giovedì 8 dicembre 2022

Lo yoga e le altre cinque darshana indiane

Per capire la vera natura dello Yoga, come un percorso di realizzazione spirituale, è necessario avere una piccola comprensione delle sei scuole o sistemi classici della filosofia indiana, o induista, di cui lo Yoga fa parte. Lo yoga è infatti una delle sei darshana (letteralmente "visioni" o scuole filosofiche) e incorpora al suo interno componenti degli altri sistemi. Spesso i grandi maestri di yoga sono esperti di tutti questi sistemi. E' noto che il maestro Krisnamacharya, fosse ad esempio "laureato" in tutti e sei gli insegnamenti.  A questi  sistemi filosofici che cercano di rispondere alle eterne domande dell’uomo: Cosa è la realtà, qual’è il senso della vita? potremmo aggiungere gli insegnamenti di Buddha come settimo sistema o scuola di filosofia.  Alcune scuole induiste hanno inglobato il buddismo nel proprio orizzonte conoscitivo e considerano il Buddha un avatar di Visnu (bisogna precisare che oggi il buddhismo è scomparso dall'India).  Le date per la formalizzazione di questi sistemi variano da circa 2000-5000 anni fa.

Le sei Darshana sono le seguenti:

1- Nyaya letteralmente significa “metodo”, “regole” o “giudizio, è un sistema di indagine sistematico basato sulla logica, è una scuola di speculazione filosofica, divenuto solo in seguito un sistema metafisico. Si basa su testi conosciuti come Nyaya Sutra, che furono scritti da Aksapada Gautama, nel II secolo a.C. Il contributo più rilevante apportato dal Nyaya all’Induismo moderno consiste nella metodologia; quest’ultima è basata su un sistema logico che in seguito fu adottato dalla maggior parte delle altre scuole induiste (ortodosse o non), similmente al modo in cui scienza, religione e filosofia occidentali possono considerarsi basate sulla logica aristotelica. Nyaya differisce dalla logica aristotelica, in quanto non è semplicemente una logica fine a sé stessa, ma si spinge oltre, mettendo in relazione diretta la logica con lo sviluppo spirituale. Secondo questa scuola di pensiero, ottenere una valida conoscenza è l’unico modo per ottenere la liberazione dalla sofferenza; l’unica conoscenza autentica è quella che non potrà mai essere soggetta a dubbio o contraddizione, quella che riproduce l’oggetto per ciò che realmente è, e che pertanto permette di percepire la realtà in maniera veritiera e fedele. Solamente questa può considerarsi vera conoscenza, ed è contrapposta al ricordo e al dubbio, così come al ragionamento puramente ipotetico e, quindi, incerto. Nyaya è probabilmente il più vicino equivalente indiano della filosofia analitica. La scuola di Nyaya condivide alcune delle sue metodologie, e l’idea del fondamento della sofferenza umana, con il buddismo; tuttavia, una differenza fondamentale tra i due è che il buddismo ritiene che non ci sia né un'anima, né un sé nel modo immaginato dalla scuola di Nyaya, che, come le altre scuole dell'induismo, crede che ci sia un'anima e un sé, e che la liberazione (moksha) sia uno stato di rimozione dell'ignoranza, della conoscenza sbagliata, l'acquisizione della conoscenza corretta e della continuazione senza impedimenti del sé.
La verità viene contrapposta all’ignoranza causa della sofferenza umana. La liberazione dello spirito del sè, sono temi cari anche allo yoga. Le opere classiche dello yoga, a partire dagli Yoga sutra, applicano in una certa maniera, nell’esposizione, la logica della scuola nyaya.

