sabato 8 gennaio 2022

Alle radici dello Yoga – Mauro Bergonzi

Mauro Bergonzi è stato docente di “Religioni e Filosofie dell’India” presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, è socio ordinario della International Association for Analytical Psychology (I.A.A.P.) e psicologo analista didatta del Centro Italiano di Psicologia Analitica (C.I.P.A.). Ha pubblicato articoli e saggi sui processi meditativi nel buddhismo antico, sulla psicologia del misticismo, sul simbolismo religioso, sul comparativismo filosofico, sugli aspetti transpersonali nella psicologia analitica di C.G.Jung, sul pensiero filosofico non-dualista, sull’incontro tra Oriente religioso e Occidente contemporaneo e sul dialogo interculturale fra psicologie sapienziali orientali e psicologia occidentale. Da diversi anni conduce gruppi di “condivisione dell’essere” a Roma, Bologna e Rimini secondo una prospettiva non dualista e non confessionale.

 Nel 2017 il prof. Mauro Bergonzi è stato ospite a Ravenna per una conferenza pubblica sul tema “Il silenzio della mente e la luce della coscienza: alle radici dello yoga”.       https://www.youtube.com/watch?v=Uc5uOmY_Xy4

Durante la conferenza il prof. Mauro Bergonzi ha trattato gli aspetti essenziali dello yoga, non solo come sistema filosofico, ma anche come sistema di salvezza e le sue origini.  "Yug" significa unire, mettere insieme, quindi yoga è l’unione del sé individuale con il sé universale, questa definizione è comunque restrittiva e si applica solo ad alcune forme di yoga che si trovano nell’ambito di scuole come il Vedanta. Lo yoga come sistema a sé, indica da un lato un sistema di salvezza indiano che si fonda sugli Yoga sutra di Patanjali (II e III secolo d.C. , lo yoga è uno dei sei darshana, i sentieri filosofici indiani) e dall’altro c’è un modo di intendere la parola yoga, paleo indiana che esisteva dalla notte dei tempi ed ha influito sul pensiero indiano, infatti c’è stato uno yoga buddhista, yoga jainista, yoga vedanta.   Yoga è quindi una parola molto più ampia e più antica.

Le origini dello yoga. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che lo yoga è un portato delle civiltà pre-arie, dal 1500 a.c. , questa civiltà indo-europea si diffonde in tutta l’India per poi diventare una religione, il bramanesimo che ha prodotto i Veda (la letteratura sanscrita più antica che abbiamo). Altri studiosi hanno ipotizzato che lo yoga potrebbe essere anche più antico, 2500 a.c. quando esisteva la civiltà dell’Indo. Di questa civiltà, sono stati trovati diversi sigilli di divinità associate allo yoga, come la statuetta a gambe incrociate e fallo eretto, che è stato supposto essere un proto- shiva, che unisce gli opposti, l'eros e l'ascesi.  I Veda sono stati tramandati oralmente e ancora oggi molti indiani sono in grado di recitarli interamente a memoria. La scrittura dei Veda inizia nel 1500 a.C e finisce nel 4-5 secolo a.C.  Nella parte più recente della letteratura vedica, le Upanishad, che sono la matrice seminale di tutti i sistemi filosofici indiani, compare la parola yoga.  Le Upanishad parlano per intuizioni mistiche, in molte parti di questi testi compare la domanda fondamentale:“Chi sono io?”  Una domanda che tutti i sistemi sapienziali pongono, da non confondere con una ricerca psicologica, che ha come obiettivo di conoscere la propria psiche, le sue dinamiche, le parti inconsce per riuscire a vivere una vita nella sua pienezza, evitando conflitti.  La domanda posta nelle Upanishad è "Quale è la mia l’essenza, la mia identità, se scarto tutte le manifestazioni esteriori?" Noi soffriamo perché in realtà non sappiamo chi siamo. Quello che sono io, è questa sorgente misteriosa da cui proviene il mio sguardo sul mondo. Quello che vede tutto, quello che percepisce tutto è l’atman e coincide con tutto quello che appare, con il fondamento della realtà, io non sono solo questo corpo, questa mente, io sono l’universo intero, sono il Brahman.

