Gautama Buddha visse nel VI secolo a.C., un'epoca di straordinario fermento intellettuale e spirituale in tutto il mondo antico. All'incirca negli stessi anni in Cina due giganti del pensiero e della coscienza, Lao-Tze e Confucio, danno forma a quelle che resteranno nel corso dei millenni le caratteristiche fondamentali della riflessione filosofica, della cultura, dell'arte e della religione cinese. In Grecia i filosofi presocratici gettano le basi del pensiero filosofico e scientifico di tutto l'Occidente. In India ferve una ricerca filosofica e spirituale intensa, con grandi centri di sapere, innumerevoli scuole e accesi dibattiti, e nascono più o meno contemporaneamente in questi anni il buddismo e il jainismo.
A partire più o meno dal 1000 a.C., accanto alla tradizione vedica e braminica, si è andata sviluppando un'importante corrente spirituale, che trova espressione nei testi delle Upanishad. Ed è a questo mondo culturale, in particolare al mondo dei 'saggi della foresta', che appartengono i concetti fondamentali di cui Buddha si serve nel suo insegnamento. In questo senso si può dire che egli sia stato non tanto portatore di una nuova visione, quanto di un approccio esperienziale dotato di una nuova freschezza e universalità, un approccio rivolto a tutti coloro che erano disposti a metterlo in pratica anziché a una ristretta cerchia di asceti e di mistici.
La
vita del Buddha è ampiamente circondata di leggende. Ma abbiamo
ragione di ritenere che queste leggende contengano un nocciolo di verità
e alludano a una personalità storica relativamente ben individuata. La
figura storica è quella del principe Siddhartha Gautama, nato nel 563
a.C., figlio del sovrano del piccolo regno del clan Shakya, ai piedi
dell'Himalaya, nella regione che è oggi al confine fra l'India e il
Nepal. Era a quei tempi una regione prospera, a cavallo delle vie
commerciali di accesso alla valle del Gange, che doveva quindi conoscere
un notevole sviluppo urbano.
Buddha perciò crebbe in un ambiente
ricco e raffinato, a contatto con quanto di meglio la cultura dei suoi
tempi poteva offrire. Da questo mondo si staccò per diventare un 'monaco
mendicante' (bhikkhu) e trascorse la seconda parte della propria vita
in estrema semplicità, viaggiando per l’India e insegnando il cammino
dei risveglio (Buddha è un appellativo che significa appunto
'risvegliato') a tutti coloro che si raccoglievano intorno a lui. Morì
verso il 483 a.C.
Intorno a questi dati fioriscono suggestive
leggende del suo insegnamento. Una di queste, è la storia secondo cui il
giovane principe sarebbe stato tenuto accuratamente al riparo da ogni
contatto con tutto ciò che nella vita umana costituisce debolezza,
infermità, bruttezza, sofferenza. Per anni fu tenuto lontano da ogni
esperienza riguardante la malattia o la morte. Ma un giorno egli
convinse il suo auriga a portarlo a fare un giro fuori dalle mura del
palazzo. In questa gita si imbatté prima in un malato, poi in una
vecchia, poi in un cadavere. Questi incontri furono per lui una specie
di rivelazione. Questa era dunque la realtà sottostante alle dorate
apparenze della sua vita di svaghi e di piaceri. Il quarto incontro fu
con un bhikkhu immerso in meditazione. L’immagine di quell'uomo restò
impressa nella memoria del principe Siddhartha e fu come un
presentimento del cammino che lui stesso avrebbe più tardi intrapreso.
Un'altra
storia suggestiva riguarda l'illuminazione, il momento del risveglio.
