venerdì 8 marzo 2024

Gautama Buddha

Gautama Buddha visse nel VI secolo a.C., un'epoca di straordinario fermento intellettuale e spirituale in tutto il mondo antico. All'incirca negli stessi anni in Cina due giganti del pensiero e della coscienza, Lao-Tze e Confucio, danno forma a quelle che resteranno nel corso dei millenni le caratteristiche fondamentali della riflessione filosofica, della cultura, dell'arte e della religione cinese.  In Grecia i filosofi presocratici gettano le basi del pensiero filosofico e scientifico di tutto l'Occidente.  In India ferve una ricerca filosofica e spirituale intensa, con grandi centri di sapere, innumerevoli scuole e accesi dibattiti, e nascono più o meno contemporaneamente in questi anni il buddismo e il jainismo.   

A partire più o meno dal 1000 a.C., accanto alla tradizione vedica e braminica, si è andata sviluppando un'importante corrente spirituale, che trova espressione nei testi delle Upanishad.  Ed è a questo mondo culturale, in particolare al mondo dei 'saggi della foresta', che appartengono i concetti fondamentali di cui Buddha si serve nel suo insegnamento.  In questo senso si può dire che egli sia stato non tanto portatore di una nuova visione, quanto di un approccio esperienziale dotato di una nuova freschezza e universalità, un approccio rivolto a tutti coloro che erano disposti a metterlo in pratica anziché a una ristretta cerchia di asceti e di mistici.  

La vita del Buddha è ampiamente circondata di leggende.  Ma abbiamo ragione di ritenere che queste leggende contengano un nocciolo di verità e alludano a una personalità storica relativamente ben individuata. La figura storica è quella del principe Siddhartha Gautama, nato nel 563 a.C., figlio del sovrano del piccolo regno del clan Shakya, ai piedi dell'Himalaya, nella regione che è oggi al confine fra l'India e il Nepal.  Era a quei tempi una regione prospera, a cavallo delle vie commerciali di accesso alla valle del Gange, che doveva quindi conoscere un notevole sviluppo urbano.
Buddha perciò crebbe in un ambiente ricco e raffinato, a contatto con quanto di meglio la cultura dei suoi tempi poteva offrire. Da questo mondo si staccò per diventare un 'monaco mendicante' (bhikkhu) e trascorse la seconda parte della propria vita in estrema semplicità, viaggiando per l’India e insegnando il cammino dei risveglio (Buddha è un appellativo che significa appunto 'risvegliato') a tutti coloro che si raccoglievano intorno a lui.  Morì verso il 483 a.C.

Intorno a questi dati fioriscono suggestive leggende del suo insegnamento. Una di queste, è la storia secondo cui il giovane principe sarebbe stato tenuto accuratamente al riparo da ogni contatto con tutto ciò che nella vita umana costituisce debolezza, infermità, bruttezza, sofferenza.  Per anni fu tenuto lontano da ogni esperienza riguardante la malattia o la morte.  Ma un giorno egli convinse il suo auriga a portarlo a fare un giro fuori dalle mura del palazzo.  In questa gita si imbatté prima in un malato, poi in una vecchia, poi in un cadavere.  Questi incontri furono per lui una specie di rivelazione.  Questa era dunque la realtà sottostante alle dorate apparenze della sua vita di svaghi e di piaceri.  Il quarto incontro fu con un bhikkhu immerso in meditazione. L’immagine di quell'uomo restò impressa nella memoria del principe Siddhartha e fu come un presentimento del cammino che lui stesso avrebbe più tardi intrapreso.