L’insegnamento mistico centrale delle upanishad. (VIII – V secolo a.C.)
.  Il Brahman è la sostanza con cui è fatto tutto, il fondamento di tutto, noi non lo vediamo perché non ha forma, ma assume tutte le forme. E' come l’oro che può assumere tutte le forme. L’atman è collegato al respiro, quando non respiriamo più non c’è più identità. Il vero sé esiste quando scarto tutto quello che non sono. Cosa è quella cosa che c’è sempre, nonostante i cambiamenti? Se scarto tutto quello che cambia: i vestiti, il corpo, le emozioni, i pensieri,  resto sempre io. Quale è il residuo che rimane invariato?  

In India c'è un racconto che dà una risposta a questa domanda: Un re incontra un saggio brahmano e gli chiede il permesso di fargli delle domande. In India, il brahmano è superiore al re, e il saggio glielo concede. Il re chiede: Quale luce illumina l’uomo? Il saggio risponde: Il sole,  Il re chiede:   Si, ma durante la notte? Il saggio risponde: La luna.  Il re chiede: E quando è tramontato il sole e la luna non c’è? Il saggio risponde: Il fuoco.  Il re chiede:  E quando il sole e tramontato, la luna non c’è?  Il saggio risponde: Il fuoco illumina l’uomo.    Il re chiede: Ma quando il sole non c’è, la luna non c’è, il fuoco non c’è, che cosa illumina l’uomo? Il saggio risponde: La parola.  Il re continuò a domandare: Ma quando c’è silenzio, quale è la luce che illumina l’uomo?  Il saggio risponde: “l’atman”, ed il re allora chiese: Cosa è l’atman?  Il saggio risponde: E' quell’essenza che noi chiamiamo coscienza.

Quando noi abbiamo eliminato tutto ciò che cambia, rimangono due cose, quello che rimane è il fatto che ci sono, e sono cosciente. Se non sono cosciente, non appare niente. Nel sonno profondo sparisce tutto.  Bisogna fare una distinzione tra la coscienza e i contenuti della coscienza. Per lo yoga è importante la distinzione tra le cose di cui sono cosciente: percezioni, sensazioni, pensieri e la coscienza in sé, l’osservatore. Le sensazioni appaiono e scompaiono, l’osservatore non cambia.  Esempio del sonno: Nel sonno, uno si identifica con il personaggio del sogno, il dormiente, identificandosi con questo personaggio sembra che tutto il resto sia esterno a sé, il dormiente non sa che le montagne, fiumi, ecc, che percepisce sono della stessa sostanza di cui è fatto lui, la coscienza. La coscienza che abita in lui, è la stessa che abita tutto il sogno. Il personaggio del sogno pensa di essere una coscienza separata da tutto il resto, se qualcuno lo insegue scappa, ecc. Secondo questi sistemi, l’illusione di essere un io separato nello stato di veglia è identica a quella del sogno; Jiva è l’illusione di essere un io separato, illusorio, il campo corpo-mente che appare nella coscienza. L'Uno è anche quel corpo-mente, ma non è solo quel corpo-mente, è tutto l’universo. Queste considerazioni portano ad una differenza enorme nella percezione, se mi identifico con il corpo che si ammala, ho il terrore della morte, se invece penso di essere la coscienza dove tutto appare, è totalmente diverso. Quando ci mettiamo alla ricerca di questo sé, dobbiamo solo partire dalla considerazione che il sé è qui e adesso, ed eliminare tutte le distrazioni. Anche la meditazione può essere male interpretata, può essere considerata come un processo, dal più semplice al più complesso, come lo studio della matematica. La meditazione parte dalle nostre complicazioni della vita e dovrebbe andare verso la semplicità, quindi non è un costruire, ma un decostruire, non è fare, ma lasciare andare, fino ad arrivare alla semplicità del Sé, che sta sotto tutte le complicazioni. Bisognerebbe semplificare e lasciare andare tutti i pensieri.

