Una breve introduzione ai significati del mandala nella tradizione indo-tibetana.
Massimiliano A. Polichetti - Funzionario storico dell’arte, Curatore delle Collezioni tibetane e nepalesi del Museo delle Civiltà.
Nella tradizione esoterica, liturgica ed iniziatica del Buddhismo mahayana, il bodhi (risveglio), nonché la peregrinazione verso di esso, possono essere descritti tramite la formalizzazione geometrica di un impianto architettonico. Il mandala viene perciò proposto quale rappresentazione ideale, in forma grafica, dei rapporti esistenti tra l’universo e la mente di chi sperimenti una delle realtà del multiverso.
Il mandala può anche definirsi come “il mondo dell’essere presieduto dalla verità”; il bhavachakra (la pittografia ad andamento circolare rappresentante la “ruota delle rinascite”) è di contro il mondo del divenire, il samsara divorato dall’inconsapevolezza rappresentata da Yama, il dio della morte nella cosmologia buddhistica.
Nella lingua sanscrita esistono più significati per il termine mandala (cerchio o circonferenza). Questo termine può significare il capitolo di un testo sacro (ad esempio il celebre decimo mandala del Rig Veda), oppure la sfera di influenza politica esercitata da una struttura di potere. È nella sua accezione religiosa che il termine mandala definisce un diagramma in cui vengono descritti e stabiliti i nessi tra l’uomo e l’universo.
Nel mandala interpretato secondo quest’ultima accezione vengono riassunte le principali concezioni cosmologiche e psicologiche buddhistiche alle quali Giuseppe Tucci, grande figura di asianista e padre della tibetologia contemporanea, diede la definizione, divenuta oramai classica, di “psicocosmogramma”, in quanto in questo sacro diagramma è rappresentata sinteticamente la serie di nessi che fanno della realtà, apparentemente frammentata, un tutto organico e coerente fin nella sue parti più infinitesimali.
Un mandala può essere rappresentato con una pittura, una scultura, per mezzo di pietre preziose, fiori, riso, pietre o sabbie colorate; può essere ricreato all’interno della propria mente per trasformarne attivamente i processi. La sabbia è considerata il materiale grossolano più efficace, in quanto tradizionalmente tratta da sostanze preziose che necessitano di un’estrema attenzione nell’esecuzione dei dettagli.
Nella
tradizione Vajrayana del Buddhismo Mahayana la buddhità nonché il
cammino verso di essa possono essere descritti tramite la
formalizzazione geometrica di un impianto architettonico. Il mandala
viene perciò proposto quale rappresentazione ideale in forma grafica dei
rapporti esistenti tra l’universo e la mente dell’uomo. Sebbene prodotto su di una superficie piatta, il mandala è infatti da
leggere nel suo sviluppo tridimensionale, essendo la divina dimora al
centro della quale un buddha può manifestare lo stato del risveglio
verso tutte le direzioni dello spazio.
Sotto il profilo della rappresentazione formale il
mandala è la proiezione su di un piano bidimensionale di un palazzo a
pianta quadrata inscritto all’interno e al centro di una serie di
barriere circolari.
Iniziando dall’esterno, tali barriere potranno
presentare una sequenza nella quale si enumera una prima cerchia, la più
esterna, fatta idealmente di fiamme intese a tenere lontani i profani,
coloro i quali non sono ancora maturi ad affrontare la peregrinazione
spirituale verso il “Risveglio” (bodhi) che, simbolicamente, è racchiuso
nella serie di percorsi e di corrispondenze delle quali il mandala è
letteralmente saturo; è la barriera di fuoco che respinge chi non sia
ancora “adatto” (adeptus) ad essere avviato alle complesse liturgie
proprie del veicolo segreto del Buddhismo.
Segue una barriera di
vajra, le “folgori adamantine” per le quali si compendia
l’immodificabile natura della mente e le sue principali valenze
emancipatorie, definite “metodo” (upaya) e “saggezza” (prajna); barriera
impenetrabile per chi, pur avendo osato superare il cerchio di fuoco,
non abbia ancora purificato la volontà. Questa barriera di vajra
rappresenta la concretezza del piano assoluto della realtà, il piano ove
gli adepti del Vajrayana divenendo “esseri adamantini” (vajrasattva)
riescono ad esprimere il potere necessario ad intraprendere in modo
positivo le liturgie del veicolo esoterico.
La terza barriera,
quella “composta da petali di fiori di loto” (padmavali), rappresenta la
purezza della sensibilità emozionale, la giusta disposizione da
suscitare nel cuore di chi si stia accostando al proprio centro
ineffabile. Si è giunti a questo punto nel mandala vero e proprio
concepito come un divino palazzo e spesse volte disposto su più livelli
attraversabili in sequenza attraverso elaborati portali. Ogni elemento
di un mandala è la rappresentazione degli aspetti della divinità
risiedente al centro.
Ogni porzione di un mandala ha il suo preciso
significato. I suoi quattro lati rappresentano le Quattro Nobili Verità:
la “sofferenza” (dukha), l’“origine” della sofferenza (samudaya), la
“cessazione” della sofferenza (niroda) e il “sentiero” che conduce alla
cessazione della sofferenza (marga). Il fatto poi che i quattro lati
siano uguali sta a significare l’identità, sul piano assoluto, degli
esseri risvegliati con quelli non risvegliati. La porta orientale
rappresenta le quattro attenzioni pure: al corpo, alle sensazioni, al
pensiero, ai fenomeni. La porta meridionale le quattro occasioni di
superamento: donare, parlare gentilmente, dare soccorso, essere coerenti
nelle azioni rispetto alla parola data. La porta occidentale le quattro
membra delle manifestazioni miracolose: puro desiderio d’essere,
vigore, intelletto, indagine. La
porta settentrionale le cinque facoltà: fede, vigore, consapevolezza, concentrazione, saggezza.
