sabato 18 dicembre 2021

Il contributo di Nāgārjuna agli insegnamenti buddhisti

Nāgārjuna, un monaco buddista vissuto tra il 150 e il 250 d.C.,  è uno dei più importante filosofi buddhisti ed ha dato un contributo importante ed originale alla storia della filosofia indiana. La sua filosofia della "via di mezzo" (madhyamaka) è  basata sulla nozione di "vacuità" (śūnyatā). I testi  di Nāgārjuna divennero un punto di riferimento indispensabile per gli insegnamenti buddhisti e le discussioni filosofiche. Una sua opera chiamata Prāsaṅgika-Madhyamaka, divenne la posizione filosofica ufficiale del buddhismo tibetano.

E' difficile stabilire con esattezza, quali fossero le sue opere, comunque le possiamo dividere in tre gruppi principali:  Le opere argomentative:         

  • La saggezza fondamentale della Via di Mezzo  (Mūlamadhyamakakārikā) in cui espone l'intera  "filosofia della Via di Mezzo".   
  • Un trattato più breve, Yuktiṣaṣṭikā in cui discute sulle nozioni di vacuità e di origine dipendente.
  • Un altro breve trattato, Śūnyatāsaptati, che tratta le questioni dell'origine dipendente e delle due verità. 
  • Nel  Dispensatore di controversie, Vigrahavyāvartanī, Nāgārjuna risponde a una serie di obiezioni specifiche sollevate contro il suo sistema. 
  • Il Trattato Vaidalyaprakaraṇa, in cui Nāgārjuna si propone di confutare le categorie logiche della scuola non buddhista Nyāya. 
  • Il testo La preziosa ghirlanda, Ratnāvalī,  in cui tratta questioni etiche.  

    Gli inni (Catuḥstava) in cui presenta una concezione positiva della verità ultima e Le opere epistolari come (Suhṛllekha), che trattano questioni etiche. 

Il concetto centrale attorno al quale è costruita tutta la filosofia di Nāgārjuna è la nozione di vuoto (śūnyatā). Il vuoto di qualcosa, e il qualcosa che Nāgārjuna ha in mente qui è svabhāva, termine che è stato tradotto con "esistenza intrinseca" e "natura intrinseca". Svabhāva, ha due dimensioni: una ontologica, che si riferisce a un modo particolare in cui gli oggetti esistono, e una cognitiva, che si riferisce al modo in cui gli oggetti sono concettualizzati dagli esseri umani. All'interno della dimensione ontologica possiamo distinguere tre diverse interpretazioni di svabhāva: in termini di essenza, in termini di sostanza, e in termini di realtà assoluta.
Ad esempio l'essenza del fuoco è il calore, ciò che cessa di essere caldo non è più fuoco, ciò che cessa di essere bagnato non è più acqua. Secondo questa comprensione, svabhāva si identifica anche con il tipo di qualità specifiche (svalakṣaṇa) che permettono a un osservatore di distinguere un oggetto da altre cose: sapendo che qualcosa è caldo, insieme a una varietà di altri svalakṣaṇas sappiamo che ciò che abbiamo di fronte è fuoco piuttosto che qualcos'altro.
Svabhāva come realtà assoluta, è solo una forma specifica di svabhāva inteso come essenza: allo stesso modo in cui il calore è una qualità essenziale del fuoco,  il vuoto è una qualità essenziale di tutti i fenomeni. Le cose non potrebbero essere le cose che sono senza essere vuote.
La scuola Mādhyamaka ha una posizione mediana, tra quella che crede nell'esistenza di svabhāva così come il suo opposto nichilista.  Per Nāgārjuna, determinare l'esistenza o la non esistenza di svabhāva, determina il modo in cui interagiamo con il mondo. La realizzazione della non-esistenza di svabhāva è intesa come la via per la liberazione dalla sofferenza. Le interazioni con le persone nella quotidianità  portano, poi, ad ogni sorta di doloroso intreccio emotivo e costituiscono la fonte chiave della sofferenza descritta negli insegnamenti buddisti.  Lo scopo del pensiero Madhyamaka non è quindi semplicemente quello di presentare un resoconto accurato della natura del mondo, ma di provocare un cambiamento cognitivo, un cambiamento nel modo in cui il mondo ci appare.
Un altro tema affrontato da Nāgārjuna è la causalità, e dice che oltre ad essere indipendenti l'uno dall'altro, causa ed effetto sono anche indipendenti dalla mente conoscente. La catena di cause e condizioni è qualcosa che esiste là fuori nel mondo, indipendente dagli interessi e dalle preoccupazioni umane.   Nāgārjuna sostiene che causa ed effetto non possono essere sostanzialmente distinti. Questo perché l'effetto dipende esistenzialmente dalla causa (se la causa non esistesse l'effetto non esisterebbe) e la causa dipende dall'effetto (se non ci fosse l'effetto la causa non sarebbe chiamata "causa"). Il tipo di indipendenza richiesto dall'esistenza sostanziale, dall'esistenza per svabhāva, semplicemente non è disponibile per le cose che sono causa ed effetto.  Nāgārjuna ha voluto dimostrare, poiché la relazione causale non esiste di per sé, è concettualmente costruita, e quindi vuota, ogni oggetto causalmente correlato deve essere così costruito e quindi vuoto nel senso più profondo di essere concettualmente costruito.
 