 C’è un detto taoista: "l’uomo dotto apprende una cosa al giorno, l’uomo del tao dimentica una cosa al giorno fino a che non raggiunge il non fare". Il silenzio della mente è importante per trovare la coscienza. Nello yoga si inizia la meditazione concentrandosi su un punto, se tu metti l’attenzione sul punto, escludi tutto il resto.  Rimani in silenzio, ed osserva il respiro continuamente, vedrai tutte le sensazioni ed i pensieri che vanno e vengono in periferia. Nella Chandoya Upanishad questo processo si presenta sotto forma di allegoria: "Come un uccello legato ad una corda volando qua e la, e non trovando sostegno, si rifugia dove è legato, quindi sul palo, il pensiero divaga qua e  la e non trovando rifugio da nessuna parte si appoggia sul respiro, al respiro è legato il pensiero".   Nella Kata Upanishad, appare per la prima volta la parola yoga legata ad un percorso interiore e meditativo, ci troviamo di fronte ad un proto yoga che attua il silenzio della mente, con un ri-orientamento dell’attenzione. La luce della coscienza che di solito si proietta all’esterno tramite i sensi, viene ruotata di 180 gradi, e rivolta all’interno alla ricerca della sua stessa sorgente, che è il Sé. Cito dalla Kata upanishad: "L’essere in sé effettuò l’apertura verso l’esterno, ma di tanto in tanto, alcuni spiriti arditi, desiderando l’immortalità, hanno rivolto lo sguardo all’interno trovando se stessi. Gli uomini guardando all’esterno incappano nella rete della morte, ma i saggi avendo visto l’immortalità non cercano le cose qua, che sono transitorie, ma conoscendo il grande Sé, ciò che è sempre presente, nella veglia e nel sonno, i saggi non hanno nessuna paura". Quindi i sensi e il pensiero discorsivo vanno acquietati, ciò che nel sistema classico sarà chiamato pratyahara.  Si tratta di portare l’attenzione della coscienza all’interno ed investigare sulla sorgente da cui sgorga la mente stessa. Il saggio controlla dunque il pensiero e la parola, la mente la faccia rientrare nel pensiero razionale, poi rinunci anche a questo, faccia rientrare la ragione nel grande Sé, nel Sé pacificato.  Il saggio avendo intuito che l’origine dei sensi è diversa da quella della coscienza, ed avendo intuito che i sensi sorgono e spariscono indistintamente dalla coscienza, non ha più paura:  "Quando i cinque sensi e la mente cessano la propria attività, la ragione non opera più, allora si dice che questa è la meta più alta, questo fermo dominio dei sensi lo chiamano yoga". Questa é la prima definizione di yoga nella letteratura sanscrita come un sistema di meditazione. Poi, dopo le Upanishad, la parola yoga apparirà nei grandi poemi epici come il Maharabhatta e nella Bhagavad Gita (canto sesto di questo poema), e spesso associata alla concezione della scuola Sankya.

La scuola (o filosofia)  Sankya sostiene la distinzione tra l’osservatore e l’osservato, ossia è un sistema dualista che assomiglia al sistema di Cartesio res cogita, res extensa. Per il Sankya da una parte c’è la prakrti, la materia, che si muove, ma non è cosciente e forma la natura che ha livelli diversi di intensità, anche i nostri pensieri sono materia sottile. Dall’altra parte c’è il purusha, che è sola coscienza, è immateriale, non fa niente, osserva, ed è il nostro vero Sé. Secondo questa scuola, se uno fosse liberato si renderebbe conto di essere una coscienza eterna che osserva lo spettacolo della materia e della mente.  Esempio della proiezione del film: Il purusha, la coscienza è lo schermo, la prakrti è il film, e  accade tutto nel film.   Noi ci identifichiamo con il corpo e con la mente e quello che succede al corpo e alla mente, pensiamo accada anche a noi.  Perché si verifica questa falsa identificazione?   Perchè la buddhi (l'intelletto) paragonata ad un computer non cosciente, che discrimina ciò che vede, determinando se è vero o falso,  essendo coperta da tante scorie, non funziona bene, e non riesce a percepire il vero Sé.  Per il Sankhya la buddhi (l'intelletto) è la parte della materia più sottile e trasparente ma non cosciente, quando il Sé osserva la materia, tra cui la buddhi, la trasparenza della buddhi crea la confusione, tra coscienza e quello che fa la buddhi. Per spiegarlo gli indiani usano l’immagine del cristallo, su una mano ho un cristallo, dall’altra un fiore di ibisco rosso acceso, quando il fiore, passa dietro e si allinea al cristallo, sembra che il cristallo sia di colore rosso, il rosso sia dentro. L’incomprensione nasce quando la coscienza del Sé (il fiore) attraversa la buddhi (il cristallo) e si crea l’idea sbagliata che la buddhi sia cosciente. In questo caso quando ci si chiede "Chi sono io?",  si risponde: io sono un corpo, una mente cosciente e si crea tutta l’identificazione che ci fa soffrire, per tutto quello che succede al corpo e alla mente. Quando prevalgono gli elementi satvici, più puri, le scorie sono rimosse, la buddhi funziona meglio e si accorge dell’errore attraverso la discriminazione, ed avviene la liberazione.   Questa è la base del sistema sankya, che sottolineava l’importanza di capire la differenza tra la mia identità come osservatore e il mondo esterno. Se riesco a capirlo bene, sono libero.  

