La vera natura dello Yoga - ( del Prof. Marco Pucciarini)
La Yogatattva Upanishad è senza dubbio una delle più interessanti fra le Upanishad dello yoga, e ciò per due ragioni: da una parte essa espone con grande chiarezza gli otto gradi (anga) dello yoga classico, e dall'altra insiste sui vari benefici che ci si può attendere dall'esercizio di questo yoga (non soltanto lo stato d'indipendenza spirituale - kaivalya - ma anche i numerosi poteri soprannaturali (siddhi), dei quali spesso gli altri testi non dicono molto).
La posizione dottrinale dello yoga, inoltre, è nettamente affermata: fede in un Dio personale (qui Vishnu, definito mahā-yogin), volontà di mondarsi dalle macchie del peccato per poter essere liberato dal samsāra (ciclo delle rinascite), assoluto rifiuto delle Scritture vediche come mezzo di ottenere la liberazione, ecc.
La sequenza adottata può dirsi « cronologica » poiché segue fedelmente lo svolgersi delle otto tappe della via dello yoga (Ashtanga). Gli autori cominciano con lo spiegare come l'anima sia caduta in quella condizione di prigionia che le è propria quaggiù (str. 5-6, 9 sgg.); affermano poi che il Veda non serve a liberarla (6 e 7): vi riesce soltanto lo yoga (14-16), nelle sue varie forme (18 sgg.). Di tutte queste forme, la più elevata è l'Hathayoga (in realtà confuso con il Ashtanga yoga, 24 sgg.). Ci si propone d'indicarne i gradi successivi (24-26).
Gli autori accennano rapidamente alle prime tappe (str. 27-31), ma si soffermano in una esposizione minuta del prānāyama (disciplina della respirazione, 27-41) che culmina nel trattenimento prolungato del soffio inspirato (kumbhaka o ghata): a quel punto compaiono i primi fenomeni soprannaturali (per es., la levitazione), descritti per esteso (53-67). Seguono alla disciplina del soffio, come di consueto, il pratyāhāra (ritrazione dei sensi) - appena accennato (str. 68) - e la dhārana (fissazione del pensiero su un solo punto) che suscita altri poteri soprannaturali (69-75), fra i quali quello di potersi muovere a piacimento nello spazio cosmico (str. 75). Si insegna però allo yogin a esser tanto saggio da non parlare di tali poteri; è meglio passare per idioti (78) che lasciarsi distogliere dal fine supremo per rispondere alle richieste da cui sarebbe inevitabilmente tempestato colui che confessasse la sua potenza. Si parla poi (85-104) di una « quintuplice fissazione » (str. 84) che consente di rendersi padrone dei cinque elementi, prima che si arrivi al dhyāna (105), meditazione profonda che si confonde quasi con l'Enstasi finale (samādhi), furtivamente menzionata alla strofa 106. Lo yogin è giunto allora alla fine, è liberato (benché sia ancora in vita: jīvan-mukta, str. 107) e fruisce, naturalmente, di poteri affatto straordinari, compreso quello d'identificarsi con Vishnu stesso (110). L’Upanishad passa a insegnare vari « Sigilli » (mudrā) e «contrazioni » (bandha), molti dei quali di carattere nettamente tantrico (Khecarin, Vajrolī, Amarolī). Tali gesti, più o meno acrobatici, hanno lo scopo di facilitare la meditazione e il trattenimento del soffio.
Al termine della divagazione, gli autori dell'Upanishad ricominciano (130 sgg.) l'evocazione lirica dello stato del liberato in vita. Questo ci procura suggestive descrizioni del ciclo delle morti e delle rinascite (« colei che fu madre è oggi sposa, e la sposa sarà domani madre a sua volta », str. 132), paragonato a una ruota idraulica con molte cassette (133). Le virtù connesse con la sillaba Om sono enumerate ancora una volta (134 sgg.) e il testo si chiude (da str. 135 alla fine) con un breve accenno alla pace (śānti) di cui fruisce « nel deserto » colui che ha conseguito la condizione d'isolamento spirituale (kaivalya) cui tende la pratica dello yoga.
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