venerdì 28 aprile 2023

L'Hatha yoga e le Upanishad dello yoga

 Cos’è lo haṭha yoga? Dal sito di Gianfranco Bertagni. A fine Ottocento Monier-Williams definí lo haṭha Yoga come uno “Yoga dello sforzo” e viene trattato nella Haṭhapradīpikā di Svātmārāma.    Gli studiosi del XX secolo parlano di sforzo esercitato nella pratica o di estrema, faticosa e vigorosa disciplina.   http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/meditazione/upyoga.pdf   -

Nello stesso periodo in cui in Europa si mettevano le basi di questa interpretazione, in Bengala Vivekananda si preparava a diffondere nel mondo intero la sua lettura neo-vedāntina degli Yoga Sūtra di Patañjali e del “vero yoga”. Nel suo famoso testo Raja Yoga del 1896, a proposito dello haṭha yoga egli scrive: “Le sue pratiche sono molto difficili, e non possono essere apprese in un giorno, e, non portano a una crescita spirituale”.
Il fine primo dello haṭha yoga, ossia “far vivere gli uomini a lungo” attraverso la cura del corpo e una perfetta salute, è un fine inferiore (Singleton 2009: 71). 

Il successo degli insegnamenti di Vivekananda aiutò a diffondere il pregiudizio secondo cui lo haṭha Yoga sarebbe una degenerazione dello yoga di Patañjali, lo yoga classico, puro e filosofico. La visione dello haṭha yoga come pratica faticosa, dolorosa e inferiore non è tuttavia una novità ottocentesca. Molti testi indiani medievali e moderni esprimono vie soteriologiche fondate sulla gnosi. Alcuni testi ritengono inutili le faticose pratiche fisiche, tutto ciò che lo yogi deve fare è: 1-sedere in quiete e immobile. 2- risvegliare e far muovere kuṇḍalinī verso l’alto, “Haṭha” si riferisce quindi ad azioni che invertono e trasgrediscono l’ordine naturale.  La pratica deve, comunque,  essere accurata e graduale, soprattutto quando si tratta di tecniche respiratorie, mudrā e bandha, pena l’invecchiamento e la malattia.
“Si deve imparare a coltivare il respiro; altrimenti esso uccide lo yogi” (Haṭhapradīpikā 2.15,). L’interpretazione di haṭha yoga come “sforzo violento” non ha dunque alcun fondamento. La preservazione e sublimazione del bindu veniva identificata con pratiche ascetiche (tapas) e con un’inversione di rotta dell’energia.
L’ayurveda si sviluppa intorno a questa concezione, operando a livello di ricostituzione e mantenimento dei fluidi vitali attraverso l’uso di sostanze vegetali e minerali. “Il seme é la materia grezza ed il combustibile di qualsiasi trasformazione psicochimica cui si sottopone lo yogin, l’alchimista o il praticante tantrico.  Il controllo dei flussi vitali (i prāṇa vāyu) – è  un percorso di risalita in cui il praticante trafigge i sei centri o ruote di energia (i cakra) disposti lungo il canale centrale.
A cavallo tra Ottocento e Novecento vennero tradotti in inglese tre testi di haṭha Yoga, Haṭhapradīpikā, Geraṇḍasaṃhitā e Śivasaṃhitā, che andarono a costituire il canone haṭha yogico.  La sintesi Haṭhayogica sembra seguire il medesimo, fondamentale principio operativo delle pratiche erotico-mistiche del tantrismo indù. Nel Tantra l’unione sessuale, l’abbandono del seme maschile (l’offerta sacrificale) nelle fauci ardenti dell’organo sessuale femminile viene assimilato ad un sacrificio, i cui benefici ricadono sul sacrificante.

Breve storia dello haṭha yoga. Il periodo classico dello haṭha Yoga viene fatto iniziare con la Haṭhapradīpikā, un’antologia composta da Svātmārāma nel XV sec. che raccoglie citazioni da testi precedenti tra cui Amanaskayoga, Vasiṣṭhasaṃhitā, Candrāvalokana e otto testi tra cui •Gorakṣaśataka (XIII sec.) - •Śivasaṃhitā (secondo Mallinson anteriore al 1500 d.C.),  •Śarṅgadharapaddhati (1363 d.C.) – antologia di versi di argomenti vari che include gli insegnamenti sulle cinque mudrā del Dattātreyayogaśāstra.  Si parla di due tipi di haṭha yoga, quello di Gorakṣa per come lo possiamo trovare nel Vivekamārtaṇḍa, e quello di Mārkaṇḍeya che é un aṣṭaṅgayoga come quello di Pātañjali. 

