venerdì 8 marzo 2024

Dhammapada, Il libro più amato dal Canone Buddista

Il Dhammapada, il 'cammino dei dharma', è una traccia dell'insegnamento del Buddha.  Nell'intero vastissimo canone delle scritture buddiste, non abbiamo nulla che possiamo indicare con certezza come testuali parole del Buddha.  Ma non c'è dubbio che questi testi, consegnati alla scrittura parecchio tempo dopo la morte dei maestro, riflettono lo sforzo devoto dei discepoli diretti e di quelli delle generazioni successive, di tramandare il più fedelmente possibile le parole del Buddha.  Significativamente certi testi cominciano con le parole:    «Così ho udito ... » É una locuzione che esprime insieme lo sforzo di fedeltà e l'umiltà di chi riferisce.  Non 'così ha detto Buddha', ma 'così ho udito'.  Fra il messaggio che viene dalla dimensione al di là della mente e quello che la mente è in grado di ricevere e di capire c'è uno iato: «Così ho udito ... ».



Il Dhammapada è una raccolta, compilata parecchi anni dopo la morte di Buddha (probabilmente fra uno e quattro secoli), di aforismi tramandati e ricordati come parole del maestro.  Non contiene nulla delle elaborate discussioni e narrazioni che caratterizzano i testi più estesi, Qui troviamo solo lapidarie e spesso poetiche affermazioni ed esortazioni, raccolte per temi (la consapevolezza, la mente, la gioia, il piacere, l’ira, eccetera).  Questi 'temi' sono a volte solo metafore ricorrenti (i fiori, le migliaia, l'elefante); a volte è solo la presenza di una certa parola a giustificare la collocazione di un aforisma entro un certo tema.  Non si può dire dunque che si tratti di una raccolta veramente organica.  A volte, inoltre, è lecito supporre che strati di interpretazioni successive si siano sovrapposti a ciò che 'è stato detto'.
Ciononostante questa piccola raccolta contiene un tesoro inestimabile, ci comunica qualcosa del sapore dell'insegnamento di quest'uomo straordinario.  In essa forse più che in ogni altro testo abbiamo la sensazione che Buddha stia parlando a noi direttamente, per 'ammonirci, guidarci, distoglierci dall'errore'.  Ed è probabilmente questa qualità che ha fatto di questo libricino forse il più amato e il più letto dell'intero canone buddista.

Il primo e fondamentale dei concetti trattati è proprio quello di risveglio, bodhi, illuminazione o liberazione.  'Risveglio' presuppone un sonno: il sonno, di cui qui si tratta, non è altro che lo stato della nostra coscienza ordinaria.  La concezione sottostante, è che la nostra ordinaria percezione di noi stessi e del mondo sia fondamentalmente 'illusione'.  Viviamo in un mondo di miraggi e di fantasmi, agiamo tutto un nostro teatro interno di sogni e di proiezioni.
Al centro di questo mondo c'è un'illusione o errore fondamentale: l'illusione dell'esistenza di un 'sé', l'illusione che ci fa credere di esistere come qualcosa di individuato e separato dal tutto. É un po' come se un'onda credesse di esistere separatamente dal mare.  Le onde si raccolgono, si frangono, si rimescolano nel mare.  L’acqua stessa che le forma non è mai la stessa. L’onda è solo un disegno che emerge e si dissolve nel caleidoscopico movimento complessivo dell'acqua.  Ma, se l'onda si identifica con la propria esistenza separata, essa viene a trovarsi inevitabilmente in una lotta disperata con la realtà della propria impermanenza.  Il sé, che si illude di esistere non può che attaccarsi a tutto ciò che nutre la sua esistenza separata e cercare di respingere tutto ciò che avvicina la sua dissoluzione nel tutto. L’illusione primaria dell'esistenza di un sé, è perciò immediatamente seguita da due movimenti della coscienza: attrazione e repulsione, desiderio e avversione, odio, paura.  L’illusione primaria è il nocciolo di quella che i buddisti caratterizzano come 'ignoranza': uno stato di offuscamento in cui non siamo in grado di percepire la realtà delle cose.  E questa terna, ignoranza, desiderio, avversione, si trova al centro della ruota della vita e della morte, un curioso mandala circolare che descrive simbolicamente il fatale avvicendarsi di nascita, crescita, invecchiamento, morte e rinascita.  Perduti in questo ciclo del samsara, dell'esistenza illusoria, gli esseri si trascinano di vita in vita, inseguendo un sogno impossibile, eternamente prigionieri della disillusione, della sofferenza e della morte.
La più lapidaria enunciazione di questo stato di cose è costituita dalle cosiddette 'quattro nobili verità, di Buddha.  Esse sono: l'esistenza è sofferenza; questa sofferenza ha un'origine; essa ha anche una fine; il cammino che conduce al risveglio porta alla fine della sofferenza.  Cioè: l'illusione di esistere separatamente, ci pone in conflitto con l'effettivo essere-così delle cose e ci pone perciò in una situazione cronica di sofferenza.  Questa sofferenza ha la sua origine nell'ignoranza, nel desiderio e nell'avversione.  Perciò chi va al di là di ogni desiderio e di ogni avversione, chi si risveglia dal sonno dell'ignoranza, trascende ogni sofferenza.  Non è più identificato con il proprio corpo e, anche se il corpo muore, la sua coscienza vive in tutto l'universo.  Ma, la sua coscienza, non è più questo frammento che si è illuso di esistere separatamente e che ha viaggiato di corpo in corpo: essa è semplicemente 'la' coscienza, la coscienza dell'universo, la coscienza del tutto.

