venerdì 16 maggio 2025

Carnets d'un moine errant - Mémoires - Matthieu Ricard - riassunto

"Je vis au jour le jour,  Si il ya une volonté, il y a un chemin." - Matthieu Ricard  

"Se tu desideri qualche cosa con tutto il tuo cuore e metti tutto in opera per ottenerlo, senza sosta, tu troverai invariabilmente un mezzo per realizzare il tuo sogno"  -   Jane Goodal

Matthieu Ricard, noto anche come "l'uomo più felice del mondo", ha trascorso quasi 25 anni sull'Himalaya, senza nessun contatto con il mondo occidentale in cui era nato. A 26 anni, abbandonò gli studi di biologia molecolare e intraprese la ricerca spirituale sotto la guida dei suoi maestri buddisti, dall'altra parte del mondo.  Dopo il successo del suo libro "Il monaco e il filosofo" è ritornato sulla scena occidentale  per poter fare qualcosa di utile. Il successo continuo dei suoi progetti, dopo l'abbandono del suo ritiro himalayano, sembra averlo ancorato alla terra e allontanato dall'illuminazione.

Con questo libro Carnets d'un moine errant - Mémoires, Matthieu Ricard ci presenta l'autobiografia della sua vita.  Una vita ricca e intensa, costituita essenzialmente dalle diverse tappe: 

  • 1- La ricerca scientifica fino a diventare dottore in biologia molecolare (all'università è stato anche fidanzato con Christine Machenaud), 
  • 2 - La ricerca spirituale, abbandona l'università e parte per l'India e diventa monaco buddhista, 
  • 3 - La notorietà ottenuta con la pubblicazione del libro "Il monaco e il filosofo", un dialogo tra Oriente e Occidente, scritto insieme al padre, il filosofo ateo Jean-François Revel (Ricard),  
  • 4 - La creazione dell'associazione Karuna Shechen per aiutare le popolazioni dell'universo Himalayano (Nepal, Bhutan, Tibet, India del Nord),
  • 5- La sua attività come scrittore e fotografo pubblicando decine di libri, 
  • 6- Il suo notevole contributo al rapporto tra scienza e meditazione, in quanto si è prestato a tutta una serie di esperimenti scientifici per validare i benefici della meditazione, dopo la creazione dell'Istituto Mind & Life da parte del Dalai Lama,  
  • 7- il suo impegno a preservare le principali opere e testi della cultura tibetana.   

Adesso proverò a riportare i momenti salienti della sua autobiografia.  

Fu la visione del video di Arnauld Desjardins (1925-2011) -  Messages des tibetains che convinse Matthieu, che provava un sentimento di vuoto interiore, ad andare a cercare i maestri tibetani.  Quello che colpì Matthieu fu soprattutto l'umiltà di questi maestri. In particolare dei suoi due grandi maestri Kangyour Rinpoché, e Dilgo Khyentsé Rinpoche, maestro del Dalai Lama e uno dei più venerati maestri tibetani.

Il padre è il filosofo Jean-François Revel (Ricard) e la madre è Yahne Le Toulmelin, una delle più grandi pittrici surrealiste francesi. Matthieu ha quindi vissuto in un ambiente molto ricco culturalmente: i genitori conoscevano  Coucteau, Breton, Bejart, Strawinsky, ecc... lo zio Yves Le Toumelin è stato uno dei pionieri della navigazione, l'amico André Fatras è stato uno dei pionieri dello foto degli animali e lo ha introdotto nel mondo della fotografia.  Comunque, Matthieu sottolinea spesso nelle persone, la differenza tra genialità e qualità come essere umano, e la mancanza di coerenza tra pensiero e atteggiamento.

I suoi genitori divorziano quando lui aveva 18 anni. Dopo il divorzio la madre, Yahne Le Toulmelin,  intraprende un viaggio in India e conosce anche lei i principali maestri buddhisti tibetani, e diventa monaca.  La sorella di Mattieu; Eve, a 43 anni sviluppa la malattia di Parkinson.

Matthieu diventa monaco nel 1979 a 33 anni e nonostante le affinità con donne che ha incontrato, non  ha mai avuto l'idea di abbandonare i voti  da monaco. 

Il Tibetologo Gene Smith, direttore dell'ufficio indiano della Biblioteca dei Congressi degli Stati Uniti,  apportò un contributo notevole nella salvaguardia e  la preservazione dei testi tibetani e divenne amico di Matthieu.

Jean-François Revel  con La grande Parade nel 2000 - articolo o libro  di denunciava la sottomissione degli intellettuali francesi ai regimi staliniani e maoisti.  

Bernard Benson discepolo di Kangyour Rinpoché, regala delle terre in Dordogna ai monaci della tradizione Nyingma (Chanteloube) e della  tradizione Kagyu e proprio in Dordogna a Peyzac-Le Moustier nasceranno due dei più grandi monasteri tibetani che si ispirano a queste due tradizioni. La madre di Matthieu Ricard si installa in questa regione.

Nel 1980 c'è l'incontro con il Dalai Lama ( di cui diventa l'interprete per quasi trenta anni) e subito dopo l'ingresso per la prima volta in Bhutan con Dilgo Khyentsé Rinpoché, in questo Paese molte persone sulle altitudini, non sono vegetariani. Nel 1969 ci sono stati problemi interni in Bhutan.  Morte di Dilgo Khyentsé nel 1992 a Thimphou  in Bhutan. 

Nel 2000, insieme a  Rabjam Rinpoché Matthieu crea l'associazione laica Karuna Shechen . Attualmente l'associazione aiuta circa 400.000 persone nell'universo himalayano e la gestione si basa su un approccio nuovo, definito cerchio delle competenze. 

Poi si prodiga nella creazione di archivi delle opere di Dilgo Khyentsé, e dei maestri tibetani; furono ritrovati e ri-stampati 400 volumi (supporti indispensabili per la trasmissione degli insegnamenti) che attualmente si trovano sul sito della Fondation Tsadra e sul sito del BDRC (Buddhist Digital Resource Center) formato da E.  Gene Smith.  Molte biblioteche furono bruciate durante l'occupazione cinese e molti testi sacri gettati nelle riviere.  

Nel suo libro Cammini spirituali  e Meditazione sono riportati i testi tibetani (tradotti in francese)  che hanno accompagnato il suo percorso spirituale in questi quaranta anni.  

E' stata creata anche la Tsering Art School presso il monastero Shechen a Katmandhou, che permette di dare continuità all'arte sacra;  Pittura, scultura  e musica  stabiliscono una corrispondenza tra le forme, i simboli e il cammino spirituale. Le danze sacre, tcham, costituiscono per i monaci una meditazione e una condivisione spirituale con la comunità laica che vive in simbiosi con il monastero. L'origine delle danze sacre risale a Padmasambhava  che portò il buddhismo in Tibet nell'VIII, IX secolo. Monaci dansanti  è un libro di foto su questo tema pubblicato nel 1999.

Nel suo testo parla anche delle Reincarnazioni, dei vari riconoscimenti di persone da parte dei Tulkou a cui ha assistito. Il riconoscimento di Dilgo Khyentsé Yangsi come la reincarnazione di Dilgo Khyentsé avvenne nel 1997 di fronte a 15000 persone tra cui Richard Gere,   Michael Aris, lo sposo di Ang San Su Ki.

Nel 1995, Matthieu incontra Michael Hoffman, direttore di Aperture una famosa casa editrice di foto, che lo convince a pubblicare le foto scattate nei suoi trenta anni in Oriente. Pubblica tantissimi libri di fotografie tra cui Monaci dansanti, L'Esprit du Tibet e organizza diverse mostre fotografiche. E inizia la collaborazione con improtanti fotografi francesi come Hervé de La Martinière. Henry Cartier-Bresson scrive di lui: " La vita spirituale di Matthieu e la sua macchiana fotografica sono un tutto, da là sorgono immagini fugaci e eterne".  All'età di 90 anni, Cartier-Bresson aderisce al buddhismo. Le foto di Matthieu riprendono le bellezze naturali e sono un messaggio di speranza, di pace per evitare di cadere nella sindrome del mondo cattivo, L'Express pubblicò un articolo su di lui definendolo "Reporter della pace".  Nei suoi album sono riportati anche molti paesaggi del Tibet, il luogo con cui prova una più profonda affinità.  

Matthieu ha passato cinque anni ad effettuare delle ricerche insieme a Daniel Batson per sostenere la che il vero altrusimo esiste ed è la solo risposta pragmatica alle sfide del nostro tempo e alle Fake News dei social media.  Ne è scaturito un libro Plaidoyer pour l'Altruisme,  poi trasformato in un documentario Verso un mondo altruista  prodotto da Jean Pierre e Cecile Devorsine per Arte nel 2010. 
A questo testo, ne è seguito un altro Playdoier pour les animaux

Matthieu si ritrova con Christophe André e Alexander Jolien in Dordogna nel 2005 (dopo essersi conosciuti in Svizzera)e da questi incontri scaturirà il libro Trois amis en quete de sagesse, pubblicato nel 2016. A cui ha fatto seguito A nous la liberté!

Con la creazione dell'istituto Mind and Life, Matthieu incontra Wolf Singer, eminente neuroscienziato, con cui studia il tema della coscienza per otto anni, e questi incontri daranno vita al libro Cervello e meditazione. La scittura per Matthieu non è un dono naturale, ma scrive per esprimere più chiaramente possibile le idee che lo hanno arricchito interiormente e per condividerle.

Dal 2000, dopo aver ottentuo il diploma di Guéshé, dottore in filosofia buddhista, all'Istituto Mind & Life  inizia a confrontarsi sul Rapporto meditazione e scienza, con vari scienziati quali Francisco Varela, Richard Davidson, Daniel Goleman, Paul Ekman, ecc.  Nel 2010 inizia anche a fare da cavia,  insieme a Yongey Myngyour  Rinpoché,  agli esperimenti IRM sulla morfologia e la plasticità del cervello. Riprendendo questi studi, Matthieu Ricard è stato definito "L'uomo più felice del mondo".

Con Tania Singer e Antoin Lutz si confronta sul rapporto tra empatia e compassione.

Nel 2006  Gael Chételat e Antoine Lutz  lanciano uno studio pilota sul cervello di meditanti di lunga data, che poi darà vita al progetto europeo Silver Santé. Questo studio attestava che il cervello dei meditanti presentava delle caratteristiche equivalenti a quello di persone con 15 anni di meno.   

