venerdì 28 aprile 2023

Le Upanishad dello Yoga -1

Dal sito di Gianfranco Bertagni: http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/meditazione/upyoga.pdf
Le Upaniṣad dello Yoga (YU) sono un insieme di testi medievali sincretici estremamente eterogenei, composti in un periodo compreso tra il IX e il XVIII secolo e riuniti per la prima volta sotto questa denominazione dagli studiosi Albrecht Weber e Paul Deussen alla fine dell’Ottocento.
Le 20 (21) Upaniṣad minori classificate sotto l’etichetta di “Upaniṣhad dello Yoga” sono effettivamente accostabili tra loro per una serie di caratteristiche e temi yogici comuni, ma questi necessitano di una cornice storica per essere letti.   Già l’appellativo Upaniṣhad rivela chiaramente il desiderio di mantenersi entro la cornice del Vedānta. -

I contenuti filosofici delle YU sono in linea con la visione non dualista dell’Advaita Vedānta, o  monismo mistico. Si è assistito a una addomesticazione della tradizione haṭha yogica e tantrica messa in atto dall’élite brahmanica a partire dal XVI secolo.
Passando per le Upaniṣhad classiche e la complessa storia dello haṭha yoga, osserveremo l’intrecciarsi e fondersi di pratiche e la nascita, la trasformazione e il declino di alcune delle più importanti tradizioni religiose del sub-continente indiano.  L’unica traduzione completa delle YU è quella redatta in inglese da T.R. Śrīnivāsa Ayyaṇgār (1938).
C’è una continuità espressa dalla denominazione Vedānta con cui sono conosciute le Upaniṣhad in quanto commentari e quindi fine dei Veda. Costituiscono la summa filosofica dei Veda.  Etimologicamente Upaniṣhad significa “connessione”, “omologia”, “equivalenza” e in contesto brahmanico viene a indicare le connessioni esoteriche che sottendono il reale e l’insegnamento segreto.
Nel mondo vedico il sacrificio era la modalità di interazione, il meccanismo mediatore, tra dimensione umana e divina, Col tempo il sacrificio assume sempre maggior valore, fino a diventare (vedi i Brāhmaṇa, Libri Sacerdotali, VIII sec. a.C.) l’atto più importante, la fonte stessa dell’esistente  (è dal sacrificio del Puruṣa che sorge il mondo). Tuttavia non bastava possedere il soma per divenire immortali.
Pur ponendosi in continuità con la tradizione vedica le Upaniṣhad introducono una metafisica non-dualista secondo cui tutti gli esseri partecipano della natura dell’Anima Universale. Secondo questa visione non esisterebbe dunque separazione tra Assoluto e Manifestazione, tra Puruṣa e Prakṛti.  
Teorizzata nei Libri della Foresta e sviluppata nelle Upaniṣad classiche, l’interiorizzazione del sacrificio creò le premesse per lo sviluppo di tutte le tradizioni pratiche successive, tra cui quella nota come haṭha yoga.
Le Upaniṣad hanno dunque una connotazione bivalente. Da un lato rappresentano il vero significato, nascosto ed esoterico, della tradizione vedica e dell’atto rituale che ne costituisce il centro. Dall’altro si sottolinea l’importanza di una conoscenza (e coscienza).
Secondo molti studiosi le Upaniṣhad rappresenterebbero l’espressione testuale di una religiosità kṣatrya antibrahmanica e di una tradizione di ascetismo itinerante, quella śramaṇa, tradizione in cui mossero i loro primi passi Buddhismo, Jainismo e lo stesso Yoga e a cui risalgono concetti chiave trasversali alle tradizioni nate successivamente nel sub-continente indiano quali kārma, mokṣa, māyā. In questo senso rispecchierebbero, come i Libri della Foresta, le esperienze mistiche di saggi-guerrieri esclusi dalla performance del rituale vedico, prerogativa del varna dei brāhmaṇa. Le Upaniṣad classiche sono dunque eredi di tradizioni diverse, ambivalenti e spesso contraddittorie. Nonostante questo furono la base su cui venne fondato il più pervasivo sistema di pensiero indiano fino ad oggi, il Vedānta (Il Vedānta rappresenta in assoluto il darśana dominante dell’Induismo).  
Ciò che si chiama Brahman è lo spazio etereo che sta al di fuori dell’uomo. Lo spazio etereo al di fuori dell’uomo è lo stesso che sta nella cavità del cuore. Esso è il pieno, l’immutabile. Felicità piena, immutabile, acquista colui che così sa. (Chāndogya Upaniṣad 3.12.7-9
Le vie per compiere questo viaggio sono quelle pratiche della meditazione, della rinuncia, della gnosi (jñāna). Attraverso di esse l’anima individuale, l’ātman, immutabile ed imperitura traccia dell’Assoluto dentro di noi, si manifesta.
Una vita condotta nel rispetto del dharma implicava, per il medesimo meccanico principio di causa effetto, una buona rinascita. Le Upaniṣad guardano oltre. Mirano alla liberazione da qualunque forma di rinascita, alla vera immortalità. Si affermano rinuncia e ascetismo.  Il saggio rivolge tutte le sue capacità vitali, sensitive, mentali dall’esterno all’interno, verso il Sé che è l’ātman.
Il corpo umano (inteso olisticamente come complesso corpo-manas-buddhi) diviene la sede stessa del sacrificio, il laboratorio alchemico in cui è possibile superare l’apparente dualità umano-divino, e trasformare l’essere umano in essere divino. La nuova sede del sacrificio, è il corpo umano e nelle Upaniṣad è un universo, abitato dall’ātman e percorso dal prāṇa nelle sue cinque caratterizzazioni, ognuna corrispondente ad una 5 funzione vitale.
Quando [il pensiero] è purificato, risplende allora l’Ātman.”.
La Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (2.1.19) riporta il primo riferimento all’importanza di una rete interna di energia: “Ci sono 72000 vene chiamate hitā. Il cuore, centro da cui si irradia la rete di vene lungo le quali scorrono i fluidi vitali dai cinque colori, è la cavità (guhā) o la grotta nella quale risiede l’ātman.
In questa Upanishad si parla anche della teoria dei quattro stati di coscienza: Il sonno profondo spegne anche la mente e permette di uscire temporaneamente dal manifesto e realizzare l’unione con l’Assoluto: In realtà i primi riferimenti al quarto stato di coscienza sono piuttosto tardi.  L’iniziale identificazione di turiya con la morte si trasforma nel concetto di liberato-in-vita (jīvan-mukti), segnando il passaggio ad una diversa prospettiva: le leggi che regolano la vita e la morte, lo scorrere dei flussi vitali, il riassorbimento del sé nell’Assoluto sono imprescindibili.
Lo strumento principale del saggio è il mantra: egli usa il potere della parola, già teorizzato nei Veda. Il mantra è espressione del Brahman, non uno strumento per invocarlo, ma piuttosto una manifestazione del divino come potere e coscienza. “Il mantra ha infiniti poteri perché è la divinità stessa”. L’ascesa del Sé è resa possibile dalla pratica dei mantra (in particolare del praṇava mantra oṃ) che hanno la qualità di attivare le connessioni tra i soffi vitali e i cinque raggi del sole (l’Assoluto) e rendere possibile la risalita del Sé lungo le canalizzazioni sottili.  Cominciano a comparire i primi termini tecnici fino all’elaborazione del primo sistema yoga a sei limbi. 

