Per capire la vera natura dello Yoga, come un percorso di realizzazione
spirituale, è necessario avere una piccola comprensione delle sei scuole
o sistemi classici della filosofia indiana, o induista, di cui lo Yoga fa parte. Lo yoga è infatti una
delle sei darshana (letteralmente "visioni" o scuole
filosofiche) e incorpora
al suo interno componenti degli altri sistemi. Spesso i grandi maestri di yoga sono esperti di tutti questi
sistemi. E' noto che
il maestro Krisnamacharya, fosse ad esempio "laureato" in tutti e sei
gli insegnamenti. A questi sistemi filosofici che cercano di rispondere alle eterne domande dell’uomo: Cosa è la realtà, qual’è il
senso della vita? potremmo aggiungere gli insegnamenti di Buddha come settimo sistema o scuola di
filosofia. Alcune scuole induiste hanno inglobato il buddismo nel proprio orizzonte
conoscitivo e considerano il Buddha un avatar di Visnu (bisogna precisare che oggi il buddhismo è scomparso dall'India). Le date per la formalizzazione di questi sistemi variano da circa
2000-5000 anni fa.
Le sei Darshana sono le seguenti:
1- Nyaya letteralmente significa “metodo”, “regole” o “giudizio, è un
sistema di indagine sistematico basato sulla logica, è una scuola di
speculazione filosofica, divenuto solo in seguito un sistema metafisico.
Si basa su testi conosciuti come Nyaya Sutra, che furono scritti da
Aksapada Gautama, nel II secolo a.C. Il contributo più rilevante
apportato dal Nyaya all’Induismo moderno consiste nella metodologia;
quest’ultima è basata su un sistema logico che in seguito fu adottato
dalla maggior parte delle altre scuole induiste (ortodosse o non),
similmente al modo in cui scienza, religione e filosofia occidentali
possono considerarsi basate sulla logica aristotelica. Nyaya differisce
dalla logica aristotelica, in quanto non è semplicemente una logica fine
a sé stessa, ma si spinge oltre, mettendo in relazione diretta la logica con lo sviluppo spirituale. Secondo questa scuola di pensiero, ottenere
una valida conoscenza è l’unico modo per ottenere la liberazione dalla
sofferenza; l’unica conoscenza autentica è quella che non potrà mai
essere soggetta a dubbio o contraddizione, quella che riproduce
l’oggetto per ciò che realmente è, e che pertanto permette di percepire
la realtà in maniera veritiera e fedele. Solamente questa può
considerarsi vera conoscenza, ed è contrapposta al ricordo e al dubbio,
così come al ragionamento puramente ipotetico e, quindi, incerto. Nyaya è
probabilmente il più vicino equivalente indiano della filosofia
analitica. La scuola di Nyaya condivide alcune delle sue metodologie, e l’idea del
fondamento della sofferenza umana, con il buddismo; tuttavia, una
differenza fondamentale tra i due è che il buddismo ritiene che non ci
sia né un'anima, né un sé nel modo immaginato dalla scuola di Nyaya, che,
come le altre scuole dell'induismo, crede che ci sia un'anima e un sé, e
che la liberazione (moksha) sia uno stato di rimozione dell'ignoranza,
della conoscenza sbagliata, l'acquisizione della conoscenza corretta e
della continuazione senza impedimenti del sé.
La verità viene contrapposta all’ignoranza causa della
sofferenza umana. La liberazione dello spirito del sè, sono temi cari
anche allo yoga. Le opere classiche dello yoga, a partire dagli Yoga
sutra, applicano in una certa maniera, nell’esposizione, la logica della
scuola nyaya.
Samkhya è un termine sanscrito che indica la "numerazione", il "numero".
