Come la controcultura ha trasformato una disciplina ascetica in un prodotto da palestra. Articolo di Pier Paolo Bottin
Quando Carl Gustav Jung introdusse lo yoga nella cultura europea, lo fece con l’atteggiamento dell’esploratore che riconosce nella disciplina orientale non tanto una ginnastica esotica, quanto un sistema simbolico capace di dialogare con l’inconscio collettivo. Lo yoga era per lui un linguaggio dell’anima, un ponte tra conscio e inconscio, un percorso di individuazione. Ma quell’ingresso solenne e rispettoso nel pensiero occidentale fu solo il preludio a una mutazione radicale. Nel giro di pochi decenni, ciò che per secoli era stato via ascetica, sadhana, strumento per trascendere il sé e dissolvere l’ego, sarebbe stato trasformato in tutt’altro: un rito di consumo, una terapia soft, un simbolo di appartenenza alla cultura del benessere. La svolta avvenne negli anni Sessanta, nel clima infiammato di contestazione e liberazione che segnò un’intera generazione.
Il Sessantotto fu più di un movimento politico: fu un terremoto antropologico. Nacque come ribellione contro l’autorità, l’ordine patriarcale, la disciplina, ma presto si trasformò in un culto della spontaneità, della liberazione personale, del corpo come territorio politico e sacrale. Fu in quel contesto che lo yoga, arrivato in Europa come sapere iniziatico, venne riscritto per adattarsi ai nuovi bisogni di massa: bisogno di sciogliere le tensioni, di ritrovare se stessi, di esplorare l’interiorità senza sottomettersi ad alcuna struttura gerarchica. L’idea originaria di disciplina, con la sua pazienza monastica e la sua fatica quotidiana, risultava incompatibile con la retorica della liberazione immediata. Così la pratica ascetica si piegò al nuovo spirito dei tempi, diventando uno strumento di “esperienza” più che di trasformazione.
Il risultato fu un ibrido che oggi chiamiamo, senza pensarci troppo, “yoga”. Un fenomeno di massa fatto di tappetini colorati, centri wellness e influencer spirituali, dove la postura sostituisce la ricerca, la respirazione prende il posto della trascendenza e il corpo diventa non più veicolo di dissoluzione dell’ego ma terreno di estetica, performance e piacere. La spiritualità orientale, spogliata della sua austerità e del suo carattere iniziatico, venne ridotta a rituale rassicurante per individui disorientati, incapaci di sostenere la frizione tra dolore e crescita. L’Occidente, figlio del Sessantotto, trasformò il sentiero dello yoga in un percorso terapeutico senza meta, adatto a una società che voleva sentirsi libera ma non disciplinata, trasformata ma senza sacrificio.
Dietro lo yoga occidentale, dunque, non c’è soltanto un fraintendimento culturale: c’è una precisa genealogia storica. È figlio del ’68 non solo perché nasce nello stesso clima, ma perché ne incarna perfettamente le contraddizioni. Come il movimento studentesco, predica liberazione ma teme l’autorità; come la controcultura psichedelica, promette espansione di coscienza ma rifiuta le strutture che la renderebbero stabile; come le comuni e le utopie dell’epoca, confonde il momento con il cammino, la sensazione con la conoscenza. Il paradosso è che, nel tentativo di liberarsi dalle gabbie del passato, ha costruito nuove gabbie più sottili: quelle dell’eterna ricerca di benessere, dell’ossessione per il corpo e dell’illusione che basti “sentirsi meglio” per essere trasformati.
Così oggi milioni di occidentali praticano yoga convinti di partecipare a un’antica tradizione spirituale, mentre in realtà vivono un rituale moderno nato nel dopoguerra e modellato sulle esigenze della società dei consumi. Uno yoga che non pretende più nulla, che non chiede dedizione né silenzio, che consola invece di trasformare. È il riflesso diretto di quella stagione del Sessantotto che fece della libertà un assoluto e della disciplina un nemico, dimenticando che senza disciplina non c’è libertà, ma soltanto impulso.
Riconoscere questa genealogia non significa disprezzare chi pratica yoga oggi. Significa capire che la forma in cui lo conosciamo è il prodotto di un’epoca precisa, di un bisogno collettivo, di un compromesso storico tra Oriente e Occidente, tra ascesi e comfort, tra spiritualità e mercato. Lo yoga occidentale non discende dai rishi vedici ma dai figli del maggio francese; non è il frutto di millenni di sadhana ma di pochi decenni di controcultura. È figlio del ’68: bello e fragile, ribelle e addomesticato, rivoluzionario e commerciale al tempo stesso. Ed è solo riconoscendo questa origine che possiamo finalmente smettere di confonderlo con ciò che non è.
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