La filosofia buddhista Pramana o "della conoscenza valida" attesta una relazione tra il buddhismo e la scienza, All'incontro della Società delle neuroscienze nel 2005 a Washington, al discorso di apertura del  Dalai Lama erano presenti trentamila scienziati.

Nel 2008 si svolgono i giochi olimpici a Pechino, Sarkozy si confronta con Matthieu Ricard sulla situazione in Tibet, Il Dalai Lama va in visita in Francia, e di conseguenza  il visto per il Tibet a Matthieu Ricard viene rifiutato. 

Nella sua auto-biografia  Matthieu Ricard parla anche degli eroi anonimi della compassione:  Gurmit, Sanjit Bunker Roy Fazlo Abed che quotidianamente si impegnano per ridurre le sofferenze agli altri esseri umani.  Il regista Yann Arthus Bertrand realizza su questa tematica il film Human.  

Matthieu Ricard diventa una notorietà in Francia, ed è  invitato a vari programmi televisivi, viene invitato diverse volte al Forum economico mondiale di Davos in Svizzera, dove si iniziò a parlare del Tasso di felicità netto.  Tema poi ripreso in ambito delle Nazioni Unite.  Ad ogni conferenza è circondato da persone che gli chiedono consigli, di firmare un libro, che gli dicono: "I vostri libri mi hanno cambiato la vita". E subisce quello che lui chiama il supplizio della notorietà: "Si ha l'impressione di non appartenersi più".   E durante questi incontri e conferenze conosce tantissimi personaggi come ad esempio John Kabat Zinn  e Pierre Rabhi.

Mathieu insegna al mondo come essere felici e come mostrare empatia, gentilezza e compassione gli uni verso gli altri. Lo ha fatto, per citare alcuni esempi, attraverso una serie di libri, discorsi e conferenze ( tra cui presentazioni per TED, che hanno totalizzato oltre sei milioni di visualizzazioni); attraverso attività di consulenza con il Mind & Life Institute, un'organizzazione no-profit presieduta dal Dalai Lama; attraverso studi con neuroscienziati per evidenziare l'effetto trasformativo che la meditazione ha sul cervello; e attraverso centinaia di progetti umanitari.  

Vedi :  

  • https://www.youtube.com/watch?v=XE1dGVTUU4o   Sagesses Bouddhistes Arnaud Desjardins part 1
  • https://www.youtube.com/watch?v=dHAslHesD7Q      Sagesses Bouddhistes Arnaud Desjardins part 2  (alla fine del video sono presentati i libri che ha scritto)
  • https://www.youtube.com/watch?v=ffqGX9133SY      
  • https://www.youtube.com/watch?v=Q0-YX6u5R0A   
  • https://www.youtube.com/watch?v=wXVpaW2SDl0
  • https://www.youtube.com/watch?v=swF3V114-Ss
  • https://amis-hauteville.fr/fr/    Hauteville è l'ashram creato da Arnaud Desjardins in Ardèche, il suo maestro è stato Swami Pra-jnanpad 
  • Yann Arthus-Bertrand  - HUMAN  https://www.youtube.com/watch?v=vdb4XGVTHkE
  • Yann Arthus-Bertrand - DJI Masters –    https://www.youtube.com/watch?v=cqdsdJzoRyU 

mercoledì 14 maggio 2025

E' morto José Alberto Mujica ex Presidente dell'Uruguay

 L'ex presidente dell'Uruguay José “Pepe” Mujica è morto, secondo quanto annunciato dall'attuale leader del Paese sudamericano Yamandu Orsi in un post su X. Mujica, spesso chiamato con il soprannome Pepe, è stato presidente dal 2010 al 2015 e aveva 89 anni. “Grazie per tutto quello che ci hai dato e per il tuo profondo amore per il tuo popolo”, ha scritto Orsi nel post. Mujica, 89 anni, soffriva da tempo di un cancro all'esofago che si era esteso ad altri organi e a gennaio aveva annunciato che stava morendo. Anche se le cure lo avevano reso debole e a malapena in grado di mangiare, Mujica era riapparso sulla scena politica nell'autunno del 2024, facendo campagna elettorale per la competizione nazionale che ha portato Orsi alla presidenza.    


José Alberto Mujica Cordano, nato a Montevideo nel 1935, da figli di immigrati baschi e liguri, era entrato in parlamento per la prima volta come deputato nel 1995.  Si guadagnò la fama di "presidente più povero del mondo" per aver donato gran parte del suo stipendio in beneficenza, durante la sua presidenza 2010-2015. Nel maggio 2024 gli e' stato diagnosticato un cancro all'esofago, che in seguito si e' diffuso al fegato. Sua moglie Lucia Topolansky in settimana aveva detto che era in cura con cure palliative. L'uomo che ha reso l'Uruguay un modello di politica progressista legalizzando l'aborto, il matrimonio gay e l'uso di cannabis ricreativa, ha fatto campagna per la sinistra fino alla fine.

In un'intervista del novembre 2024 con l'AFP, ha descritto la vittoria presidenziale del suo erede politico, l'insegnante di storia Orsi, come "una ricompensa" alla fine della sua carriera. Il politico dalla voce schietta e dai capelli bianchi era un feroce critico della cultura consumistica. Come presidente ha messo in pratica le sue parole rifiutando attivamente le apparenze della carica.   Partecipava agli eventi ufficiali in sandali e continuava a vivere nella sua piccola fattoria alla periferia di Montevideo, dove il suo bene più prezioso era un Maggiolino Volkswagen del 1987.  Negli anni '60, ha co-fondato il movimento di guerriglia urbana marxista-leninista Tupamaros, che iniziò derubando i ricchi per dare ai poveri, ma in seguito intensificò la sua campagna con rapimenti, attentati e omicidi. Durante quegli anni, Mujica visse una vita di eroismo. Riportò numerose ferite da arma da fuoco e partecipò a un'evasione di massa dal carcere. Ma quando i Tupamaros crollarono nel 1972, fu ricatturato e trascorse l'intero periodo della dittatura uruguaiana (1973-1985) in carcere, dove fu torturato e trascorse anni in isolamento. Dopo il suo rilascio, si dedicò alla politica e nel 1989 fondò  il Movimento di Partecipazione Popolare (MPP), il membro più numeroso della coalizione di sinistra Fronte Ampio. Eletto al Parlamento nel 1995, divenne senatore nel 2000 e poi ministro dell'Agricoltura nel primo governo di sinistra in Uruguay. Svolse un solo mandato presidenziale di cinque anni, in linea con i limiti di mandato previsti in Uruguay.

Il perdono

 L’animo forte perdona, e la facoltà di perdonare è il privilegio di chi ha subito ingiustizie” (K. Gibran).

Quando riesci a vedere tutte le cause che hanno portato alle azioni di qualcun altro, il perdono nasce spontaneamente” (Thich Nhat Hanh)

Il perdono libera l’anima e cancella la paura”. (Nelson Mandela)

"Perdona gli altri, non perché essi meritano il perdono,  ma perché tu meriti la pace” (Buddha)

Il perdono è un atto di grande forza interiore. Non significa dimenticare o giustificare il male subito, ma liberarsi dal peso della rabbia e risentimento: si sceglie di non lasciare che l’errore determini il proprio presente e futuro.

Il perdono è un atto profondo che va ben oltre il semplice “dimenticare” o “lasciare andare”. E’ un processo che coinvolge la nostra mente, il nostro cuore e, sorprendentemente, anche il nostro corpo.

Le ricerche psicologiche e neuroscientifiche ci mostrano che il perdono ha il potere di trasformarci, di liberarci da pesi inutili, migliorando non solo il benessere emotivo, ma anche la nostra salute fisica.

La Self Compassion ci aiuta a comprendere come il perdonare non significhi semplicemente smettere di essere arrabbiati, infatti ci apre ad un cambiamento profondo nel nostro modo di vedere anche chi ci ha ferito. Non è facile, e spesso richiede tempo, ma è un passo fondamentale per guarire e costruire relazioni più sane. Il perdono diviene medicina per il cuore e la mente, ci permette di vedere il passato con una comprensione più ampia e di vivere il presente più serenamente.

Lo psicologo Frederic Luskin ha dimostrato, in studi sui benefici del perdono, che chi riesce a perdonare tende a sperimentare meno stress e ansia, migliorando la propria salute cardiovascolare e il sistema immunitario; il perdono è visto come un atto terapeutico che aiuta a superare i conflitti e preservare le relazioni, ed è perciò funzionale per la salute psicofisica. 

Infine, perdonare ci restituisce il controllo sui nostri pensieri e sulle emozioni, impedendo agli altri di influenzare il nostro stato d’animo: riconoscere che il potere di cambiare il nostro stato emotivo sia nelle nostre mani è uno degli aspetti più liberatori del perdono!   

I sei nemici - Esserci

I sei nemici.
La gente ama trovare il nemico all’esterno e incolparlo per i loro problemi. 
Ma si dice che l’essere umano abbia solo sei nemici: lussuria, rabbia, invidia, egoismo, orgoglio, illusione.
Se conquisterai questi nemici e li sconfiggerai dentro il tuo cuore, non avrai nemici esterni. 
Una volta padroneggiato i tuoi vizi, vedrai che intorno a te ci saranno solo amici.
 
 
Esserci.
Come sarebbe bello capire il valore delle persone che abbiamo intorno...
Diamo per scontato tutto. Durante la strada siamo seduti accanto, ma ci facciamo distrarre dalle luci colorate,  e non ci accorgiamo che quell’esserci uno per l’altro è importante.
Senza clamori. Un imperfetto, prevedibile, ripetitivo esserci.
Magari pensavamo che avremmo dovuto combinare o dimostrare chissà cosa, e invece bastava starci. 
A volte anche senza sapere cosa dirsi o cosa fare.

