridurre al minimo il formalismo rituale, favorendone, in tal modo, la comprensione da parte degli occidentali. Invece di usare i koan - interrogativi enigmatici che i maestri sottopongono ai loro studenti per stimolarne il risveglio – Thich Nhat Hanh ricorre alle metafore. Non cerca di fare proselitismo; chiunque ha la possibilità di assistere agli insegnamenti e chiunque è benvenuto nel "Sangha", la comunità dei praticanti.

The Miracle of Mindfulness, pubblicato nel 1975 (poi tradotto in italiano con il titolo Il miracolo della presenza mentale), presentava nuove pratiche meditative da lui sviluppate.  La “meditazione non deve essere intesa come evasione, ma come un incontro sereno con la realtà”, un modo di scoprire come vivere pienamente il momento presente: "Non lasciare che la mente divaghi nei ricordi del passato o nelle aspettative del futuro".

Tra gli insegnamenti chiave di Thich Nhat Hanh troviamo la consapevolezza del respiro e la camminata meditativa. Camminare in meditazione significa essere consapevoli ad ogni passo del contatto dei nostri piedi con il terreno e sincronizzare i passi al ritmo del nostro respiro: “Percependo la Terra come un bodhisattva cammineremo sul pianeta con lo stesso rispetto che avremmo nel camminare in un edificio di culto o in qualsiasi spazio sacro.”   

Punto chiave del suo insegnamento è la compassione che si estende anche alla natura e a tutto ciò che ci circonda, incoraggiandoci a coltivare "l'interessere", un ben preciso senso di interconnessione con tutto l'universo.  Thay ci invita a vedere come siamo tutti interconnessi e come le nostre azioni influenzino continuamente il mondo intorno a noi.  E’  fortemente orientato al non dualismo, e si propone di superare quella visione di noi stessi come entità separate dalle altre persone e dal resto della realtà che è fonte di enorme sofferenza, sia individuale che collettiva. Tutti i fenomeni dell’intero universo saranno quindi da osservare e da intendere alla luce dell’interdipendenza: “Niente può esistere di per sé.”

Il maestro vietnamita puntualizza che il meditante non dovrebbe mai  limitarsi a praticare soltanto per veder sorgere nella propria mente i cosiddetti “Quattro incommensurabili stati mentali” (amore, compassione, gioia ed equanimità), ma anche per far sì che essi penetrino nel mondo, per mezzo di parole e azioni.  Un altro punto cardine del suo insegnamento è che la pace interiore e la felicità sono disponibili solo nel presente. Una delle sue frasi più note è : "La presenza mentale aiuta a vivere in profondità ogni momento della vita".  Siamo chiamati a trasformare il momento presente nel “momento più meraviglioso” e possiamo riuscirci a condizione di imparare a fermare la nostra sciocca corsa verso il futuro e smettendo di torturarci per il passato.  E lo sviluppo della consapevolezza in quanto “nostra luce interiore” sarà facilitato dalla pratica della meditazione. Il nirvana - ci dice - è la liberazione da tutte le idee e le opinioni: “Quando entri in contatto con la realtà non hai più opinioni. Hai la saggezza”.  

Secondo Thich Nhat Hanh, la mindfulness buddhista è sempre socialmente impegnata, concentrata sul rimedio alle cause della sofferenza e dell'oppressione del mondo. E poiché i suoi obiettivi sono alleviare la sofferenza collettiva attraverso la riduzione dell'avidità, dell'odio e dell'illusione, la mindfulness buddhista può servire come pratica di sostegno per un sistema sociale più inclusivo e come forza profetica per sfidare le iniquità strutturali ed economiche che hanno schiavizzato gli oppressi, i poveri e gli affamati.  

