lunedì 30 ottobre 2023

Premio Nobel per la Pace 2023 all’attivista iraniana Narges Mohammadi

Donna, vita, libertà”. “Donna, vita, libertà”.  Questo slogan  è diventato il simbolo della lotta delle iraniane dopo la morte di Mahsa Amini, uccisa mentre era in custodia della polizia perché non indossava correttamente il velo.            

Il Premio Nobel per la Pace 2023 è stato assegnato dall'Accademia di Oslo alla giornalista e attivista iraniana per i diritti delle donne Narges Mohammadi (nata nel 1972,)  ripetutamente incarcerata e torturata. Attualmente è ancora detenuta nel carcere di massima sicurezza di Evin a Teheran e non può avere contatti con l’esterno. 

L’Accademia di Svezia ha deciso di premiare Mohammadi, l’attivista e giornalista 51enne per la sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran e la sua battaglia per promuovere i diritti umani e la libertà per tutti. Il premio è un riconoscimento “alla sua lotta contro l’oppressione delle donne in Iran”, che ha portato avanti “a fronte di un’enorme sofferenza“. Ma è anche “un riconoscimento alle centinaia di migliaia di persone che hanno protestato contro le politiche di discriminazione e oppressione contro le donne del regime teocratico”.

Quest’anno Mohammadi ha vinto anche il PEN/Barbey Freedom to Write Award 2023, conferito ogni anno a uno scrittore incarcerato per onorare la sua libertà d’espressione.

Narges Mohammadi giornalista professionista, scrittrice e attivista è anche la vicedirettrice del Defenders of Human Rights Center (DHRC) e le sue prime battaglie erano contro la pena di morte. Fu condannata per la prima volta a un anno di carcere nel 1998 per le sue posizioni contro il governo. Da quel momento Mohammadi è ripetutamente entrata e uscita di prigione, perdendo la propria libertà, la propria famiglia, dedicando la propria vita a una lotta per il proprio Paese.
Secondo Amnesty International a Narges Mohammadi sono state negate persino le più elementari cure mediche ed è stata frustata e torturata. Oltre a tutto ciò non si contano le ferite psicologiche inflitte dall’isolamento prolungato e dai continui interrogatori.

Nonostante tutto Mohammadi non si è mai arresa, anche tra le mura claustrofobiche del carcere ha continuato a scrivere, sostenere le sue idee a favore delle proteste e a ribellarsi. Nei suoi scritti Narges Muhammadi non ha mai smesso di sottolineare anche gli abusi subiti dai compagni di detenzione costretti, come lei, dietro le sbarre.
Sta ancora lottando con tutte le sue forze per cambiare l’Iran, afferma il marito Taghi Rahmani (anche lui dissidente e giornalista che vive esiliato a Parigi insieme ai figli)  che negli ultimi mesi ha anche denunciato le sue gravi condizioni di salute che l’hanno costretta a un ricovero d’urgenza lo scorso giugno.
La presidente del Comitato del Nobel Berit Reiss-Andersen spera che il governo iraniano “faccia la cosa giusta”, cioè rilasci Mohammadi assieme a tutti gli altri prigionieri politici.

Soltanto nell’ultimo anno di proteste cominciate dopo la morte di Mahsa Amini mentre era in custodia della polizia religiosa, secondo i dati delle Nazioni Unite sono stati arrestati ventimila manifestanti.

Alla difficile esperienza dell'isolamento carcerario Mohammadi ha dedicato anche un libro “White Torture”, letteralmente la “tortura bianca”.  Nel volume sono raccolte le interviste a dodici donne iraniane tenute prigioniere, oltre che la sua testimonianza.  Queste donne, che sono giornaliste, attiviste politiche, oppure appartengono a minoranze religiose: tutte, nessuna esclusa, vengono ogni giorno torturate con il sistema infido della white torture, ovvero con l’isolamento prolungato, le minacce ai membri della propria famiglia, le lunghe ore di interrogatorio.  La tortura bianca, afferma Narges Mohammadi, è molto peggio della tortura fisica perché tende a minacciare l’identità stessa del prigioniero, la sua coscienza, a influenzare il pensiero che ha di sé stesso. Le donne iraniane sono infatti custodite in una cella completamente bianca per periodi di tempo molto lunghi, con lo scopo di portarle a una totale deprivazione sensoriale attraverso l’isolamento. L’aspetto più inquietante del libro di denuncia di Mohammadi è che nessuna delle donne prigioniere ha commesso un crimine: tutte sono state arrestate con lo scopo di estorcere loro confessioni o costringerle a collaborare con il governo. 

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