Acceptance of the Profound Dharma - Matthieu Ricard

Matthieu Ricard ha offerto un insegnamento su “L'accettazione del Dharma profondo”.
In questi insegnamenti, Matthieu ha parlato degli insegnamenti sulla pazienza, che sono delineati nel nono capitolo del Sūtra del Re del Samādhi. Questo testo è spesso citato negli scritti buddhisti per le sue profonde affermazioni, soprattutto sulla natura del vuoto.  Vedi link:   https://www.youtube.com/watch?v=QUjf_lyUf0w       https://www.84000.co/     

  Matthieu condivide alcuni consigli ricevuti dai suoi maestri  per comprendere e praticare la pazienza, una delle sei perfezioni. La perfezione della pazienza si fonda sulla comprensione del Dharma, in particolare sull'accettazione dei profondi insegnamenti sulla natura ultima delle cose. Ci permette di evitare l'irritazione, la rabbia e la depressione quando ci troviamo di fronte a difficoltà, sofferenze e danni momentanei, ma ci dà anche lo spazio mentale ed emotivo per vedere ciò che è veramente importante nella nostra vita. Non si tratta di diventare impermeabili e passivi, ma di trovare la libertà di agire positivamente e con apertura compassionevole verso i bisogni degli altri.   Punti salienti dell'intervento:

[5:40 ] Matthieu Ricard inizia a condividere le riflessioni sul Sutra del Re del Samadhi.
[7:13] Spiega il significato di Samādhi: è acquisire una conoscenza definitiva del significato profondo del Dharma.  Il samadhi rivela le qualità umane come purezza, apparenza e vacuità
Le Sei Perfezioni (Pārāmita) sono: generosità, etica, pazienza, perseveranza entusiastica, concentrazione e saggezza e sono il condensato di quella che viene definita la parte fondamentale dell'addestramento di chi vuole ottenere la mente dell'illuminazione (Bodhicitta).

[9.7]   I  bodhisattva dovrebbero sapere che tutti i fenomeni sono come illusioni. Dovrebbero sapere che tutti i fenomeni sono come sogni, come miraggi, come echi, come illusioni ottiche, come la luna sull'acqua, come allucinazioni, come riflessi e come spazio.Una volta acquisita questa consapevolezza sono abili nella pazienza del Dharma profondo. Coloro che hanno la pazienza del Dharma profondo non hanno desiderio per nessun fenomeno che causa desiderio, non hanno rabbia verso nessun fenomeno che causa rabbia e non hanno ignoranza riguardo a nessun fenomeno che causa ignoranza. Perché non vedono quel fenomeno, non lo percepiscono. Non vedono i fenomeni e non percepiscono i fenomeni di ciò che è desiderato, il desiderio o il desiderante; di ciò che fa arrabbiare, l'ira o colui che è arrabbiato; né di ciò di cui si è ignoranti, l'ignoranza o colui che è ignorante. Poiché non vedono e non percepiscono quei fenomeni, non hanno desiderio, non hanno rabbia, non hanno ignoranza, la loro mente non regredisce e riposa nella meditazione. Sono privi di elaborazione concettuale.

[10:09] Tutti i fenomeni sono uguali nel senso di apparire e di essere privi di esistenza intrinseca.
[14:15] Si concentra sul nono capitolo e fa riferimento al versetto 9.2: l'uguaglianza rivelata della natura di tutti i fenomeni ha dato vita a tutti i tathāgata, gli arhat, i buddha perfettamente illuminati.   
[19:00] Tre episodi del girare della ruota del Dharma sono riassunti in una frase de La perfezione della saggezza in venticinquemila righe, al punto 4.16.
[23:05] Questa frase racchiude tutti gli insegnamenti del Buddha in modo molto breve e potente.
[20:05] La rinuncia è spesso fraintesa; non si tratta di rinunciare a tutto ciò che è veramente buono nella vita, ma di rinunciare alla causa della sofferenza. È come un uccello che esce dalla gabbia.
[31:19] Descrive i tre tipi di pazienza o sopportazione.
[34:28] Sopportare la sofferenza significa trasformarla in un catalizzatore per impegnarsi profondamente nella pratica del Dharma, che alla fine porrà rimedio alle cause più profonde della sofferenza.

 [Ci sono molti modi per affrontare gli ostacoli: vederli come un'opportunità per esercitarsi. Se qualcuno ci rimprovera, pratichiamo la pazienza. Se siamo avari, pratichiamo la generosità come antidoto all'avarizia... in un certo senso, trasformiamo gli ostacoli in realizzazioni.
[56:27] A proposito della pazienza nel cammino, Milarepa disse: "All'inizio non arriva nulla,
Nel mezzo nulla rimane,  Alla fine nulla se ne va
”.  
Spesso c'è un approccio superficiale,  per i veri progressi occorre tempo: dieci anni, etc.  bisogna testare il cambiamento.  Non è facile cambiare e il cambiamento è graduale.
La pratica della compassione e della presa di consapevolezza della vacuità devono crescere insieme.

[1:05:30] La saggezza della vacuità e i mezzi abili della compassione sono come due ali di un uccello. Devono crescere e coltivarsi allo stesso tempo.
[1:07:38] Conclude leggendo il verso de “La pazienza del Dharma profondo”:
                     “I saggi raggiungono l'illuminazione mettendo in pratica
                      Il samādhi di dimorare nell'amore,
                      di dimorare nella compassione, di agire con gioia,
                      e con costante equanimità verso tutte le esistenze”

                      “Raggiungono l'illuminazione che è pace, priva di miseria.
                      Percepiscono gli esseri afflitti dalla malattia e dall'invecchiamento.
                      Hanno compassione verso di loro,
                      e danno loro gli insegnamenti della verità ultima. [9.72] 

Domande e risposte. [1:09:50] Se accettiamo tutto, come possiamo agire per migliorare l'ambiente?
Risposta: L'accettazione di ogni cosa è un concetto ambiguo,  il presente è questo, adesso e ora ed è il risultato del karma, si deve cercare di rimuovere le cause del karma.  Il tuo comportamento attuale può alleviare o aumentare la sofferenza.   Prima guarda dentro te stesso,  comincia ad amare te stesso e poi occupati degli altri.  La pazienza non è un'allegoria di un tappetino....

Risorse:
Per saperne di più sulle attività di Matthieu, compresi i suoi insegnamenti, i suoi libri e i suoi sforzi umanitari, visitare: www.matthieuricard.org.   Karuna-Shechen: www.karuna-shechen.org
Per accedere al nono capitolo de Il Re di Samādhis Sūtra: ...

  • https://84000.co/translation/toh127#U
  • https://84000.co/translation/toh127#UT22084-055-001-chapter-9
  • https://84000.co/translation/toh127#UT22084-055-001-797
  • https://84000.co/translation/toh9#UT22084-026-001-948
  • https://84000.co/translation/toh127#UT22084-055-001-802  (9.5)

Testi citati da Matthieu Ricard:

  • Patrul Rimpoche, The hearth treasure of the Enlightned ones
  • Jigme Lingpa, Treasury of Precious Qualities  

Patanjali e lo Yoga - Mircea Eliade

Il termine yoga serve a definire tutte le tecniche di ascesi e di meditazione. Esistono anche dei tipi di yoga non bramanici come quello buddhista e jainista.  Yug significa legare e lo scopo è unificare lo spirito, di abolire la dispersione e gli automatismi che caratterizzano la coscienza profana, e il presupposto è la rottura dei legami che uniscono lo spirito al mondo, Per le scuole devozionali (mistiche) questa unificazione, non fa che precedere la vera unione tra l'anima umana e Dio. 
Lo yoga  ha una struttura iniziatica e si può iniziare il percorso solo con un maestro (guru). Lo yogi si sforza di morire a questa vita, per rinascere a un altro modo di essere che le varie tradizioni descrivono con i termini moksha, nirvana, asamkrta, etc.    