Un'altra storia suggestiva riguarda l'illuminazione, il momento del risveglio.  Lasciata la casa paterna, Siddhartha visse per anni nelle foreste, praticando forme estreme di ascetismo.  Era questa una nobile e antica tradizione di ricerca spirituale: per ottenere la liberazione dalla ruota karmica, che ci tiene vincolati all'esistenza condizionata, e prigionieri della sofferenza, occorre andare al di là di ogni attaccamento, e questo era appunto il senso delle pratiche ascetiche degli eremiti della foresta.  Siddhartha, si dedicò dunque con estremo rigore a queste pratiche, digiunando, dormendo sulla nuda terra, meditando incessantemente, fino a ridursi allo stremo delle forze e a un soffio dalla morte.  Invano, malgrado tutti i suoi sforzi, la porta della liberazione restava ostinatamente chiusa.  Finché giunse a perdere ogni speranza.  Capace appena di trascinarsi, si sedette ai piedi di un albero.  Tutto era vano.  Cessato ogni sforzo, caduto anche il desiderio della liberazione, si abbandonò semplicemente al puro 'esserci'.  Senza più cercare nulla, senza più sperare nulla, senza più desiderare nulla, Siddhartha semplicemente restò seduto ai piedi dell'albero. Era la notte della prima luna piena di primavera.  Una giovane contadina, scambiando quella figura per un dio, gli portò delle offerte di cibo.  Poiché il suo digiuno non aveva più ragione di essere, Siddhartha mangiò e in quell'abbandono una pace sconosciuta lo avvolse.  La sua coscienza divenne un lago limpido e immobile, uno specchio vuoto.  E quando la stella del mattino sorse sopra l'orizzonte egli non c'era più.  La fiamma dell'esistenza separata si era spenta in lui.  Ciò che pulsava in lui era il cuore dell'esistenza stessa. 1 suoi occhi erano diventati finestre sull'infinito.  Non c'era più in lui alcuna resistenza all'infinita danza della vita/morte/vita.  Nulla che si ponesse come separato rispetto al tutto.  Non c'era più un io, ma solo una presenza, Buddha, 'il risvegliato'.

Secondo una leggenda sarebbe stato il dio creatore stesso, Brahma, a convincere Gautama Buddha a prendere la via dell'insegnamento, a cercare di indicare agli esseri umani il cammino della liberazione che egli aveva trovato.  Questo divino intervento allude a una certa paradossale situazione in cui Buddha, come i mistici di ogni luogo e di ogni tempo, venne a trovarsi.  All'esperienza sublime che trascende ogni esperienza, si accompagna la chiara realizzazione che questa perfetta beatitudine è la natura intrinseca di tutti gli esseri.  Ogni essere umano, ogni essere senziente, è potenzialmente un Buddha. É un Buddha addormentato, un Buddha in attesa di svegliarsi.  Il passo che conduce dalla sofferenza alla gioia è brevissimo, anzi, non è nemmeno un passo.  E la beatitudine del Buddha è tanto grande, che vuole essere condivisa, trabocca, si riversa naturalmente verso tutti gli esseri viventi.  Come non condividere con tutti questo destino sublime che appartiene loro di diritto?
Eppure, nello stesso tempo, e qui sta il paradosso, come condividerlo?  Come comunicare un'esperienza che sta del tutto al di fuori della mente, una realtà che può solo essere sperimentata in uno spazio di non-mente?  Con quali parole esprimere l'inesprimibile, quando la mente a cui il linguaggio appartiene è l'ostacolo stesso all'esperienza che si vuole comunicare?  Ogni illuminato, a quanto pare, si trova di fronte a questo dilemma.  Il grande mistico cinese Lao-Tze inizia il suo libro, il Tao Te Ching, dicendo: «Il Tao di cui si può parlare non è l'eterno Tao».
Bisogna perciò, secondo la leggenda, che sia un dio a spingere Buddha a tentare l'impossibile, a comunicare l'incomunicabile, a fare del suo stesso essere un invito, un dito che indica la luna.  Il dito non è la luna e molti si attaccheranno al dito senza vedere la luna.  Ma alcuni che hanno occhi per vedere, vedranno.  E se anche un solo essere dovesse accogliere l'invito al risveglio, questo basterebbe a giustificare tutta una vita spesa a 'far girare la ruota del dharma', a parlare della legge eterna, dell'eterno essere-così delle cose.

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