venerdì 24 febbraio 2023

Lo yoga secondo il Maestro Amadio Bianchi

Amadio Bianchi (Swami Suryananda Saraswati) è l'ideatore e fondatore della World Yoga and Ayurveda Community, Presidente del Movimento Mondiale per lo Yoga e l'Ayurveda, della European Yoga Federation; Vicepresidente della International Yog Federation di New Delhi; Membro Fondatore della European Ayurveda Association e della Scuola Internazionale di Yoga e Ayurveda C.Y. Surya; Coordinatore Generale della Confederazione Ufficiale Italiana di Yoga, Ambasciatore della The World Community of Indian Culture and Traditional Disciplines.

Amadio è un grande Maestro di yoga e ayurveda che negli anni è riuscito a creare un ponte culturale fra Oriente ed Occidente. Mobile e instancabile: si sposta tra India, Croazia, Grecia, Francia, Lettonia, Portogallo, Polonia, Slovenia, Spagna, Svizzera, Romania, Argentina, Brasile, Bulgaria, Canada.  Lo hanno voluto nel tempo diverse trasmissioni televisive e radiofoniche quali: TG 2 "Costume e Società", Rai Uno Mattina, Vivere Meglio - Rete 4, "La vita in diretta" - Rai 2, "Monitor Popoli" - Sat 2000, Tg regionale - Rai 3, "Salute e Benessere" - Radio Sole 24, Totem - RTL 102.5, Mediolanum "Le buone notizie" - Mediolanum Channel, ecc.

Ha all'attivo diversi libri: La scienza della vita, Nel respiro il segreto della vita, Ayurveda: una scienza per la salute, La gioia di vivere con lo Yoga e con la YogaTerapia.

Una terza proposta interpretativa, appunto, si ravvisa nella parola “fusione” che per lo yoga rappresenta il livello coscienziale d’esperienza relativamente più avanzato che, di solito, segue la completa realizzazione dell’unione psico-fisica. In questo stadio il soggetto dopo aver preso atto dell’interrelazione dinamica esistente tra sé e ciò che lo circonda, la realizza fortemente anche come sensazione.  Ciò vale a far cadere le ultime resistenze e contrarietà verso aspetti della manifestazione, naturalmente anche verso gli uomini, sentendosi in fusione ed a loro legato da qualcosa di comune. Cambia a questo punto la sua visione del mondo. Le parole amico, nemico o indifferente vengono sostituite da favorevole, sfavorevole o neutrale e, per conseguenza, si presenta in lui una più evidente stabilità emotiva.

Le memorie, soprattutto attraverso la pratica della meditazione, vengono anch’esse riorganizzate e spogliate dall’aspetto emotivo.Il pesante fardello, che in molti casi costituisce il deprimente passato, viene sciolto e spesso si nota lo scomparire dei sensi di colpa. L’individuo può così incamminarsi verso un quarto stadio di realizzazione che lo porterà a cercare la gioia duratura e ciò che sta oltre l’ordinario, ovvero il trascendente. Lungo la via potrebbe sperimentare la suprema quiete, conoscere e riposare nella vera essenza del su essere. Attraverso una continua meditazione sul vero Sé, che è pura coscienza eterna ed al di là del complesso psico-somatico e delle oppressioni mondane, egli potrebbe giungere alla libertà. Nel pieno successo di questa fase il soggetto dovrebbe tornare ad integrarsi, o meglio si reintegrerebbe nella collettività, si pensa privo di resistenze e con una chiarissima visione della realtà.

Per concludere questa parte devo per di più affermare che la scienza dello yoga esige di insegnare un metodo che permetta di conseguire l’unione completa del Sè, cioè della realtà spirituale presente in ognuno di noi con quella universale la cui costituzione sarebbe, secondo una ipotesi dell’antica letteratura, realtà, coscienza, beatitudine (sat-cit-ānanda).  Questa unione sarebbe l’unico vero yoga. Il punto da dove si parte per questa esperienza. Uno stato di coscienza nel quale i mistici si propongono di incontrare e conoscere Dio. Un percorso, forse a ritroso, per mezzo del quale il generato, per così dire, ritornerebbe nel grembo del generante, anzi fondendosi nella stessa natura di quest’ultimo sicuramente perdendo la sua identità individuale