Lo yoga è stato integrato e valorizzato in tutti i movimenti religiosi, induisti e eretici, e rappresenta una contrapposizione alle speculazioni metafisiche e agli eccessi di un ritualismo fossilizzato.
Il termine Yoga nella letteratura indiana ha molti significati, il meglio precisato è quello esposto nella filosofia yoga (yoga-darshana) attraverso il libro Yoga Sutra di Patanjali. 
Lo yoga è uno dei sei darshana tollerati dal Brahamanesimo.  
Lo Yoga sutra è stato scritto tra il II e il V . secolo a.C ed è costituito da 4 capitoli (padha) il primo 51 versi, il secondo 55, il terzo 55, il quarto molto più corto, 34 versi; sembra essere stato aggiunto successivamente (in totale 155 versi). Alcuni commentatori sottolineano alcune tracce di antibuddhismo e quindi pensano che dati dopo il V secolo a.C. e altri commentatori pensano che il testo sia stato modificato più volte a secondo il periodo storico di riferimento. Uno dei primi commenti e uno dei più importanti è lo Yogabhaskya di Vyasa (VI-VII secolo).
Patanjali non fa che riprendere la filosofia Samkhya, filosofia atea,  che inserisce in un teismo superficiale (lo yoga postula l'esistenza di un Dio supremo Ishvara). Altra differenza: la filosofia Samkhya asserisce che la sola via alla liberazione è la conoscenza metafisica, mentre per lo yoga sono indispensabili le tecniche di meditazione. 
Patanjali ha trasformato lo yoga da tradizione mistica a un sistema di filosofia.  La filosofia Samkhya è la più antica e si rifa a un trattato la Samkhya Karika d'Ishvara Krishna che è sicuramente antecedente al V secolo a.C.  La ricerca di questa filosofia si basa sullo sforzo di identificare gli elementi costitutivi dell'esperienza umana: quelli mortali e quelli immortali che accompagnano l'anima dopo la morte e che costituiscono il vero Sé, l'elemento immortale dell'uomo (pag. 14). Per il Samkhya e lo yoga il mondo è reale, mentre per la filosofia Vedanta è un'illusione.
In ogni caso il mondo si manifesta grazie alla nostra ignoranza. 
L'India rigetta il mondo a partire dalle Upanidhad, esiste qualche altra cosa che è al di là del divenire, della temporaneità, della sofferenza. L'India è assetata del sacro.  Neti Neti, tu non sei questo, non sei quello, non appartieni al Cosmo come appare. Si cerca di arrivare alla Conoscenza suprema che permette di liberare l'essere umano dall'ignoranza e dal dolore e dal ciclo delle reincarnazioni.   In alcune forme di yoga, tra cui lo yoga tantrico si avverte uno sforzo disperato di rendere l'esistenza sacra, di sacralizzare l'esistenza. 
Altro punto in comune tra buddhismo, yoga e samkhya e cercare di scappare dalla sofferenza, "il saggio cerca di scappare dalla sofferenza", scrive Patanjali (cap. II, 15), e Ishvara Krishna, l'autore del più antico trattato Samkhya scrive che esistono tre tipi di sofferenze: la miseria celeste, le miserie terrestri e le miserie interne (organiche). Ma non c'è pessimismo in quanto tutte le filosofie o percorsi spirituali indiani asseriscono che esiste il mezzo per mettere fine al dolore procurato dall'ignoranza: o tramite la conoscenza metafisica  o tramite pratiche o tecniche meditative. Ed arrivare così alla conoscenza del vero Sè.     
Lo spirito ( o anima) è accettato da tutte le filosofie eccetto il buddhismo e i materialisti. Per il Vedanta l'atman ha le qualità di Sat Cit Ananda. Per il Samkhya e o Yoga, lo spirito (purusha) non ha nessuna qualità, è quello che E' e Conosce ed è inesprimibile.  Mettono l'accento sullo strano rapporto tra purusha e prakrti. La buddhi (l'intelletto) è il prodotto estremamente raffinato della sostanza (o materia)  primordiale, la prakrti. Visto che proviene dalla prakrti, la buddhi non potrà mai riuscire a conoscere il Sé. Patanjali parla della prakrti (2, 3) e delle sue modalità (sattva, rajas, tamas), sempre presenti in ogni cosa in proporzioni diverse.  Le tre modalità sono sempre presenti nei cinque elementi sottili (potenziali) del mondo fisico.  L'ahamkara (l'ego) ha creato un duplice universo: quello esterno e quello interno, che hanno molte corrispondenze. La differenza tra l'uomo e il Cosmo, non è che una differenza di proporzioni, non di natura.  
Il Samkhya asserisce che una creazione così vasta, un insieme così complesso di organismi e forme (manifestazioni della Prakrti, debba avere una giustificazione e un significato che poi viene trovato nel Purusha.  Anche la coscienza è un prodotto della prakrti e non può in nessun modo entrare in contatto con lo spirito e l'essenza.  La comprensione del mondo esterno si può ottenere solo grazie al riflesso del Purusha nell'intelligenza (buddhi). Ma il Sè rimane puro, libero, impassibile e eterno.   Niente di Divino interviene nella creazione (il Samkhya nega l'esistenza di Dio e Patanjali non gli dà molta importanza).  
Perchè il purusha puro e statico, privo di contatto con la Natura permette l'impurità, il divenire, l'esperienza, il dolore e la storia?  
Questo è il punto critico della filosofia Samkhya; il Vedanta risponde dicendo che quello che vediamo è Maya (illusione) e critica le posizioni dello Yoga e del Samkhya che affermano che una parte dello Spirito è in ciascun essere umano (ed esiste quindi una pluralità di Sè).
La liberazione (moksa) è una liberazione dal male e dal dolore. E la persona che è arrivata a questo stato perde l'identità, non è più lui in quanto sè. Il samkhya asserisce che la sofferenza non può mantenere un rapporto con il Sé e pertanto non esiste (pag. 40). 
Lo yoga classico di Patanjali ingloba tutta la filosofia samkhya, ma pensa che la conoscenza può solo preparare il terreno in vista dell'acquisizione della libertà (mukti) attraverso la pratica (abhyasa) comprendente tecniche ascetiche  (tapas) e metodi contemplativi. E passare così da una coscienza normale a una coscienza più alta che possa arrivare a comprendere la verità metafisica. Tutte le esperienze psicologiche sono prodotte dall'ignoranza della vera natura del Sè (Purusha).  Lo yoga si propone di distruggere uno dopo l'altro, i vari stati della coscienza.
Patanjali descrive cinque matrici produttrici di stati psico-mentali (citta vrtti): l'ignoranza (avidya), il sentimento di individualità (asmita), l'attaccamento (raga), il disgusto (devca), e l'amore della vita (abhiniveca) che producono sofferenza. Lo yoga permette di sospendere le vrtti e di abolire la sofferenza.  Tutte queste matrici vengono dal subconscio, queste latenze (vasana) sono l'ostacolo alla liberazione. Le vasana hanno la loro origine nella memoria (vyasa) e condizionano il carattere e la vita di un individuo.  Gli atti dell'uomo (karma) suscitate dagli stati psico-mentali (citta vrtti), suscitano a loro volta altre citta vrtti.  Qui sorge la similitudine tra lo yoga e la psicanalisi, lo yoga mette in relazione il conscio con l'inconscio e crede che il subconscio possa essere dominato e conquistato dall'ascesi unificando i vari stati di coscienza. ( Pag 53)
Le tecniche dello yoga.  
Uno yogi deve poter ottenere in qualsiasi istante la concentrazione su un solo punto.  Le asana sono delle tecniche caratteristiche della ascesi indiana. Sono trattate nelle Upanishad, nella letteratura vedica, e allusioni alle asana sono presenti nelle Epopee e nei Purana. A livello del corpo, l'asana è la concentrazione in un solo punto. Il pranayama, la disciplina del respiro, è il rifiuto di respirare come l'uomo comune, in maniera aritmica. L'obiettivo è quello di ritmare più lentamente possibile la respirazione, e attraverso questo processo sperimentare stati di coscienza e consapevolezza diversi (la psicologia indiana individua quattro stati di coscienza, l'ultimo il tuyra è la coscienza catalettica). 
 I veri yogi cercano di controlalre il loro corpo al fine di penetrare il segreto della vita psicosomatica. Desiderano conoscere i livelli profondi della psiche e i suoi meccanismi, per poi trovare i mezzi per controllarla. (pag. 65). 
Nonostante l'importanza del pranayama, Patanjali gli dedica solo tre sutra (versetti). Si trovano dei dettagli tecnici nei testi dei vari commentatori agli Yoga Sutra, tra questi anche dei dettagli tecnici di Vyasa.    
Il controllo del respiro è presente anche nel Taoismo con il nome di respirazione embrionale (t'ai-si) e i taoisti, influenzati dallo yoga tantrico,  praticano il controllo del respiro.
pag. 70. Isvara, il Dio degli Yoga sutra, è un puro spirito che NON ha creato il mondo, e NON interviene nella storia, né direttamente, né indirettamente. Lo yoga ha un valore religioso in quanto lo yogi cerca di imitarlo, cercando di superare la condizione umana e arrivare alla liberazione, la perfetta autonomia del purusha. Attraverso l'immobilità e la concentrazione su se stessi, ogni attività è sospesa, realizzando citta-vrtti nirodha, la soppressione degli stati psico-mentali, la citta (la coscienza) dimora in se stessa (svarupamatre). Anche restando staccato dai fenomeni, lo yogi continua a contemplarli nell'essenza degli oggetti (tattva). Per arrivare a questo lo yogi usa il samyama, concentrazione, meditazione e samadhi.  Isvara è un purusha libero (pag. 76) sin dall'eternità, mai toccato dal dolore. Il suo ruolo è modesto, può essere di ispirazione agli yogi che hanno deciso di mettersi su questo cammino. Diventa in questo modo un archetipo dello yogi, un Macro-yogi. Un guru dei saggi di epoche immemoriali, non legato al Tempo (I, 26).
Questo è il motivo che spiega perchè Patanjali abbia sentito il bisogno di introdurre Isvara che del resto ha un ruolo modesto. Infatti, il Samadhi può essere ottenuto anche senza questa concentrazione su Isvara. Autori e commentatori successivi, influenzati dalla bakthi e dal vedanta accorderanno a Isvara un ruolo più importante, una speciale grazia capace di predestinare la vita degli uomini.   
Samadhi è lo stato contemplativo nel quale il pensiero percepisce immediatamente la forma dell'oggetto, e l'oggeto si rivela in lui stesso, come se era vuoto in se stesso (III, 3).  Il samadhi, più che una conoscenza è uno stato, una modalità specifica dello yoga. Fissata nel samadhi, la coscienza (citta) può avere la rivelazione immediata del Sé (purusha).  Praticando il samyama lo yogi acquisisce una serie di poteri occulti (diventa un mahasiddha). Tra cui il conoscere il momento della morte (III, 21).
Pag. 141. Il Buddha ha formato il suo pensiero nel seno della tradizione dello yoga e il suo l'obiettivo è quello della liberazione dalla sofferenza. Ma il buddha rifiuta di postulare l'esistenza di un purusha o atman;  rifiuta anche le conclusioni speculative delle Upanishad: ossia il postulato di un Brahman, spirito puro, assoluto, immortale e eterno, identico all'atman,  perchè questo dogma rischiava di soddisfare l'intelligenza dell'uomo e impedirgli di svegliarsi. La liberazione per il buddhismo, come per lo yoga si ottiene solo grazie agli sforzi personali, di una assimilazione concreta della verità. Tutto quelloche si può dire del nirvana ( o javan-mukta) è che non è di questo mondo. Il tathagata è inesprimibile, insondabile come il grande oceano. Corrisponde al neti, neti delle Upanishad.
Il tantrismo e lo yoga. Tantra è quello che estende la conoscenza. Tantrismo è il movimento che si sviluppa a partire dal IV secolo e prende forma nel VI secolo in India e in poco tempo la filosofia, la mistica, i rituali e la morale, l'iconografia e la letteratura sono influenzati dal tantrismo. Esiste un tantrismo buddhista, indù e jainista, e ci sono forti influenze nello shivaismo del Kashmir. Nel buddhismo è stato introdotto da Asanga (verso il 400) e da Nagarjuna (II secolo d.C.) e corrisponde al buddhismo vajrayana. Il Guhtasamaja-tantra, considerato da alcuni scritto da Asanga, è il più antico testo del vajrayana.   Nel II  secolo per la prima volta nella storia dell'India ariana viene esaltato il mistero della donna, e la Grande Dea assume un ruolo predominante: nel buddhismo diventa Prajnamita che incarna la saggezza suprema, e Tara la deessa dell'India aborigena della cultura dravidica; nell'induismo è presente Shakti, la forza cosmica, la madre divina che si può collegare alla cultura dravidica. La donna incarna il mistero della creazione, dell'Essere, di tutto quello che è e che diviene, muore e rinasce in maniera incomprensibile. Riproduce lo schema della filosofia Samkhya, lo spirito, il maschio, il purusha è l'immobile e il contemplativo;  è la prakrti che lavora, genera e nutre. Il tantrismo ha un'attitudine antiascetica, anti-speculativa. Non c'è bisogno di mantra, immagini e della meditazione. Accetta il Vuoto (sunya) come la vera natura e in questo si avvicina al Brahman del Vedanta. Il celebre Guhyasamaja-tantra afferma che la perfezione si può acquisire facilmente attraverso la soddisfazione di tutti i desideri e attraverso l'esperienza totale della vita. Il corpo umano acquista con il tantrismo un'importanza straordinaria, mai raggiunta nella storia spirituale dell'India. Il corpo diventa lo strumento per conquistare la Morte e nello Hatha Yoga c'è la volonta di controllare il corpo per trasmutarlo in un corpo divino.  L'apparizione dello Hatha Yoga è associata al nome di un asceta Gorakhnath che sarebbe vissuto nel XII secolo che era stato in stretto contatto con il Vajrayana. A lui si attribuisco due importanti testi l'Hatha Yoga (che è andato perduto) e la Gorakrshacataka. Ci sono poi i cosiddetti tre testi tantrici. Questi testi, influenzati dal buddhismo e dal Vedanta hanno come oggetto soprattutto la fisiologia e l'aspetto fisico, le tecniche di purificazione. Il filo conduttore di queste pratiche è che niente si può ottenere senza una pratica costante.  Attraverso questi esercizi gli yogi (yogin) sviluppano delle capacità incredibili di controllo del sistema neuro-vegetativo, e l'influenza che possono esercitare sui ritmi cardiaci e respiratori. In questi testi si parla di energia sottile, di prana, nadi, chakra, ecc.   Le esperienze post-mortem, descritte nel libro tibetano dei morti il Bardo Thodol corrisponde stranamente agli esercizi di meditazione yogico-tantrico.  Nello yoga bisogna prepararsi a un altro modo di essere, per arrivarci, occorre morire a questa vita. L'ideale dello yoga è lo stato di jivanmukta, è di vivere in un eterno presente fuori dal tempo acquisendo un modo di essere trascendente, una coscienza-testimone che è lucidità e spontaneità pura.
Patanjali menziona il potere di conoscere il momento della morte. L'uomo che rifiuta la propria condizione e reagisce contro questa cercando di abolirla è assetato di libertà, dell'incondizionato,  del sacro... Nel rifiuto della vita profana lo yogi imita il modello trascendente di Isvara. Cerca di unire due delle più importanti funzioni della vita, la coscienza e la respirazione.  Lo scopo è coincidere con il Tutto, la perdita del dualismo, abolire il tempo è la creazione. Il carattere iniziatico dello yoga e quello di morire per rinascere.
Pag. 111  Lo yoga si rifà a due tradizioni: quella degli asceti e estatici che si rifà al Rig Veda e quella  dei Brahmana e dell'interiorizzazione del sacrificio. E questo porta ad una sintesi spirituale importantissima. I veda contengono dei rudimenti di yoga ed accennano a discipline estatiche. Lo yoga ha giocato un importante ruolo nella spiritualità indiana.
Pag 113. Le upanishad e lo yoga. Seguendo le indicazioni delle Upanishad i rishi abbandonano l'ortodossia vedica per mettersi alla ricerca dell'assoluto. Tra le upanishad e lo yoga c'è sempre stata un'osmosi, certe tecniche yoga sono accettate  come esercizio preliminari di purificazione e contemplazione in vista della ricerca metafisica e della contemplazione.
Il termine yoga si ritrova per la prima volta nella Taittiriya (ii,4) e la Katha (ii,12) ma le tecniche yoga soni presenti nelle upanishad più antiche come la Chandoya e la Brhadaranyaka.  La conoscenza porta alla liberazione dalla morte. Nella Tattiriya viene illustrato il viaggio del giovane brahmano Naciketas agli inferni dove incontra Yama. Ci sono allusioni alle tecniche yoga.
 Le tre vie per la liberazione sono la conoscenza delle upanishad, le tecniche yoga e la beatitudine (devozione) che saranno poco a poco integrate. Nella Svetasvatara si venera Shiva al posto di Vishnu. Il Brahman è identificato con Shiva, ci sono analogie nelle upanishad con gli yoga sutra. Le tecniche yoga producono la manifestazione del Brahman. La Madukya illustra i quattro stati di coscienza e il loro rapporto con la sillaba mistica Om. Lo yoga è il  processo che prrmette di unire il prana, la sillaba Om e l'universo con tutte le innumerevoli forme. 
Tra le varie upanishad (10 / 11) che parlano yoga la più importante è la Yogatattva in cui vengono menzionati gli otto anga di Patanjali e vengono menzionati quattro tipi di yoga ( mantra, laya, hatha, raja)  e illustrate delle tecniche di pranayama. Vengono citate delle siddhi che hanno una relazione con l'alchimia e con la fisiologia mistica. Il samadhi è descritto come l'incontro del javatma (anima individuale) con paramatma (spirito universale) e non c'è più distinzione.
Pag 119. Nella Yogatattva la tecnica yoga è rivalutata e il jivatma è il paramatma sostituiscono il purusha è Isvara. Lo scopo dello yoga è il raggiungimenuo della condizione di uomo/Dio ossia la libertà illimitata e longevità.

