venerdì 23 dicembre 2022

Yoga per adolescenti

L'adolescenza è un momento che può rivelarsi molto delicato. In questa fase della vita (tra i 13 e 19 anni) i ragazzi e le ragazze, con sfumature diverse, cercano di affermare la loro indipendenza. Durante il passaggio all'età adulta, gli adolescenti hanno problemi di identità, si sentono incompresi e hanno problemi di comunicazione. Assistono a un cambiamento fisico, dato dalle variazioni ormonali, e insieme intellettuale. Mettono in discussione il modo in cui hanno inteso tutte le relazioni fino a quel momento. Rabbia, frustrazione, confusione, inquietudine, gesti impulsivi, reazioni incontrollate, agitazione, sconforto e senso di inadeguatezza sono un denominatore comune di questo periodo della vita, per ogni essere umano. Lo yoga permette agli adolescenti di ascoltare il loro corpo e, insieme, i cambiamenti che da questo provengono. E' in grado di valorizzare i ragazzi per ciò che sono, senza giudizio. Attraverso il corpo e il respiro, lo yoga ridurrà le loro inquietudini e li aiuterà a canalizzare le loro energie in una direzione più costruttiva. Lo yoga contribuirà a migliorare il loro benessere emotivo, fisico, mentale.

Gli adolescenti, dovrebbero fare almeno 60 minuti di esercizio fisico, da moderato a vigoroso, al giorno per migliorare e rafforzare le ossa, i muscoli e il sistema cardiovascolare. In questo modo, supporteranno adeguatamente il loro sviluppo fisico. Lo yoga è una buona attività per gli adolescenti perché può essere modificato in base alle capacità di ciascuno e può essere praticato a varie intensità.  Lo yoga per adolescenti è un sistema completo che può aiutarli a regolare le loro emozioni e a superare meglio l'adolescenza. Ecco come fare:

  1. Lo yoga può aiutare a combattere l'obesità promuovendo una riduzione del peso graduale e moderata utilizzano sessioni di yoga lunghe e frequenti, e diete basate sullo yoga. La pratica dello yoga è associata alla riduzione dell'indice di massa corporea e può essere un modo sano per gli adolescenti di evitare il sovrappeso e vivere in modo più sano.
  2. Lo yoga può contribuire a migliorare l'autostima. La meditazione nello yoga può aiutare gli adolescenti a vedere i loro difetti sotto una nuova luce. Questo può aiutare a combattere il bullismo e dare la possibilità di costruire un rapporto migliore con se stessi, in modo da evitare di prendersela con gli altri. 
  3. Gli adolescenti spesso soffrono di acne al viso che è strettamente correlata a uno stile di vita poco sano. Una dieta scorretta, l'aumento di peso e lo stress, causano infiammazioni persistenti. Lo yoga  come attività rilassante e un'alimentazione più sana possono contribuire a  ridurre lo stress e l'infiammazione che causa l'acne.                                                                                                                 
  4.  Quasi tutti gli adolescenti soffrono di bassa autostima e hanno un'immagine corporea scadente che li porta a vedersi come inadeguati. Lo yoga è uno strumento per apprezzare il corpo, riflettere interiormente e fare del sano movimento, migliorando l'immagine corporea e la salute mentale dei praticanti. Aiuta a sviluppare la gratitudine per se stessi e per il proprio corpo, eliminando i pensieri negativi su di sé. L'insegnante di yoga dovrebbe fare attenzione agli impatti negativi dovuti al confronto con gli altri partecipanti alla lezione. Sarebbe opportuno privilegiare il lavoro in coppia con l'obiettivo della ricerca dell’incontro e del rispetto dell’altro. Moltissimi asana possono essere assunti e mantenuti in coppia. Lavorare con un’altra persona è utilissimo per testare se stessi e per rapportarsi con il compagno in modo armonico e cooperativo. Il compagno è visto come collaboratore o complice insostituibile  e non come qualcuno da invidiare (atteggiamento tipico dell'adolescenza).      
  5. Molti adolescenti sono stressati con relativo aumento della frequenza cardiaca, Lo yoga può aiutare a gestire lo stress promuovendo il rilassamento e insegnando la consapevolezza del corpo, della mente e del respiro. Inoltre, le aree del corpo più stressate sono il collo, le spalle e la schiena, che semplici posizioni e allungamenti yoga possono aiutare a sciogliere. Esercizi di respirazione o semplici posizioni yoga possono aiutare gli adolescenti nella vita quotidiana, ad esempio prima di un esame, prima di andare a letto o durante lo studio.                                                                                                                  
  6. Lo yoga è un modo eccellente per gli adolescenti di staccarsi dalla tecnologia e dagli schermi e concentrarsi su se stessi. Lo yoga motiva a cambiare uno stile di vita più sano, allentando la dipendenza da internet e dai videogiochi. Gli adolescenti iniziano a dormire meglio, a mangiare meglio, a comunicare meglio e ad aumentare le attività in cui sono coinvolti al di fuori delle mura domestiche. Questi cambiamenti possono dare agli adolescenti chiarezza mentale, aiutandoli a riconoscere il loro rapporto malsano con i videogiochi o i social media.
  7. Lo yoga è un'ottima attività da praticare in caso di abuso o dipendenza da alcol o sostanze stupefacenti. Lo yoga infatti è rilassante e aiuta a migliorare la connessione mente-corpo e la consapevolezza che viene compromessa dall'abuso di sostanze. Aiuta le persone a rimanere calme e a prendere decisioni migliori.

Per riepilogare i benefici dello yoga per gli adolescenti sono:
    • Migliora la salute fisica:    • Migliora l'ottimismo    • Sviluppare la disciplina e la consapevolezza
    • Migliora l'autostima e l'immagine del corpo    • Migliora la concentrazione.

I rischi dello yoga per adolescenti.  Gli adolescenti dovrebbero iscriversi a una classe poco numerosa in modo che l'istruttore possa prestare loro la giusta attenzione. Dovrebbero cercare di iscriversi a un corso che rispecchi le loro capacità. Evitare di iscriversi a un corso più avanzato. Se gli adolescenti non sono fisicamente preparati, questo può indurre stress e ansia, che sono l'opposto di ciò che dovrebbero ottenere dai corsi di yoga per adolescenti. Se i ragazzi sono affetti da patologie, è consigliabile che parlino con un medico prima di frequentare un corso di yoga. Una volta ottenuto il via libera dal medico, occorre informare l'istruttore di eventuali condizioni fisiche o limitazioni esistenti, in modo che possa fornire pose modificate, se necessario, prima di iniziare la sessione di yoga.

Posizioni e pratiche aiuteranno gli adolescenti a migliorare la respirazione, l'equilibrio e a ridurre lo stress attraverso il rilassamento come ad esempio la Respirazione a narici alternate, il Cane rivolto verso il basso (adho mukha svanasana)  e  Posizione dell'angolo reclinato (supta baddha konasana). Per ottenere dei risultati, ossia se si vuole aumentare la resistenza e la flessibilità, si deve praticare yoga almeno tre o quattro volte alla settimana. 

L'adolescenza comporta declinazioni diverse al maschile e al femminile. Un dato di fatto di cui tiene conto anche nella pratica che si propone in questa fase della vita. Spesso le ragazze riescono ad ascoltarsi con più facilità, rimanendo con meno difficoltà negli asana (“posizioni”) statici che si propongono. I ragazzi invece, nella maggior parte dei casi, sono più irrequieti, dinamici. Sono più propulsivi e hanno bisogno di esprimere le loro energie. Ecco perché eseguono più volentieri posizioni che richiedono un particolare uso della forza, in appoggio sulle braccia per esempio, oppure movimenti di agilità come i salti per passare da una posizione all’altra.
Generalmente, il rapporto maschi-femmine che si avvicinano allo yoga come strumento di crescita personale a partire dai 12-13 anni in su, è di 1 a 10. In entrambi i generi, però, la disciplina aiuta a fare luce dentro al caos interiore tipico di questo momento, mettendo un po' di ordine emotivo.