Nāgārjuna sosteneva la non esistenza del nostro e altrui sé. Questo è molto in armonia con la concezione del Buddha che rifiutava un sé esistente con svabhāva. Un tale sé dovrebbe essere concepito come distinto sia dal nostro corpo che dai nostri stati psicologici, come essenzialmente immutabile, come unificatore delle nostre diverse credenze, desideri e impressioni sensoriali, e come un agente che prende le decisioni che modellano le nostre vite. L'alternativa presentata dal Buddha è una visione del sé che lo considera come una serie in continuo cambiamento di cinque aggregati psicofisici (il corpo fisico, la sensazione, la percezione, l'intelletto e la coscienza) senza un nucleo interno.   Per Nāgārjuna non c'è differenza ontologica fondamentale tra un substrato (dravya) e le qualità (guṇa) che vi sono insite, contrariamente a quanto sostenuto, ad esempio, dai Naiyāyikas.    All'interno di un quadro ontologico è evidente che non siamo obbligati a dedurre l'esistenza di un substrato o di un individuo sottostante, dall'esistenza di una qualità.
Un'altra questione che Nāgārjuna solleva riguarda lo status epistemico del sé, e rifiuta l'immagine di un sé sostanziale.   Dato che non c'è un substrato unificato che costituisce il sé, non c'è nemmeno la necessità che qualcosa sia essenzialmente un soggetto di esperienza. Poiché diverse parti possono giocare ruoli diversi in momenti diversi, la nostra conoscenza del sé può essere spiegata solo da un'identificazione momentanea con un evento mentale che attualmente funziona come soggetto conoscente.  Il sé è visto come dipendente dai cinque costituenti, il che esclude l'ipotesi che qualsiasi sostanza indipendentemente esistente possa essere considerata come un sé. 
Il Sé è  considerato come una sequenza di eventi che stanno in strette relazioni temporali e causali. I processi fisici causano eventi sensoriali, che sono poi inquadrati da concetti, usati come base di decisioni, che danno origine ad azioni, che a loro volta mettono in moto processi fisici che causano nuovi eventi sensoriali e così via. Il sé non è visto come un nucleo cognitivo che rimane costante in mezzo al flusso di mutevoli impressioni sensoriali e deliberazioni mentali, ma piuttosto come l'intero insieme di tali eventi sensoriali e mentali che sono interconnessi in modi complessi.
Cerca di conciliare il suo rifiuto di un sé sostanziale, come un unificatore essenzialmente immutabile del nostro vivere mentale distinto dai suoi attributi sia fisici che mentali, con l'accettazione del sé come un agente che sperimenterà i risultati delle sue azioni.