 Lo yoga usa le stesse categorie, però in modo diverso;  Non è convinto che il metodo Sankya, ossia del ragionamento logico e delle considerazioni, possa portare alla liberazione. Infatti, il Sankya non parla di meditazione e di azioni. Queste considerazioni non bastano per lo yoga, in quanto siamo fortemente condizionati dal nostro passato, che inconsciamente distorce la nostra percezione, quindi occorre un grosso lavoro (meditazione ed altro) per disinnescare questi condizionamenti, e quindi non basta il ragionamento logico.  Lo yoga ritiene che occorra fare un’esperienza di cosa è la pura coscienza indipendentemente dal ragionamento logico. Esempio della proiezione del film: Se stanno proiettando un film dove ci sono scene di paura, panico ecc, il Samkya dice "guarda che è solo un film", e lo spettatore non ha più paura.  Lo yoga invece ti spegne il proiettore per un po’, così capisci che l’unica cosa reale è uno schermo bianco, non ci sono paure, pallottole, ecc.   Perché ci sia una reale trasformazione e una reale comprensione,  devo spegnere per un po’ il proiettore, per vedere cosa c’è realmente. Una cosa è dire: io sono la coscienza, una cosa è fare meditazione, ed eliminare le sensazioni fisiche, i pensieri, i ricordi. Quando è stato eliminato tutto, il meditante si accorge, che quando spegne il corpo e la mente, lui c’è, come pura coscienza di esserci. Ha coscienza di cosa resta, quando si rimette in modo il film è più consapevole.

All’inizio del testo Yoga sutra di Patanjali, su cui è fondato lo yoga come sentiero filosofico, i primi versi spiegano brillantemente questo concetto.

  •     1 verso:  “yoga citta vritti nirodha”, citta indica la mente, lo psichico che è la materia sottile, vritti, vorticare, un girare continuo, l’attività della mente, nirodha bloccare, arrestare,
  •     2 verso: perché allora l’osservatore, il purusha, il sé, la coscienza, dimora nello swarupa, dimora nella vera forma, essenza,
  •     3 verso: altrimenti assume la forma della attività mentali.

Lo yoga è fermare le attività della mente, solo in questa dimensione il purusha, il sé, la coscienza dimora nella sua vera forma, altrimenti assume la forma delle attività mentali. Lo yoga è fermare il film, allora lo schermo diventa visibile nella sua vera forma, altrimenti assume la forma del film. Questo approccio pone la centralità del purusha, del testimone, che rimane allo stato puro quando si raggiunge il samadhi. Nello yoga, la pratica del samadhi è una tecnica estremamente avanzata in cui la mente è ferma e dimora quieta, assapora ciò che rimane dopo avere eliminato l'eliminabile e se una cosa si può togliere, significa che non è la parte essenziale di te. Lo yoga asserisce che se non si arriva al samadhi, non ci si può convincere. L'Essenza non  può essere percepita solo razionalmente o intellettualmente e mentalmente.   Lo yoga è un fermare tutto, anche l’asana, la postura, il respiro.