Per riassumere, le fonti antecedenti allo Haṭhapradīpikā descrivono lo haṭha yoga come un metodo soteriologico basato su tecniche fisiche conosciute col nome di mudrā finalizzate a indirizzare i soffi vitali nel canale centrale, la suṣumṇā, e far risalire il seme, bindu, fino alla testa. Le più importanti tra queste tecniche, vajrolimudrā e khecarīmudrā, compaiono per la prima volta in un testo viṣṇuita, il Dattātreyayogaśāstra, dove vengono presentate come tecniche per preservare il seme. Altri testi sovrappongono a questo modello quello dello śivaismo Kaula, origine delle meditazioni su kuṇḍalinī.
La Haṭhapradīpikā, unendo questi due paradigmi, suggella una fase di profondo sincretismo: nella sua sintesi di un vasto spettro di pratiche sorte e sviluppatesi in ambienti differenti, opera spesso una loro rielaborazione e ricontestualizzazione, così come successivamente vedremo accadere nelle YU.
La maggior parte dei testi di haṭha yoga dimostra una totale incuranza per questioni di ordine metafisico, come quasi a dire: lo yoga funziona comunque, indipendentemente dall’approccio filosofico del praticante. La mancanza di un rigido ed esplicito orientamento religioso o filosofico ha permesso la diffusione mondiale dello yoga ai giorni nostri.
Haṭhapradīpikā é anche il primo testo che pone le āsana non sedute come pratica di base fondamentale: “Le āsana sono descritte per prime perché sono la prima tappa dello haṭha. Danno stabilità, salute e leggerezza del corpo” (HP 1.17).  Con la Haṭhapradīpikā siamo dunque di fronte ad un’appropriazione e ricontestualizzazione in cornice śivaita/vedāntina di alcune tecniche nate in ambiente viṣṇuita.
Nella Haṭhapradīpikā troviamo mudrā, 8 āsana sedute 7 āsana non-sedute si trovano in testi anteriori  a partire dal X sec.,  kumbhaka.  I versi che descrivono sūryā, śītalī, bhastrikā e ujjāyī kumbhaka sono presi dal Gorakṣaśataka, per i restanti quattro, sītkārī, bhrāmarī, mūrcchā e plāvinī, la fonte non é stata identificata. In questo testo vengono citate tecniche di laya yoga, tecnica che implica il tapparsi le orecchie con due dita e ascoltare i suoni interiori. La Haṭhapradīpikā é il primo testo in cui vengono citati i sei atti purificatori, ma possiamo inferire per similitudine che nauli fosse praticato almeno a partire dal XIII secolo, all’epoca del Dattātreyayogaśāstra, primo testo a parlare di vajrolīmudrā, che usa nauli per risucchiare liquido su per l’uretra. La Haṭhapradīpikā comprende dunque le tecniche fisiche di un’antica tradizione ascetica.
La pratica dello yoga viene citata anche in testi come il Mahābhārata.
I fondatori dello  haṭhayoga vennero identificati con Matsyendra e Gorakṣa, i capostipiti dell’ordine Nāth. Tale tradizione é quella del layayoga o yoga della dissoluzione. I suoi membri erano alchimisti tantrici devoti di divinità femminili note come yoginī, praticanti di kuṇḍalinīyoga. La Haṭhapradīpikā esprime non solo l’integrazione di due prospettive pratiche, ma anche un momento della storia della filosofia indiana in cui le metafisiche non-dualiste śivaita e vedāntina venivano sintetizzate.  Lo haṭha yoga assorbì così diverse pratiche e concetti śivaiti in concomitanza con il declino dello Śivaismo e l’ascesa del Vedānta a paradigma filosofico-religioso dominante.