Lo yoga può aiutare a gestire i traumi e le emozioni e a raggiungere un maggiore equilibrio psico-fisico,  in particolare grazie alla pratica di alcuni asana come ad esempio l’albero (vrkshasana in sanscrito), il guerriero (virabhadrasana), l’aquila (garudasana), shiva danzante (Natarajasana). Queste posizioni permettono di trovare il proprio centro e di resistere alle oscillazioni, due peculiarità che fisiologicamente mancano in questo momento della vita. Mantenere posizioni come queste per diversi respiri, aiuta a vivere un momento di instabilità rimanendo centrati interiormente e controllando la propria respirazione. Sono posizioni di ascolto, di concentrazione e di radicamento.  Altre posizioni che possono contribuire a “cambiare” il proprio punto di vista sono le  asana in rotazione, come ad esempio  la posizione del nodo (matsyendrasana), in cui lo sguardo gira completamente, insieme alla colonna vertebrale;  o per esempio asana capovolte, come la posizione della candela  (sarvangasana) in cui la testa si trova più in basso rispetto ai piedi.  
Per superare senso di inadeguatezza, vergogna e timidezza saranno molto utili le posizioni di estensione all'indietro: la parte anteriore del nostro tronco viene profondamente aperta, il chakra del cuore è stimolato, invitandoci a diventare via via più empatici e capaci di sintonizzarci non solo con le proprie emozioni, ma anche con quelle degli altri.  Una pratica costante può contribuire a sviluppare in modo equilibrato il corpo, migliorare la postura e l’allineamento della colonna vertebrale, prevenire patologie a carico del rachide, sviluppando una muscolatura forte e allo stesso tempo mantenendola flessibile.

Per concludere: lo yoga può insegnare ai ragazzi il rispetto e l'importanza della relazioni con gli altri, anche per vivere una stagione così "turbolenta" in modo più equilibrato. Per fortuna, cominciano ad essere sempre più numerosi, i corsi che propongono uno yoga specifico per questa fascia di età.

Testi: 

  • Gisa Franceschelli, La Gioia di Crescere con lo Yoga. Compendio didattico pratico di pedagogia yoga
  • Lorena Pajalunga, Yoga per adolescenti. Semplici esercizi per crescere in armonia.

Pratica e teoria del buddhismo tibetano - Geshe Lhundup Sopa e Jeffrey Hopkins

Pratica e teoria del buddhismo tibetano di Geshe Lhundup Sopa e Jeffrey Hopkins è un libro che parla della meditazione e delle scuole buddhiste tibetane.  Il libro ospita due testi della tradizione Gelukpa, per la prima volta tradotti e annotati. Il primo testo, opera del quarto Panchen Lama, è un commento al sentiero dell'illuminazione in cui sono riassunte moltissime delle pratiche quotidiane osservate dai monaci e dagli yogi tibetani. Il secondo testo viene dal Collegio Gomang del Monastero Drepung di Lhasa, e fornisce una base per lo studio assiduo della filosofia buddhista.

La condizione di Buddha si consegue attraverso il metodo e la saggezza. Il metodo è l'aspirazione all'illuminazione per amore di tutti gli esseri viventi. La saggezza è la corretta visione della vacuità, della consapevolezza della non esistenza del sè e che tutti i fenomeni non esistono per virtù propria. ossia l'esistenza non intrinseca di ogni fenomeno. aspplicare in ogni contesto la compassione, ossia il desiderio che tutti gli esseri viventi siano liberi dal dolore.  La mente è condizionata dai tre veleni: desiderio, odio e ignoranza. I tre aspetti fondamentali del sentiero sono: pensare di abbandonare il ciclo dell'esistenza, l'aspirazione all'illuminazione per tutti gli esseri umani, la corretta visione della vacuità.  Durante la pratica e la meditazione  La devono essere coltivati i quattro incommensurabili: equanimità, amore, compassione e gioia.

Le due ali dell'uccello che vola verso la condizione di Buddha sono la saggezza e la compassione. La formula che si pronuncia durante il percorso è la seguente: "Mi rifugio, fino alla perfetta illuminazione, nel Buddha, nella Dottrina, e nella Suprema Comunità". Un altro passo importante è comprendere come l'Io è concepito dall'idea innata di un sè esistente intrensicamente. L'Io non è nessuno dei cinque aggregati presi separatamente, nè è ciascuno dei due, corpo e mente.Il buddhismo considera l’essere umano composto di cinque aggregati (skandha): forma, sensazioni, percezioni, formazioni mentali e coscienza. Essi compongono ogni cosa, sia dentro di noi che fuori, nella natura come nella società.

I quattro ordini tibetani sono Nyngmapa, Kagyupa, Sakyapa e Gelukpa. Tutte queste scuole hanno tre elementi distintivi: hanno un maestro che è arrivato all'illuminazione, i loro insegnamenti non sono dannosi al alcun essere vivente, sostengono l'opinione che il sè è privo di permanenza, di indivisibilità e di indipendenza.  Le scuole esterne al buddhismo, come le scuole filosofiche indiane e il jainismo,  sono criticate per le pratiche ascetiche rigide e la dottrina del sè individuale. La definizione di un proponente di dottrine buddhiste è una persona la quale sostiene i seguenti quattro principi: tutto è impermanente, tutte le cose contaminate portano all'nfelicità, tutti i fenomeni sono privi di sé,  il nirvana è pace. 

Le quattro tradizioni tibetane Nyingma, Sakya, Kagyu e Gelug, hanno molto in comune e la maggior parte delle differenze consistono nel modo in cui interpretano la vacuità e il funzionamento della mente. In India nacquero diciotto diverse scuole Hinayana e solo tre lignaggi principali di voti monastici sono ora esistenti. Questi sono:  Theravada – nel sudest asiatico,  Dharmagupta – in Asia orientale,     Mulasarvastivada – in Tibet e in Asia centrale.  Tutte e quattro le tradizioni tibetane condividono il lignaggio Mulasarvastivada per monaci completamente ordinati e per monache e monaci novizi; tutte e quattro sono praticate anche da laici. Monache ordinate si trovano solo nel Dharmagupta.

Tutte e quattro le tradizioni tibetane integrano lo studio di sutra e tantra con rituali e meditazione. Ci sono differenze comunque nell’interpretazione di alcuni punti importanti dei sutra.
Dopo aver completato con successo i loro studi, i gelugpa ricevono il titolo di “ghesce” e le altre tre tradizioni il titolo di “khenpo”. “Khenpo” è anche il titolo conferito agli abati. Tutte e quattro le tradizioni hanno anche il sistema “tulku”, i lama reincarnati. Sia i tulku che gli abati ricevono il titolo di “rinpoche”, indipendentemente dal loro livello di istruzione.
La pratica rituale in tutte e quattro le tradizioni comprende il canto, accompagnato da cimbali, tamburi e corni; l’offerta di dolci fatti con farina d’orzo e burro. Gli stili di canto e musica sono generalmente simili, anche se il canto gutturale contrabbasso con suoni armonici è più frequente tra i monaci gelugpa.
Tutte e quattro le tradizioni praticano il guru yoga che è una pratica devozionale tantrica in cui il praticante unisce il proprio flusso mentale con il flusso mentale del corpo, della parola e della mente del proprio guru. Il guru yoga è simile allo yoga della divinità poiché il guru viene visualizzato allo stesso modo di una divinità meditativa. La meditazione in ogni tradizione include una pratica quotidiana, brevi ritiri di pochi mesi e ritiri di tre anni. Differiscono per lo più rispetto al periodo della vita in cui il praticante svolge il ritiro: Sakya, Nyingma e Kagyu tendono a compiere il ngondro ( che si compone di quattro meditazioni e di quattro pratiche particolari) e i ritiri nella parte iniziale del loro percorso spirtuale, mentre i gelugpa li integrano successivamente, lungo il percorso.
La tradizione Nyingma possiede anche iniziazioni tantriche e sono specializzati nella meditazione e nell’esecuzione di rituali per la comunità laica.