Secondo alcuni è la più antica filosofia sistematica apparsa fra le
tradizioni hindu, e ha influito considerevolmente sulle altre scuole
filosofiche. Nella letteratura esistono due
versioni del Sāṃkhya, una ritenuta teista e l'altra non teista. Secondo
Vivekananda, il fondatore del razionalismo indiano è stato il mitico
Kapila, il fondatore del pensiero Sāṃkhya. D'altronde è lo stesso
Īśvarakṛṣṇa che, nella sua Sāṃkhyakārikā, scrive
d'essere il depositario di una scuola il cui iniziatore è Kapila.
E’ importante sottolineare che, nei suoi sviluppi iniziali, il Sāṃkhya è
connesso con lo Yoga classico. Così l'orientalista Giuseppe Tucci si esprime nella
sua “Storia della filosofia indiana”: «Di questi due sistemi quasi
sempre si discorre insieme perché entrambi hanno uno sfondo dottrinale
comune. […] Le idee che i due sistemi esprimono hanno origini antiche.»
Infatti lo Yoga classico, così come esposto da Patañjali nel suo Yoga
Sūtra, si appropria della metafisica dualista del Sāṃkhya, con qualche
variante, differenziandosene non tanto nella dottrina quanto soprattutto
nel metodo: lo Yoga ritiene insufficiente la conoscenza metafisica ai
fini della liberazione, sostenendo invece la pratica di discipline
psichiche e fisiche le cui origini sembrano essere ancora più remote. C’e’ una sostanziale
convergenza tra i sutra di Patanjali e la scuola Samkhya riguardo ai
concetti di spirito individuale e spirito universale.
Nella kārikā di 70 versi è adoperato il termine
tantra per indicare la dottrina che Īśvarakṛṣṇa sostiene di aver
ereditato da Kapila. L'indologo indiano Chandra Bagchi identifica da
questo il Sāmkhya come una forma di Tantra. Anche
Śankara usa il termine Kapilasya-tantra per denotare il sistema esposto
da Kapila (la filosofia Sāmkhya) e il termine Vaināśikā-tantra per
denotare la filosofia buddista dell'esistenza momentanea. Secondo il sistema filosofico esposto da Kapila, l'intera realtà scaturisce
dalla relazione fra due princìpi onnipervadenti ed eterni: il puruṣa e la prakṛti, la
materia. I puruṣa sono gli spiriti delle individualità umane, le monadi
spirituali, che sono di numero infinito. Tali puri spiriti, i puruṣa,
sono spettatori passivi e testimoni silenziosi delle evoluzioni della
prakṛti (la "materia" o "natura") che è completamente pervasa da tre
qualità costitutive, i guṇa: sattva, rajas e tamas. Queste entrano nella
composizione di qualsiasi manifestazione della natura e corrispondono,
rispettivamente, alla "leggerezza, luminosità", al dinamismo" e alla "pesantezza, oscurità". Quando la quiete della
prakṛti, cioè l'equilibrio fra i tre guṇa, viene alterata, si ha
l'inizio di un nuovo universo e, quindi, l'avvio evolutivo del mondo
manifesto. Questa alterazione dello stato originario di quiete è dovuta
alla stretta vicinanza tra puruṣa e prakṛti e causata dalla relazione
intercorrente fra questi due princìpi. Il Puruṣa va infatti considerato
come il perenne ispiratore che, con la sua sola presenza, dona coscienza
e vitalità all'intero creato e che, all'interno della singola
manifestazione e quindi dell'uomo, diviene anima e assume l'aspetto di
colui che conosce e non agisce. La prakṛti, invece, con l'imperfezione
che la contraddistingue, è un ente agente e non cosciente. Lo stato di
assoluto isolamento (kaivalya) del sé (puruṣa) rispetto ai tre mondi -
terreno, intermedio e divino - consiste nel riconoscere la diversità fra
questi due enti attraverso la conoscenza dei 25 princìpi che
strutturano il sistema Sāṃkhya.