Successivamente, lo yoga tantrico ha introdotto l’hatha yoga che lavora sulle energie sottili ed ha moltiplicato le forme fisiche per lavorare sul corpo e sul respiro.  In realtà  i praticanti dello yoga originario pensavano solo alla meditazione, non gli importava niente delle posizioni. Nel testo Yoga sutra le posizioni non sono nemmeno accennate, ti dicono solo che la posizione (di meditazione) deve essere comoda e confortevole, tenuta a lungo. Come si fa ad arrivare ad una quieta profonda tenendo una posizione scomoda?  E' come combattere per la pace.

Dobbiamo fermare il corpo, fermare il respiro, Il pranayama è infatti la sospensione del respiro, il ritirare i sensi, e tutto questo per raggiungere la quieta profonda. A furia di spegnere il film, riesci a capire che dietro c’è solo lo schermo, alla fine si arriva ad una comprensione profonda. Anche per lo yoga, come tutte le correnti soteriologiche ( dottrina o idea di salvezza) dal Vedanta al buddhismo, ecc, il vero nemico è avydia, spessa tradotta con l’ignoranza, ma in realtà viene da a - privativo e - vydia vedere.  Quindi avydia vuol dire non vedere, è l’inconsapevolezza di quello che ci manovra alle spalle. La conoscenza ordinaria diretta, invece, si basa sul "conosco perché vedo".  Un maestro vedantico del secolo scorso affermò: "Noi possiamo essere liberi solo da ciò che conosciamo, ciò che non conosciamo ci prende alle spalle e ci travolge".

Il soggetto della liberazione è la buddhi? Secondo il Sankhya il nostro vero sé è sempre libero, noi siamo sempre liberi, la sofferenza nasce da una confusione che si crea nella buddhi (l'intelletto) quando si identifica con l'io. La cosiddetta liberazione è una rettifica della visione della buddhi. La materia è composta dai guna, ossia dai tre fattori: satva, rajas, tamas. Il satva è collegato alla trasparenza, leggerezza, lucidità; Quando nella buddhi prevale il satva, la buddhi viene liberata dalle tante scorie e comincia a funzionare meglio, in questo modo è più facile percepire il vero Sé, e correggere l’errore.  Il sistema sankya è un sistema dualista, l’universo è costituito da queste due cose, la natura, la prakti e il Sé cosciente, il purusha  sin dall’origine. Si usa spesso per spiegare questo concetto l'esempio del cieco che porta sulle spalle uno zoppo, la natura non è cosciente ma si muove; invece il sé cosciente, non si muove, non fa niente. Al Sankya non interessa mettere all’origine un Dio, è un sistema ateo, e non pone nessun principio prima di queste due cose.

Questa dicotomia tra osservatore e osservato, purusha e prakrti, è ripreso dallo yoga.  Per lo yoga è utile distinguere i contenuti della coscienza, dalla coscienza stessa, e nello yoga la liberazione è chiamata kailasha che vuol dire, isolamento, ciò vuol dire che il purusha si isola dalla prakrti, ma potrebbe anche voler dire che nell’immagine che ho di me stesso, isolo ciò che veramente sono (la nostra parte divina Atman che è un'emanazione del Brahman), da quello che credevo di essere, ma non ero. Non si è arrivati mai ad una chiara metafisica dello yoga perché il testo Yoga sutra è più di pratica meditativa, che di filosofia ontologica e non dice molto sulla concezione dell’universo. Si potrebbe solo arrivare a dedurre che il sistema Yoga non è ateo.    

Domande e risposte.