Alcune delle principali differenze nelle spiegazioni fornite dalle quattro tradizioni sugli insegnamenti derivano dai loro modi di definire e usare termini tecnici, oltre che dalla loro presentazione del Dharma da diversi punti di vista.  Ad esempio le posizioni riguardo all’impermanenza o alla permanenza della mente sono molto diverse. Un’altra differenza è che i gelugpa spiegano il Dharma dal punto di vista degli esseri ordinari, i sakyapa da quello degli arya altamente realizzati sul sentiero, mentre kagyupa e nyingmapa dalla prospettiva degli esseri illuminati.
Tutte e quattro le tradizioni concordano sul fatto che la spiegazione della vacuità riportata nei testi Madhyamaka è la più profonda. I gelugpa sottolineano la meditazione rispetto all’oggetto, mentre Sakya, Kagyu e Nyingma rispetto alla mente.
Ogni tradizione insegna anche i propri metodi per raggiungere una comprensione non concettuale, e per accedere e attivare la mente più sottile. Quello che i gelugpa chiamano non concettuale, sakyapa, kagyupa e nyingmapa chiamano “al di là di parole e concetti”.  Tutti concordano sul fatto che la comprensione del ruolo del pensiero concettuale nel nostro modo di conoscere il mondo è essenziale per superare ed eliminare per sempre la nostra confusione e ignoranza sulla realtà – la causa più profonda di tutta la nostra sofferenza.

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Le scuole si dividono:

 in Mahayana     -----   Madhyamika  -----  Prasangika   e    Svatantrika

                          ------- Cittamatrin      -----  seguaci del ragionamento e della scrittura

  e Hinayana      ------- Sautrantika     ------ seguaci del ragionamento e della scrittura

                          ------  Vaibhasika 

Un Vaibhasika è una persona che non accetta l'autocoscienza e sostiene che tutti gli oggetti esterni sono realmente esistenti. Tutti gli oggetti di conoscenza sono compresi in cinque categorie: forme visibili, idee essenziali, fattori associati al mentale, fattori compositivi che non sono associati né alle idee, nè ai fattori mentali enon-prodotti.  Esistono due tipi di verità: 1- la verità convenzionale, che è un fenomeno tale che, se fosse distrutto o diviso mentalmente in parti, la conoscenza che lo percepisce sarebbe annullata;  2- la verità ultima, un fenomeno che se fosse distrutto, la coscienz ache lo percepisce non sarebbe annullata. 

 Un Sautrantika  è una persona che sostiene l'esistenza reale sia degli oggetti esterni sia dell'autocoscienza.  Sono chiamati esemplificatore perchè insegnano le dottrine mediante esempi.

Un Cittamatrin   è una persona che sostiene l'esistenza reale dei fenomeni dipendenti, ma non sostiene l'esistenza di oggetti esterni. Ci sono due gruppi i sostenitori dell'apparenza reale e i sostenitori della falsa apparenza.  Gli oggetti della conoscenza sono di tre nature: 1- fenomeni dipendenti,  2- fenomeni pienamente fondati, 3- fenomeni immaginari.  Sostengono, quindi, che tutti i prodotti sono fenomeni dipendenti, che le nature di tutti i fenomeni (le vacuità) sono fenomeni pienamente fondati e che tutti gli altri oggeti di conoscenza sono immaginari.

Un Madhyamika  che sostiene che non ci sono fenomeni realmente esistenti e neppure particelle. Sostengono una via mediana che è libera dagli estremi della permanenza e dell'annullamento. Propongono che i fenomeni non hanno nessuna entità cioè nessuna esistenza reale.   Si dividono in Svatantrika che è un individuo che propone la non-entità e che sostiene che i fenomeni esistono convenzionalmente per natura propria.   Un Prasagika è una persona che non propone alcuna entità e non sostiene che i fenomeni esistono in virtù della propria natura sia pure per convenzione. Sostengono che nessun oggetto esiste in virtù delal propria natura. Tutti gli oggetti sono soltanto attribuiti dal pensiero. Base fondata, oggetto e oggetto di conoscenza sono sinonimi.

sabato 17 dicembre 2022

Il mio viaggio in Malawi

Il mio viaggio in Malawi. Il mio primo viaggio con un prete, una grossa valigia e un gruppo.

Andiamo per ordine, il prete è Don Franco De Donno uno dei responsabili del Gruppo Studentesco di iniziativa sociale del Liceo Labriola di Ostia, il gruppo è costituito dai meravigliosi studenti ed ex-studenti del Liceo Labriola, e l’enorme valigia era piena di medicinali da portare alla popolazione del Malawi.

Sono arrivato al Labriola nel settembre 2011, e la prima sorpresa ed emozione è stata di ritrovare il venerdì pomeriggio un gruppo di 70-100 studenti provenienti dalle varie scuole superiori di Ostia a discutere su un tema da loro scelto (questa attività veniva definita Gruppo in cattedra) e programmare e coordinare le attività di volontariato da portare avanti sul territorio come l’aiuto alla mensa Caritas, il dare lezione ed aiutare i bambini in difficoltà nella Casetta di Rita, l’aiuto ai senza tetto, l’aiuto ai detenuti di Rebibbia, aiutare l’associazione ONLUS Ostia per l’Africa a raccogliere i fondi per il Malawi (anche questa composta da ex-studenti) ed aiutare l’Alternativa, un’altra associazione che portava conforto ai senza tetto e alle vittime di tratta. I docenti erano semplici partecipanti e per la prima volta assistevo ad una vera Peer to Peer education, spontanea, non pilotata o pianificata a tavolino. Mi ricordo con piacere il riepilogo illuminante del prof. Raffaele Romano detto "Lello", l’altro fondatore del gruppo, che sintetizzava in maniera divina gli interventi fatti durante gli incontri.  Spesso a questi incontri partecipavano anche il prof. Aldo Biondo e la prof.ssa Marina Plasmati.

Altri momenti di incontri spontanei e di vera autogestione erano i due brevi soggiorni (una o due notti) all’eremo di Montevirginio (vicino Manziana). Anche qui ho assistito a dei momenti molto toccanti, anche per uno come me che difficilmente si lascia trasportare dall’emozione. Davanti ad un fuoco acceso, i ragazzi che stavano per diplomarsi, a turno, con le lacrime agli occhi, condividevano con gli altri l’importanza di aver fatto parte del gruppo, importanza per la loro autostima, la loro realizzazione e crescita personale. Questi eventi hanno aiutato molto questi ragazzi ad affermare la loro identità, la loro indipendenza e  a migliorare la loro capacità di comunicazione.  Molti degli ex-studenti e componenti del gruppo venivano sistematicamente a questo appuntamento.

Ma ritorniamo al viaggio in Malawi, ed in particolare alla missione dei padri Monfortani di Balaka. Io, completamente ateo, che fino all’incontro con Don Franco avevo una grande diffidenza dei preti, che odiavo i gruppi, e abituato a viaggiare da solo o in coppia con un minuscolo zainetto, che avevo già viaggiato nei Paesi in via di sviluppo, che adoravo l’Oriente, mentre stavo per partire, mi sono chiesto “Ma chi me lo ha fatto fare”. Come educatore mi sono sentito in dovere di partecipare ad un’esperienza in cui i valori come solidarietà e altruismo venivano messi finalmente in pratica. Ripensando a quel viaggio, mi viene in mente la montagna di medicinali, omogeneizzati ed altro, che i ragazzi avevano raccolto e che erano negli enormi valigioni pronti ad essere imbarcati nella stiva dell’aereo ed essere consegnati ai bambini o all’ospedale di Balaka.

 

25/7/2014 – La sera della partenza. Mi ricordo la sera della partenza i volti preoccupati dei genitori all’aeroporto. La disinvoltura e l’incoscienza con cui questi ragazzi affrontavano le varie situazioni mi dava qualche apprensione, ad esempio all’aeroporto di Adis Abeba, dove eravamo in transito, sono rimasti al bar fino all’ultimo minuto prima dell’imbarco, confidando nel fatto che l’aereo non sarebbe partito senza di loro e che sarebbero stati comunque chiamati dagli altoparlanti.