La tradizione filosofica indiana distingue una varietà di strumenti epistemici o di conoscenza (pramāṇa) attraverso i quali si accede agli oggetti epistemici (prameya). Nella sua discussione sull'epistemologia Nāgārjuna elenca quattro di questi strumenti: percezione (pratyakṣa), inferenza (anumāna), riconoscimento della somiglianza (upamāna) e testimonianza (āgama).   L'esistenza degli oggetti epistemici è stabilita dagli strumenti epistemici (come per esempio l'esistenza della scrivania di fronte a me è stabilita dalle mie capacità percettive, la vista). 
 Nāgārjuna, asserisce che l'assunzione degli strumenti epistemici auto-costituiti creerebbe problemi. Se  l'argomento dell'auto-costituzione degli strumenti epistemici non ha successo, l'opzione rimanente è sostenere che gli strumenti e gli oggetti si stabiliscono a vicenda. Supponiamo che io veda una mela sul tavolo. L'esistenza della mela, l'oggetto epistemico, è stabilita dallo strumento epistemico che è la percezione. Ma potremmo anche sostenere il contrario: che l'oggetto conosciuto stabilisce lo strumento epistemico.   Nāgārjuna sostiene che i vari modi in cui gli strumenti e gli oggetti epistemici potrebbero essere stabiliti non sono soddisfacenti o non riescono a dimostrare che esistono con svabhāva. 
La teoria dell'epistemologia di Nāgārjuna dovrebbe fornire lo sfondo teorico della teoria della vacuità. Nāgārjuna si propone di stabilire che nulla può essere considerato intrinsecamente uno strumento o un oggetto epistemico. I due devono essere reciprocamente stabiliti: lo strumento stabilisce l'oggetto dandoci accesso cognitivo ad esso, la nostra interazione riuscita con l'oggetto stabilisce lo strumento come una via affidabile verso l'oggetto. Qualcosa sarà quindi classificato come strumento o oggetto epistemico, non perché questo sia un riflesso della sua natura intrinseca, ma perché è considerato tale una volta raggiunto un equilibrio riflessivo. 
La teoria del vuoto non è compatibile con l'idea di un mondo che esiste indipendentemente dagli interessi e dalle preoccupazioni umane e che mostra già un particolare tipo di strutturazione che il nostro linguaggio strutturato potrebbe poi cercare di riflettere. Se nulla esiste con svabhāva, nulla nel mondo potrebbe esistere da sé e nulla potrebbe portare ad una struttura che è intrinseca ad esso.
La verità è espressa Non in termini di corrispondenza con una realtà esterna, ma piuttosto in termini di condizioni di asseribilità. In questo caso, un'affermazione è considerata vera, se ci sono condizioni che giustificano l'affermazione. Ciò che rende vera, l'affermazione che l'acqua è bagnata non è una corrispondenza strutturale tra essa e un fatto sull'acqua, ma il fatto che abbiamo qualcosa che ci giustifica nel fare questa affermazione.
Secondo la visione Madhyamaka della verità, non può esistere una verità ultima, e una teoria che descriva come le cose sono realmente, indipendentemente dai nostri interessi e dalle risorse concettuali impiegate per descriverle. Tutto ciò che rimane è la verità convenzionale o immanente, la verità che consiste nell'accordo con le pratiche e le convenzioni comunemente accettate.
Quindi, il vuoto non può essere considerato come la verità ultima. Ma il vuoto è il prodotto finale della corretta analisi dei fenomeni, e quindi indicativo di come stanno realmente le cose. Tuttavia, la vacuità non deve essere intesa, come una descrizione della realtà in quanto indipendente dalle convenzioni concettuali umane, poiché il suo scopo principale è quello di combattere l'errata attribuzione di svabhāva alle cose.
Se non ci fossero menti umane che erroneamente leggono l'esistenza di svabhāva in fenomeni che ne sono privi, non avrebbe senso avere una teoria per correggere questo. È solo a causa della nostra errata visione delle cose che la teoria del vuoto è necessaria come correttivo.

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