I
quattro archi rimandano alle quattro stabilizzazioni meditative. Le
quattro cornici che bordano la base delle mura sono le quattro
conoscenze discriminanti: dei significati, dei fenomeni, dei linguaggi,
della pronta risposta. La decorazione di pietre preziose appaga i
desideri degli esseri. Le ghirlande che pendono dalle travi significano
il superamento degli ostacoli e delle loro impronte al momento di
intraprendere il sentiero della meditazione. Un mandala può essere
rappresentato con una pittura, una scultura, per mezzo di pietre
preziose, fiori, riso, pietre o sabbie colorate; può finalmente essere
ricreato all’interno della propria mente per trasformarne attivamente i
processi. La sabbia è considerata tra i materiali grossolani il più
efficace poichè tradizionalmente è tratta da sostanze preziose e
necessita di un’estrema attenzione
per l’esecuzione dei dettagli del
mandala. Ci possono essere numerosissime divinità in un mandala a
simboleggiare le varie manifestazioni degli aspetti della coscienza e
del cosmo trasfigurati dalla sapienza trascendente personificata dal
nume che risiede al centro del mandala in unione con la propria mistica
consorte, personificazione femminile della Saggezza. Il palazzo è diviso
in quadranti provvisti di mura e gallerie. I colori sono la specifica
rappresentazione degli “elementi grossolani” (mahabhuta) di cui si
compone la realtà fenomenica e degli “aggregati sottili” (skanda) sui
quali la mente imputa l’esistenza nominale di un “io” convenzionalmente
esistente.
Sebbene prodotto su di una superficie piatta, il mandala
è in realtà sempre da visualizzarsi nel suo sviluppo tridimensionale,
essendo la divina dimora al centro della quale un buddha può manifestare
lo stato del Risveglio verso tutte le direzioni dello spazio. La forma
del mandala potrebbe essere ricondotta allo schema del palazzo di un
Monarca Universale (chakravartin), concetto riconducibile a sua volta
alla formalizzazione dell’ideale urbano iranico. La reggia del monarca
indiano, come quella del monarca babilonese, si richiama al modello
delle piramidi a gradoni sormontate da un tempio. Il Monarca Universale
vi deve risiedere in quanto, come re degli dei, egli deve vivere sulla
sommità della montagna cosmica, simboleggiante l’integrazione
dell’ordine politico con quello religioso, l’unione indissolubile del
cielo e della terra: « quod est inferius est sicut quod est superius » (Pseudo Ermete, Tabula Smaragdina).
Secondo
la descrizione che ne dà il Canone in lingua pali nel Dighanikaya, una
tale residenza è circondata da sette muraglie fatte d’oro, argento,
berillo, cristallo, rubino, corallo e da vari gioielli. Nella regola
dell’ordine monastico mulasarvastivadin il palazzo presenta sette
recinti, fatti però solo di quattro materiali preziosi: oro, argento,
berillo e cristallo.
Inevitabilmente la lettura di queste descrizioni riecheggia l’ultimo, in ordine di redazione, dei testi sacri del Cristianesimo; nell’Apocalisse di Giovanni di Patmos si trova la seguente interessante descrizione del Regno di Dio tra gli uomini: «La città è a forma di quadrato […] le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne d’ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffiro, il terzo di calcedonio, il quarto di smeraldo, sardonice, cornalina, crisolito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto e ametista» (21, 16-21). Agli effetti della pratica liturgico-iniziatica da compiersi all’interno di “un” mandala (se nella teoria si danno infiniti mandala, nell’arte se ne ritrova la raffigurazione di qualche centinaio) è necessario avere una chiara cognizione di se stessi quale divinità ed assumere il corrispondente “orgoglio divino” (devamana). In un tale processo le apparenze ordinarie, visibili dagli occhi della carne, non vengono negate; piuttosto, non permettendo ai fenomeni ordinari di apparire alla consapevolezza mentale si fa in modo che le divine apparenze brillino più forti. Quando, avendo interrotto le apparenze ordinarie e sviluppato il chiaro apparire di se stessi come una divinità, tale apparenza spirituale diviene finalmente stabile, le apparenze ordinarie degli aggregati fisici e mentali infine cessano. È allora che appaiono all’occhio della mente i divini aggregati fisici e mentali, i divini costituenti e sensi.
Nel Buddhismo tibetano i mandala vengono creati
per i rituali d’iniziazione nei quali un maestro concede il permesso, ai
discepoli ritenuti maturi, di impegnarsi nelle meditazioni relative a particolari
divinità archetipiche. Il “germe di buddha" (tathagatagarbha) presente
nel continuum mentale d’ogni essere senziente viene nutrito dal processo
di visualizzazione e contemplazione di questo mistico diagramma. La
resa formale, artistica, di tutto questo processo avviene in virtù di un
sofisticato linguaggio simbolico che impiega, per la propria
articolazione, una serie di codici presenti sincronicamente nella stessa
immagine. Vi è pertanto un codice che si avvale della dislocazione
spaziale dei vari elementi figurativi (siano essi geometrici o meno),
cos’ come un codice cromatico, un codice sonoro, un codice
“teurgico”, nel senso che anche le varie divinità, raffigurate con
minore o maggiore realismo antropomorfico, sono a loro volta lemmi di
una super-struttura sintattica finalizzata ad essere supporto sensibile
alla pratica spirituale.
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