La filosofia Sāṃkhya è un dualismo fondamentalmente ateo, che esclude
qualsiasi concetto di divinità o Īśvara e si limita a considerare le
individualità umane (i puruṣa) e la materia (la prakṛti). Tali due
principi sono considerati equivalenti, per quanto i puruṣa umani,
rappresentanti la spiritualità, siano gli attori di un'ascesi
spirituale e morale. Da
questo l'ipotesi che il Buddhismo possa
avervi fatto riferimento. L'onnipervadenza della prakṛti è lo scenario
in cui i puruṣa fluttuano alla ricerca di una perfezione individuale.
Come nel Buddhismo, il fine più immediato è quello del superamento della
sofferenza per mezzo della "conoscenza". La scuola del Sāṃkhya è la prima a proclamare l'indipendenza della
ragione umana dalla rivelazione tipica della cultura vedica
tradizionale, come avviene, ad esempio, nelle Upaniṣad. I puri spiriti,
le anime individuali, debbono liberarsi dai vincoli karmici, dal
susseguirsi delle reincarnazioni. Benché ciò evochi la possibilità di
un'"anima generale" originaria sparpagliata nelle anime individuali, di
questo concetto non v'è alcuna traccia nel Sāṃkhya, mentre è tipico del
Vedānta panteistico e anche di alcune scuole yoga. L'anima individuale,
il "corpo sottile", che, in quanto essenza già presente nella quiete
originaria della prakṛti, ha la possibilità di evolvere fino al
conclusivo "isolamento dalla materia", svincolandosi definitivamente dal
saṃsāra ed ottenendo così la liberazione dalla sofferenza (duḥkha). Secondo una teoria cosmologica comune a molte dottrine dell'induismo, e
del buddhismo anche, l'universo ha evoluzione periodica: il tempo è
circolare e non lineare. Ogni qual volta il tempo riprende, una nuova
evoluzione dell'universo ha origine, un ulteriore ciclo cosmico (kalpa).
Prima che il tempo riprenda, il cosmo è immanifesto, la prakṛti giace
cioè in uno stato di quiete, ed è soltanto in questo stato che le sue
tre componenti, le tre guṇa (rajas, sattva, tamas), si trovano in
equilibrio fra loro. A causa del karma, ossia delle azioni compiute nei
cicli precedenti dagli esseri che non ebbero raggiunto la liberazione
(mokṣa), e destinati quindi a reincarnarsi, lo stato di equilibrio viene
alterato: la prakṛti si mette, per così dire, in movimento e un nuovo
ciclo prende inizio. Questo passaggio di stato che dà luogo a una nuova
manifestazione del cosmo avviene dunque per cause etiche, e l'intero
susseguirsi dei cicli avrà termine soltanto quando tutti gli esseri
avranno conseguito la liberazione.
Vaisheshika è la terza delle sei scuole
ortodosse della filosofia indù. Nei suoi primi stadi, il Vaiśeṣika era una filosofia
indipendente, un sistema completo. Nel corso del tempo, il sistema
Vaiśeṣika divenne simile nelle sue
conclusioni etiche alla scuola Nyāya, che abbiamo già visto, ma mantenne
la sua differenza nell'epistemologia, ovvero lo studio della natura e
delle strutture logiche, e nella metafisica. La scuola di Vaisheshika è conosciuta e famosa per le sue intuizioni nel
naturalismo. La modernità delle sue intuizioni lascia davvero
stupefatti: Ha postulato che tutti gli oggetti nell'universo fisico sono riducibili a
atomi (paramāṇu), e le esperienze derivano dall'interazione
della sostanza (la funzione degli atomi, il loro numero e le loro
disposizioni spaziali), la qualità, l'attività, la comunanza, la
particolarità e l'inerenza. Secondo la scuola Vaiśeṣika, la conoscenza e
la liberazione erano realizzabili attraverso una completa comprensione
del mondo dell'esperienza. Questo particolare aspetto l’avvicina allo
yoga classico. Lo studio delle categorie di conoscenza della scuola dell'induismo