Lasciata la casa paterna, Siddhartha visse per anni nelle foreste,
praticando forme estreme di ascetismo. Era questa una nobile e antica
tradizione di ricerca spirituale: per ottenere la liberazione dalla
ruota karmica, che ci tiene vincolati all'esistenza condizionata, e
prigionieri della sofferenza, occorre andare al di là di ogni
attaccamento, e questo era appunto il senso delle pratiche ascetiche
degli eremiti della foresta. Siddhartha, si dedicò dunque con estremo
rigore a queste pratiche, digiunando, dormendo sulla nuda terra,
meditando incessantemente, fino a ridursi allo stremo delle forze e a un
soffio dalla morte. Invano, malgrado tutti i suoi sforzi, la porta
della liberazione restava ostinatamente chiusa. Finché giunse a perdere
ogni speranza. Capace appena di trascinarsi, si sedette ai piedi di un
albero. Tutto era vano. Cessato ogni sforzo, caduto anche il
desiderio della liberazione, si abbandonò semplicemente al puro
'esserci'. Senza più cercare nulla, senza più sperare nulla, senza più
desiderare nulla, Siddhartha semplicemente restò seduto ai piedi
dell'albero. Era la notte della prima luna piena di primavera. Una
giovane contadina, scambiando quella figura per un dio, gli portò delle
offerte di cibo. Poiché il suo digiuno non aveva più ragione di essere,
Siddhartha mangiò e in quell'abbandono una pace sconosciuta lo
avvolse. La sua coscienza divenne un lago limpido e immobile, uno
specchio vuoto. E quando la stella del mattino sorse sopra l'orizzonte
egli non c'era più. La fiamma dell'esistenza separata si era spenta in
lui. Ciò che pulsava in lui era il cuore dell'esistenza stessa. 1 suoi
occhi erano diventati finestre sull'infinito. Non c'era più in lui
alcuna resistenza all'infinita danza della vita/morte/vita. Nulla che
si ponesse come separato rispetto al tutto. Non c'era più un io, ma
solo una presenza, Buddha, 'il risvegliato'.
Secondo una leggenda
sarebbe stato il dio creatore stesso, Brahma, a convincere Gautama
Buddha a prendere la via dell'insegnamento, a cercare di indicare agli
esseri umani il cammino della liberazione che egli aveva trovato.
Questo divino intervento allude a una certa paradossale situazione in
cui Buddha, come i mistici di ogni luogo e di ogni tempo, venne a
trovarsi. All'esperienza sublime che trascende ogni esperienza, si
accompagna la chiara realizzazione che questa perfetta beatitudine è la
natura intrinseca di tutti gli esseri. Ogni essere umano, ogni essere
senziente, è potenzialmente un Buddha. É un Buddha addormentato, un
Buddha in attesa di svegliarsi. Il passo che conduce dalla sofferenza
alla gioia è brevissimo, anzi, non è nemmeno un passo. E la beatitudine
del Buddha è tanto grande, che vuole essere condivisa, trabocca, si
riversa naturalmente verso tutti gli esseri viventi. Come non
condividere con tutti questo destino sublime che appartiene loro di
diritto?
Eppure, nello stesso tempo, e qui sta il paradosso, come
condividerlo? Come comunicare un'esperienza che sta del tutto al di
fuori della mente, una realtà che può solo essere sperimentata in uno
spazio di non-mente? Con quali parole esprimere l'inesprimibile, quando
la mente a cui il linguaggio appartiene è l'ostacolo stesso
all'esperienza che si vuole comunicare? Ogni illuminato, a quanto pare,
si trova di fronte a questo dilemma. Il grande mistico cinese Lao-Tze
inizia il suo libro, il Tao Te Ching, dicendo: «Il Tao di cui si può
parlare non è l'eterno Tao».
Bisogna perciò, secondo la leggenda, che
sia un dio a spingere Buddha a tentare l'impossibile, a comunicare
l'incomunicabile, a fare del suo stesso essere un invito, un dito che
indica la luna. Il dito non è la luna e molti si attaccheranno al dito
senza vedere la luna. Ma alcuni che hanno occhi per vedere, vedranno. E
se anche un solo essere dovesse accogliere l'invito al risveglio,
questo basterebbe a giustificare tutta una vita spesa a 'far girare la
ruota del dharma', a parlare della legge eterna, dell'eterno essere-così
delle cose.
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