Domanda: Lo yoga di Patanjali si differenzia dagli altri tipi di yoga che lavorano sulle energie sottili, posizioni ecc, quando c’è stato questo spartiacque?
Risposta di Mauro: E’ uno sviluppo, un processo, intanto lo yoga inteso come insieme di pratiche meditative, e liberazione è tipicamente indiano, c’è uno yoga buddhista molto più antico di Patanjali, ad esempio negli Yoga sutra ci sono molti influssi buddhisti, nella terminologia, nirodha viene dal buddhismo,  e prima del risveglio il Buddha andò da due maestri che insegnavano una meditazione sulla linea dello yoga. Il Buddha ha imparat da altri la pratica meditativa basata sulla concentrazione e la quiete. Gli Yoga sutra si affermano in un periodo in cui prevale la purificazione della mente, per avere una chiarezza della buddhi tale da arrivare alla liberazione, l’individuo deve purificarsi di tutto quello che è negativo: le emozioni negative, ecc, una via basata sull’ascesi. All’epoca chi praticava lo yoga, lo faceva full time, non ti sposavi, oppure eri arrivato ad un periodo in cui lasciavi la famiglia ed andavi in questi luoghi di comunità di meditanti e facevi yoga dalla mattina alla sera. In una prospettiva ascetica, dove si lasciava una vita operativa per una vita contemplativa.  C’erano comunque altre vie, nella Bagvad Gita si parla di tre yoga, ma qui la parola yoga non è specifica come quella che abbiamo usato; yoga vuol dire via, tre vie di cui solo una, lo jnana yoga, lo yoga della conoscenza corrisponde a quello di cui abbiamo parlato fino adesso, il karma yoga ad esempio non prevede l’abbandono della vita attiva, hai una famiglia, ecc… quindi non si deve rinunciare all’azione, ma al frutto delle azioni, quello di trarne un vantaggio egoico. Lo yoga è comunque la via della purificazione, nel tempo, lo yoga viene ad assumere tanti altri aspetti, quello delle scuole vedantiche, l’aspirazione verso l’Uno, la comunione con Shiva, Vishnu, fino ad un certo periodo, da dove inizia un fenomeno chiamato tantrismo, che ha la caratteristica di sostituire il concetto di purificazione con quello di trasformazione delle energie.

Il tantrismo dice che la via della purificazione va bene, mi devo liberare da odio, paura, attrazione, desiderio, confusione, queste cose le devo eliminare gradualmente attraverso un tragitto lunghissimo per avere una mente pura ed arrivare alla liberazione. Ognuna di queste cose negative, paura, ira, è abitata da una energia neutra che poi diventa negativa, perché sei coinvolto, se impari a svincolare l’energia dal contesto in cui avviene l’emozione, tu la puoi cavalcare verso la liberazione, accelerando i tempi. Da qui si rivalutano tutte quelle cose considerate impure dalla cultura pragmatica, come il corpo. Nella visione purificatrice, il corpo non deve darci fastidio, per il tantrismo il corpo è uno scrigno sacro pieno di energie che collegano il micro e macro cosmo, che possono essere usate, trasformando i processi fisici, usando anche il sesso.  Nello yoga viene applicato il brahmacharia, l’energia sessuale va usata ma non dispersa, nel tantrismo l’energia sessuale va cavalcata e gestita.  Nel tantrismo, questo processo di controllo delle energie è molto pericoloso, ecco perché nel tantrismo assume importanza la figura del guru, perchè ci vuole un controllo stretto quando si manipolano certi tipi di energie, l'energia è come un serpente in una canna di bambù, può andare verso l’alto o verso il basso, in questo caso diventa pericoloso. Un maestro tibetano scappava inseguito da un allievo fuori di testa con un’ascia, il maestro si volta e dice: "fermati e guardati, adesso tu sei compiuto nell’ira". L’allievo si guarda lascia cadere l’ascia e comincia a danzare. L’osservazione del maestro si sposa con l’auto osservazione, l’energia della rabbia cade e diventa danza.  All'avvento del Tantrismo non c’è stata una scissione netta tra questi diversi indirizzi di yoga.  Lo yoga ascetico ha continuato a coesistere insieme a certe forme di tantrismo.  La scuola tantrica dopo qualche secolo si è estinta, ma lo yoga no. Nel libro Yoga sutra si parla di energie sottili, ma questo aspetto non è stato poi sviluppato. Si tratta, soprattutto, l’aspetto spirituale psicologico. Esiste una correlazione tra energie e cosmo, e la conoscenza delle energie sottili in India è molto antica, già nei Veda e in molte Upanishad c’è il riferimento alle nadi collegate al sole, ecc.     Invito a leggere gli Yoga sutra con commenti affidabili, suggerisco il commento di Vyasa, che data circa 100 anni dopo la stesura finale degli Yoga sutra, che poi è stato a sua volta commentato. E' il più affidabile, essendo il più cronologicamente vicino agli Yoga sutra, si suppone che possa darne una spiegazione che rifletta meglio quello che voleva dire l’autore. Gli autori che nei secoli successivi hanno citato gli Yoga sutra intendono anche il commento di Vyasa, lo trattano come un unico testo, ed è cominciata ad emergere l’idea che il commento lo avesse fatto lo stesso Patanjali, Vyasa vuol dire anche compilatore. A volte il commento forza il sutra per interpretarlo. L’ipotesi più accreditata è quella del Prof. Raffaele Torella, il quale asserisce che Patanjali è l’autore dei commenti e non del testo Yoga sutra, nel senso che lui, volendo fondare una sintesi sullo yoga, è andato a scegliere uno per uno questi sutra da testi esistenti che datano al massimo un secolo prima. Leggendo gli Yoga sutra con commento di Vyasa si evita di fare elucubrazioni e proiezioni.