Samkhya è un termine sanscrito che indica la "numerazione", il "numero".  Secondo alcuni è la più antica filosofia sistematica apparsa fra le tradizioni hindu, e ha influito considerevolmente sulle altre scuole filosofiche. Nella letteratura esistono due versioni del Sāṃkhya, una ritenuta teista e l'altra non teista. Secondo Vivekananda, il fondatore del razionalismo indiano è stato il mitico Kapila, il fondatore del pensiero Sāṃkhya. D'altronde è lo stesso Īśvarakṛṣṇa che, nella sua Sāṃkhyakārikā, scrive d'essere il depositario di una scuola il cui iniziatore è Kapila.
E’ importante sottolineare che, nei suoi sviluppi iniziali, il Sāṃkhya è connesso con lo Yoga classico. Così l'orientalista Giuseppe Tucci si esprime nella sua “Storia della filosofia indiana”: «Di questi due sistemi quasi sempre si discorre insieme perché entrambi hanno uno sfondo dottrinale comune. […] Le idee che i due sistemi esprimono hanno origini antiche.» Infatti lo Yoga classico, così come esposto da Patañjali nel suo Yoga Sūtra, si appropria della metafisica dualista del Sāṃkhya, con qualche variante, differenziandosene non tanto nella dottrina quanto soprattutto nel metodo: lo Yoga ritiene insufficiente la conoscenza metafisica ai fini della liberazione, sostenendo invece la pratica di discipline psichiche e fisiche le cui origini sembrano essere ancora più remote. C’e’ una sostanziale convergenza tra i sutra di Patanjali e la scuola Samkhya riguardo ai concetti di spirito individuale e spirito universale.
Nella  kārikā di 70 versi è adoperato il termine tantra per indicare la dottrina che Īśvarakṛṣṇa sostiene di aver ereditato da Kapila. L'indologo indiano Chandra Bagchi identifica da questo il Sāmkhya come una forma di Tantra.  Anche Śankara usa il termine Kapilasya-tantra per denotare il sistema esposto da Kapila (la filosofia Sāmkhya) e il termine Vaināśikā-tantra per denotare la filosofia buddista dell'esistenza momentanea.  Secondo il sistema filosofico esposto da Kapila, l'intera realtà scaturisce dalla relazione fra due princìpi onnipervadenti ed eterni: il puruṣa e la prakṛti, la materia. I puruṣa sono gli spiriti delle individualità umane, le monadi spirituali, che sono di numero infinito. Tali puri spiriti, i puruṣa, sono spettatori passivi e testimoni silenziosi delle evoluzioni della prakṛti (la "materia" o "natura") che è completamente pervasa da tre qualità costitutive, i guṇa: sattva, rajas e tamas. Queste entrano nella composizione di qualsiasi manifestazione della natura e corrispondono, rispettivamente, alla "leggerezza, luminosità", al dinamismo" e alla "pesantezza, oscurità". Quando la quiete della prakṛti, cioè l'equilibrio fra i tre guṇa, viene alterata, si ha l'inizio di un nuovo universo e, quindi, l'avvio evolutivo del mondo manifesto. Questa alterazione dello stato originario di quiete è dovuta alla stretta vicinanza tra puruṣa e prakṛti e causata dalla relazione intercorrente fra questi due princìpi. Il Puruṣa va infatti considerato come il perenne ispiratore che, con la sua sola presenza, dona coscienza e vitalità all'intero creato e che, all'interno della singola manifestazione e quindi dell'uomo, diviene anima e assume l'aspetto di colui che conosce e non agisce. La prakṛti, invece, con l'imperfezione che la contraddistingue, è un ente agente e non cosciente. Lo stato di assoluto isolamento (kaivalya) del sé (puruṣa) rispetto ai tre mondi - terreno, intermedio e divino - consiste nel riconoscere la diversità fra questi due enti attraverso la conoscenza dei 25 princìpi che strutturano il sistema Sāṃkhya.
La filosofia Sāṃkhya è un dualismo fondamentalmente ateo, che esclude qualsiasi concetto di divinità o Īśvara e si limita a considerare le individualità umane (i puruṣa) e la materia (la prakṛti). Tali due principi sono considerati equivalenti, per quanto i puruṣa umani, rappresentanti la spiritualità, siano gli attori di un'ascesi spirituale e morale. Da questo l'ipotesi che il Buddhismo possa avervi fatto riferimento. L'onnipervadenza della prakṛti è lo scenario in cui i puruṣa fluttuano alla ricerca di una perfezione individuale. Come nel Buddhismo, il fine più immediato è quello del superamento della sofferenza per mezzo della "conoscenza".     La scuola del Sāṃkhya è la prima a proclamare l'indipendenza della ragione umana dalla rivelazione tipica della cultura vedica tradizionale, come avviene, ad esempio, nelle Upaniṣad. I puri spiriti, le anime individuali, debbono liberarsi dai vincoli karmici, dal susseguirsi delle reincarnazioni. Benché ciò evochi la possibilità di un'"anima generale" originaria sparpagliata nelle anime individuali, di questo concetto non v'è alcuna traccia nel Sāṃkhya, mentre è tipico del Vedānta panteistico e anche di alcune scuole yoga. L'anima individuale, il "corpo sottile", che, in quanto essenza già presente nella quiete originaria della prakṛti, ha la possibilità di evolvere fino al conclusivo "isolamento dalla materia", svincolandosi definitivamente dal saṃsāra ed ottenendo così la liberazione dalla sofferenza (duḥkha).  Secondo una teoria cosmologica comune a molte dottrine dell'induismo, e del buddhismo anche, l'universo ha evoluzione periodica: il tempo è circolare e non lineare. Ogni qual volta il tempo riprende, una nuova evoluzione dell'universo ha origine, un ulteriore ciclo cosmico (kalpa). Prima che il tempo riprenda, il cosmo è immanifesto, la prakṛti giace cioè in uno stato di quiete, ed è soltanto in questo stato che le sue tre componenti, le tre guṇa (rajas, sattva, tamas), si trovano in equilibrio fra loro. A causa del karma, ossia delle azioni compiute nei cicli precedenti dagli esseri che non ebbero raggiunto la liberazione (mokṣa), e destinati quindi a reincarnarsi, lo stato di equilibrio viene alterato: la prakṛti si mette, per così dire, in movimento e un nuovo ciclo prende inizio. Questo passaggio di stato che dà luogo a una nuova manifestazione del cosmo avviene dunque per cause etiche, e l'intero susseguirsi dei cicli avrà termine soltanto quando tutti gli esseri avranno conseguito la liberazione.