Thich Nath Hanh è stato un maestro di eticità e il suo insegnamento è caratterizzato da:              

  • impegno sociale; 
  • comunicazione accessibile; 
  • geniale quanto coraggiosa capacità di mettere determinate tecniche meditative (adeguatamente semplificate ed essenzializzate, ma mai banalizzate o mercificate) a disposizione delle donne e degli uomini occidentali;
  • forte interesse pedagogico;
  • grande sforzo divulgativo;
  • straordinaria capacità di applicare gli antichi insegnamenti alle particolari problematiche del mondo contemporaneo.    
  • sincera disponibilità al dialogo inter-religioso;

In piena sintonia con il pensiero teosofico e con quello gandhiano, quindi, sostiene che nessuna singola tradizione religiosa  può ritenersi depositaria del monopolio dell’intera verità. “Dobbiamo cogliere - dice - i valori migliori delle diverse tradizioni e lavorare insieme per rimuovere le tensioni fra le tradizioni stesse: solo così potremo offrire un’opportunità alla pace. 

Altro tema particolarmente a cuore di Thich Nhat Hanh è l'ambiente e l'ecologia. Thay, con la sua Lettera d’amore alla Madre Terra, dopo avere espresso più volte commozione di fronte alla grande armonia del cosmo, denuncia l’operato dell’essere umano che sta creando squilibri, inquinando l’atmosfera, e gli oceani, invitandoci tutti a ritrovare il nostro vero ruolo che è quello di proteggere la Madre Terra. 

Thich Nhat Hanh affronta anche il rapporto tra dolore e sofferenza. Il dolore può anche essere inevitabile, ma il fatto di soffrire o meno dipende da noi. Soffrire è una scelta, noi scegliamo se soffrire o meno. Nascita, vecchiaia e malattia sono naturali. È possibile non soffrire a causa loro, ma soltanto se siamo in grado di accettarle come parte della vita. Possiamo sempre scegliere di non soffrire, benché vi siano dolore o malattia. La vita e la nostra particolare situazione dipendono dal nostro modo di guardare.

Attraverso la meditazione – puntualizza Thich Nath Hanh – potremmo arrivare alla conoscenza di un’unica cosa: "che nascita e morte non ci riguardano mai e in nessun modo.”  Se riuscissimo a osservare attentamente i grandiosi processi cosmici, non dovrebbe risultare difficile superare la paura della morte.  “La nostra vera casa è nel qui e ora. Il passato se n’è andato e il futuro non è ancora arrivato". 

Thich Nhat Hanh è autore di circa 130 libri, di cui una settantina tradotti in italiano, che vanno dai manuali classici sulla meditazione, la consapevolezza e il buddhismo impegnato, poesie, racconti per bambini e commenti su antichi testi buddhisti, frutto di una vita di insegnamento, di studio, di creatività e di realizzazioni spirituali.

Scrittore poliedrico, Thich Nhat Hanh ha affrontato svariate tematiche come l'Etica, le Relazioni, l’Ecologia, esplorando anche i possibili punti d’incontro tra le grandi tradizioni del buddhismo e del cristianesimo.

Con questo libro, seppur in maniera sintetica ed essenziale,  si è tentato di presentare la ricchezza filosofica e la forte valenza pedagogica e terapeutica del suo pensiero.

Il libro si può trovare al seguente link: https://www.edizioniefesto.it/collane/lumen/774-thich-nath-hanh-un-sentiero-tra-le-stelle 

Filmati su Thay:    https://www.youtube.com/watch?v=IZkjX_c4hm4

 https://www.youtube.com/watch?v=SNRvtJ6nQhw  Buddhist Chant Namo Avalokiteshvara a Plum Village

https://www.youtube.com/watch?v=t5Ka2RS0UC4  https://www.youtube.com/watch?v=eiaxqGsyld8

venerdì 8 marzo 2024

Shintoismo in Giappone

Lo shintoismo ( “via degli dei”) o scintoismo, viene considerato la religione autoctona e più antica del Giappone.

