mercoledì 6 luglio 2022

Il silenzio tra due onde - Corrado Pensa

 Nel testo Il silenzio tra due onde. Il Buddha, la meditazione, la fiducia - Corrado Pensa, autorevole esperto di buddhismo Therevada ci parla della pratica quotidiana di meditazione e della consapevolezza in azione. In modo particolare ci parla della lenta trasformazione del nostro quotidiano in virtù di una risposta ricettiva all'insegnamento del Dharma.

Corrado Pensa è dal 1987 insegnante guida dell'A.ME.CO. (Associazione per la meditazione di consapevolezza) di Roma. E' stato per anni docente di Filosofia dell'India presso l'università la Sapienza di Roma, oltre che psicoterapeuta junghiano. E' considerato un autorevole insegnante di meditazione buddhista e conduce ritiri intensivi.

Oggi la via più usata per iniziare un cammino interiore è la pratica formale. La pratica va affrontata con distensione e lentezza, e si deve cercare di alimentare la motivazione, altrimenti diventerà una dei tanti impegni della giornata da depennare. La pratica formale rientra nella quarta verità dell'ottuplice sentiero che si prefigge la liberazione dalla sofferenza (retta comprensione, retta motivazione, retta azione, retta parola, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta consapevolezza, retta calma concentrata).  (1- Verità della sofferenza, 2- verità dell'origine, 3- verità dell'estinzione, 4- verità del cammino).

E' necessario addestrare la nostra mente per comprendere quali aspetti provocano la sofferenza, e questo addestramento viene chiamato cittabhavana ossia coltivazione della mente, educazione della mente, meditazione. La pratica meditativa ci mette in contatto in maniera unica con la sofferenza (dukka) che noi stessi creiamo, e nello stesso modo ci fa vedere la capacità di trascendere la sofferenza.  Se durante la pratica non riusciamo a focalizzare gli aspetti che ci fanno soffrire, è meglio lasciare perdere temporaneamente altrimenti aggiungiamo sofferenza.

Il sutta recita: C'è una via di mezzo tra l'indulgere nella ricerca degli oggetti sensoriali (idee, emozioni, pensieri, immagini) e l'automortificazione (intesa anche come colpevolizzarsi e autosvalutarsi). La via di mezzo esposta non è niente altro che l'ottoplice sentiero dove viene usato sempre l'aggettivo retto.

Cosa provoca la sofferenza? La nascita è sofferenza, la malattia è sofferenza, l'associazione con lo spiacevole è sofferenza, la separazione da ciò che amiamo è sofferenza, non ottenere ciò che vogliamo è sofferenza.  I cinque aggregati di attaccamento sono sofferenza.  I cinque aggregati sono il corpo,  le percezioni, le sensazioni, le formazioni mentali, la coscienza. L'attaccamento, tanha, al corpo-mente provoca sofferenza.

La sofferenza va riconosciuta (esiste dukka, disagio) e compresa, se non si fa appello alla anukampa, la simpatia e la compassione difficilmente riusciremo a farlo.   Di fatto, ognuno di noi infligge a se stesso una lunga lista di sofferenze non necessarie che, non abbiamo né riconosciuto, né compreso.  Dovremmo ripetere più spesso frasi di benevolenza nei confronti di noi stessi.   La pratica in azione può diventare lo strumento di approfondimento per eccellenza di ciò che abbiamo intravisto nella pratica formale.

Si comincia nella quotidianità ad intravedere una stretta dipendenza io-altri, ad emergere una diversa visione di noi stessi, meno preoccupata di sè, meno incline alla negatività e all'attaccamento. Con la pratica, cominciamo ad apprezzare la vita ed ad attenuare la nostra inclinazione alla infelicità. Anche di fronte alla morte si cambia posizione, si passa dalla paura al rispetto e ciò contribuisce a cambiare la qualità della vita.   L'amore per la pratica porta l'aspirazione al risveglio, al desiderio del bene per tutti.

L'ottoplice sentiero prevede tre gruppi di fattori: saggezza (retta motivazione, retta comprensione) etica  e meditazione. E' importante gestire i pensieri. Come il Buddha diceva: "Monaci, qualunque cosa un monaco frequentemente pensa e sulla quale si sofferma, ciò diventerà l'inclinazione della sua mente".