Oggi la pratica dello haṭha yoga é tra i Nāth praticamente inesistente. Possiamo inoltre notare che nessuno dei guru dello yoga moderno puó dirsi parte della tradizione nāth: il filone settentrionale rappresentato da Swami Sivananda della Divine Society e Swami Satyananda della Bihar School of Yoga si iscrivono piuttosto entro la tradizione dei saṃnyāsī Daśanāmī. La tradizione meridionale di Krishnamacharya e dei suoi tre principali diffusori, T.K.V Desikachar, K. Pathabi Jois e B.K.S Iyengar, sono invece parte della piú ampia corrente del Shri Sampradaya, o Vishishtadvaita Vedānta (“non-dualismo qualificato”), fondata da Ramanuja, a sua volta strettamente connessa con gli ambienti in cui vennero redatti i primi testi di haṭha yoga come il Dattātreyayogaśāstra e i testi contenenti insegnamenti sulle āsana non sedute.
Nei testi haṭha yogici si ritrovano due tradizioni sovrapposte: •la più antica, quello dell’ascetismo itinerante, caratterizzata dalla pratica di tapas: controllo del respiro e del seme come strumenti per ottenere salute, lunga vita e controllo sulla mente. •lo yoga tantrico, caratterizzato, nelle sue formulazioni originarie (testi composti tra V e X secolo) da meditazioni su elementi sempre più sottili, percorso rappresentato talvolta dall’ascesa di kuṇḍalinī lungo la suṣumṇā e i cakra o padma (loto).          Le Upaniṣad Classiche con la loro rivoluzionaria internalizzazione del sacrificio, avevano aperto il cammino a tutto un nuovo modo di guardare al divino, caratterizzato tra le altre cose da una nuova incredibile possibilità, quella di realizzare il mokṣa in vita. La tradizione ascetica come quella tantrica si sviluppano su questo sostrato filosofico: per entrambe la pratica ha come fine la trasformazione del praticante in un jīvanmukta, un liberato in vita.
Quello che le distingue sono i cammini percorsi e l’approccio alle conseguenze della pratica. Entrambe le tradizioni fanno riferimento a poteri soprannaturali, “effetti collaterali” (i siddhi) della pratica stessa, già descritti da Patañjali negli Yoga Sūtra (Terzo Libro, Vibhuti Pada). Nella tradizione ascetica questi superpoteri sono considerati degli impedimenti, nella tradizione tantrica, al contrario, la capacità di agire sul reale, manipolarlo a proprio piacimento e godere di piaceri ultramondani (bhoga) viene talvolta a rappresentare il fine stesso del percorso spirituale.
Le agiografie interne al Nāth Sampradaya dichiarano che fu Gorakṣa nel XII secolo a fondare le 12 suddivisione dell’ordine. Nel 1906 che viene fondata la prima organizzazione che riunisce i diversi lignaggi Nāth. 
I Nāth, come i Saṃnyāsī, sono devoti di Śiva, anche se molti Saṃnyāsī portano sulla fronte il segno distintivo dei viṣṇuiti. Nel mito è Śiva a essere lo yogī per eccellenza: é lui che insegna lo yoga a Parvati e agli uomini. Yoga, ascetismo e Śivaismo sono oggi strettamente associati uno all’altro.
Sono molte però le fonti che dimostrano uno stretto legame tra yoga e viṣṇuismo: nel Mahābhārata (200 a. C. – 300 d.C.) l’epiteto mahāyogī (grande yogī) è riferito si a Śiva, ma nella maggior parte dei casi a Viṣṇu o a yogī non śivaiti, come Vyāsa e Mārkaṇḍeya. In generale poi lo Yoga del Mahābhārata é immerso in un contesto apertamente viṣṇuita.
I Rāmānandī, sono asceti devoti di Rām, una delle più importanti incarnazioni di Viṣṇu, e praticano il rituale vedico ortodosso, sono strettamente vegetariani, si vestono solo di bianco e disprezzano il nudismo. Comunque le vicinanze con i seguaci di Siva sono molte: oltre a rappresentare una comune tradizione ascetica, le loro organizzazioni e iniziazioni sono molto simili.
La formalizzazione dell’ordine Saṃnyāsī portò all’unione di molte tradizione ascetiche differenti e il termine generico viene usato per indicare l’asceta.        