Lo shintoismo: non ha un fondatore, né un testo sacro, né un “Dio” unico superiore. Ci sono comunque dei testi base dello shintoismo che sono il Kojiki e il Nihon Shoki. Sono opere che narrano le origini mitologiche del Giappone e vennero fatte redigere dalla famiglia imperiale nell’VIII secolo per giustificare la propria egemonia sugli altri clan e attribuirsi antenati divini. Lo shintoismo non è particolarmente interessato alla morte e all’aldilà (che rientrano più nell’orbita buddhista), ma a tutto ciò che concerne la vita in questo mondo, la natura, gli inizi e la trasformazione. Lo shintoismo non è nemmeno centrato su una dottrina morale specifica. Alla base dello shintoismo abbiamo la presenza del sacro nella natura e nei fenomeni che la circondano, e il praticante vuole mantenere l’armonia con queste forze e  ottenere favori e protezione da queste forze.

Una delle preoccupazioni principali dello shintoismo è la purezza e gli esseri umani nascono puri e la purezza è la loro condizione naturale. Capita, però, che si contaminino, ad esempio nel contatto coi morti, e che debbano quindi purificarsi con appositi riti e pratiche. La purezza è un ideale che compare già nel mito di Izanagi e Izanami, raccontato nel Kojiki e nel Nihon Shoki. Secondo la leggenda, alla morte della dea Izanami, suo marito Izanagi andò nell’aldilà per tentare (invano) di recuperarla. Al ritorno in questo mondo dovette purificarsi per essere entrato in contatto con la morte, e lo fece immergendosi nel fiume Tachibana.
Questo mito è rappresentativo per due motivi: ci fa capire che la morte è considerata impura. Lo stesso vale per la malattia, il sangue mestruale o quello del parto. È una credenza che ha avuto una certa importanza nella creazione della casta degli intoccabili, i burakumin. Questa classe era in parte composta da gente che lavorava a contatto con il sangue o con i morti.

Il secondo elemento importante è il ruolo purificatore dell’acqua. Per accorgersi della sua importanza, basta visitare qualunque tempio: prima di entrare bisogna sciacquarsi mani e bocca in una specie di fontana chiamata chōzu-ya o temizu-ya. Analogamente, non è raro vedere persone spargere acqua davanti a casa o al proprio negozio. Altri elementi purificatori sono il fuoco e il sale: quest’ultimo viene usato per purificare il ring nel sumo.

Essendo una religione di stampo animistico e politeista, lo shintoismo riconosce numerose divinità o spiriti, dette kami. Questi kami sono delle entità intangibili che eccellono nel loro essere, sia esso buono o cattivo. Sono qualunque cosa generi timore o rispetto. In concreto, possono essere fenomeni naturali, elementi animati o inanimati: la dea del sole Amaterasu (l’antenata della dinastia imperiale) e gli imperatori morti sono dei kami, ma lo possono essere anche gli antenati, piante, rocce e animali. Il loro numero è infinito. Essendo una religione “sincretica”, che cioè assorbe e unisce elementi presi da diverse tradizioni, lo shintoismo ha accolto al proprio interno anche divinità di origine cinese e indiana.
Anche il concetto di kami è qualcosa di “sentito”, di “avvertito”, che non è facile definire logicamente o descrivere a parole. Nello shintoismo di stato, nato a fine Ottocento, anche l’imperatore vivente era considerato un kami.

Il rito, più che la dottrina, è il cuore dello shintoismo, ed è una componente molto importante della cultura giapponese in generale.  Ci sono riti legati alle varie tappe della vita:  la nascita, la crescita,  il raggiungimento della maggiore età, , il matrimonio, ecc  per invocare la protezione dei kami.Ci sono riti come il jinchisai per purificare il sito di un nuovo cantiere edile, come l’umi-biraki  per inaugurare la stagione balneare e lo yama-biraki  per inaugurare quella del trekking.  Durante i riti, ma anche nelle normali visite, è possibile imbattersi nelle miko, le aiutanti. Queste non sono sacerdotesse, ma ragazze laiche che danno una mano nella gestione del santuario e a volte si esibiscono nelle danze sacre. Sono distinguibili per i pantaloni (hakama) rossi e la casacca bianca. Non ci sono funzioni religiose settimanali: la gente visita il tempio quando vuole, magari in occasione di riti speciali o matsuri.  Lo scopo delle visite al tempio non è legato all’espiazione di peccati o a benefici nell’aldilà, ma è più immediato e terreno. Di solito si prega per invocare protezione da pericoli e calamità, per la salute, la prosperità e il successo (agli esami di ammissione, ad esempio).