26/7/2014 - Arrivo alla capitale Lilongwe. Comunque siamo riusciti ad arrivare stravolti dalla fatica a Lilongwe. Ad attenderci c’erano i missionari con un pickup e un pulmino, i bagagli sono stati caricati sul pickup e noi sul pulmino e lasciamo l’aeroporto e la città. Altre 4 ore di strada asfaltata per arrivare alla missione, appena ci allontaniamo dalla città cominciano ad apparire i primi villaggi e lungo la strada ci sono attività varie con le quali le popolazioni cercano di sopravvivere (ci sono tagliatori di pietra, mercati di verdura e frutta di tutti i tipi) e donne ed uomini che portano sulla testa di tutto. Per un lungo tratto passiamo lungo il confine del Mozambico e qui sono evidenti i danni della guerra, c’è una completa deforestazione. All’arrivo alla Casa del volontariato di Balaka, dove dormiremo, siamo accolti con danze e canti e tutti i bambini della zona si precipitano verso il pulmino. Quando scendiamo tutti si sentono il dovere di abbracciarci. Prima della cena, Padre Eugenio che chiamavamo "Bambo" e che sarebbe stata la nostra guida per l'intera permanenza in Malawi, recita la preghiera e un discorso un po’ particolare, ed allora i miei dubbi riaffiorano, le mie resistenze riemergono… Poi, però questo viene giustificato e spiegato “Quando qualcuno ti accoglie, propone le sue abitudini che non è prevaricazione”. Quindi, anche se siamo in una missione, l’iniziativa resta apartitica e aconfessionale che è lo spirito del gruppo del volontariato.

27/7/2014 – Assistiamo ad un matrimonio, partita a pallone, a cena con il missionario Pier Giorgio Gamba. Arriviamo al matrimonio, si sposano due coppie entrambe con figli. Sì, qui in Malawi ci si sposa in Chiesa solo dopo aver verificato che si possono avere figli, che lo sposo è in grado di costruire una capanna e coltivare un campo. La chiesa è tappezzata di foto di martiri africani. Durante tutta la cerimonia si alternano balli e canti. Le coppie di sposi sono vestite all’occidentale e solo qualche donna ha il costume tradizionale. Dopo la cerimonia, che è durata circa 3 ore, andiamo a mangiare nella sagrestia, il pranzo è all’africana, composto da polenta, riso, fagioli e pollo, e si mangia con le mani. Nel pomeriggio c’è la partita contro una squadra di giovani locali. La nostra squadra è composta da me, 6 ragazzi e 4 ragazze. Perdiamo 4 a 2. I nostri goals sono di Luca il geometra e di Diego. Subito dopo si è svolta una partita tutta al femminile, ed abbiamo perso ancora. Chi non giocava animava i tanti bambini curiosi a bordo campo con balli canti e girotondi.  Ceniamo con Pier Giorgio che chiamiamo "Bambo Gamba". Lui è una celebrità in Malawi, ha dovuto scappare in un bagagliaio all’epoca dell’indipendenza del Malawi. Alla cena partecipa anche il precedente vescovo di Balaka. Ci offrono una cena stupenda in cui viene servito anche del buon vino che non si sa da dove provenga. Pier Giorgio fa i complimenti a questi straordinari ragazzi che fanno anche parte di Ostia per l’Africa. Ostia per l’Africa è riuscita in due-tre anni a costruire una Scuola primaria a Balaka raccogliendo fondi in vari modi (concerti, partite a pallone, pizze, mostre, ecc). I ragazzi che sono qui, si sono pagati autonomamente il viaggio e il soggiorno lavorando per un intero anno e tutti i fondi raccolti vanno interamente alla scuola, non ci sono spese per stipendi, o altro. Quello che mi ha colpito è il parallelismo che fa Pier Giorgio con i membri delle varie organizzazioni internazionali, che vengono a trovarlo nella sua missione, con viaggi e hotel rimborsati, per portare delle penne o matite ai ragazzi della scuola. Poi la sera, Pier Giorgio accompagna me e Don Franco alla vicina missione dove alloggiamo, mentre i ragazzi si fermano ad una delle capanne del piccolo villaggio per farsi un rhum, con le iene che circolano intorno.

28/7/2014 - Inaugurazione della costruzione della scuola secondaria e visita alla scuola primaria. Padre Eugenio ci accompagnerà nella visita odierna. Si parte con il pulmino attraverso strade sterrate piene di animazione, costeggiando il mercato incontriamo molte donne con il velo mussulmano, oggi è la festa del ramadhan ed è la festa nazionale. In Malawi, la presenza dei mussulmani è molto forte ed è tra il 15-20%, poi costeggiamo una ferrovia dove un treno passa una volta alla settimana. Arriviamo al posto dove sorgerà la scuola secondaria di Matola, qui ci accoglie Eugenio il capocantiere che ha passato 20 anni in Malawi ed è lui che ha diretto la costruzione della scuola primaria e della Casa delle donne (un altro progetto di Ostia per l’Africa). Troviamo già tracciate le fondamenta della futura scuola secondaria. La scuola secondaria sarà dedicata a Lello Romano, uno delle anime del gruppo di volontari, ma che purtroppo è morto prematuramente di tumore. “Siamo i tuoi diamanti nel buio”: questa è la frase scelta ed incisa dai figli Stefano e Paola, da mettere sulla prima pietra della scuola secondaria che abbiamo iniziato a costruire e che sarà dedicata al loro padre il prof. Lello Romano. Iniziamo a lavorare; dobbiamo togliere la terra nelle zone dove sorgeranno i muri per costruire le fondamenta. Tutti si mettono a lavorare, ragazzi e ragazze, con una generosità incredibile. Poi visita alla vicina scuola primaria gestita da suore, i muri all’esterno della scuola primaria sono coperti dai nomi di tutti coloro che hanno fatto donazioni/ raccolto fondi per la costruzione della scuola tra cui professori del Liceo Labriola (E' stato Veltroni che nel 2007 a  progettare questo incontro tra scuole romane e Africa). Ci accolgono la Preside ed alcuni insegnanti (nonostante sia giorno di festa), ci mostrano le tre aule di cui è composta la scuola e la sala dedicata alla presidenza. Le aule sono pavimentate, ma il pavimento è già quasi scomparso, il tetto è di lamiera (sono le riparazioni effettuate dopo le intemperie), lo spazio è ristretto e i muri sono usati come lavagne. Improvvisamente mi si materializzano nella mente le immagini che ho visto tante volte su libri dedicati all’educazione nei Paesi in via di sviluppo. La Preside ci illustra il curriculum e le difficoltà che i ragazzi incontrano: l’alto tasso di ripetenze dovuto essenzialmente all’assenteismo, l’elevato numero di ragazzi per classe (la media è di 48 allievi) e un solo docente è di Matola. Offriamo loro penne, matite, quaderni e libri, ed un grande orologio per la presidenza. Anche qui ci offrono il pranzo composto da riso e polenta, pollo, fagioli. Questa volta ci servono in piatti e posate. Pomeriggio ripresa dei lavori nella scuola secondaria e poi ritorno verso la missione. Sosta al bar per la solita birra. Anche qui quello che mi stupisce è la facilità di questi ragazzi di interagire e socializzare con le persone del posto. Addirittura sfida a biliardo con i locali e i ragazzi che giocano con tutti i bambini e ragazzi che curiosi vengono verso di noi.