Domanda: Quando inizia questa separazione tra l’Io e il Tutto?
Risposta: Nella scienza moderna si è sviluppato moltissimo quello che viene chiamato pensiero sistemico, si vede l’universo come un solo processo, un sistema solo, dove astrattamente puoi separare una cosa per studiarla, ma ogni cosa è una manifestazione di questa corrente interattiva, chiamata universo. Come individuo biologico non sono separabile dall’aria che respiro, faccio parte di questo flusso continuo, se qualcuno mi chiede "chi sono io?" dovrei rispondere: sono l’universo, perché non c’è nessun pezzo staccabile dall’universo e dire io sono solo questo, io sono tutto questo. Un individuo complesso crea un sé per coordinare il tutto, attualmente le neuro scienze non hanno identificato un punto del cervello che corrisponde al sé, ma emerge come una costruzione mentale che, è utile a coordinare le parti e a dare risposte veloci. Il punto è se la coscienza può ridursi a questo sé, la coscienza purtroppo non è studiabile, non è un processo. Puoi studiare i contenuti che appaiono alla coscienza, puoi studiare i pensieri, cosa succede se tocco quell’area del cervello, ecc.   Le scuole filosofiche indiane non dualiste, dicono che l’universo è un’esplosione di differenze, ma non c’è nessuna reale separazione, le differenze non vengono negate, ma non sono separate. Un giorno Dio che è il tutto, si annoiava, voleva giocare a nascondino, creò delle parti di sé, che si dimenticassero di essere lui, in modo che Lui si nascondesse a loro in loro, quelle parti siamo noi che ci siamo dimenticati di essere Dio. Il senso è quello di fare tana e ricordarci che, noi siamo sempre stati Lui. Si parla di cuore del riconoscimento, uno si accorge che pur essendo anche un corpo, una mente, ecc. è Shiva, è sempre stato Shiva.
Il tutto, l’universo che senso ha? Per dare un senso dovremmo collegarlo a qualcosa di esterno, ma se dico il tutto, non c’è un fuori. In India inventano la danza, c’è il piacere di muoversi fine a se stesso, è la danza stessa il senso del sé, l’universo viene visto come la danza di Shiva. Alan Watts dice: noi viviamo la vita come un viaggio, questo è il problema, ci dicono che il traguardo è quando andremo a scuola, alle elementari, alle medie, alle superiori, all’università, laurea, lavoro, successo nel lavoro, ecc; e quando arriva il successo ti accorgi che sei infelice come lo eri prima, il traguardo diventa la pensione, dove ti potrai godere la vita, poi ti accorgi che sei senza capelli. La prostata ingrossata, non puoi più fare niente. Alan Watts dice: Tutto avrebbe potuto essere la stessa cosa, ma non come un viaggio, ma come una musica, che va cantata o danzata in momento in momento, e vivere quello che facciamo.  La metafora indiana della danza di Shiva rispecchia proprio questo approccio. Trova senso in se stessa, nella danza stessa, non in altro.