Vaisheshika è la terza delle sei scuole ortodosse della filosofia indù. Nei suoi primi stadi, il Vaiśeṣika era una filosofia indipendente, un sistema completo. Nel corso del tempo, il sistema Vaiśeṣika divenne simile nelle sue conclusioni etiche alla scuola Nyāya, che abbiamo già visto, ma mantenne la sua differenza nell'epistemologia, ovvero lo studio della natura e delle strutture logiche, e nella metafisica. La scuola di Vaisheshika è conosciuta e famosa per le sue intuizioni nel naturalismo. La modernità delle sue intuizioni lascia davvero stupefatti: Ha postulato che tutti gli oggetti nell'universo fisico sono riducibili a atomi (paramāṇu), e le esperienze derivano dall'interazione della sostanza (la funzione degli atomi, il loro numero e le loro disposizioni spaziali), la qualità, l'attività, la comunanza, la particolarità e l'inerenza. Secondo la scuola Vaiśeṣika, la conoscenza e la liberazione erano realizzabili attraverso una completa comprensione del mondo dell'esperienza. Questo particolare aspetto l’avvicina allo yoga classico. Lo studio delle categorie di conoscenza della scuola dell'induismo Vaiśeṣika, come il buddismo, accettava solo due mezzi affidabili per la conoscenza: la percezione e l'inferenza. La scuola Vaiśeṣika e il Buddhismo considerano entrambe le rispettive Scritture come mezzi incontestabili e validi per la conoscenza, con la differenza che le Scritture ritenute una fonte valida e affidabile fossero per Vaiśeṣika i Veda.  La forma di atomismo del Vaisheshika, postula che la realtà sia composta da cinque sostanze ( terra, acqua, aria, fuoco e spazio). Ognuno di questi cinque elementi è di due tipi, paramāṇu e composito. Un Paramanu (Para significa oltre e Anu significa Atomo o particella molto piccola ma divisibile mentre il parmanu è indivisibile) è ciò che è indistruttibile, indivisibile e ha un tipo speciale di dimensione, chiamata "piccolo" (aṇu). Un composito è ciò che è divisibile in paramanu. Qualunque cosa percepisca l'essere umano è composita, e anche la più piccola cosa percettibile, cioè una macchia di polvere, ha parti, che sono quindi invisibili. Ogni diade ha due parti, ognuna delle quali è un atomo. Le dimensioni, la forma, le verità e tutto ciò che gli esseri umani sperimentano nel loro complesso sono una funzione del paramanu, del loro numero e delle loro disposizioni spaziali. Come dicevamo, lascia molto sorpresi l’analogia con la fisica e la chimica moderni in un sistema filosofico tanto antico.
Il sistema Vaiśeṣika fu fondata da Kaṇāda Kashyapa intorno al VI-II secolo AC. La scuola Vaishesika differiva dal Nyaya in un aspetto cruciale: dove Nyaya accettava quattro fonti di conoscenza valida, i Vaishesika, come detto, ne accettavano solo due, percezione e inferenza. Infine, può essere interessante indagare come, mentre l'induismo identifica sei Pramāṇa come mezzi affidabili per la conoscenza accurata e le verità. Vaiśeṣika considera solo pratyakṣa (percezione) e anumāna (inferenza) come mezzi affidabili di conoscenza valida e in questo ha dei punti di contatto con il sistema dello yoga. 
Pratyakṣa significa percezione. È di due tipi: esterna e interna. La percezione esterna è descritta come quella derivante dall'interazione di cinque sensi con gli oggetti mondani, mentre la percezione interna è descritta da questa scuola come quella del senso interiore, la menteAnumāna significa inferenza. Il processo di inferenza è descritto come il raggiungere una nuova conclusione e verità da una o più osservazioni e verità precedenti applicando la ragione. Osservare il fumo e inferire il fuoco è un esempio di Anumana. Anche gli altri sistemi filosofici sposano questo processo conscitivo.