29/7/2014 - Incontro con Patrick Bwanali coordinatore della scuola secondaria privata. Visita del centro con il prof. Mashepa con il quale ci siamo confrontati sui sistemi scolastici dei due Paesi. In Malawi la percentuale di AIDS è una delle più alte in Africa. Abbiamo parlato di adozione a distanza, si può adottare un bambino con 7 euro al mese per la famiglia, in più si paga per malattie o iscrizione alla scuola secondaria. Nel Malawi erano state fatte 1490 adozioni in un anno, e comunque stavano diminuendo. C’è una cultura matriarcale e quando la madre muore, il padre ritorna a casa e si risposa subito. L’orfano, spesso, resta con i nonni. Pier Giorgio Gamba arriva in Malawi nel 1976 in piena dittatura (dal 1964 al 1994), opera in semiclandestinità, stampando opuscoli sulla prevenzione di AIDS e altro. Nel 1992 i vescovi cattolici scrivono la prima lettera di opposizione alla dittatura in tre lingue. La stamperia viene bruciata e Pier Giorgio è costretto a fuggire. Il Malawi, è uno dei pochi Paesi africani, dove c’è stato un passaggio alla democrazia in modo non cruento. All’epoca era il capo villaggio incaricava lo strillone per dare notizie. Il Malawi è ricco di Coctan, un minerale per microprocessori. Il presidente dell’epoca era Peter Mutharica. In Malawi c’era ancora la pena di morte, anche se non applicata in questi ultimi venti anni, Poi, con tutto il gruppo facciamo la visita alla stamperia rinnovata e al centro editoriale. Poi visitiamo la televisione e la Casa delle donne. Qui c’è la trasformazione della farina, semi di girasole, olio, polli e maiali. C’è una sartoria e una sala di conferenze senza sedie, macchine elettriche non attive per mancanza di elettricità. Mangiamo alla casa delle donne. Poi, visita alle produzioni di formaggio, marmellate e alla coltivazione di piante (il Chifund Herbal Project). Andiamo poi a visitare la casa di recupero dei detenuti per reati minori chiamata “La casa di metà strada, Half way house”, qui abbiamo contribuito alla costruzione di un'ala del carcere per ampliarlo. Qui abbiamo trovato esposta la frase “Chi non cammina, non alza polvere”. Sulla strada del ritorno a Balaka abbiamo visitato il centro artigianale di colorazione delle stoffe. A Balaka piove e fa freddo, serata con vino e birra.

30/07/2014 - Visita al college “Andiamo Tecnological Pole”. Tutte le mattine, prima di colazione, padre Eugenio raccontava una parabola, questa mattina ci ha raccontato la parabola dello scavare nel campo. “Occorre trovare il tesoro, trovare l’ideale della nostra vita, dare un senso alla nostra vita e lasciar andare le cose inutili. Ha fatto un parallelismo con il Contan, il minerale per i componenti elettrici, per utilizzarlo occorre depurarlo dalle scorie”. Occorre trovare persone con le proprie affinità, proiettarci all’interno e scoprire la sorgente della gioia e della tristezza. Facciamo visita all’ospedale, al reparto pediatrico, oculista, dentista gestito da una signora canadese. Qui alcune ragazze del gruppo, infermiere di professione, hanno portato il loro aiuto. Poi abbiamo visitato il college “Andiamo Tecnological Pole” nata da un’idea di padre Mario dei Monfortani nel 1984, con l’obiettivo di permettere ai giovani malawiani di esprimersi. L’attività della cooperativa si basa su quattro principi che sono: educazione, salute, sviluppo sociale, sport. Qui ho incontrato il docente Mashepa George che insegna informatica di base al college che è una scuola privata a cui accedono studenti con una discreta preparazione di inglese e le classi sono composte da soli 15 studenti. Poi abbiamo incontrato i componenti dell’Alleluja Band, che ha vinto la competizione di canti e danze nel Malawi ed è venuta anche ad Ostia a fare concerti. Per loro tutti i canti hanno un messaggio. Andrea uno dei ragazzi del nostro gruppo, si è esibito con loro come batterista. Il messaggio principale è il seguente: l’importanza dell’educazione nella lotta contro l’Aids, devi stare attento alla tua salute, vai dritto per la tua strada. Il pomeriggio lo abbiamo trascorso al mercato.

31/7/2014
- Visita dell’orfanotrofio. Siamo andati, accompagnati da padre Eugenio, a visitare l’orfanotrofio di Cancao gestito dalle suore Le poverelle di Bergamo. Gli orfani provengono da Lilongue e Concao e i parenti devono andare a trovarli almeno una volta al mese. Poi aiutiamo, in un villaggio vicino, a ricostruire il tetto di una casa di una anziana. Il tetto è in mattoni, quindi bisogna andare al fiume a prendere la sabbia e l’acqua, poi impastarle, costruire i mattoni e metterli ad essiccare. Poi passiamo il fiume Rivi Rivi e visitiamo un lebbrosario dove ci sono 40 lebbrosi. Nel pomeriggio visitiamo i villaggi dove vivono i due bambini, uno adottato da Ostia per l’Africa e l’altro da Laura ed Angelica che fanno parte del nostro gruppo, sempre accompagnati da padre Eugenio. Padre Eugenio è conosciutissimo in questi villaggi dove le capanne degli stregoni sono circondate da bandiere di vario tipo. Quando incontriamo i due bambini con le rispettive famiglie, si prova veramente una grande emotività, un grande sentimento di solidarietà. L’aiuto che va ai bambini serve in effetti, a sostenere l’intera famiglia.

1/8/2014 - Parco Nazionale di Liwonde che si trova a circa un’ora e mezzo da Balaka. Arriviamo ad un lodge dove prendiamo delle barche con la quale ci avventuriamo a gruppi nel fiume. Durante la traversata del fiume, vediamo sulle rive elefanti, ippopotami, coccodrilli, impala, antilopi, facoceri, uccelli di tutti i tipi, pellicani e cormorani. Pranzo al sacco stando attenti alle scimmie golose al lodge. Al ritorno visitiamo e prendiamo un tè all’ippo lodge dove dove abbiamo soggiornato nel 2007, in occasione dell'inaugurazione della scuola primaria. Qui ha soggiornato anche Veltroni nel 2007.  Padre Eugenio ci parla dei veri riti di iniziazione dei giovani del Malawi; i maschi vengono circoncisi nell’età che va dagli 8 ai 14 anni, e dell’introduzione alla sessualità delle ragazze. Ci parla degli stregoni e delle varie storie di stregoneria come quella della carbonella rubata che si trasforma in cadavere. O il granaio al quale è stata fatta una fattura per impedire il furto di grano.

2/8/2014
- Visita al mercato del legno di Liwongue e all’Ippo Lodge, Qui abbiamo comprato diversi oggetti di artigianato da rivendere ai nostri banchetti di raccolta fondi.

3/8/2014 - Inaugurazione della chiesa di Chikala. Partenza da Balaka alle 5 del mattino, siamo arrivati alla base della montagna alle ore 8,30, dopo due ore di marcia tutta in salita abbiamo assistito all’inaugurazione della chiesa, la cerimonia è durata dalle 11,00 alle 15,00. Ci sono stati i discorsi del capo villaggio mussulmano, di varie figure rappresentative, poi le mura esterne della chiesa sono state benedette. Don Franco ha battezzato 15 bambini. I mussulmani nel villaggio avevano costruito una scuola multigrado.

4/8/2014 - Escursione al lago Malawi e al parco nazionale. Qui abbiamo fatto bagni e sole ed abbiamo aspettato il magnifico tramonto. Abbiamo dormito in una piccola casetta in riva al lago piena di zanzare e abbiamo dormito sotto delle zanzariere.

5/8/2014 - Visita alla prigione di Mangoshi. Qui 150 prigionieri per aver commesso reati minori vivono all’aperto, cucinano, e fanno l’orto in riva al fiume, in un regime di semi-libertà. Abbiamo incontrato i detenuti in un cortile interno, il nostro gruppo di fronte al gruppo di detenuti con due guardie ai lati, il direttore della prigione e il rappresentante del governo di Balaka. I detenuti si sono esibiti in vari canti e cori e i ragazzi hanno distribuito loro sapone, dentifricio, dolcetti, cioccolata e pane. Poi siamo andati sul lago Malawi a mangiare al resort Makokola a 5 stelle gestito da romani.

6/8/2014 - Visita del Kungoni Art Craft Center. E’ il centro tradizionale del Malawi di cultura ed arte, ed è considerato il villaggio degli artisti. Qui abbiamo assistito a delle danze tradizionali in costume. IL centro è stato creato da Claude Boucher (Chisale) ed include l’area di Mua, Mtakataka, Kapiri e Golomoti. Nel centro vendite ho comprato il oibro di Claude Boucher When animals sing and spirits dance.

7/8/2014 - Partecipazione all’Inaugurazione della biblioteca al Cecilia Youth Center, qui gruppi di danzatori ci hanno accompagnato per tutta la cerimonia che è durata dalle 9,30 alle 13,30

8/8/2014 - Ritorno a Roma.

