venerdì 10 ottobre 2025

Lo Yoga non è più un percorso di emancipazione spirituale

Negli ultimi anni c’è stato un gran fiorire di nuovi stili nello Yoga che propongono l’esecuzione dinamica degli asana (Vinyasa, Flow Yoga); dopo secoli e secoli in cui nessuno aveva mai sentito la necessità di innovazioni o di cambiamenti nello Yoga classico di Patanjali, si affermano dunque queste scuole che non colgono l’importanza dell’immobilità della postura.

Senza negare l’utilità delle esecuzioni dinamiche, se usate come pratiche preparatorie o di riscaldamento (si pensi al saluto al sole), questi nuovi stili sembrano ignorare che l’immobilità costituisce il primo requisito dell’asana secondo lo Yoga Sutra (2,46).

La parola ‘Sthira’ che usa il testo per definire questa condizione vuol dire ‘solido’, ‘compatto’, ‘immobile’; l’asana, magari in una variante semplificata, è quindi sempre una posizione statica, una condizione che non è così semplice da mantenere a lungo come si crede perché l’immobilità non appartiene alla natura dell’uomo, per lo meno nello stato di veglia. L’uomo è fatto per agire, per muoversi, per parlare, per relazionarsi e si trova pertanto a essere impegnato in una condizione insolita e, a volte, sgradevole per lui.

L’asana rappresenta quindi la conquista dell’immobilità e dell’imperturbabilità durante la sua esecuzione, ma se l’asana è un dettaglio dello Yoga di Patanjali (un dettaglio importante, naturalmente), l’immobilità (tra virgolette) costituisce invece la struttura portante, il filo conduttore stesso dell’Ashthanga Yoga, che attraversa e unisce in un tutto unico i suoi otto anga fino a farne un corpo omogeneo; a livello degli asana questa ‘immobilità’ si manifesta nella fisicità della postura, ossia nell’immobilità del corpo; nell’anga successivo, il pranayama, si esprime a un livello più sottile, con la sospensione del respiro, ottenuta allungando le pause fisiologiche della respirazione.

Nel pratyahara (quinto anga) la stessa ‘immobilità’ consisterà nell’introspezione, cioè nell’inibizione della propensione naturale a seguire gli impulsi dei sensi, che trascinano l’attenzione verso il mondo esterno.

Nel processo di meditazione che comprende gli ultimi tre anga, dharana, dhyana e samadhi, l’immobilità in questione riguarderà la mente: il Sutra dice che in questa condizione essa diventa priva, per così dire, della propria natura, che è quella di osservare, conoscere, giudicare, sperimentare. La mente abbandona in questa fase ogni pensiero e concentra l’attenzione su un oggetto che rappresenta simbolicamente la nostra vera natura, la nostra realtà spirituale. Realtà che si palesa solo quando inibiamo il complesso psicofisico che fa capo al nostro ego, quando abbandoniamo il nostro abituale modo ego-centrico di pensare, di relazionarci, di comportarci.

L’abbandono (temporaneo) delle nostre caratteristiche individuali, necessario all’esperienza del samadhi, va preparato inoltre con la pratica di yama e niyama, i primi due anga che costituiscono l’etica dello yogin, dove qui l’immobilità consiste nel controllo del comportamento, nel non seguire passivamente, nel non compiacere sempre e comunque il nostro ego.

La deviazione dallo Yoga classico pare dovuta, dunque, alla mancata considerazione dei requisiti fondamentali che un asana deve presentare, oltre che dall’incomprensione di ciò che rappresenta l’Ashthanga Yoga. Così la prospettiva del praticante non è più la liberazione (kaivalya), lo Yoga non è più un percorso di emancipazione spirituale, ma una pratica che guarda al fitness o alla fisioterapia.

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