In ordine cronologico.
    • Al 8.15 la ChU accenna a ciò che verrà successivamente definito prathyāhāra, dichiarando che il ritiro dei sensi verso il Sé in associazione a regole comportamentali conduce all’uscita dal ciclo delle rinascite e all’unione con l’Assoluto.
    • Māṇḍkūya Upaniṣad – MaU (VIII sec. a.C.) – lunga solo 12 versi, tratta esclusivamente della sillaba OṂ e descrive il collegamento tra essa e i quattro stati di coscienza: le tre componenti del fonema, a, u, m corrispondono rispettivamente allo stato di veglia, sonno, sonno profondo. “L’oṃ senza misura è il Quarto, di là da ogni sviluppo di manifestazione, benefico, non duale. Così la sillaba oṃ è l’ātman. Colui che conosce ciò, immerge l’atmān [manifesto] nell’ātman [supremo]” (1.12)
    • Taittirīya Upaniṣad – TaitU (VI-V sec. a.C.) – compare il termine yoga ātman (2.4.1).
    • Kātha Upaniṣad – Kā hU (V sec. a.C) – compare il termine “adhyātman yoga” per riferirsi ad una pratica il cui fine é la realizzazione del divino (deva) nascosto nel cuore (1.2.12). Si cita anche “il fermo controllo dei sensi che conduce alla ferma attenzione, condizione di equilibrio interiore” (2.3.10–11).
    • Maitrāyaṇiya Upaniṣad – MaitU (II sec. a.C) – primo riferimento a un sistema sestuplice, cinque dei sei elementi preannunciano il sistema a otto lembi di Patañjali. 

Alchimia, tantra e haṭha yoga si combineranno nelle recensioni meridionali con il mantra e tāraka yoga (yoga del suono e della visione) di quelle settentrionali. Il Sāṃkhya, invece, teorizzava l’assoluta separazione tra Spirito e Materia e spiegava il manifesto come il risultato di una progressiva differenziazione della Prakṛti. Al centro della sua teoria era la classificazione (enumerazione) del reale in 25 categorie (tattva), ordinate in cinque classi di cinque. La manifestazione (Prakṛti ) è una catena di legami causali che fluisce dal sottile al grossolano. Questo sistema venne preso in blocco dal Vedānta e ricontestualizzato: il molteplice trae origine da un principio, l'Uno, o da altra realtà prima che esprime da sé il molteplice con assoluta libertà, identica a necessità assoluta. 

Il dualismo sāṃkhyano è riportato nella teoria metafisica esposta negli Yoga Sūtra (III.13-15, III.44) dove si parla di Prāṇa, apāna, udāna, vyāna, samāna. Sostanza e azione non sono separati, ogni termine indica contemporaneamente un soffio vitale e la sua funzione. 

Rendere fedelmente la storia delle Upanishad é opera impossibile: molteplici sono le aree in ombra, numerosissimi i testi che ancora devono passare il vaglio della filologia, molto scarse le fonti consultabili.
Le Upaniṣhad dello Yoga possono essere elencate tra i testi che, a lungo snobbati dall’interesse dei praticanti come degli studiosi di yoga, stanno oggi destando un rinnovato interesse. Come accennato, si tratta di testi ortodossi, redatti in ambiente vedāntino. Una buona parte del contenuto dei testi che costituiscono l’espanso canone meridionale viene estrapolato da opere sanscrite compilate tra XI e XV secolo, opere che descrivono un metodo che pone l’enfasi su una varietà di nuove pratiche fisiche, conosciuto come haṭha yoga. Troviamo il primo riferimento a un metodo chiamato haṭha yoga in un testo sanscrito dell’XI secolo.

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