Vaiśeṣika, come il buddismo, accettava solo due mezzi affidabili per la
conoscenza: la percezione e l'inferenza. La scuola Vaiśeṣika e il
Buddhismo considerano entrambe le rispettive Scritture come mezzi
incontestabili e validi per la conoscenza, con la differenza che le
Scritture ritenute una fonte valida e affidabile fossero per Vaiśeṣika i
Veda. La forma di atomismo del Vaisheshika, postula che la realtà sia
composta da cinque sostanze ( terra, acqua, aria, fuoco e spazio). Ognuno di questi cinque elementi è di due tipi, paramāṇu e composito. Un
Paramanu (Para significa oltre e Anu significa Atomo o particella molto
piccola ma divisibile mentre il parmanu è indivisibile) è ciò che è
indistruttibile, indivisibile e ha un tipo speciale di dimensione,
chiamata "piccolo" (aṇu). Un composito è ciò che è divisibile in
paramanu. Qualunque cosa percepisca l'essere umano è composita, e anche
la più piccola cosa percettibile, cioè una macchia di polvere, ha parti,
che sono quindi invisibili. Ogni diade ha
due parti, ognuna delle quali è un atomo. Le dimensioni, la forma, le
verità e tutto ciò che gli esseri umani sperimentano nel loro complesso
sono una funzione del paramanu, del loro numero e delle loro disposizioni
spaziali. Come dicevamo, lascia molto sorpresi l’analogia con la fisica
e la chimica moderni in un sistema filosofico tanto antico.
Il sistema Vaiśeṣika fu fondata da Kaṇāda Kashyapa intorno al VI-II secolo
AC. La scuola
Vaishesika differiva dal Nyaya in un aspetto cruciale: dove Nyaya
accettava quattro fonti di conoscenza valida, i Vaishesika, come detto,
ne accettavano solo due, percezione e inferenza. Infine, può essere
interessante indagare come, mentre l'induismo identifica sei Pramāṇa
come mezzi affidabili per la conoscenza accurata e le verità. Vaiśeṣika
considera solo pratyakṣa (percezione) e anumāna (inferenza) come mezzi
affidabili di conoscenza valida e in questo ha dei
punti di contatto con il sistema dello yoga.
Pratyakṣa significa percezione. È di due tipi: esterna e
interna. La percezione esterna è descritta come quella derivante
dall'interazione di cinque sensi con gli oggetti mondani, mentre la
percezione interna è descritta da questa scuola come quella del senso
interiore, la mente. Anumāna significa inferenza. Il processo di inferenza è
descritto come il raggiungere una nuova conclusione e verità da una o più
osservazioni e verità precedenti applicando la ragione. Osservare il
fumo e inferire il fuoco è un esempio di Anumana. Anche gli altri
sistemi filosofici sposano questo processo conscitivo.
Vedanta significa letteralmente "il fine dei Veda". Riflette idee
emerse dalle speculazioni e dalle filosofie contenute nel Prasthanatrayi (che include le principali Upanishad, i Bhrama Sutra e la Baghavad Gita intesi come commentari a questi
testi sacri). Tutte le scuole Vedanta, nelle loro deliberazioni, si occupano delle
seguenti tre categorie, ma differiscono nelle loro opinioni riguardo al
concetto e alle relazioni tra loro: Brahman - la realtà metafisica
finale, Ātman / Jivātman - l'anima o il sé individuale e Prakriti - il
mondo empirico, universo fisico in continua evoluzione, corpo e materia.
L’aspetto fondamentale è che, nel tempo, il Vedanta adottò idee dallo Yoga e Nyaya e, attraverso questo sincretismo,
divenne la scuola più importante dell'induismo. Molte forme esistenti di
Visnuismo, Shivaismo e Shaktismo sono state significativamente modellate
e influenzate dalle dottrine delle diverse scuole di Vedanta. La scuola
Vedanta ha avuto un'influenza storica centrale sull'induismo.