Considerazioni: E’ la prima volta che viaggio con due enormi valigie, viaggio in un gruppo, con un prete e un missionario, è una delle rare volte che ho vissuto la realtà di un Paese in modo così approfondito e con tante sfaccettature. Questo straordinario viaggio mi ha permesso di entrare in contatto in maniera quasi epidermica con la cultura, le tradizioni e lo spirito del popolo del Malawi. Quello che mi ha colpito in modo particolare è una frase di Pier Giorgio durante l’ultima sera che abbiamo passato insieme. “Non ho mai incontrato una realtà piccola come la vostra che si è impegnata nella realizzazione di un progetto così complesso come la creazione di una scuola secondaria. Questo vi dovrebbe riempire di orgoglio e darvi la forza e lo spirito per arrivare a compimento di questo grande progetto”.  Tre anni dopo la scuola secondaria era completamente costruita e gli studenti hanno iniziato a frequentare le  classi. Questi splendidi ragazzi erano riusciti a raccogliere circa 160.000 in tre anni. Questi 160.000 euro erano andati tutti nella scuola, nessuno aveva preso un centesimo per rimborso spese, viaggi, mansioni varie, ecc.

L’educazione e l’istruzione sono le basi per lo sviluppo di un popolo. Speriamo che il Malawi si avvii sulla strada di uno sviluppo consapevole, mantenendo in vita le tradizioni e lo spirito comunitario. Elementi che in Italia, come ha sottolineato Antonio Caliendo, sono ormai da tempo scomparsi.

Sono grato ai ragazzi di Ostia per l’Africa e ai missionari Pier Giorgio e padre Eugenio che mi hanno ridato la speranza che un mondo migliore è possibile.

Il nostro gruppo era formato da me, Don Franco de Donno, Antonio Caliendo e dai seguenti ragazzi: Luca, Giovanni, Andrea il batterista, Stefano e la sorella Paola, Gaia, Diego, Cheyenne, Sofia, Silvia, Elisa, l’altra Elisa, Laura e Angelica che hanno adottato un bambino, Ester, Marzia e Sara le due sorelle, Giulia e Giulia. A noi si è unito, durante il soggiorno, Davide un ragazzo di Bergamo. .

L'associazione Ostia per l'Africa ODV è ancora attiva e nel 2017 un piccolo gruppo di volontari si è recato nuovamente in Malawi per inaugurare e visitare la Scuola Secondaria ultimata. In quell'occasione i volontari e le volontarie hanno parlato con studenti e studentesse accogliendo il loro desiderio di avere un'aula magna dove svolgere attività extra scolastiche.
E' possibile sostenere i progetti dell'associazione attraverso il 5x1000 C.F. 97556130587, donazioni sul C/C postale 2011049 o diventando donatori mensili su Wishraiser, una piattaforma online di raccolta fondi www.wishraiser.com/ostia-per-l-africa-onlus

Vedi link:  https://www.youtube.com/watch?v=UiPLCYONMQg                     

https://www.youtube.com/watch?v=iWcY_KfF16Y 

 

giovedì 8 dicembre 2022

Il fascino del Buddhismo - Raimon Panikkar

 Dal sito di Gianfranco Bertagni:  http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/raimonpanikkar/fascinobud.htm      "La religione non è un esperimento ma un’esperienza di vita per mezzo della quale l’uomo partecipa all’avventura cosmica.»    Raimond Panikkar

Raimon Panikkar (1918-2010), nome completo Raimon Panikkar Alemany, è stato un filosofo, teologo, presbitero e scrittore spagnolo, di cultura indiana e spagnola. È stato una guida spirituale del XX secolo e innovatore del pensiero, teorizzatore e testimone del dialogo interculturale e dell'incontro tra le religioni.  E' stato un grande divulgatore e un personaggio importante per l'incontro tra Oriente e Occidente. Un altro grande personaggio che ha contribuito al dialogo tra Cristianesimo e Induismo è stato Henri Le Saux (1910-1973): monaco cristiano francese, dell'ordine benedettino, figura mistica del cristianesimo indiano.   Alcuni testi di Panikkar:  Buddismo;   Il silenzio del Buddha. Un a-teismo;  Tra Dio e il Cosmo;   Mistica e spiritualità;     Induismo e Cristianesimo.    Sito:  https://www.raimon-panikkar.org/italiano/home.html

Il fascino del Buddhismo - Raimon Panikkar

Un bel giorno, di buon mattino, un giovane principe che non era delle Asturie né della casa di Davide, ma di un piccolo clan che viveva a fianco delle montagne più alte del mondo da una parte e la piana del Gange che già da mille anni era un punto d'incontro di civiltà dall'altra, dopo anni di lotta e di dubbi, (non oltre la metà del VI secolo a.C.) fece un colpo di testa e andò a prendere Kanthaka, il suo grande cavallo bianco preferito, e Channa, il suo servitore personale, per uscire dalle porte del castello del regno di suo padre lasciando un bambino piccolo (suo figlio) e la principessa (la sua sposa), per provare a risolvere i problemi che fin dall'età di sei anni lo tormentavano. Passato il fiume che segnava il confine del suo regno e di quello di suo padre, si liberò anche del servitore e del suo cavallo bianco preferito, si cambiò d'abito, prese una ciotola da mendicante e si incamminò, senza sapere dove andare.

Fin da quando il bambino aveva sette anni, suo padre s'era reso conto che il figlio, nato con tutti gli auspici per essere un grande re che avrebbe rivoluzionato il mondo dei piccoli regni del nord dell'India, non aveva troppa voglia di utilizzare i poteri e i mezzi che aveva. Gli costruì un palazzo di primavera, un altro d'autunno e un altro d'inverno. Nel palazzo di primavera ci mise tutto quel che potrebbe desiderare un giovane adolescente. In quello d'inverno gli diede tutti i tipi d'insegnamento che i pandit del suo regno gli potevano dare, e in quello d'autunno gli mise a disposizione l'esperienza degli anziani del suo clan. Sembrava però che niente lo soddisfacesse. Aveva in mano la possibilità di utilizzare tutti i mezzi che permette il possesso di un regno. Avrebbe potuto cambiare il mondo se così avesse voluto, cambiare le cose se lo avesse ritenuto giusto. Ma sembra che disprezzasse tutte le agevolazioni del potere come un mezzo per fare il bene. E, come più tardi egli stesso darà ad intendere, rinunciò ad utilizzare il potere; e come più tardi anche un altro giovane, più o meno della stessa età, dirà «lascia che le pietre siano pietre e non volerle cambiare in pane; rispetta le cose e non utilizzare il tuo potere, nemmeno per fare il bene». E quel giovane di 29 anni che aveva visto (sembra) un vecchio, un malato, e un uccellino che portava nel becco un verme che non si poteva liberare e che più tardi si imbatté in un morto e in un funerale (malgrado suo padre, che lo stimava tanto, volesse evitargli le pene dell'esistenza), se ne andò senza sapere dove andare, ruppe i legami, fece il colpo di testa, lasciò correre tutto, disprezzò il potere, le occasioni e superò quello che in seguito lui stesso, quando stava sotto un albero, vide: la tentazione dei mezzi. Utilizzare i mezzi, il potere, per fare cose buone.

Trovò un primo maestro che lo introdusse nel mondo del monachesimo brahmanico del suo tempo e, con zelo di novizio, cominciò a seguirlo finché non s'accorse che quello non era il suo maestro. Lo lasciò perdere e ne andò a cercare un secondo, e poi un terzo. E si rese anche conto che qualsiasi sequela di un maestro non gli andava troppo bene. Quel giovane principe, che nascondeva la sua origine principesca nel seguire una strada, sembrava un po' ottuso, tanto da non sapere quale fosse. Continuò per sei anni a seguire gli insegnamenti di questi tre maestri e, con zelo di convertito, arrivò agli estremi, diminuendo ogni giorno i granelli di riso che mangiava finché, raccontano le scritture, lo sterno gli si vedeva da dietro, le costole erano trasparenti, ridotto in pratica a niente.

