Lev Tolstoj (1828-1910), uno dei giganti della letteratura russa, celebre in tutto il mondo, a cinquant’anni, precipitò in una profonda depressione. La tristezza lo consumava giorno dopo giorno, senza una causa apparente. Era un conte, uno degli uomini più ricchi del suo paese, ammirato ovunque per i suoi romanzi. Eppure, era infelice.
«Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano persone che avevano entrambi ed erano infelici. Anche la salute non contava molto; c’erano persone malate piene di voglia di vivere e persone sane che appassivano, angosciate dalla paura di soffrire».
Un giorno, passeggiando, vide un orfano. Mosso dalla compassione, lo portò a casa con sé. Per la prima volta dopo tanto tempo, provò un senso di pace. Si dimenticò di sé stesso, della sua angoscia, della sua insoddisfazione. Fu l’inizio di un cambiamento radicale. Tolstoj rinunciò ai suoi abiti eleganti, ai privilegi della sua condizione, e scelse di condurre una vita semplice, dedicandosi agli altri e donando ciò che possedeva ai bisognosi. «Non parlarmi di religione, di carità, di amore», diceva, «mostrami la religione nelle tue azioni».
Tolstoj divenne il primo grande teorico della non violenza, predicò la fratellanza tra i popoli e le sue idee ispirarono un’altra figura straordinaria del XX secolo: Mahatma Gandhi. Fino all’ultimo giorno della sua vita continuò ad aiutare il prossimo, tanto che molti lo consideravano pazzo. In un mondo che esalta il possesso, dove tutti vogliono prendere ma pochi sanno dare, Tolstoj sembrava un folle. Un giorno, un vecchio amico, immerso nel lusso e nella comodità, gli chiese: «Che senso ha tutto questo? Che ti importa degli altri? Dovresti pensare a te stesso».
Tolstoj rispose con parole destinate a restare immortali: «Se senti dolore, sei vivo. Ma se senti il dolore degli altri, sei umano».
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