“Quando la mente è fermamente convinta che Brahman è reale e l’universo irreale, è ciò che chiamiamo viveka, la discriminazione tra il Reale e l’irreale.” — Adi Shankaracharya, Viveka Chudamani, XX
Questo è il principio fondante dell’Advaita Vedanta, la filosofia non dualista elaborata dal grande mistico e pensatore indiano Adi Shankaracharya, vissuto probabilmente tra il 788 e l’820 d.C.
La Realtà Assoluta e l’illusione della mente. Brahman è l’unica realtà: infinito, eterno, mai nato, immanente. In contrapposizione, Prakriti – la natura sensibile, o Jagat, l’universo fenomenico, o ancora Maya, il velo dell’illusione – è una creazione mentale. Così come i sogni svaniscono al risveglio, l’identificazione illusoria con corpo e mente genera, nell’individuo (Jiva), una realtà soggettiva destinata a dissolversi al sopraggiungere del risveglio spirituale.
Questo risveglio consiste nel riconoscere l’Atman, il Sé interiore, riflesso del Brahman in ogni essere, come unica vera realtà. Come un unico sole si riflette in mille pozze d’acqua, così l’Assoluto si rifrange negli individui. La consapevolezza di questa verità dissolve Avidya, l’ignoranza spirituale, e prepara al Samadhi, la comunione con il Divino, preludio alla Moksha, la liberazione dal Samsara, il ciclo di rinascite e morti.
Karma: la legge universale dell’azione. Il cammino verso l’illuminazione è lungo e arduo, spesso attraversa molte vite e richiede un impegno immenso. Comprendere la legge del Karma è essenziale per capire questa complessità. In sanscrito, karma significa “azione”: ogni azione genera una conseguenza corrispondente. Tuttavia, non si tratta di una semplice dinamica di premi e punizioni. Bene e male sono concetti relativi; ciò che importa è il Dharma – la rettitudine intesa come progresso spirituale.
Il Dharma guida verso l’evoluzione; l’Adharma ci ferma o ci fa regredire. È un processo formativo, non punitivo: l’anima, nella sua lunga marcia verso la realizzazione, attraversa esperienze necessarie a sviluppare consapevolezza. In ogni nascita, ereditiamo condizioni plasmate dal karma delle vite precedenti. Non possiamo cambiare il destino attuale, ma possiamo cambiare come lo viviamo.
I Guna: le tre forze della natura. Un’altra chiave per la comprensione di noi stessi è il concetto dei Guna, le “qualità” o, più precisamente, le “tendenze” fondamentali della natura:
- Sattva: purezza, armonia, chiarezza.
- Rajas: attività, passione, desiderio.
- Tamas: inerzia, oscurità, ignoranza.
Come afferma la Bhagavad Gita (XIV,5): “Purezza, passione e inerzia—queste qualità, o potente Arjuna, nate dalla Natura, legano saldamente al corpo colui che si è incarnato, l’Indistruttibile!”
I Guna non sono semplici aspetti della natura: ne sono l’essenza. Ogni individuo è una combinazione dinamica di questi tre elementi, che definiscono personalità, comportamenti e inclinazioni spirituali.
Una persona sattvica sarà pacifica e altruista; una rajasica sarà dominata da ambizione e desideri; una tamasica sarà apatica, pigra, inconsapevole. Nessuno possiede un solo Guna: è la loro combinazione e prevalenza a determinare il nostro stato interiore.
Cosmogonia e squilibrio dei Guna. Nella visione vedica, all’inizio era la quiete assoluta: i tre Guna in perfetto equilibrio. Da questo equilibrio è nata la potenzialità dell’universo. Ma, come negli individui, anche l’universo è soggetto al karma. Lo squilibrio originario tra i Guna ha generato il movimento cosmico, manifestandosi dapprima come Shabdabrahman, la vibrazione primordiale, “il suono senza suono”, da cui ha avuto origine la materia.
Lo Yoga mira a ritornare a questa dimensione sottile, partendo dal grossolano verso il causale. Come dice Swami Sivananda: “Condurre una vita virtuosa prepara la mente alla meditazione, ma è solo con la meditazione che si ottiene la realizzazione del Sé.”
Trasformare i Guna interiori. Il lavoro spirituale consiste nel trasformare Tamas in Rajas, e poi Rajas in Sattva. Quando prevale Sattva, la mente è predisposta alla meditazione e allo Yoga. Tuttavia, anche Sattva, sebbene nobile, è un Guna e come tale deve essere superato.
“Quando l’osservatore non vede altro agente che i tre Guna, conoscendo ciò che è al di sopra di essi, egli arriva al Mio Essere.” (Bhagavad Gita, XIV, 19)
Una parabola narrata da uno Swami illustra questo: tre ladri aggrediscono un mercante. Uno vuole ucciderlo (Tamas), l’altro lo lega e lo abbandona (Rajas), il terzo lo libera e lo riaccompagna sulla via (Sattva). Anche Sattva, pur aiutando, è un ladro: ci ruba l’Assoluto legandoci al piacere sottile.
Shraddha: la fede come specchio del proprio essere. I Guna agiscono in ogni sfera della vita: cibo, azioni, conoscenza, piaceri. Ma la loro influenza più decisiva è sulla Shraddha, la fede. La Bhagavad Gita (XVII, 3) afferma: “La fede di ognuno è in accordo con la sua natura, o Arjuna. L’uomo è fatto della sua fede: com’è la sua fede, così egli è.”
La fede riflette il nostro livello karmico e spirituale. Swami Vishnudevananda ci ricorda che non esistono karma buoni o cattivi, ma “karma piacevoli e karma utili”. È proprio attraverso le esperienze dolorose che possiamo accelerare la nostra crescita.
La scala della fede e il cammino della consapevolezza. Come spiega Sri Yogananda, nella Gita (XVII, 4): L’uomo sattvico adora i Deva (le qualità divine), Il rajasico si rivolge a Yaksha e Rakshasa (spiriti della ricchezza e dell’ego), Il tamasico si perde in Preta e Bhuta (fantasmi, spiriti oscuri). La fede, dunque, è anche lo specchio delle aspirazioni interiori. Quando evolve, accelera il percorso spirituale e ci aiuta a ritrovare la connessione con il Divino. Come in una scalata, ogni passo di fede sostiene il passo successivo di coscienza, e viceversa.
“La fede non deve essere cieca. Deve essere una fede consapevole della nostra essenza divina.” — Swami Vivekananda
Lo Yoga ci fornisce strumenti concreti per sperimentare questa verità. La conoscenza teorica è utile, ma non sufficiente: solo la pratica, Abhyasa, rende reale la trasformazione.
“Lascia questo libro e vai a praticare.” — Swami Sivananda
Unione e realizzazione: il fine ultimo del cammino. Come ricorda la Bhagavad Gita (II, 46): “Per colui che conosce il Brahman, i Veda sono della stessa utilità di un piccolo serbatoio d’acqua quando l’alluvione arriva da ogni lato.”.
Persino le scritture sacre diventano superflue quando si realizza direttamente l’unità tra Atman e Brahman. L’ignoranza spirituale è l’unico vero ostacolo. La vera conoscenza non è concettuale, ma esperienziale. Solo la pratica meditativa può operare questa trasformazione e ricondurci a ciò che siamo da sempre: Ananda, la beatitudine divina.

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