Nāth e Yoga. Il Nāth Sampradāya comprende oggi un ordine di asceti rinuncianti e una casta di padri di famiglia. Entrambi i gruppi fanno risalire l’origine del movimento a un gruppo di nove guru Nāth, il primo dei quali è Ādinātha, “il primo Nāth”, identificato con Śiva.  Oggi l’hatha yoga è di orientazione apertamente śivaita.
Gorakṣa è considerato il fondatore dello haṭha yoga, le cui tecniche fisiche rappresentano l’internalizzazione di alcune pratiche sessuali della tradizione del Kaula Tantra.
La riforma del tantrismo iniziata da Matsyendra e documentato nella Matsyendrasaṃhitā, è un processo in cui il complesso e trasgressivo rituale tantrico veniva internalizzato e semplificato.  Non ci uniamo a una donna ma alla suṣumnā nāḍī, dal corpo sinuoso come erba kuśa; se dobbiamo unirci in un amplesso, questo avviene nel vuoto della nostra mente non in una vagina.
Nello Haṭhapradīpikā lo scarso interesse per le siddhi, a cui viene dedicato molto meno spazio che in altri testi “classici” come gli Yogasūtra, è in linea con la “purificazione” del contributo tantrico di cui abbiamo parlato. Le pratiche fisiche, āsana, kumbhaka, ṣaṭ karmāṇi, hanno effetti fisici che sostengono il cammino del praticante verso il vero fine della pratica, che è mokṣa, la liberazione.
Lo Haṭhapradīpikā, con il suo successo, segna l’affermazione dello haṭha yoga come metodo dominante dello yoga della liberazione.
L’italiano Ludovico de Varthema che viaggiò in India nel 1505-1506 parla di yogī sposati e di un re degli yogi, potentissimo signore a capo di circa “trentamila persone” Altre fonti descrivono gli yogī come detentori di siddhi, irrispettosi dell’ortodossia brahmanica (cfr. White 2009 per una storia degli yogī). A partire dal XVII secolo però gli yogī diventano celibi.
In Nepal il culto di Gorakṣa e Matsyendra si diffonde a partire dal XIV secolo. Gorakṣa, grande yogī tantrico, segue la tradizione espressa nella Matsyendrasaṃhitā. Il suo yoga combina visualizzazioni della risalita di kuṇḍalinī con altre pratiche tantriche, incluse quelle sessuali. Poi le pratiche sessuali vengono internalizzate, si diffonde il celibato e sorge l’archetipo dell’asceta indiano.
La criminalizzazione dello yogī coltivata come strumento propagandistico dai britannici e la progressiva demilitarizzazione dei monaci guerrieri nei territori controllati dalla compagnia delle Indie, portò gli ordini monastici verso forme più estetiche e devozionali, in linea con un movimento di riforma interna al mondo indiano precedente all’intervento della Compagnia, ed espresso soprattutto nel devozionalismo viṣṇuita e in quello Sikh.
Sopraffatti dalla Pax Britannica e la caduta dei loro ultimi principi-patroni da un lato e dall’affermarsi del devozionalismo hindu dall’altro, gli yogī vennero ridotti allo status di mendicanti.
Molti testi diffondono ‘erronea identificazione di Nāth e yogī. In Rajasthan,  i Nāth hanno fondato diversi ashram e svolgono per i loro benefattori rituali vedici, canti devozionali e altre attività assolutamente nuove.
Śivānanda Sarasvatī nel suo Yogacintāmaṇi (opera enciclopedica che cita secondo P.K.Gode 90 opere differenti e risalente al XVI-inizio XVII secolo) e Nārāyaṇa nei suoi commentari alle Upaniṣad (tra XVI e XVII secolo) si rifanno entrambi all’autorità di Gorakṣa, alla Haṭhapradīpikā e ad altre opere della letteratura Haṭhayogica. Nella prima metà del XVIII secolo nel momento della compilazione del corpus delle 108 Upaniṣad, alcune di queste opere vennero utilizzate per ampliare certi testi upaniṣadici esistenti, dimostrando l’autorità che il sapere yogico dei nātha aveva anche in ambiente vedāntino non dualista.

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