Dhyanabindu è l'upanishad più ricca in indicazioni tecniche, a carattere magico e anti devozionale. Tutti i peccati di un uomo sono distrutti dalla meditazione yoga. Ed è la posizione del tantrismo che si emancipa da tutte le leggi morali e sociali.  Comincia con la descrizione della sillaba OM ( a u m in sanscrito ).  Si associa il pranayana agli dei vedici:  Brahman all'inspirazione, Vishnu alla sospensione e Rudra all'esalazione del respiro. Si parla di energia sottile e risveglio della kundalini.

Nelle upanishad dello yoga non c'è più il primato della conoscenza pura, l'identità atman-brahman non si ottiene più grazie alla contemplazione ma sperimentalmente con tecniche ascetiche e fisiologia mistica. La devozione, il culto personale e la fisiologia sottile sostituiscono il ritualismo e la speculazione metafisica.

Pag 126. Il Mahabharata.  Nel poema che data tra il VII e VI secolo a.C   sono stati aggiunti successivamente vari capitoli e varie parti nei secoli successivi, tra cui la Bhagvad-Gita (VIcapitolo) e la Mokshadharma (VII capitolo).  È in questo libro che si trovano molte allusioni allo yoga e al Samkhya.
La Moksha afferma che i precursori degli yogin si trovano nei Veda (le upanishad) e nel Samkhya.  La Bhagavad Gita  afferma che lo yoga e il Samkhya sono uno.  Lo yoga vuole dire parecchie cose, perchè lo yoga è parecchie cose; ogni tradizione ascetica ha il suo yoga, la sua tecnica mistica. La Gita assegna allo yoga una grande importanza, ma a uno yoga appropriato all'esperienza religiosa Vishnuita.
Pag. 130. Lo yoga può essere compreso: 1- come disciplina che ha come scopo l'unione delle anime umane e divine. 2- come esperienza mistica applicata nelle correnti devozionali. Nella Gita per arrivare alla liberazione si può ricorrere 1- alla meditazione mistica ( sama ) e conoscenza 2- alla azione (karman), due metodi entrambi validi.
Propone uno yoga che non è più lo yoga magico del Mahabharata ma non è ancora lo yoga di Patanjali. Non è possibile astenersi dall'azione e dall'agire.  L'azione è superiore alla non azione (III, 8). Meglio adempiere al proprio dovere (swadharma) anche se in modo parziale. La grande originalità della Gita è di aver insistito sullo yoga dell'azione, che si realizza rinunciando ai frutti dell'azione. E questo che ha contribuito al successo senza precedenti in India. Questo concetto ha permesso di distaccarsi dal mondo e nello stesso tempo continuare a viverci e agire, e con questo concetto la Gita ha cercato di conciliare tutte le vocazioni ascetiche, mistiche, attive e ribadito l'estrema flessibilità dello yoga. Nella Gita si può arrivare al nirvana (perchè non samadhi?) solo con la meditazione su Krishna. La devozione mistica (bhakti) di cui Krishna è l'oggetto ha un ruolo molto più importante  di Ishvara negli yoga sutra.   E importante la grazia di Krishna che permette allo yogin di raggiungere il samadhi. Concetto che si svilupperà poi nella letteratura vishnuita. Un vero yogin raggiunge la beatitudine infinita per il contatto con Brahman. Krishna nella Gita è lo spirito puro, il grande Brahman non è che la sua matrice. Krishna è il supporto di Brahman, come lo è dell'immortalità, dell'industruttibile, dell'ordine eterno, e della felicità. L'infinita beatitudine che risulta dall'unione con Brahman permette allo yogin di vedere l'anima (atman) in tutti gli esseri e tutti gli esseri nell'atlantico (vi, 30, 31).   Tra le strade che portano alla liberazione la migliore è quella dello yoga, lo yoga è superiore all'ascesi (tapas), superiore alla scienza (jnans) e superiore al sacrificio. Le pratiche yoga si posizionano così al più alto livello nella spiritualità indiana e acquistano una grande popolarità.  Queste pratiche yoga sono accettate anche dalla corrente devozionale vishnuita. Il discorso di Krishna equivale alla validazione di fronte all'induismo di uno yoga devozionale, delle tecniche yoga come un mezzo indiano di ottenere un'università mistica con il Dio personale. La maggior parte della letteratura moderna  sullo yoga trova la sua giustificazione teorica nella Gita. 

Chiamati a scegliere tra intellettuali bellicisti e maestri di pace

Articolo di Roberto Fantini.  https://www.flipnews.org/index.php/life-styles-2/technology-2/item/4342-chiamati-a-scegliere-fra-intellettuali-bellicisti-e-maestri-di-pace.html   

Ancora una volta ci troviamo costretti a riconoscere quanto la mera cultura non sia in grado di costituire, di per sé, un antidoto sufficientemente efficace contro la peste della guerra e dei suoi più o meno entusiastici adoratori e seminatori. Ne avevamo avuto un esempio particolarmente eclatante quando, di fronte alla mattanza in cantiere della Prima guerra mondiale, si erano visti incolti contadini e braccianti pronti a spararsi su un piede o a cavarsi i denti piuttosto che obbedire alla chiamata alle armi, mentre raffinati intellettuali inneggiavano alla guerra come salvifica cura igienizzante del genere umano.

Dopo più di un secolo e dopo la produzione di intere biblioteche di studi sugli orrori delle guerre e di ricerche sul tema della pace e dei diritti umani, rieccoli qua i sapientoni disincantati, gli unici che sanno come funziona il mondo e gli unici in grado di insegnarci come viverci dentro, quelli che ci  spiegano che la pace “intorpidisce” (Umberto Galimberti) e che urge, quindi, risvegliare in noi l’antico spirito combattivo del guerriero (Antonio Scurati).