Vedanta significa letteralmente "il fine dei Veda". Riflette idee emerse dalle speculazioni e dalle filosofie contenute nel Prasthanatrayi (che include le principali Upanishad, i Bhrama Sutra e la Baghavad Gita intesi come commentari a questi testi sacri).  Tutte le scuole Vedanta, nelle loro deliberazioni, si occupano delle seguenti tre categorie, ma differiscono nelle loro opinioni riguardo al concetto e alle relazioni tra loro: Brahman - la realtà metafisica finale, Ātman / Jivātman - l'anima o il sé individuale e Prakriti - il mondo empirico, universo fisico in continua evoluzione, corpo e materia.

L’aspetto fondamentale è che, nel tempo, il Vedanta adottò idee dallo Yoga e Nyaya e, attraverso questo sincretismo, divenne la scuola più importante dell'induismo. Molte forme esistenti di Visnuismo, Shivaismo e Shaktismo sono state significativamente modellate e influenzate dalle dottrine delle diverse scuole di Vedanta. La scuola Vedanta ha avuto un'influenza storica centrale sull'induismo. 
Il vedanta si è storicamente articolato secondo alcune grandi scuole, nessuna interpretazione dei testi (Veda) è prevalsa sulle altre, queste sotto-tradizioni spaziano dal monismo o non-dualismo (Advaita) del filosofo Adi Shankara (VIII secolo), al dualismo qualificato o teismo (Vishi-stadvaita) del XI-XII secolo di Ramanuja, al dualismo (Dvaita) del XIII secolo di Madhva. La maggior parte delle altre sub-tradizioni vedantiche sono riassunte sotto il termine all'Acintya-Bheda-Abheda ("simultanea e inconcepibile differenza ed unità") di Caitanya Mahaprabhu.    Tutte le scuole Vedānta, tuttavia, mantengono in comune un certo numero di principi:

  • -la trasmigrazione del Sé (Saṃsāra) e l'opportunità della liberazione dal ciclo delle rinascite (moksha);
  • -l'autorità dei Veda sulle modalità di liberazione;
  • -che il Brahman sia la causa materiale (upadana) e strumentale (nimitta) del mondo;
  • -che il Sé (Ātman) è l'agente dei propri atti (karma) e quindi il destinatario dei frutti o delle conseguenze delle azioni (phala).

L'influenza del Vedānta sul pensiero indiano è stata profonda. A causa della preponderanza di testi Advaita, in Occidente si ha spesso l'errata convinzione che Vedānta significhi Advaita, mentre questa corrente non-dualistica è solo una delle molte sotto-tradizioni, benché forse la più importante.
(Per vedere il contenuto delle principali Upanishad e della Baghavad Gita vedi articoli del blog). Di seguito sarà illustrato il contenuto dei Brahma Sutra, proprio per la loro natura di riassunto delle Upanishad.
Badarayana riassunse e interpretò infatti gli insegnamenti delle Upanishad nei Brahma Sutra, chiamati anche il Vedanta Sutra che sono le basi per lo sviluppo della filosofia Vedanta. Sebbene attribuiti a Badarayana, i Brahma Sutra furono probabilmente composti da più autori tra il 500 AC al 200 DC circa. Questi sutra tentano di sintetizzare i diversi insegnamenti delle Upanishad, tuttavia, la natura criptica degli aforismi ha richiesto molti commenti interpretativi che sono stati scritti tra il 700 e il 1200 DC. Questi commenti hanno portato alla formazione di numerose scuole Vedanta, ognuna interpretando i testi a modo suo. Non è insomma facile orientarsi, comunque le diverse scuole all’interno della tradizione Vedanta, hanno prodotto contesti coerenti ed organici. 
I sutra di Brahma consistono in 555 aforismi in quattro capitoli. Questi versetti riguardano principalmente la natura dell'esistenza umana e dell'universo e le idee sul concetto metafisico della Realtà Ultima chiamata Brahman. Il primo capitolo discute la metafisica della Realtà Assoluta, il secondo capitolo esamina e affronta le obiezioni sollevate dalle idee delle scuole ortodosse concorrenti delle filosofie indù così come delle scuole eterodosse come il Buddismo e il Giainismo, il terzo capitolo discute le categorie conoscitive e il percorso per acquisire le conoscenze spirituali liberatrici e l'ultimo capitolo afferma perché tale conoscenza è un importante bisogno umano.