Atha yogānuśāsanam: ora, l'insegnamento dello yoga.  Con queste parole ha inizio il Samādhi Pāda, il primo capitolo inerente gli Yogasūtra, o aforismi dello yoga di Patañjali il quale, attraverso questo scritto, interpreta e si impegna a trasmettere i fondamenti di questa scienza. Prima di lui era stata principalmente tramandata in successione (paramparā), bocca-orecchio, come solitamente “si suol dire”, da guru a śiṣya (da maestro ad allievo). A questo scritto ed al suo autore di datazione incerta (fra il II secolo a.C. ed il IV d.C.) fa oggi riferimento lo yoga considerato classico.

Affermo che uno ed indivisibile è lo yoga anche se oggi ci appare in tante forme e con tanti nomi. Nel mio primo libro, La scienza della vita - Lo Yoga e l’Āyurveda (SpazioAttivo 2010), scrivevo a pagina 104: "L’errore nasce quando si inizia a pensarsi nel giusto o si crede di tenere l’unica verità in pugno senza tenere conto che l’uomo è impossibilitato per sua natura a liberarsi del soggettivo. Continua in tal modo a frazionare la “Unica Verità” in tante parti offrendola come intero, magari in buona fede, senza rendersi conto di quello che sta facendo. Già nel Ṛgveda, il più antico dei testi a cui l’India fa riferimento, si legge: ekaṃ sat viprā bahudhā vadanti: Esiste una sola verità, ma i saggi la chiamano con nomi diversi.   Anche se, ai tempi nostri, a volte mi pare che la saggezza non sia sempre “di casa”...    Tornando a parlare di yoga classico, Patañjali, con i suoi quattro capitoli:
    1) samādhi Pāda, relativo alla realizzazione trascendentale ed alla Consapevolezza;
    2) sādhana Pāda che tratta la disciplina e la realizzazione pratica;
    3) vibhūti Pāda, inerente il risveglio dei poteri spirituali siddhi;
    4) kaivalya Pāda, sulla realizzazione dell’aggiogamento ascetico;
presenta l’Aṣṭāṅgayoga, yoga dalle “otto membra” o, se vogliamo considerale come un preciso percorso di realizzazione, yoga delle otto fasi o stadi. 
Esse sono:     
---- Yama: le 5 astinenze:
    ahiṃsā: non violenza, prima norma etica, prescrizione che si deve osservare e realizzare per poter proseguire lungo la via della realizzazione;
    satya: veracità, consiste nella coerenza di parole pensieri ed azioni;
    asteya: astensione dal furto, dal prendere cioè ciò che non ci appartiene ma anche sopprimere in sé addirittura il desiderio di tale appropriazione;
    brahmacarya: controllo dell’istintualità, ovvero castità: primo passo dell’itinerario ascetico;
    aparigraha: non avidità, non possesso.
---- Niyama: le 5 osservanze o adempienze
    śauca: pulizia, purezza fisica, mentale e spirituale;
    saṃtoṣa: stato di contentamento, l’accontentarsi;
    tapas: esercizio al sacrificio, il calore dell’ascesi o aspirazione ardente;
    svādhyāya: studio di sé, riflessione e meditazione, lettura delle sacre scritture;
    īśvarapraṇidhāna: abbandono al Signore o al “Superiore”, offrire le proprie azioni o meglio il frutto delle proprie azioni al Signore o al “Superiore.