Di fronte a ciò, si impongono, a mio avviso, alcune poche ma granitiche certezze:
    Mentre molti degli intellettuali di inizio Novecento andarono fieramente al fronte per uccidere e per farsi uccidere, nessuno di quelli del terzo millennio si azzarderà ad abbandonare la propria dorata postazione televisiva per indossare scarponi ed elmetto.
    La cultura non basterà mai a liberarci dal culto della Forza finché resterà ingabbiata nella polverosa dimensione antiquaria e monumentale (per dirla in termini nicciani), ovvero finché sarà ridotta a narcisistico baloccamento erudito di grandi menti con piccolo intelletto e con piccolo cuore.
    La Sapienza e la Saggezza di tutti i veri Maestri dell’umanità ci hanno sempre donato un chiarissimo messaggio basato sul rifiuto del “bellum omnium contra omnes” e di tutte le sue possibili varianti, più o meno abilmente mascherate. Tutti gli spiriti migliori dell’ umana famiglia, credenti e non credenti, teisti, atei, agnostici, deisti e panteisti, si sono prodigati nel tentativo di seminare in tutti noi l’odio per la violenza e l’amore per valori come:   comprensione, tolleranza, dialogo, solidarietà e fratellanza.

    Il luminoso messaggio dei maestri di Pace non è (come sempre hanno sostenuto i suoi detrattori) fondato su una visione ingenua e troppo generosamente ottimistica della realtà, bensì trae origine da una conoscenza profonda, serissima e pienamente consapevole della dimensione interiore della natura umana e delle sue concrete manifestazioni storiche.
    A compiere opera di idealizzazione mitizzante sono, invece, i bellicisti di tutti i tempi che idolatrano la bellezza della Forza e che legittimano il suo “doveroso” impiego, non certo coloro che ci ricordano, con estrema crudezza, l’aspetto degradante e devastante dell’uso delle armi. Perché se è vero che per amare la guerra è necessario non averla “vista in faccia”, a fare opera di verità, strappando maschere apologetiche e squarciando veli censori, sono i nonviolenti, mentre ad annebbiare occhi e ragione sono, con tutte le loro immense risorse, i seguaci di Marte.

    Il messaggio dei maestri di Pace non è, pertanto, un sogno “buonista” per sognatori bambini ed animi codardi, ma un messaggio rigoroso quanto coraggioso, basato sulla massima onestà intellettuale e morale.
    Il messaggio dei maestri di Pace, non riducibile a vuota utopia irrealizzabile, è concretissimo disegno di rifondazione dei rapporti umani, possibile a condizione di riuscire a sbarazzarsi di tutte le ideologie e le mitologie che distorcono le menti e che avvelenano i cuori.
    Oggi più che mai, ognuno di noi è chiamato a scegliere, con fermezza e coerenza, da che parte schierarsi.

 “Al giorno d’oggi la guerra è un fenomeno così largamente recepito, che chi la mette in discussione passa per stravagante e suscita la meraviglia; la guerra è circondata di tanta considerazione, che chi la condanna passa per irreligioso, sfiora l’eresia: come se non si trattasse dell’iniziativa più scellerata e al tempo stesso più calamitosa che ci sia.”   ERASMO DA ROTTERDAM

Perché l’oppressione e le guerre inique finiscano, perché nessuno si ribelli contro quelli che sembrano i colpevoli, perché non vi siano più regicidi, non vi è che un metodo molto semplice. Che gli uomini comprendano le cose come sono e le chiamino col loro nome; che sappiano che l’esercito non è attualmente che lo strumento dell’assassinio in massa chiamata guerra, che il reclutamento e la direzione degli eserciti di cui si occupano così fieramente i re, gli imperatori, i presidenti di repubblica, non sono oggi che preparativi di omicidio. Che ogni re, imperatore, presidente, si persuada che la sua parte di organizzatore di eserciti non è né onesta, né importante, come gli dicono gli adulatori, e che è al contrario un’opera cattiva e vergognosa come ogni premeditazione di assassinio.”   LEV N. TOLSTOJ

Noi dobbiamo essere i martelli che foggiano una nuova società piuttosto che le incudini modellate dalla vecchia società. Questo soltanto ci trasformerà in uomini nuovi, ma ci porterà una nuova forma di potere. Un mondo buio, disperato, confuso e ammalato, è in attesa di questa specie di uomo e di questa nuova forma di potere.”  MARTIN LUTHER KING 

Le ragioni della tolleranza: oltre i confini dell'indifferenza

Articolo di Roberto Fantini.  Vedi:  https://www.flipnews.org/index.php/life-styles-2/technology-2/item/4221-le-ragioni-della-tolleranza-oltre-i-confini-dell-indifferenza.html                      

  “Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta è la tolleranza reciproca.” - Mahatma Gandhi   

  “ Le ragioni della tolleranza valgono ovunque: nei banchi di scuola, in ufficio, in fabbrica, allo stadio, nella cabina elettorale, nell’aula giudiziaria, nelle pubbliche manifestazioni. Perché sia abbattuta la barriera fra vizi privati e virtù pubbliche occorre che la tolleranza divenga un abito mentale. E’ essenziale cioè che essa divenga un valore per tutti, che il suo significato profondo venga appreso, acquisito dalla nostra coscienza e faccia parte di noi.”   -  Salvatore Parlagreco

La discordia è la piaga del genere umano, e la tolleranza ne è il solo rimedio.”   Voltaire 

Capita spesso di veder confuse, in maniera alquanto discutibile e fuorviante, tolleranza ed indifferenza. Come se, l’unica possibilità per liberarci dalle innumerevoli forme di faziosità settaria, di diffidenza e rifiuto dell’altro, nonché di odio violento nei confronti di tutto ciò che appare diverso e nocivo, possa derivare dal rifiuto radicale del prendere posizione sulle cose che contano, barricandosi dentro gli angusti ma confortevoli confini della propria egoità.

Certo, nel caso non ci si interessasse affatto di religione, di politica o di calcio, ci apparirebbero del tutto prive di senso sia le varie possibili contrapposizioni e querelles di carattere teorico che potrebbero sorgere intorno a simili tematiche, sia le lotte di carattere pratico miranti a denigrare, discriminare, perseguitare le fazioni avverse, in vista di una tanto bramata conquista del primato.

La condizione dell’indifferenza, però, pur risultando indubbiamente preferibile a quella di chi esercita l’intolleranza fanatica e aggressiva, non è in grado di presentarsi come una strategia capace di proteggere l’umanità dalla piaga dell’intolleranza. E questo, innanzitutto, perché l’indifferenza  non potrà mai venire estesa a tutti gli ambiti, ma solamente a quelli che ciascuno di noi potrà ritenere (in maniera inevitabilmente opinabile) privi di significato e di rilevanza. Inoltre, avrà sempre un’efficacia estremamente parziale e precaria: potrà soltanto provvisoriamente impedire ai suoi sostenitori e praticanti di gettarsi nella mischia, ma non certo che altri lo facciano.

Ma perché, dopo millenni di odio teologico, di persecuzioni etnico-razziali, di crociate, inquisizioni, anatemi, epurazioni, deportazioni e stermini di massa, nonostante i tanti appelli al dialogo, all’ascolto, al reciproco rispetto, ecc., ancora  tante e così granitiche difficoltà nel coltivare e praticare elementari forme di tolleranza?
Credo che, alla base di simili resistenze, sia possibile intravedere meccanismi di ordine psicologico ricorrenti in tutta la storia del genere umano. E, come ci insegna meglio di chiunque altro il Socrate platonico, la causa prima dell’intolleranza andrebbe sempre individuata nell’ignoranza, intesa come il non sapere di chi crede di sapere.

Questo perché il credere di sapere implica necessariamente la certezza di essere in possesso della Verità e, di conseguenza, la presunzione di sapere cosa sia necessario, cosa sia utile, cosa sia doveroso fare in vista del Bene (in ogni campo e ad ogni livello): chi rifiuta quella Verità, che io ritengo essere l’unica vera e che io “so” di possedere, verrà percepito come “nemico del Vero” e, come tale, anche “nemico del Bene” (il Bene può nascere, infatti, soltanto dal Vero).

Quindi, io, che so di avere la Verità e che so cosa si dovrebbe operare per il conseguimento del nostro Bene, come potrei non sentirmi moralmente obbligato a combattere chi, volontariamente o involontariamente, rifiutando il Vero, finisce inesorabilmente per ostacolare la realizzazione del nostro Bene?
E, nello stesso tempo, come potrei non sentirmi in dovere di cercare di impedire (al fine di difendere e di realizzare il Bene di tutti) il verificarsi di tutto quello che ritengo poter nuocere all’affermarsi del Vero e alla sua concretizzazione oggettivata, sia nella sfera individuale che in quella collettiva?

E come non sentirmi pienamente autorizzato e legittimato a ricorrere ad OGNI mezzo umanamente possibile per impedire o, almeno, semplicemente rallentare il trionfo del Bene?

Di fronte ad un fine tanto elevato (e tanto indiscutibilmente giusto), risulta legittimato, anzi, doverosamente richiesto, il ricorso a qualsiasi mezzo ritenuto “utile”: censura-imposizioni-limitazioni varie-controllo sistematico-isolamento-incarcerazione-tortura-deportazione-pena di morte.

Il non farlo verrebbe ad evidenziare una grave mancanza di senso di responsabilità e di attenzione agli interessi della collettività, e, quindi, una psicologia ed una moralità spregevolmente e pericolosamente egocentriche.

Il ritenere, quindi, di poter possedere (in modo assoluto) una Verità assoluta prepara la strada alla accettazione e consacrazione di poteri anch’essi assoluti e, come tali, senza confini.  Di fronte ad una simile mentalità, potrà risultare massimamente efficace  l’esercizio terapeutico della Filosofia in ottica autenticamente socratica ed ecletticamente teosofica.
Ovverosia, educando il pensiero:
    all’uso critico-sistematico del dubbio;
    al coraggio del giudizio autonomo;
    alla capacità di autoanalisi e di autocritica;
    alla consapevolezza del limite sia delle proprie che delle altrui certezze; anzi, alla consapevolezza dei limiti invalicabili dello stesso pensiero umano nel cercare di approdare a qualcosa di definibile come assolutamente certo e, quindi, non più rivedibile-discutibile-correggibile-migliorabile;
    alla consapevolezza, perciò, della necessità irrinunciabile di un continuo processo di ricerca e, quindi,     della necessità di diffidare di tutte le risposte blindate, dogmaticamente imposte sulla base della strategia dell’ ipse dixit; nonché della necessità di una costante disponibilità al confronto sincero, allo scambio, alla cooperazione paritaria, alla consapevolezza che ogni verità è inevitabilmente “figlia del Tempo”, e che ogni verità rappresenta inevitabilmente (soltanto) il risultato della nostra (soggettivissima) attività conoscitiva condotta nel tempo e nello spazio (nel nostro tempo e nel nostro spazio), e che, quindi, è in grado di rappresentare esclusivamente il punto di approdo del nostro sguardo sul mondo, ovvero sempre lettura prospetticamente fondata, e, come tale, sempre valida relativamente e provvisoriamente.