Secondo un grande maestro contemporaneo Ajahn Maha Boowa il cammino meditativo si presenta come una saggia alternanza di fasi di investigazione e fasi di concentrazione. Nelle fasi di concentrazione la mente si riposa e solo quando la mente è riposata si può investigare su ciò che giova e su ciò che nuoce.

Non si dovrebbe differire la pratica della meditazione, più presto si inizia e si svilupperà la motivazione più presto la mente prenderà una direzione salutare.

Il cuore dell'orgoglio sta proprio nella compulsione a confrontarsi, ossia comparare il concetto che si ha di se stessi con il concetto che si ha degli altri. I grandi traguardi del cammino interiore presuppongono un progressivo lasciar andare frammenti di attaccamento e egoità. Il lasciar andare dona invece di togliere.  Un altro ostacolo al progresso in campo spirituale è il giudicare, In un passo il Buddha dichiara che il non giudicare è l'essenza stessa della virtù. La mente giudicante è di grande ostacolo alla mente discernente, che significa esprimere un giudizio giusto privo di avversione.

Un esempio evidente di coltivazione dell'infelicità è l'indulgere mentalmente (ossia dare priorità)  in negatività varie, riguardo a noi stessi, gli altri, situazioni passate, presenti e future.  Queste afflizioni mentali si superano non in virtù di azioni o parole, ma vedendole con chiarezza, vedendo con chiarezza i nostri circuiti negativi.  Anche l'attaccamento è uno di questi circuiti negativi ed è una risposta sbagliata la nostro desiderio di benessere. L'attaccamento si riferisce anche ai pensieri e giudizi, ed abbiamo paura che perdendoli, perderemo anche la nostra identità. Spesso questo genera paure ed ansie di essere sostanzialmente indefinibili. Occorre capire che ogni pensiero è autoreferenziale. Per la maggior parte del tempo è tutto un pensare-giudicare-reagire-immaginare-concettualizzare che nell'insegnamento di Buddha è chiamato proliferazione mentale. La proliferazione dei pensieri e l'attaccamento si rafforzano a vicenda. Il solo modo per uscire da questo tunnel è la pratica meditativa e la fiducia nella consapevolezza. La consapevolezza dovrebeb portare pace, saggezza e compassione.

Coltivare il rapporto con noi stessi ha un'inevitabile ricaduta sui nostri rapporti con gli altri, e non può che generare fiducia. Il Buddha sottolinea l'importanza cruciale delle buone relazioni, soprattutto per una persona con una mente ancora immatura. Nel buddhismo si parla di amico spirituale e di sangha (la comunità). L'affrontare relazioni difficili ci può aiutare a far appassire delle nostre negatività, come ad esempio lo spirito di rivalsa, quel voler colpire, ferire perché siamo stati colpiti e feriti, o il desiderio di far pagare a qualcuno il nostro sentirci esclusi, abbandonati, non amati. Dal sentimento di rivalsa al risentimento cronico il passo è breve.

Il Buddha dice: "Il nobile discepolo che ha udito che tutto brucia in virtù del fuoco dell'attaccamento, dell'avversione e dell'ignoranza, riesce a vedere che tutto brucia, allora concepisce nibbida."    Nibbida è un piccolo risveglio e significa non trovare più niente, quindi il discepolo percepisce un sereno disincanto e all'equanimità.  E da nibbida si passa al non-attaccamento, alla liberazione, alla conoscenza della liberazione.

Mano a mano che si procede nella pratica, si è meno in fiamme, si sviluppa gradualmente il non attaccamento, equanimità, l'essere spassionati.  Ma non è un diventare un essere disanimato, santo e morto nello stesso tempo.  L'equanimità è definita il tranquillo flusso della mente, e l'equilibrio si manifesta in una mente che non è né depressa, né eccitata. equanimità è definita anche come rispondere rapidamente nel modo giusto ad una circostanza, agire quindi con creatività e adeguatamente. Ritiri lunghi, brevi, individuali sono tutti dei piccoli incentivi per favorire quel piccolo risveglio che è nibbida.


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