L’idea sottostante almconcetto di reincarnazione è quella di karma, secondo cui ogni azione lascia delle tracce sottili nella coscienza di chi la compie, tracce, che a loro volta facilitano il prodursi di certe azioni e di certe circostanze nella vita della persona. Il pensiero orientale assume che questo rapporto di consequenzialità non si limiti all'ambito di una sola vita, ma si estenda anche al di là della morte, in un ciclo di trasmigrazioni che il sé illusorio percorre, sospinto dalla molla del desiderio e dell'avversione e condizionato dalle tracce delle proprie passate azioni ed esperienze.
Non è necessario condividere questo presupposto per cogliere l'essenza del discorso di Buddha.  Dal punto di vista di Buddha, il ciclo delle reincarnazioni, è solo la metafora con cui la mente orientale si rappresenta l'esistenza di un sé separato, mentre il pensiero occidentale, se la rappresenta con la metafora di un'unica vita seguita da un aldilà o dal nulla eterno, secondo le credenze.  Né l'una né l'altra vanno prese sul serio: entrambe descrivono qualcosa che ha comunque un'esistenza soltanto illusoria.  E interessante notare che questo non è soltanto il punto di vista di Buddha, ma anche quello delle più raffinate conoscenze sulla materia di cui disponiamo oggi.  Dal punto di vista della fisica per esempio, l'idea dell'esistenza autonoma di un corpo è del tutto astratta e formale, nel contesto di quel viluppo indivisibile di campi interagenti che è l'immagine della realtà fornita dalle teorie più recenti.
Più vicina alla nostra esperienza diretta, è forse una semplice interpretazione psicologica dell'idea di reincarnazione.  La vita del nostro corpo e della nostra coscienza è un flusso costante: in un certo senso moriamo e rinasciamo ogni momento.  E ogni momento rinasciamo portando con noi le tracce del nostro passato, il nostro karma istante per istante.  In questo senso il Dhammapada è un invito a concentrare tutta la nostra attenzione, tutta la nostra energia, tutta la nostra consapevolezza, tutta la nostra capacità di risveglio in ogni attimo di vita.  Ogni attimo di luce si lascia dietro una scia di luce.  Se in questo istante sei sveglio, attento, cosciente, è più facile che tu sia sveglio, attento cosciente nel prossimo istante.  

A volte può sembrare che il Dhammapada abbia toni di negazione della vita nei suoi aspetti concretamente sensibili.  Un enunciato come 'l'esistenza è sofferenza' o l'invito a trascendere ogni desiderio, possono essere letti come negazione della gioia e della bellezza, di questo miracoloso divino caleidoscopio di illusioni in cui viviamo.  E non c'è dubbio che in una parte notevole dell'ortodossia buddista, come del resto di quella cristiana, tutta una dottrina e una pratica sono condizionate da questo approccio anti-vitale.  Ma, fortunatamente, nel buddismo sopravvivono anche tradizioni che leggono il messaggio di Buddha in maniera diversa.  Secondo queste letture l'invito non è a 'rinunciare al mondo', a minimizzare il godimento del corpo e l'esperienza sensibile, a rifugiarsi nell'ascesi, anche se questo può essere un passo utile in una certa fase del cammino.  Non dimentichiamo che Buddha raggiunse la liberazione quando si spinse al di là anche delle sue pratiche ascetiche.

Nel buddismo Zen c'è una curiosa serie di dieci immagini, detta 'i dieci tori Zen', che descrive il cammino verso l'illuminazione. Nell'ultima di queste immagini il protagonista, raggiunta l'illuminazione, ritorna verso la piazza del mercato con un recipiente di vino in mano.  Se c'è una rinuncia cruciale nel cammino verso la liberazione, essa non è la rinuncia al mondo, ma la rinuncia al punto di vista dell'io separato, al sofferente egoismo con cui cerchiamo di realizzare i 'nostri' fini.  Ogni altra rinuncia, ogni altra pratica ascetica, come vari aforismi del Dhammapada suggeriscono, è un'arma a doppio taglio: nel sonno dell'io essa può trasformarsi in un nuovo attaccamento, in ambizione spirituale, in un modo per sotterrare conflitti e dubbi.  Il più sottile attaccamento, l'ultimo ostacolo, sembra essere proprio il desiderio dell'illuminazione.  Perciò, dice l'ultimo capitolo del Dhammapada, il bramino 'non desidera nulla, né in questo né nell'altro mondo'.    

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