Un simile atteggiamento potrebbe condurci, allora, a pensarci come esseri non più divisi e contrapposti in quanto credenti e non-credenti, platonici e aristotelici, teisti e panteisti, rivoluzionari e controrivoluzionari, ortodossi ed eterodossi, ecc., bensì come viandanti, pellegrini, eterni ricercatori, desiderosi di conoscere sempre più e sempre meglio il Vero e il Bene.

E i vari credo (religiosi, filosofici, politici, ecc.) potranno apparirci, finalmente, non più come entità boriosamente e cruentemente condannate a lottare fra loro, bensì come differenti itinerari, tutti percorribili e tutti sperimentabili, ovvero differenti sentieri  inerpicantisi su di un’unica immensa montagna: tutti relativamente validi;  tutti meritevoli di essere presi in considerazione, di essere esaminati senza pregiudizi, di essere discussi criticamente, con lealtà, con franchezza e con rispetto.

In un articolo apparso su Lucifer, nel gennaio 1888, Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica (New York 1875), vulcanica scrittrice e infaticabile demolitrice di pregiudizi culturali, ci fornisce un’analisi estremamente efficace e convincente del fenomeno dell’intolleranza.
Chi crede di aver trovato l’oceano nella sua brocca d’acqua – scrive - è naturalmente intollerante nei confronti del suo prossimo, il quale, a sua volta, si compiace d’immaginare d’aver versato il mare della verità nel suo piccolo vaso, ma chiunque conosce, come i teosofi, quanto infinito è l’oceano dell’eterna saggezza, per essere scandagliato da qualche uomo, classe o partito, e comprende quanto poco contiene anche il più grande recipiente fabbricato dall’uomo, in confronto a quanto giace sopito e non ancora percepito nelle sue oscure e abissali profondità, non può essere che tollerante; perché vede che gli altri hanno attinto con i loro recipienti nello stesso grande serbatoio nel quale ha attinto egli pure e, per quanto l’acqua nei vari recipienti possa sembrare diversa all’occhio, ciò può darsi soltanto perché è colorata dall’impurità che si trovava nel recipiente prima che vi venisse versato il cristallino elemento – parte dell’eterna ed immutabile Verità.

Secondo questa prospettiva, i produttori-possessori di ciascun  recipiente conoscitivo (ovvero fede religiosa, sistema filosofico, ideologia politica, ecc.), ignorando di aver attinto tutti ad un unico immenso serbatoio, cadrebbero nell’errore di ritenersi i soli capaci di raccogliere, contenere ed offrire al mondo la sola salutare e salvifica acqua, considerando il contenuto degli altrui recipienti  sostanzialmente diverso dal proprio e, pertanto, inadeguato e nocivo.

Unica via alternativa in grado di espellere l’intolleranza dalla nostra storia, sarebbe quindi costituita – secondo la prospettiva teosofico- blavatskyana (in chiara sintonia con quella neoplatonica di Ammonio Sacca e con quella irenico-umanistica di un Giovanni Pico della Mirandola o di un Erasmo da Rotterdam) – dal saper accettare l’idea della presenza di una parte della Verità all’interno di ogni religione e di ogni sistema filosofico e politico, nella consapevolezza che  “se vogliamo trovarla dobbiamo cercarla alle origini ed alle sorgenti di ogni sistema, alle sue radici ed ai primi germogli, non nelle tardive escrescenze delle sette e dei dogmatismi.

 E unica cura contro tutti i fanatismi potrà essere soltanto – sempre su questa via - il riconoscere che tutte le proprie amatissime convinzioni non siano altro che piccolissimi  granelli di verità, inesorabilmente mescolati all’errore e  che, nello stesso tempo, “gli errori degli altri sono come quelli propri:  misti alla Verità”.  

I significati del mandala nella tradizione indo-tibetana

Una breve introduzione ai significati del mandala nella tradizione indo-tibetana.
Massimiliano A. Polichetti - Funzionario storico dell’arte, Curatore delle Collezioni tibetane e nepalesi del Museo delle Civiltà.

Nella tradizione esoterica, liturgica ed iniziatica del Buddhismo mahayana, il bodhi (risveglio), nonché la peregrinazione verso di esso, possono essere descritti tramite la formalizzazione geometrica di un impianto architettonico. Il mandala viene perciò proposto quale rappresentazione ideale, in forma grafica, dei rapporti esistenti tra l’universo e la mente di chi sperimenti una delle realtà del multiverso. 

Il mandala può anche definirsi come “il mondo dell’essere presieduto dalla verità”; il bhavachakra (la pittografia ad andamento circolare rappresentante la “ruota delle rinascite”) è di contro il mondo del divenire, il samsara divorato dall’inconsapevolezza rappresentata da Yama, il dio della morte nella cosmologia buddhistica.    

Nella lingua sanscrita esistono più significati per il termine mandala (cerchio o circonferenza). Questo termine può significare il capitolo di un testo sacro (ad esempio il celebre decimo mandala del Rig Veda), oppure la sfera di influenza politica esercitata da una struttura di potere. È nella sua accezione religiosa che il termine mandala definisce un diagramma in cui vengono descritti e stabiliti i nessi tra l’uomo e l’universo.
Nel mandala interpretato secondo quest’ultima accezione vengono riassunte le principali concezioni cosmologiche e psicologiche buddhistiche alle quali Giuseppe Tucci, grande figura di asianista e padre della tibetologia contemporanea, diede la definizione, divenuta oramai classica, di “psicocosmogramma”, in quanto in questo sacro diagramma è rappresentata sinteticamente la serie di nessi che fanno della realtà, apparentemente frammentata, un tutto organico e coerente fin nella sue parti più infinitesimali.

Un mandala può essere rappresentato con una pittura, una scultura, per mezzo di pietre preziose, fiori, riso, pietre o sabbie colorate; può essere ricreato all’interno della propria mente per trasformarne attivamente i processi. La sabbia è considerata il materiale grossolano più efficace, in quanto tradizionalmente tratta da sostanze preziose che necessitano di un’estrema attenzione nell’esecuzione dei dettagli.

Nella tradizione Vajrayana del Buddhismo Mahayana la buddhità nonché il cammino verso di essa possono  essere descritti tramite la formalizzazione geometrica di un impianto architettonico. Il mandala viene perciò proposto quale rappresentazione ideale in forma grafica dei rapporti esistenti tra l’universo e la mente dell’uomo.  Sebbene prodotto su di una superficie piatta, il mandala è infatti da leggere nel suo sviluppo tridimensionale, essendo la divina dimora al centro della quale un buddha può manifestare lo stato del risveglio verso tutte le direzioni dello spazio.

 Sotto il profilo della rappresentazione formale il mandala è la proiezione su di un piano bidimensionale di un palazzo a pianta quadrata inscritto all’interno e al centro di una serie di barriere circolari.  
Iniziando dall’esterno, tali barriere potranno presentare una sequenza nella quale si enumera una prima cerchia, la più esterna, fatta idealmente di fiamme intese a tenere lontani i profani, coloro i quali non sono ancora maturi ad affrontare la peregrinazione spirituale verso il “Risveglio” (bodhi) che, simbolicamente, è racchiuso nella serie di percorsi e di corrispondenze delle quali il mandala è letteralmente saturo; è la barriera di fuoco che respinge chi non sia ancora “adatto” (adeptus) ad essere avviato alle complesse liturgie  proprie del veicolo segreto del Buddhismo.  
Segue una barriera di vajra, le “folgori adamantine” per le quali si compendia l’immodificabile natura della mente e le sue principali valenze emancipatorie, definite “metodo” (upaya) e “saggezza” (prajna); barriera impenetrabile per chi, pur avendo osato superare il cerchio di fuoco, non abbia ancora purificato la volontà. Questa barriera di vajra rappresenta la concretezza del piano assoluto della realtà, il piano ove gli adepti del Vajrayana divenendo “esseri adamantini” (vajrasattva) riescono ad esprimere il potere necessario ad intraprendere in modo positivo le liturgie del veicolo esoterico.  
La terza barriera, quella “composta da petali di fiori di loto” (padmavali), rappresenta la purezza  della sensibilità emozionale, la giusta disposizione da suscitare nel cuore di chi si stia accostando al proprio centro ineffabile. Si è giunti a questo punto nel mandala vero e proprio concepito come un divino palazzo e spesse volte disposto su più livelli attraversabili in sequenza attraverso elaborati portali. Ogni elemento di un mandala è la rappresentazione degli aspetti della divinità risiedente al centro.
Ogni porzione di un mandala ha il suo preciso significato. I suoi quattro lati rappresentano le Quattro Nobili Verità: la “sofferenza” (dukha), l’“origine” della sofferenza (samudaya), la “cessazione” della sofferenza (niroda) e il “sentiero” che conduce alla cessazione della sofferenza (marga). Il fatto poi che i quattro lati siano uguali sta a significare l’identità, sul piano assoluto, degli esseri risvegliati con quelli non risvegliati.  La porta orientale rappresenta le quattro attenzioni pure: al corpo, alle sensazioni, al pensiero, ai fenomeni. La porta meridionale le quattro occasioni di superamento: donare, parlare gentilmente, dare soccorso, essere coerenti nelle azioni rispetto alla parola data. La porta occidentale le quattro membra delle manifestazioni miracolose: puro desiderio d’essere, vigore, intelletto, indagine. La
porta settentrionale le cinque facoltà: fede, vigore, consapevolezza, concentrazione, saggezza.
I quattro archi rimandano alle quattro stabilizzazioni meditative. Le quattro cornici che bordano la base delle mura sono le quattro conoscenze discriminanti: dei significati, dei fenomeni, dei linguaggi, della pronta risposta. La decorazione di pietre preziose appaga i desideri degli esseri. Le ghirlande che pendono dalle travi significano il superamento degli ostacoli e delle loro impronte al momento di intraprendere il sentiero della meditazione. Un mandala può essere rappresentato con una pittura, una scultura, per mezzo di pietre preziose, fiori, riso, pietre o sabbie colorate; può finalmente essere ricreato all’interno della propria mente per trasformarne attivamente i processi. La sabbia è considerata tra i materiali grossolani il più efficace poichè tradizionalmente è tratta da sostanze preziose e necessita di un’estrema attenzione
per l’esecuzione dei dettagli del mandala.  Ci possono essere numerosissime divinità in un mandala a simboleggiare le varie manifestazioni degli aspetti della coscienza e del cosmo trasfigurati dalla sapienza trascendente personificata dal nume che risiede al centro del mandala in unione con la propria mistica consorte, personificazione femminile della Saggezza. Il palazzo è diviso in quadranti provvisti di mura e gallerie. I colori sono la specifica rappresentazione degli “elementi grossolani” (mahabhuta) di cui si compone la realtà fenomenica e degli “aggregati sottili” (skanda) sui quali la mente imputa l’esistenza nominale di un “io” convenzionalmente esistente.  
Sebbene prodotto su di una superficie piatta, il mandala è in realtà sempre da visualizzarsi nel suo sviluppo tridimensionale, essendo la divina dimora al centro della quale un buddha può manifestare lo stato del Risveglio verso tutte le direzioni dello spazio. La forma del mandala potrebbe essere ricondotta allo schema del palazzo di un Monarca Universale (chakravartin), concetto riconducibile a sua volta alla formalizzazione dell’ideale urbano iranico. La reggia del monarca indiano, come quella del monarca babilonese, si richiama al modello delle piramidi a gradoni sormontate da un tempio. Il Monarca Universale vi deve risiedere in quanto, come re degli dei, egli deve vivere sulla sommità della montagna cosmica, simboleggiante l’integrazione dell’ordine politico con quello religioso, l’unione indissolubile del
cielo e della terra: « quod est inferius est sicut quod est superius » (Pseudo Ermete, Tabula Smaragdina).
Secondo la descrizione che ne dà il Canone in lingua pali nel Dighanikaya, una tale residenza è circondata da sette muraglie fatte d’oro, argento, berillo, cristallo, rubino, corallo e da vari gioielli. Nella regola dell’ordine monastico mulasarvastivadin il palazzo presenta sette recinti, fatti però solo di quattro materiali preziosi: oro, argento, berillo e cristallo.  