Domanda: Che giudizio dà sui tipi di yoga attualmente in Occidente?
Risposta: Non ho approfondito molto questa questione, ma so che studi recenti ritengono che gran parte dello yoga che è arrivato in Occidente,  ha delle origini molto ristrette, non è il panorama dello yoga che c’è in India, ma è soltanto una parte della tradizione, quindi non abbiamo coscienza della ricchezza della vastità dello yoga. Lo yoga che è pervenuto in Occidente è uno yoga tardo tantrico, derivante dai testi tantrici, ed in particolare dal testo Hatha yoga pradipika.  Non c’è connessione tra gli studi accademici da una parte, e i praticanti e i maestri dall’altra. Occorre che l’accademico non insegni soltanto ma impari dalle scuole yoga, le scuole yoga invece, hanno bisogno di una visione più obiettiva, spesso maestri che commentano gli yoga sutra, dicono tante stupidaggini. Poi le forme occidentali in cui lo yoga è usato per altro, non le demonizzo, ma ad esempio la concentrazione, il rilassamento, il lavoro sul corpo di per sè non sono aspetti spirituali. Lo yoga è stato concepito come una via, in cui il corpo ha la sua importanza, come forma di conoscenza diretta, che non passa per la testa, per il pensiero, è un via spirituale, di liberazione, non dai conflitti psichici, ma liberazione da ciò che nasce e che muore.  Sono perplesso e contrario a ridurre lo yoga a quello del trekking, ecc.

Molto belle le considerazioni di un partecipante alla conferenza e di seguito riportate: Salve professore, ho ascoltato con molta attenzione la sua conferenza e devo farle i complimenti per la profondità dei contenuti e la chiarezza della sua esposizione, devo però dissentire su una conclusione che lei cita in merito alla “liberazione” cui arrivano la maggior parte degli autori che scrivono in materia, e cioè: “…il meditante, che grazie allo yoga è riuscito a interrompere il film mentale, ha un'esperienza diversa rispetto a quella del Samkhya, dove invece nella migliore delle ipotesi lo studioso comprende solo razionalmente di essere il Purusha!”     Tutto questo è senz'altro vero ma secondo me è errato pensare che a furia di ripetere l'esperienza diciamo del “samadhi” , cioè continuando a interrompere il film mentale prima o poi si ottenga “la liberazione”. La realtà credo sia diversa e la si può comprendere
solo se si fa la distinzione tra “illuminazione” e “realizzazione”. L'illuminazione non è il risultato finale come tanti pensano del percorso yogico (di qualsiasi tipo esso sia); di fatto esistono molte forme di illuminazione che consistono nei diversi gradi della presa di coscienza di essere il Purusha. Come anticipato, lei ne ha accennate due: quella del Samkhya dove il soggetto arriva a comprendere: "Io sono Io! E questo che vedo è solo un film!" e quello dello Yoga dove il soggetto che riesce a spegnere addirittura il film dice: "Io sono Io! E questo era solo un film!".    Posso ammettere che siano magari due livelli di illuminazione di intensità diversi (come due lampadine a diverso voltaggio) ma tutt'e due sono “solo” illuminazioni, “la liberazione vera” invece si ottiene solo quando questa presa di coscienza viene messa in pratica e cioè trasferita nella pratica quotidiana. In che modo? I modi sono tanti, per esempio il Buddha, preso spesso come parametro di riferimento, non si è liberato dopo aver ottenuto l'illuminazione, per liberarsi ha dovuto realizzare questa sua presa di coscienza. Come? Ritornando alla vita sociale e iniziando la divulgazione del suo sapere, attraverso l'insegnamento e la costituzione di gruppi orientati a rifare il suo percorso. In questo modo la liberazione (il Nirvana), l'ha poi verosimilmente ottenuto dopo la sua morte naturale. Tutto questo per dire di non fare lo stesso errore della psicoanalisi, o della psicologia in genere, dove molti credono che la guarigione dalla malattia mentale avvenga già solo con la presa di coscienza delle proprie problematiche. No, la guarigione si ottiene soltanto mettendo in pratica ciò che si è capito e, nel caso dello Yoga, la liberazioe si ottiene mettendo in pratica la consapevolezza di essere tutti Uno (ovvero che noi e gli altri siamo davvero la stessa entità) il che significa, o si traduce con, il mettersi al servizio degli altri in maniera altruistica e disinteressata (in molti modi come ho detto), come se gli altri fossero noi stessi, proprio come ha fatto il Buddha.

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