Attraversando un fiume, un giorno si imbatté in una bella ragazza, di nome Sujata, che in seguito tutti i canoni hanno ricordato, che gli diede da mangiare, mossa probabilmente a compassione. I cinque discepoli che alla fine di questo periodo lo accompagnavano, scandalizzati che accettasse da mangiare dalle mani di una graziosa ragazza, lo abbandonarono e si trovò solo (perché anche Sujata, dopo avergli dato da mangiare sparì). Continuò da solo, però capì che ogni estremismo ascetico è controproducente e che né il palazzo del re, né la capanna del povero erano per lui quello che cercava. Ma non sapeva quello che cercava, sapeva soltanto quello che non voleva: non voleva essere re, non voleva essere monaco, non voleva il potere, non voleva essere un rinunciante.

Smise dunque d'essere sannyâsi e continuò il suo peregrinare nella zona del Gange; passando per una delle capitali del suo tempo, Pâtaliputra, andò a stabilirsi in un luogo che oggi porta una parte del suo nome, Bodh-Gaya, e là, sotto un albero, la ficus religiosa, albero sacro della tradizione brahmanica, si fermò, tentando di ricollegare il mistero della vita, il mistero della morte, l'ingiustizia della povertà, la realtà del divino, il passato, il presente, e quando stette completamente quieto s'accorse di poter oltrepassare anche l'ordine temporale e vide anche il futuro. Là, dice la tradizione, stette a lungo immobile, doveva ancora superare la terza tentazione, dopo aver resistito alla tentazione di Mâra: la tentazione di fare il bene, la tentazione di convertirsi in un predicatore.

Brahmâ gli si accostò e gli disse: «Siccome ora hai già ottenuto la realizzazione, trasmettila anche agli altri» ed egli rispose di no, che non sarebbe servito trasmettere una cosa già fatta e digerita, e un messaggio idiosincratico, se gli uomini non avessero fatto l'esperienza personale e non fossero passati per là dove era passato lui. Voler salvare il mondo è la grande tentazione, voler salvare se stessi era il gran pericolo. Non fare niente era impossibile, fare piccole cose non lo convinceva. Fare tutto era quello cui aspirava. E quel giovane di circa 35 anni ricordava il passato, vedeva il presente e ancora non sapeva che fare. Continuò il suo peregrinare, camminò per circa 600 chilometri al di sopra del Gange, sentiero molto pianeggiante dopo che la stagione delle piogge era passata, e là, in un luogo dove il Gange, che andava verso l'ovest, per uno di quei capricci della natura che gli uomini interpretano in maniera differente, risale verso il nord, verso la propria sorgente, verso l'Himalaya e si converte perciò in un luogo sacro, là, forse mille anni prima che egli nascesse era stata fondata la città più santa della tradizione brahmanica, Vârânasî, fra i fiumi Asi e Varuna, affluenti del Gange.

Procurò di evitare la città, ormai non voleva vedere uomini santi, non voleva più conoscere il centro del brahmanesimo, e si ritirò un poco più verso il nord, prima di arrivare alla confluenza del Varuna col Gange, a un parco popolato di cervi. E là, a Sarnath, il caso volle che ritrovasse i cinque monaci che erano stati suoi discepoli e che aveva lasciato scandalizzati quando avevano visto che riceveva da mangiare da una ragazza. E allora, avendo superato la tentazione del santo, che è quella di fare il bene, la tentazione del politico, che è quella di utilizzare anche i mezzi per fare il bene, la tentazione del monaco, che è quella di rinunciare a tutte le cose per sentirsi bene e giustificato; allora, in quel parco dei cervi chiamato Îsipatana, riunì quei cinque monaci che aveva ritrovato e disse loro: «Questi due estremi si devono evitare. Quali sono questi due estremi? L'uno è ricercare e desiderare il piacere. Questo viene dall'attaccamento, è volgare, non è nobile, non porta alcun profitto, e conduce a rinascere. L'altro estremo è la ricerca dell'ascetismo, dello spiacevole, della sofferenza, della rinuncia, ed è ugualmente penoso e non porta alcun profitto».  Questi i due estremi che si devono evitare e proseguì: «Il Tathâgata (nome che non si sa se si dava egli stesso o gli diede la tradizione, ma il testo pâli lo riporta così) invece evita questi due estremi e cammina per la via di mezzo che è una via luminosa, bella e intelligibile, che è una via piena di serenità, che porta alla pace, alla conoscenza, alla illuminazione, al nirvâna. E qual è, o monaci, (si rivolgeva ai cinque che l'ascoltavano) questa via di mezzo che porta alla pace, alla conoscenza, al risveglio, al nirvâna? È questa o monaci la via di mezzo: questa è la nobile verità del dolore».
La parola che egli usò, e che è stata tradotta in mille maniere diverse, duhkha, può significare sofferenza, inquietudine, disagio, essere infelice, essere povero, essere miserabile. E si può assumere nel suo significato più originario, accorgendosi che il suo opposto è sukha, che vuol dire benessere, tranquillità, pace... e all'interno di una civiltà agricola i contadini del suo tempo sapevano che quando il carro dei buoi è bene ingrassato e le strade non hanno troppe buche, le cose vanno sukha, agevoli. Quando il carro dei buoi scricchiola perché gli manca il grasso, le strade son piene di buche, il carro fa rumore e allora è duhkha, non ha funzionato agevolmente, in maniera scorrevole. Proferì dunque questo discorso fondamentale di Vârânasî.
«Questa è la nobile verità del duhkha, dell'inquietudine, del dolore, della sofferenza della condizione umana: la nascita è dolore, invecchiare è doloroso, la malattia è sofferenza, la morte è dolorosa, il contatto con ciò che è spiacevole è doloroso, non ottenere quel che si desidera causa dolore, gli skandha (i cinque aggregati coi quali ci poniamo in contatto con la realtà come altrettante finestre della conoscenza) sono dolore».
«Questa è, o monaci, la nobile verità dell'origine del dolore, la sete, il desiderio che porta a cercare il piacere, il quale scatena la passione, e che cerca la soddisfazione qua e là, la sete di piacere, il desiderio di esistere e quello di non esistere. Questa è la nobile verità della cessazione del dolore, la soppressione completa della sete, la sua distruzione, lasciandola correre, abbandonandola, essendone liberati e standone distaccati. Questa è, o monaci, la via che conduce all'estinzione del dolore, questo è l'ottuplice sentiero (le otto strade, ashtângamârga), cioè la retta visione».... Traduco con retta ciò che si potrebbe chiamare serena, equilibrata, completa, perfetta, samyak, da cui viene anche armonia, la visione armonica. Diciamo dunque: La visione corretta, l'intenzione corretta, l'azione o condotta corretta, i mezzi o genere di sforzo appropriato, l'attenzione come ci vuole e concentrazione necessaria. Ciascuna di queste parole si potrebbe tradurre in maniere differenti e si dovrebbe spiegare in dettaglio, ma continuiamo con il testo.

