«Quando sei bloccato nel traffico, ricordati che anche tu sei il traffico»:
La frase di Sharon Salzberg, richiamata da Good Taking Selfies di Adrita Das, offre una chiave efficace per riflettere sul nostro rapporto con i social media. I social network non sono entità astratte o strumenti neutrali: sono reti di persone, e il loro funzionamento dipende direttamente dall’uso che ne facciamo. In questo senso, la responsabilità non è solo tecnologica, ma profondamente umana.
L’uso intensivo delle piattaforme digitali è oggi associato a fenomeni come il tecno-stress, una forma di stress legata alla costante esposizione agli stimoli tecnologici. Come evidenziano studi e riflessioni presenti in testi come Umani, animali, macchine di Damiano Cantoni e Franco Fabbro, la relazione tra esseri umani e tecnologie sta ridefinendo i confini dell’esperienza, generando nuove illusioni percettive e relazionali. Le illusioni dei social, analizzate da Luca Chittaro e Giuliano Castigliego, mostrano come la comunicazione digitale semplifichi e distorca la realtà, mentre Serena Mazzini, ne Il lato oscuro dei social network, mette in luce i meccanismi di manipolazione e dipendenza.
Anna Lembke, ne L’era della dopamina, spiega come i social sfruttino i circuiti neurobiologici della ricompensa: la dopamina, originariamente legata a comportamenti di sopravvivenza come cibo e sesso, viene oggi stimolata artificialmente da notifiche, like e contenuti infiniti. Da qui derivano fenomeni come la FOMO (fear of missing out) e il doom scrolling, ovvero la tendenza a soffermarsi compulsivamente su notizie negative, alimentata dal cosiddetto negativity bias, che ci rende più reattivi agli stimoli negativi.
Questa esposizione costante ha anche conseguenze sul corpo: aumenta il dolore somatico, come dimostra la crescita dei casi di fibromialgia, e si accompagna a stanchezza mentale, depressione e zoom fatigue, emersa soprattutto dopo la pandemia. La comunicazione digitale, infatti, altera l’equilibrio tra comunicazione verbale (10%), paraverbale (50%) e non verbale (30%), sovraccaricando quest’ultima. Le emoticon, nate nel 1982 all’Università Carnegie Mellon grazie a Scott Fahlman, tentano di compensare questa mancanza, ma non eliminano il problema.
Il multi-tasking digitale ha effetti negativi sulla memoria e sull’attenzione, contribuendo a una vera e propria crisi dell’attenzione, tanto che in alcuni paesi, come l’Australia, si sta arrivando a vietare l’uso degli schermi sotto i 14 anni. Byung-Chul Han, in Nello sciame, descrive il digitale come uno spazio che favorisce la polarizzazione, la perdita dell’individualità e l’omologazione emotiva.
Un altro aspetto cruciale riguarda la profilazione: più informazioni condividiamo, più il nostro profilo diventa dettagliato e commerciabile, come dimostrano le inchieste sulla vendita dei dati (cash investigation). A questo si aggiungono fenomeni come i sock puppet, profili falsi usati per influenzare opinioni, e le strategie della psicologia della persuasione, che sfruttano scorciatoie cognitive come riprova sociale, gradimento, autorità e scarsità.
Esistono poi le ombre ambientali dei social: l’intelligenza artificiale e i data center hanno un impatto enorme, con consumi d’acqua equivalenti a quelli di 10 milioni di persone e emissioni di CO₂ paragonabili a quelle di 10 milioni di automobili.
Sul piano esistenziale, i social alimentano una solitudine digitale fatta di maschere e identità frammentate. Si parla di quattro tipi di sé: il sé online, il sé offline, il sé ideale e il sé reale. Pratiche come il phubbing (snobbare chi è presente per guardare il telefono), la condivisione continua delle vacanze e l’uso passivo dei social — limitarsi a osservare la vita degli altri — rafforzano il senso di alienazione. Jean M. Twenge, in Iperconnessi, e Jonathan Haidt, ne La generazione ansiosa, descrivono una generazione sempre più fragile, mentre Giuseppe Riva, in Io, noi, loro, analizza le trasformazioni dell’identità nell’era digitale.
A tutto questo si oppongono pratiche di consapevolezza come il digital detox e lo yoga, che aiutano a recuperare l’embodiment, ovvero il radicamento nel corpo, contrastando il disembodiment, l’alienazione corporea. Le neuroscienze mostrano che lo yoga stimola l’insula, area di integrazione mente-corpo, aumentando la materia grigia e favorendo un’immagine corporea più positiva.
Contrastare l’era dei social significa allora coltivare uno sguardo critico, accettare l’ipotesi di non sapere, mettersi nei panni dell’altro e osservare noi stessi dall’esterno. Iniziative come Parole O_stili (vedi link: https://www.paroleostili.it/) vanno in questa direzione, promuovendo un uso etico e consapevole della comunicazione digitale. Perché, in fondo, se i social sono il traffico, noi ne siamo parte attiva — e possiamo scegliere come attraversarlo.

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