Poi ci sono i matsuri (festival) legati principalmente ai vari periodi dell’anno (Capodanno) e al raccolto (in primavera e in autunno). Durante le feste, solitamente, c’è una parte di purificazione seguita da offerte di cibo e preghiere, danze e musica. Le preghiere recitate dal kannushi (il sacerdote) sono composte in un linguaggio aulico e si chiamano norito.

I luoghi di culto shintoisti si chiamano solitamente “jinja”. Anche se questo termine si traduce come  “santuario”, “jinja” indica tutta l’area sacra, non solo l’edificio principale. Un tempo, infatti, non c’erano edifici permanenti: iniziarono a svilupparsi solo sotto la spinta del buddhismo (ai cui templi rimasero annessi fino a fine Ottocento).  Oggi, tipicamente, un jinja è composto da diversi elementi:     Torii: il portale d’ingresso nell’area sacra. È spesso dipinto di rosso e, nella versione più semplice, è formato da due colonne sormontate da una specie di architrave.
    Chōzu-ya o temizu-ya: una struttura con una fontana e dei mestoli in cui eseguire la purificazione rituale di mani e bocca prima di accedere al santuario.
    Haiden: il padiglione in cui i fedeli possono pregare. Le preghiere di solito non sono molto elaborate e la visita dura pochi minuti. In genere si svolge così: si fa un’offerta simbolica (una moneta da 5 yen è considerata benaugurante) e, se presente, si suona una piccola campana appesa sopra l’offertorio per attirare l’attenzione del kami e purificare l’aria. Dopodiché si fanno due inchini, si battono le mani due volte, si recita dentro di sé una preghiera (una richiesta, non una formula prestabilita) e, infine, si fa un altro inchino.
    Honden: il sancta sanctorum in cui può entrare solo il sacerdote (kannushi) e che contiene lo shintai, un oggetto simbolico in cui risiede il kami. Spesso si tratta di uno specchio. Lo shintai non è il kami, ma solo un oggetto che esso abita per essere accessibile agli umani.
    Alcuni templi non hanno un honden, perché lo shintai è un elemento naturale. L’esempio più famoso è quello del santuario di Ōmiwa, a Nara, dove lo shintai è la montagna.
    Yoshiro: è un oggetto che, come un parafulmini, attrae il kami e gli offre uno spazio fisico da occupare temporaneamente. Lo shintai è quindi uno yoshiro. Può essere un albero, una roccia, una katana o una montagna, e rappresenta la forma più primitiva del jinja. Di solito gli yoshiro sono identificabili perché sono circondati da grandi corde attorcigliate (shimenawa) decorate con strisce di carta a zig-zag.

Spesso nei santuari (ma anche nei templi buddhisti) sono presenti dei posti in cui appendere gli ema e, separatamente, gli omikuji. I primi sono delle tavolette di legno con un’immagine, in origine un cavallo. Il nome significa infatti “cavallo disegnato”, e si riferisce al fatto che, in passato, i ricchi offrissero ai kami questi animali, che sono considerati il loro mezzo di trasporto. Sul retro dell’immagine si può scrivere una richiesta per il kami (in qualunque lingua) e appenderla per fargliela arrivare.
Gli omikuji, invece, sono delle specie di oracoli scritti su carta che si estraggono a sorte e rivelano il futuro di una persona. In teoria, quelli negativi andrebbero appesi per scongiurare la cattiva sorte, ma spesso la gente appende anche quelli con i buoni auspici in segno di ringraziamento.