--- Āsana: termine maschile normalmente tradotto con postura. Deriva dalla radice del verbo sanscrito ās che significa 'sedersi' o 'stare seduti', maggiormente attribuibile, dunque, all’atto della meditazione. Oggi tuttavia ha assunto anche il generico significato di posizione. Ricordo comunque, che nella attuazione della pratica anche dello haṭhayoga, lo yoga del sole (HA) e della luna (ṬHA), considerato nell’epoca attuale l'espressione un po’ più fisica di questa disciplina, non si deve mai dimenticare un essenziale presupposto, come già affermavo nell’introduzione di questo stesso saggio: è yoga quando la parte fisica e la parte non fisica sono entrambe presenti mentre non lo è quando si compiono azioni dove una di queste due parti, in particolare quella non fisica, non sia equamente presente, ed è yoga, inoltre - come asserisce Patañjali - quando si esercita il controllo delle modificazioni della mente emozionale.  Gli āsana sono prevalentemente statici e l’autore degli Yogasūtra afferma che dovrebbero essere sthira-sukha: stabili e confortevoli, riferendosi anche all’attitudine interiore. Ci sono, tuttavia, anche pratiche dinamiche tra le quali eccellono i sūryanamaskāra o saluti al sole.

--- Prāṇāyāma: con questo vocabolo, in generale, nell’ambito dello yoga, si fa riferimento agli esercizi che hanno come obiettivo l’addestramento alla respirazione. Nella cultura hindū però tale termine sanscrito può avere, a volte, un significato più ampio e più profondo.L’interpretazione del vocabolo maggiormente in uso nelle scuole di yoga, tende a suddividere la parola prāṇāyāma in due parti: prāṇā e āyāma ovvero controllo (āyāma) dell’energia vitale (prāṇa). Tale traduzione ben si sposa con gli esercizi di respirazione a cui si riferisce.  Il prāṇāyāma viene proposto negli Yogasūtra di Patañjali al quarto livello dell’Aṣṭāṅgayoga o Rājayoga. Esso, tuttavia, viene menzionato anche nell’Haṭhayogapradīpikā come secondo stadio dello haṭhayoga e nella Gheraṇḍasaṃhitā, dove costituisce il quinto sādhana o pratica. Nella più rigorosa tradizione, viene consigliato di praticarlo ben quattro volte al giorno: all’alba, a mezzogiorno, al tramonto e a mezzanotte. L’orario che personalmente ritengo più idoneo in assoluto, in armonia con il dinacaryā o ritmo naturale della giornata, è quello dell’apice della forza di trasformazione pitta, il doṣa relativo alla combustione e alla metabolizzazione, cioè fra le dieci del mattino e le due del pomeriggio con apogeo a mezzogiorno. Le tre fasi del respiro, pūraka (inspirazione), kumbhaka (sospensione) e recaka (espirazione), devono essere sviluppate nel rispetto - ma questo dovrà valere sempre per ogni pratica dello yoga - in particolare dell’ahiṃsā (non violenza) e anche di tutte le altre indicazioni fornite dagli yama e niyama. Si raccomanda dunque di usare sia moderazione sia dolcezza e di evitare eccessi che potrebbero danneggiare l’apparato respiratorio o il sistema nervoso ad esso strettamente collegato. Soprattutto le pratiche avanzate, poi, devono essere eseguite sotto la guida di un Maestro, o almeno di un esperto, per evitare i rischi che una applicazione da autodidatta può comportare, specialmente per le due fasi di sospensione antarakumbhaka (ritenzione a polmoni pieni) e bāhyakumbhaka (astensione a polmoni vuoti).

--- Pratyāhāra: il quinto gradino dell'Aṣṭāṅgayoga di Patañjali, fa riferimento allo stato di interiorizzazione o astrazione nel quale il soggetto si disidentifica dalle attività sensoriali o, a più alto livello, dall’attività della mente inferiore. La propedeutica è costituita da tecniche che promuovono l’introspezione, dove il praticante sperimenta il distacco dalle impressioni provenienti dall’esterno o da quelle che sono nella sua mente.

--- Dhāraṇā : concentrazione che, in genere, prelude alla meditazione; aggregazione delle facoltà della mente verso un solo punto o oggetto. Questo esercizio facilita la cessazione dell’attività sensoriale. È il primo degli antar-aṅga o stadi, per così dire, più orientati all’esperienza spirituale. Gli ultimi tre aṅga, sono chiamati nel loro insieme anche saṃyama, alludendo alla disciplina della concentrazione della mente.