Mimamsa  è una parola sanscrita che significa "riflessione" o "indagine critica" e quindi si riferisce a una tradizione di esecuzione dei rituali. Questa tradizione è anche conosciuta come Pūrva-Mīmāṃsā per la sua attenzione ai primi (pūrva) testi vedici che trattano le azioni rituali, in modo simile al Karma-Mīmāṃsā, a causa della sua concentrazione sull'azione rituale (karma). Questa particolare scuola è nota per le sue teorie filosofiche sulla natura del dharma. La scuola Mīmāṃsā fu fondamentale e molto influente per tutte le scuole vediche, che erano anche conosciute come Uttara-Mīmāṃsā per la loro attenzione alle parti "superiore” dei Veda.  La tradizione Mīmāṃsā investiga anche sullo scopo dell'azione umana.  Mīmāṃsā ha diverse sotto-scuole, ciascuna definita dalla sua interpretazione della realtà. La sotto-scuola Prābhākara, che prende il nome dal filosofo Prabhākara del settimo secolo, descrisse i cinque mezzi affidabili per acquisire conoscenza: pratyakṣa o percezione; anumāna o inferenza; upamāṇa, per confronto e analogia; arthāpatti, l'uso della postulazione e la derivazione dalle circostanze; e śabda, la parola o la testimonianza di esperti affidabili passati o presenti. La sotto-scuola di Bhāṭṭa, dal filosofo Kumārila Bhaṭṭa, ha aggiunto un sesto mezzo al suo canone: anupalabdhi, non percezione, o prova dell'assenza di cognizione (ad es., la mancanza di polvere da sparo sulla mano di un sospetto). La scuola di Mīmāṃsā consiste sia di dottrine ateistiche che teistiche, ma la scuola ha comunque mostrato scarso interesse nell'esame sistematico dell'esistenza degli dei. Piuttosto, sosteneva che l'anima è un'essenza spirituale eterna, onnipresente, intrinsecamente attiva, e focalizzata sulla conoscenza e la metafisica del dharma. Per la scuola Mīmāṃsā, il dharma significava rituali e doveri sociali, non deva, o dei, perché gli dei esistevano solo di nome. I Mīmāṃsakas sostenevano anche che i Veda sono "eterni, senza autore, infallibili", inoltre i vidhi vedici, ovvero le ingiunzioni e i mantra dei rituali, sono “krya” ovvero azioni prescrittive, e i rituali sono quindi di primaria importanza e merito. Hanno considerato le Upaniṣad e gli altri testi relativi alla conoscenza del sè e alla spiritualità come sussidiari, una visione filosofica in cui la scuola Vedānta non era ovviamente d'accordo. Mīmāṃsā diede origine allo studio della filologia, la ricostruzione e la corretta interpretazione dei documenti letterari,  e della filosofia del linguaggio. Mentre la loro profonda analisi della lingua e della linguistica influenzava le altre scuole dell'induismo, le loro opinioni non erano condivise. Mīmāṃsaka considerava che lo scopo e il potere del linguaggio fosse quello di prescrivere chiaramente il giusto, ovvero ciò che era corretto era giusto. Al contrario, la scuola vedanta ha esteso la portata e il valore del linguaggio come strumento per descrivere, sviluppare e derivare. Mīmāṃsaka considerava la vita procedurale ordinata, guidata dalla legge, come scopo centrale e la nobile necessità del dharma e della società, e il sostentamento divino (teistico) era in funzione di tale fine. La scuola Mīmāṃsā è una forma di realismo filosofico. Un testo chiave della scuola Mīmāṃsā è il Mīmāṃsā Sūtra di Jaimini.  Nell’India vedica, ma anche moderna, l’importanza del ritualismo è estrema: solo l’espletazione regolare del sacrificio garantisce la persistenza dell’armonia cosmica (dharma) e del buon ordine sociale. La scuola Mīmāṃsā  ha una filosofia dettagliata relativa al rituale, al culto e alla condotta etica, che si è sviluppata nella filosofia del karma.  Generalmente non si ritiene che questa scuola influenzi più di tanto le altre, compreso lo yoga. Si potrebbe vedere un legame tra il porre l’accento su di un ritualismo codificato, sulla perfezione e ripetizione delle stesse azioni giornaliere e periodiche, proprio della scuola Mimamsa, e la pratica quotidiana dello yoga secondo alcune sue scuole. L’azione, la parola, il mantra, acquisiscono potere nella loro perfezione e corretta esecuzione.

Yoga. In India, lo yoga è uno dei sei sistemi per raggiungere la conoscenza, per indagare la realtà, sistemi che si permeano a vicenda, ma che hanno anche una loro assoluta autonomia.

 Dal sito:  http://www.yogamagazine.it/2019/01/lo-yoga-e-le-altre-5-darsana-indiane.html

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