Il vedanta si è storicamente articolato secondo alcune grandi scuole,
nessuna interpretazione dei testi (Veda) è prevalsa sulle altre, queste
sotto-tradizioni spaziano dal monismo o non-dualismo (Advaita) del filosofo Adi Shankara
(VIII secolo), al dualismo qualificato o teismo (Vishi-stadvaita) del XI-XII
secolo di Ramanuja, al dualismo (Dvaita) del XIII secolo di Madhva. La maggior parte delle altre sub-tradizioni
vedantiche sono riassunte sotto il termine all'Acintya-Bheda-Abheda ("simultanea e inconcepibile differenza ed
unità") di Caitanya Mahaprabhu. Tutte le scuole Vedānta, tuttavia,
mantengono in comune un certo numero di principi:
- -la trasmigrazione del Sé (Saṃsāra) e l'opportunità della liberazione dal ciclo delle rinascite (moksha);
- -l'autorità dei Veda sulle modalità di liberazione;
- -che il Brahman sia la causa materiale (upadana) e strumentale (nimitta) del mondo;
- -che il Sé (Ātman) è l'agente dei propri atti (karma) e quindi il destinatario dei frutti o delle conseguenze delle azioni (phala).
L'influenza del Vedānta sul pensiero indiano è stata profonda. A causa
della preponderanza di testi Advaita, in Occidente si ha spesso l'errata
convinzione che Vedānta significhi Advaita, mentre questa corrente
non-dualistica è solo una delle molte sotto-tradizioni, benché forse la
più importante.
(Per vedere il contenuto delle principali Upanishad e della Baghavad Gita vedi articoli del blog). Di seguito sarà illustrato il contenuto dei Brahma Sutra, proprio
per la loro natura di riassunto delle Upanishad.
Badarayana riassunse e interpretò infatti gli insegnamenti delle
Upanishad nei Brahma Sutra, chiamati anche il Vedanta Sutra che sono le basi
per lo sviluppo della filosofia Vedanta. Sebbene attribuiti a Badarayana, i Brahma Sutra furono probabilmente
composti da più autori tra il 500 AC al 200 DC circa. Questi sutra tentano di sintetizzare i diversi
insegnamenti delle Upanishad, tuttavia, la natura criptica degli
aforismi ha richiesto molti commenti interpretativi che sono stati scritti tra il 700 e il 1200 DC. Questi commenti hanno portato
alla formazione di numerose scuole Vedanta, ognuna interpretando i testi
a modo suo. Non è insomma
facile orientarsi, comunque le diverse scuole all’interno della tradizione
Vedanta, hanno prodotto contesti coerenti ed organici.
I sutra di Brahma consistono in 555 aforismi in quattro capitoli. Questi
versetti riguardano principalmente la natura dell'esistenza umana e
dell'universo e le idee sul concetto metafisico della Realtà Ultima
chiamata Brahman. Il primo capitolo discute la metafisica della Realtà
Assoluta, il secondo capitolo esamina e affronta le obiezioni sollevate
dalle idee delle scuole ortodosse concorrenti delle filosofie indù così
come delle scuole eterodosse come il Buddismo e il Giainismo, il terzo
capitolo discute le categorie conoscitive e il percorso per acquisire le
conoscenze spirituali liberatrici e l'ultimo capitolo afferma perché
tale conoscenza è un importante bisogno umano.