Inevitabilmente la lettura di queste descrizioni riecheggia l’ultimo, in ordine di redazione, dei testi sacri del Cristianesimo; nell’Apocalisse di Giovanni di Patmos si trova la seguente interessante descrizione del Regno di Dio tra gli uomini: «La città è a forma di quadrato […] le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne d’ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffiro, il terzo di calcedonio, il quarto di smeraldo, sardonice, cornalina, crisolito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto e ametista» (21, 16-21). Agli effetti della pratica liturgico-iniziatica da compiersi all’interno di “un” mandala (se nella teoria si danno infiniti mandala, nell’arte se ne ritrova la raffigurazione di qualche centinaio) è necessario avere una chiara cognizione di se stessi quale divinità ed assumere il corrispondente “orgoglio divino” (devamana). In un tale processo le apparenze ordinarie, visibili dagli occhi della carne, non vengono negate; piuttosto, non permettendo ai fenomeni ordinari di apparire alla consapevolezza mentale si fa in modo che le divine apparenze brillino più forti. Quando, avendo interrotto le apparenze ordinarie e sviluppato il chiaro apparire di se stessi come una divinità, tale apparenza spirituale diviene finalmente stabile, le apparenze ordinarie degli aggregati fisici e mentali infine cessano. È allora che appaiono all’occhio della mente i divini aggregati fisici e mentali, i divini costituenti e sensi.  

Nel Buddhismo tibetano i mandala vengono creati per i rituali d’iniziazione nei quali un maestro concede il permesso, ai discepoli ritenuti maturi, di impegnarsi nelle meditazioni relative a particolari divinità archetipiche. Il “germe di buddha" (tathagatagarbha) presente nel continuum mentale d’ogni essere senziente viene nutrito dal processo di visualizzazione e contemplazione di questo mistico diagramma.  La resa formale, artistica, di tutto questo processo avviene in virtù di un sofisticato linguaggio simbolico che impiega, per la propria articolazione, una serie di codici presenti sincronicamente nella stessa immagine. Vi è pertanto un codice che si avvale della dislocazione spaziale dei vari elementi figurativi (siano essi geometrici o meno), cos’ come un codice cromatico, un codice sonoro, un codice “teurgico”, nel senso che anche le varie divinità, raffigurate con minore o maggiore realismo antropomorfico, sono a loro volta lemmi di una super-struttura sintattica finalizzata ad essere supporto sensibile alla pratica spirituale. 

I mandala

«Diventiamo ciò che veneriamo". "L’uomo non crea gli dèi a propria  immagine e somiglianza,
ma si concepisce a immagine e somiglianza degli dèi in cui crede". - Nicolás Gómez Dávila (1913 – 1994)

 “Senza beatitudine non c’è risveglio,  poiché il risveglio coincide con la beatitudine” -  Advayavajra, Mahasukhaprakasha, XI sec. E.C

 Mandala significa compassione, sentire insieme, sentire insieme la gioia, e non solo il dolore.  
Per mandala, lemma sanskito, si intende cerchio, sfera di influenza politica. Nel codice Manu si parla di mandala; mandala in tibetano si dice kilkor, parola che significa cerchio e circonferenza, ma anche cogliere l'essenza.

Ma a cosa serve il mandala, che significato ha nell'arte sacra?   Per i fruitori dell'arte sacra è una contemplazione di verità e quindi l'artista deve seguire delle regole molte strette nella realizzazione di queste figure.  In Occidente tra il creatore e l'umanità c'è un gap metafisico, c'è l'impossibilità di identificarsi con il creatore, in Asia il gap è annullato. Nella Chandogya Upanishad, importante testo della filosofia vedanta, sono contenute tre grandi massime o aforismi, detti mahavâkya, ossia grandi detti, che sono tre espressioni sanscrite che esprimono il concetto dell’identità tra Spirito individuale, Atman, e Spirito universale, Brahman.   Questi aforismi sono: 

  • Tat tvam asi,  Quello sei tu, dove Tat sta per ‘immenso, l’impronunciabile, il divino; mentre Tvam Asi significa “questo sei tu”. Pronunciando queste parole affermiamo di riconoscere e rispettare il divino in qualunque forma, entità o sensazione esso ci compaia davanti. 
  •  Aham brahmasmi, “Io sono Brahman, il Divino“. Qui diventiamo consapevoli di essere noi stessi divini
  •  Ayam atma brahman, “Questo Sè è il Brahman“, o anche “Dio e io siamo un tutt’uno“.


Nella tradizione vajrayana del Buddhismo mahayana la  buddhità nonché il cammino verso di essa possono essere  descritti tramite la formalizzazione geometrica di un  impianto architettonico.  Il mandala viene perciò proposto quale rappresentazione  ideale in forma grafica dei rapporti esistenti tra l’universo  e la mente dell’uomo.  Il mandala può anche definirsi il mondo dell’essere,  presieduto dalla verità. L'arte sacra è uno degli strumenti per identificarsi con il termine ultimo della santità. La mente è un cristallo trasparente, se appoggio la mente su un oggetto virtuoso, divento virtuoso; l'arte acellera la Teosi, il passaggio da essere umano a Nume essere.


Il Buddha ha estinto la contaminazione mentale, ma la mente continua ad esistere nel tempo. I tantra sono dei testi per dare dell'indicazioni agli artisti.  Nel Tibetan Painted Scrolls testo in inglese scritto da Tucci nel 1949, c' è un capitolo dedicato ai mandala nella tradizione indo-tibetana. Poi Tucci scrisse Teoria e pratica dei Mandala nel 1961 che è uno dei testi fondativi per capire i mandala.  Nel testo Psicologia del profondo, per Jung: "il mandala è un archetipo di individuazione", la salvezza mentale, la buddhità. Il mandala rappresenta il rapporto trsa l'universo e la mente dell'uomo (il rapporto tra macrocosmo e microcosmo).  Diventiamo ciò che veneriamo.    Teosi significa: Diventare simili a Dio. Non diventare Lui, ma piuttosto partecipare alle energie divine.

Il mandala è anche, ma non solo, la proiezione su di un piano bidimensionale di un edificio a forma quadrata.  Nel santa sanctorum, c'è la casa dell'embrione del Buddha, tutti gli esseri hanno la potenzialità di diventare Buddha. Quando la causa sostanziale e la causa circostanziale si uniscono il seme diventa spiga, e in noi si manifesta la natura di Buddha. Il seme è il Vajra, shakti, descritto nel Kalachakra Tantra, senza beatitudine non c'è risveglio, poichè il risveglio coincide con la beatitudine. Esistono mandala diversi perchè diversi sono i percorsi di Teosi da uomo a Dio. Ognuno di noi si trova in una tappa diversa, quindi occorrono mandala diversi. Occorre fare offerte alla divinità e ripetere il giusto mantra per ritrovare il shambara terra pura  (equivalente al paradiso), che sta qui, da qualche parte.

Nei tantra, l'emozione, se controllata risveglia la Teosi, mentre nei sutra le emozioni disturbano il processo.  

Bisogna distinguere il mandala dallo Yantra che è un paradigma geometrico del mandala, un lontano cugino,  e dal  Bhavachakra, la Ruota dell'Esistenza e delle rinascite, è una rappresentazione visiva cruciale nel Buddhismo tibetano, che illustra il ciclo di nascita, vita, morte e rinascita, noto come samsara. È una ruota che illustra il mondo del divenire, il samsara  divorato dall’oblio rappresentato da Yama, il dio dei morti  nella cosmologia buddhistica.  Uno yantra è una figura geometrica complessa utilizzata nel tantrismo, nello yoga e in altre pratiche spirituali per la concentrazione e la meditazione. Funge come un diagramma o un amuleto mistico che aiuta a focalizzare l'energia e a raggiungere stati di coscienza più elevati.

Nel 1993, c'è stata la costruzione del mandala di sabbie colorate  all'acquario di Roma,  il Kala chakra composto da innumerevoli iconogrammatrie.  I granelli di sabbia colorata sono usati solo in occasione di cerimonie del tantra buddhista. Nelle cerimonie di inziazione, tra le tante cose, c'è anche la costruzione di un Mandala di sabbia che deve essere perfetto. Poi la sabbia deve essere smaltita con l'acqua, Le regole di costruzione sono immutabili, ogni tanto ci sono delle micro-variazioni, che però devono essere giustificate. 

Cosigliati:  

  • - film:  L'arte della felicità (2013)  di Alessandro Rak  
  • - testo: Teoria e pratica del Mandala. Giuseppe Tucci, 1969 (London 1961)
  • - testo: Il mandala: "archetipo di individuazione" - Carl Gustav Jung

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