Al di fuori dello shintoismo più istituzionalizzato sopravvivono molte credenze popolari, parte del substrato da cui ha attinto la religione ufficiale. Lo shintoismo come lo conosciamo oggi è un prodotto di fine Ottocento. Nella sua formazione possiamo distinguere tre fasi:

1. Le origini delle credenze. La prima fase coincide con lo sviluppo di credenze sciamaniche e animistiche, nate probabilmente nel Nord-est asiatico e portate dalle popolazioni mongole. In questa fase non esisteva l’idea di una religione che si chiamasse “shintoismo”, e, siccome non c’era la scrittura, è difficile conoscerne i dettagli.  Per lungo tempo la popolazione giapponese fu organizzata in base ai clan, e ciascuno aveva le proprie credenze e divinità. Nel tempo, le varie fazioni iniziarono a unirsi sotto la guida di un unico clan, il cui dominio si espanse nel resto dell’arcipelago. Si tratta degli Yamato, che diedero origine alla linea imperiale che continua ancora oggi. La religione e la mitologia del clan dominante divennero quindi quelle condivise dal Paese, ma anche i miti degli altri gruppi vennero assorbiti e riorganizzati per costruire un sistema che mettesse al centro l’imperatore.

2. Le origini del termine.  La parola “shintoismo” comparve con l’arrivo del buddhismo nel VI secolo d.C., quando si cercò di trovare un termine per definire tutto ciò che non era buddhismo. Anche in questo caso, quindi, non si trattava necessariamente di un’unica religione organizzata in modo sistematico, ma di un insieme di pratiche e credenze.  Il fatto, però, che si inizi a parlare di shintoismo insieme al buddhismo getta le basi per lo sviluppo di questa seconda fase: la fusione tra i due culti. Per molti secoli, in Giappone, non si sentì la necessità di separare nettamente shintoismo e buddhismo. L’idea di esclusività propria dei grandi culti monoteisti qui non è mai arrivata. Le due religioni si influenzarono a vicenda e divennero inscindibili. Non si parlava tanto di “shintoismo” in sé, in quanto questo era un’usanza in senso ampio, non una religione che si professava. I kami furono visti inizialmente come protettori del buddhismo, poi come entità intrappolate nel ciclo delle rinascite e infine come bodhisattva, esseri illuminati. Per tutti questi motivi, i templi shintoisti e buddhisti sorgevano nello stesso luogo.

3. Le origini del sistema religioso organizzato. La “terza nascita” dello shintoismo risale all’epoca Meiji, a fine Ottocento. Il Giappone si stava aprendo all’Occidente dopo 250 anni di isolamento e sentiva il bisogno di definire la propria identità per evitare di essere fagocitato. Cercò nella propria cultura qualcosa di “originale” e autoctono, e lo trovò nello shintoismo. Mentre il buddhismo venne visto come una dottrina importata e corrotta, lo shintoismo venne esaltato come vera religione nazionale. Per la prima volta, quindi, si crearono due culti distinti.

In questa fase si cercò di analizzare e sistematizzare questa religione, stabilendo cosa fosse shintoista e cosa no. Nello stesso periodo nacque anche lo shintoismo di stato, che venne usato per sostenere il nazionalismo e la militarizzazione di inizio Novecento. Questa dottrina dava grande importanza al culto dell’imperatore, considerato un kami vivente.

Lo shintoismo di stato venne smantellato dopo la seconda guerra mondiale. Al giorno d’oggi, molti giapponesi si dichiarano atei, ma tantissimi fanno visita a un santuario a Capodanno (hatsumode), o magari in vista degli esami. Tra i santuari più famosi ci sono infatti i Tenmangū, dedicati a Tenjin, il kami protettore dello studio. Molto popolari sono anche quelli consacrati a Inari, che protegge le messi e gli affari e che ha come messaggero una volpe. Tante grandi aziende, tra cui la Shiseido, hanno un santuario dedicato a Inari nei loro edifici.
Il santuario Fushimi Inari è una tappa obbligata a Kyoto, ma ce ne sono tantissimi altri in Giappone. 

Dal sito:  https://volcanohub.com/ 

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