C’è un momento che segna l’inizio del vero cammino yogico. Non è un momento definito da una conquista o da un traguardo fisico, ma da un risveglio: la consapevolezza che lo yoga non è confinato al tappetino, alle posture o alle tecniche di respirazione. È un percorso che abbraccia tutta la vita, che offre strumenti per affrontare la sofferenza, comprendere la mente e trasformare il nostro rapporto con l’esistenza. Questo risveglio avviene quando ci permettiamo di essere esposti alla sua complessità, quando smettiamo di cercare risposte rapide e comode e iniziamo a porci domande più profonde.
Gli Yoga Sutra di Patanjali delineano un percorso che non si limita a tecniche o esercizi fisici, ma che si concentra sulla relazione tra l’osservatore e ciò che viene osservato. Il Sutra 2.17 identifica la radice della sofferenza in una confusione percettiva: l’osservatore si identifica con ciò che è comprensibile, schiacciandosi sulle modificazioni della mente (vritti). Questo stato replica quanto espresso nel Sutra 1.4, dove l’osservatore, perso nelle fluttuazioni mentali, si allontana dalla propria natura. È questa identificazione che genera frammentazione, sofferenza e una percezione limitata della realtà.
Lo yoga, tuttavia, non individua mai gli ostacoli in fattori esterni. Ogni limite, ogni afflizione, ogni resistenza che incontriamo è sempre interno alla mente, e proprio per questo è accessibile e trasformabile attraverso il lavoro consapevole. La mente, con le sue dinamiche, crea il cono percettivo attraverso il quale osserviamo e comprendiamo il mondo. Riducendo le afflizioni che gravano su questo cono, non solo modifichiamo la nostra percezione interna, ma cambiamo anche la nostra relazione con ciò che percepiamo all’esterno. In questo senso, il superamento degli ostacoli nella mente coincide con il superamento degli ostacoli che sembrano esistere fuori di noi.
Il Sutra 2.11 ci offre una guida fondamentale in questo processo: la meditazione (dhyana) è il mezzo per ridurre l’impatto delle afflizioni e stabilizzare la mente. Questo non avviene attraverso un’eliminazione forzata dei pensieri o delle distrazioni, ma grazie a un lavoro progressivo che riorienta la mente, rendendola uno strumento al servizio dell’osservatore. Quando la mente si stabilizza, ogni ostacolo perde forza, ogni difficoltà si trasforma in un’opportunità di apprendimento.
Il Sutra 2.15 amplia ulteriormente questa visione, invitandoci a vedere la sofferenza come una parte integrante dell’esperienza umana. Non è un nemico da combattere, ma un aspetto della realtà che, se compreso, può diventare un terreno di pratica e trasformazione. Nasce dall’attaccamento, dall’impermanenza e dalla distorsione percettiva. Lo yoga non elimina la sofferenza, ma ci insegna a utilizzarla per sviluppare una sensibilità più profonda, per espandere il nostro cono percettivo e per vivere con maggiore equilibrio.
In questo contesto, il concetto di asana assume un significato che va ben oltre quello che comunemente gli viene attribuito. L’etimologia stessa della parola asana ci riporta all’idea di un posizionamento stabile e confortevole, ma questa stabilità non è confinata al corpo. Asana è, innanzitutto, un posizionamento della mente, un equilibrio mentale che permette di donare chiarezza e confortevolezza alla mente stessa. È in questo stato che la mente trova la capacità di affrontare le afflizioni e di stabilizzarsi. Il corpo, in questo senso, può diventare uno dei livelli in cui questa stabilità si manifesta, ma non è il centro né il limite del concetto. Asana non è una postura: è uno stato che permea ogni livello di pratica, dal corpo alla mente, e che non può essere ingabbiato in una mera replica fisica, come spesso accade nella tradizione moderna. Nel suo senso più profondo, asana rappresenta la capacità di stabilizzare e rendere confortevole ogni aspetto della nostra esperienza, a partire dalla mente.
Il percorso culmina nel Sutra 2.26, dove Patanjali descrive la discriminazione costante (viveka khyati) come il mezzo per liberare l’osservatore dalla sofferenza. Questa discriminazione non è il risultato di un evento isolato, ma il frutto di un lavoro consapevole che integra teoria e pratica. È solo attraverso questa integrazione che l’osservatore può distinguere tra ciò che è transitorio e ciò che è permanente, tra ciò che osserva e chi osserva.
Quindi, Quando iniziamo a fare yoga? Quando accettiamo che lo yoga non è solo tecnica, ma un cammino che abbraccia la mente, il corpo e l’esistenza intera attraverso una serie di rappresentazioni che toccano l'intera umana essenza.
Il Sutra 2.11 ci ricorda che la meditazione è il mezzo per ridurre le afflizioni; il Sutra 2.15 ci invita a vedere la sofferenza come una possibilità di apprendimento; e il Sutra 2.26 ci guida verso una discriminazione che liberi l’osservatore. L’asana, intesa come posizionamento mentale, rappresenta un equilibrio che ci permette di vivere questa complessità con apertura e presenza.
Lo yoga, in definitiva, è un’arte e una scienza che ci invita a riconoscere che ogni momento, ogni sofferenza, ogni domanda è un portale verso una comprensione più profonda di noi stessi e dell’esistenza.
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