--- Dhyāna: “meditazione”, ho disposto questa parola fra virgolette poiché mi sembra doveroso, come al solito, precisare che le parole meditare e meditazione sono usate impropriamente se riferite a questo genere di pratiche. Tali termini, infatti, discendono dalla parola latina “mens” e si riferiscono inequivocabilmente al “mentale” ed alla sua attività. Ciò che qui s’intende conseguire con le esperienze interiori è sicuramente volto in altre direzioni: sperimentare il mentale nel tentativo di superarlo e giungere a stadi “sovraordinari” di contemplazione che coincidano con stati di coscienza diversi da quelli comuni, nei quali l’uomo si identifica con il contenuto della sua mente.  Ci tengo a sottolineare una volta in più, che, quando siamo nel mentale, siamo sempre a contatto con ciò che è già avvenuto, anche se prodotto dai sensi pochi istanti prima. Le vie indiane sono impegnate da migliaia di anni nel tentativo di riportare l’uomo nel presente proponendone la sperimentazione nella coscienza. Anche per questo, un termine più adatto per definire tali pratiche potrebbe essere “contemplazione”. E, specialmente nelle tradizioni dell’India, la contemplazione assume una grande importanza al punto da essere considerata determinante, nelle pratiche spirituali, ai fini dell’illuminazione. La pratica considerata più produttiva dalla maggior parte dei maestri è tuttavia quella che sviluppa il vairāgya o distacco. Questa, che promuove la capacità di contemplare il proprio mentale, senza venirne coinvolti, è reputata la via della conoscenza.  Il vairāgya consente, a mano a mano che l’abilità del meditante si fa più raffinata, di affrontare gli strati più profondi del subconscio e dell’inconscio liberandoli per riviverli nuovamente nel conscio. In questo modo, senza coinvolgimento, possiamo conoscere la loro vera natura e origine e liberarci dalle impressioni che li rivestono. Essi torneranno ad essere utili come memoria-esperienza, ma non saranno più in grado di creare disturbo ne impedimento all’esplorazione di ciò che sta oltre il mentale. Trascendere il mentale, porta a conoscere la natura essenziale e reale delle cose, non più rivestite dalle sovrastrutture costruite dall’ego. È questa la via considerata della liberazione e conoscenza.

--- Samādhi : lo stato dell’estasi. Mi viene da dire che il samādhi di cui si parla non è un vero samādhi. Si può intuire che si tratta di uno stato dell’essere che va al di là della veglia, del sogno e del sonno profondo. Esiste nella meditazione lo stadio iniziale nel quale lo yogin dispone di una concentrazione a carattere soggettivo dove egli non ha ancora chiara coscienza di se stesso; un’altra fase più oggettiva nella quale impara ad avere coscienza in maniera distinta sia di se stesso che dell’oggetto della concentrazione; ed infine la fase più alta, né soggettiva, né oggettiva, corrispondente ad uno stato di coscienza in cui lui stesso e l’oggetto della concentrazione sono la medesima cosa senza distinzione. Quest’ultimo stato di concentrazione-coscienza viene chiamato samādhi. Ed è in questo stato di perfetta trascendenza, non duale ed estatica, che si avrebbe l’opportunità di fare l’esperienza del brahman.   Nella mia personale pratica, che dura ormai da anni, ho beneficiato una sola volta, durante la meditazione, di uno stato estatico. Alla luce di questa mia esperienza, invito gli insegnanti yoga e gli studiosi ad adottare maggiore prudenza nell’esprimersi: con troppa leggerezza si parla di samādhi nelle scuole, cioè di cose di cui non si è fatta reale esperienza. Non ce n’è bisogno di puntare o parlare di estasi. Lo yoga è in grado sia di apportare meravigliosi cambiamenti nella personalità, per così dire psico-somatica, dell’individuo, sia di indurre una vita più consapevole, e direi che ciò è già un grande risultato.

Chi pratica yoga dovrebbe essere una persona equilibrata, ed dovrebbe essere cosciente della complessità del campo che sta esplorando. Talvolta ha l’impressione di trovarsi in una vasta area senza punti di riferimento e in queste condizioni gli risulta difficile affermare principi con certezza. Farlo potrebbe essere già sinonimo di fanatismo frutto di avidyā (non conoscenza, per non dire ignoranza)..

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