Mimamsa è una parola sanscrita che significa "riflessione" o "indagine critica" e quindi si riferisce a una tradizione di esecuzione dei rituali. Questa tradizione è anche conosciuta come Pūrva-Mīmāṃsā per la sua attenzione ai primi (pūrva) testi vedici che trattano le azioni rituali, in modo simile al Karma-Mīmāṃsā, a causa della sua concentrazione sull'azione rituale (karma). Questa particolare scuola è nota per le sue teorie filosofiche sulla natura del dharma. La scuola Mīmāṃsā fu fondamentale e molto influente per tutte le scuole vediche, che erano anche conosciute come Uttara-Mīmāṃsā per la loro attenzione alle parti "superiore” dei Veda. La tradizione Mīmāṃsā investiga anche sullo scopo dell'azione umana. Mīmāṃsā ha diverse sotto-scuole, ciascuna definita dalla sua interpretazione della realtà. La sotto-scuola Prābhākara, che prende il nome dal filosofo Prabhākara del settimo secolo, descrisse i cinque mezzi affidabili per acquisire conoscenza: pratyakṣa o percezione; anumāna o inferenza; upamāṇa, per confronto e analogia; arthāpatti, l'uso della postulazione e la derivazione dalle circostanze; e śabda, la parola o la testimonianza di esperti affidabili passati o presenti. La sotto-scuola di Bhāṭṭa, dal filosofo Kumārila Bhaṭṭa, ha aggiunto un sesto mezzo al suo canone: anupalabdhi, non percezione, o prova dell'assenza di cognizione (ad es., la mancanza di polvere da sparo sulla mano di un sospetto). La scuola di Mīmāṃsā consiste sia di dottrine ateistiche che teistiche, ma la scuola ha comunque mostrato scarso interesse nell'esame sistematico dell'esistenza degli dei. Piuttosto, sosteneva che l'anima è un'essenza spirituale eterna, onnipresente, intrinsecamente attiva, e focalizzata sulla conoscenza e la metafisica del dharma. Per la scuola Mīmāṃsā, il dharma significava rituali e doveri sociali, non deva, o dei, perché gli dei esistevano solo di nome. I Mīmāṃsakas sostenevano anche che i Veda sono "eterni, senza autore, infallibili", inoltre i vidhi vedici, ovvero le ingiunzioni e i mantra dei rituali, sono “krya” ovvero azioni prescrittive, e i rituali sono quindi di primaria importanza e merito. Hanno considerato le Upaniṣad e gli altri testi relativi alla conoscenza del sè e alla spiritualità come sussidiari, una visione filosofica in cui la scuola Vedānta non era ovviamente d'accordo. Mīmāṃsā diede origine allo studio della filologia, la ricostruzione e la corretta interpretazione dei documenti letterari, e della filosofia del linguaggio. Mentre la loro profonda analisi della lingua e della linguistica influenzava le altre scuole dell'induismo, le loro opinioni non erano condivise. Mīmāṃsaka considerava che lo scopo e il potere del linguaggio fosse quello di prescrivere chiaramente il giusto, ovvero ciò che era corretto era giusto. Al contrario, la scuola vedanta ha esteso la portata e il valore del linguaggio come strumento per descrivere, sviluppare e derivare. Mīmāṃsaka considerava la vita procedurale ordinata, guidata dalla legge, come scopo centrale e la nobile necessità del dharma e della società, e il sostentamento divino (teistico) era in funzione di tale fine. La scuola Mīmāṃsā è una forma di realismo filosofico. Un testo chiave della scuola Mīmāṃsā è il Mīmāṃsā Sūtra di Jaimini. Nell’India vedica, ma anche moderna, l’importanza del ritualismo è estrema: solo l’espletazione regolare del sacrificio garantisce la persistenza dell’armonia cosmica (dharma) e del buon ordine sociale. La scuola Mīmāṃsā ha una filosofia dettagliata relativa al rituale, al culto e alla condotta etica, che si è sviluppata nella filosofia del karma. Generalmente non si ritiene che questa scuola influenzi più di tanto le altre, compreso lo yoga. Si potrebbe vedere un legame tra il porre l’accento su di un ritualismo codificato, sulla perfezione e ripetizione delle stesse azioni giornaliere e periodiche, proprio della scuola Mimamsa, e la pratica quotidiana dello yoga secondo alcune sue scuole. L’azione, la parola, il mantra, acquisiscono potere nella loro perfezione e corretta esecuzione.
Yoga. In India, lo yoga è uno dei sei sistemi per raggiungere la conoscenza, per indagare la realtà, sistemi che si permeano a vicenda, ma che hanno anche una loro assoluta autonomia.
Dal sito: http://www.yogamagazine.it/2019/01/lo-yoga-e-le-altre-5-darsana-indiane.html
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