«Finché questa triplice conoscenza e questa intuizione con le sue dodici divisioni non sono state purificate con le quattro nobili verità; fino allora, o monaci, in questo mondo con i suoi dèi, con Mara, con Brahmâ con gli asceti, i bramini, gli spiriti, gli uomini, gli animali e con tutte le cose, io non ho ottenuto lilluminazione completa e suprema». Queste sono le quattro nobili verità, che formano la pietra angolare e il punto d'unione di tutta questa tradizione che per venticinque secoli ha contribuito come poche altre a dare al mondo, non soltanto una, ma molte filosofie, molte civiltà e tutto un sentiero di vita.
Il Buddha, chiamato così dai suoi discepoli come colui che ha conseguito la pienezza della buddhi, della conoscenza, del risveglio, è il principe che ora ha già quasi una quarantina d'anni, forse 38 o 39, quando comincia ad essere seguito da un centinaio di discepoli. Ma egli non vuol fondare una religione, non vuol fondare fin dall'inizio neppure un ordine monastico, non ha lasciato la casa paterna per salvare il mondo, non ha voluto discepoli che lo seguissero perché ha qualcosa da dire loro, egli vuol vivere e ha scoperto una sola cosa: ha scoperto che al mondo c'è dolore; ha scoperto l'origine di questa sofferenza, ha scoperto che questa sofferenza può cessare e ha trovato la strada. E la strada complessa di queste otto dimensioni che portano alla cessazione del dolore, della sofferenza, all'appagamento di ciò che molte volte è stato tradotto come desiderio, ma che la parola tanto in pâli quanto in sanscrito vuol dire semplicemente sete; la sete di esistere, la sete di non esistere, la sete di voler essere perfetto, la sete di voler arrivare da qualche parte, l'inquietudine di non voler stare nel proprio posto, il desiderio di volere qualsiasi cosa. Ora, trascendere la volontà, questo non comprese Nietzsche, non è voler non avere volontà. Durante quasi una quarantina d'anni quest'uomo continua a vivere nelle pianure gangetiche del nord dell'India e pian piano là gente gli si riunì e gli si raggruppò attorno. Nella tradizione di quei tempi chi seguiva un uomo spirituale o un maestro si chiamava bhikkhu, monaco, sannyasi, sadhu, rinunciante.
Gôtama parla mentre cammina e i suoi discepoli si impregnano di quello che egli va dicendo: «Così come il vento soffia davanti e dietro e fa muovere le foglie del cotone, così la vera e inesauribile gioia mi sta muovendo, e in questa maniera compio tutte le cose». Che vuol dire essere uomo? Essere uomo vuol dire, secondo quel che ci dirà uno dei suoi discepoli, partecipare al festival gioioso di tutta l'esistenza. «Il profumo di un fiore non viaggia contro la direzione del vento, ma la fragranza di un uomo buono va anche contro la direzione del vento; un uomo buono penetra le quattro direzioni». Egli è molto convinto di quello che in seguito la tradizione commenterà: «ll santo non lascia tracce, è come il volo di un uccello, non lascia orme. Perciò è tanto difficile seguirlo».

Quest'uomo entusiasma. Discepoli lo seguono da tutte le parti. Anche le donne lo vogliono seguire, ed egli, che aveva fatto quella eccezione con Sujata, dice di no. Ma Ananda, il monaco più stimato da lui, dice al maestro che le accetti e allora egli le accetta. Ma non ha alcuna pretesa né di formare una religione, né di formare una setta, né di riformare il brahmanesimo, né di creare niente. Vuol vivere la propria vita, non pretende niente, non vuole dare neppure un nome alla sua comunità che sempre più si va formando. Quando muore, ottantenne, i discepoli s'accorgono che non hanno un luogo, che non sanno niente, che niente è regolato. Che cosa è accaduto? Allora, tre mesi dopo la sua morte, 500 anziani convocano il primo concilio del mondo buddista per vedere che cosa fosse capitato. E restano sorpresi nell'accorgersi che sì, erano capitate molte cose, che c'era stata una critica feroce alla spiritualità induista e brahmanica, che si erano costituiti gruppi che vivevano la vita del sangha o della comunità, che avevano preso spontaneamente come maestro uno che diceva soltanto di aver visto la realtà delle cose e la differenza che c'è tra loro.
In questo concilio si configurano due partiti. Gli uni sono quelli che cantano e gli altri sono quelli che stanno in silenzio. Questa è l'origine di quello che in seguito verrà chiamato un movimento, e che si chiama religione, che porta il nome di buddismo, e che ha, come tutti gli «ismi», un alto grado di astrazione. Quest'uomo non pretende d'essere profeta, non reclama nessun'autorità speciale, non si dice inviato da nessuno, evita sistematicamente il nome di Dio e quando una volta Râdha, un monaco, gli chiede di dire qualcosa di Dio gli dice: «Oh Râdha! Tu non sai quello che stai domandando, non conosci i limiti della tua domanda, non sai quello che domandi. Come vuoi che io ti risponda!». E nasce così quello che oggi noi, con questa facilità che abbiamo di appioppare etichette alle cose, chiamiamo buddismo o, meglio ancora, tradizioni buddiste, perché ce n'è sicuramente più d'una dozzina, ognuna con le proprie filosofie. Ma il Buddha non vuole niente di ciò. La sua via mediana non vuol essere né mondana, né religiosa, nel senso che a quei tempi sintendeva per religione; vuol essere la via di mezzo, dell'equilibrio, dell'armonia, dell'equanimità, della serenità.

Una madre addolorata lo va a trovare disperata perché sua figlia era morta, volendo un miracolo o sperando una consolazione. E Buddha la riceve, la guarda e le dice: «Mi accontento di poche cose». «Domandami qualsiasi cosa!» dice Kisâ Gautamî. «Portami tre granelli dì riso (o una manciata di semi di senape). Però valli a cercare in quella casa dove non ci sia mai stata alcuna disgrazia come la tua, dove non ci sia mai stato alcun dolore». E la giovane madre disperata, credendo che la cosa fosse relativamente facile, se ne va a cercare i tre granelli di riso e non trova casa che la morte prematura non abbia visitato. E torna dal Buddha dicendo: «Perché io volevo essere tanto speciale, perché misconoscevo la condizione umana? Perché non mi accorgevo che quello che io stavo patendo alla mia maniera è quello che ho trovato in tutte le case dove chiedevo un granello di riso? Mentre io credevo che non ci fosse stato alcun dolore, ho trovato che in tutte le case ce n'è stato. Grazie!». Più tardi entrò nell'ordine e divenne un arhant.
Senso comune! Non parla di Dio, non parla di religione, non vuol consolare con sentimentalismi, non dà spiegazioni. I discepoli della seconda generazione che lo seguono sono più intellettuali. Vogliono dottrina e soluzioni teoriche: Quel che io predico è come il caso di un uomo al quale hanno tirato una freccia e ora voi mi domandate che io continui la discussione: perché gli hanno tirato la freccia? E chi erano i suoi vicini? E chi ha visto il colpevole? E dov'è fuggito colui che l'ha tirata? Tutte discussioni teoriche. E intanto l'uomo ferito dalla freccia è morto, perché in quel momento l'unica cosa importante era estrargli la freccia dal corpo senza perdere tempo investigando le cause, domandando le ragioni, inseguendo il colpevole, cercando la giustizia, facendo il filosofo, cercando soluzioni. Prassi, azione immediata, spontaneità: estrarre la freccia dal corpo dell'uomo ferito, dal corpo dell'umanità gravemente ferita.
Il Buddha parla di silenzio sacro, utilizzando la stessa parola di quando, nel giardino vicino a Vârânâsi, egli parlava delle quattro nobili verità e del nobile silenzio. Ma il nobile silenzio non consiste nel tacere perché non si dice tutto quello che si avrebbe da dire o perché si vuol nascondere il segreto e la pietra filosofale che si è trovata. Il nobile silenzio è silenzio perché non ha niente da dire, e siccome non ha niente da dire non nasconde niente, né dice niente, né tace, ma placa le inquietudini che potrebbero sorgere da noi. Se domandiamo perché, è perché cerchiamo di trovare una risposta, ma questa risposta, a sua volta, genera un altro perché. Finché non distruggiamo la radice che ci fa domandare il perché, semplicemente finché domandiamo, non sorgerà la risposta adeguata. Ogni risposta è sempre informazione di seconda mano, risponde ad un problema che ci siamo formati, risponde a una domanda, non la risolve, non la dissolve, non fa che la domanda non sorga più.

Il mondo di Buddha è il mondo della spontaneità, della libertà, dell'estrarre la freccia senza chiedersi il perché, non perché non ci sia, ma perché qualsiasi domanda è un modo di far violenza all'esistenza, è domandare quel che c'è dietro, è fare quel che fanno le bambine quando si domandano che cosa c'è dentro la bambola e allora la rompono. E questa non è la cosa peggiore, il peggio è che non giocano più con la bambola che hanno rotto. Quando cerchiamo le cause non lasciamo più che gli effetti ci rallegrino la vita. Questo è lo spirito del buddismo. Tutto il resto è sorto da quest'uomo che non voleva niente, che non voleva fondare niente, che non voleva nemmeno riformare il brahmanesimo.
Io ricordo che relativamente pochi anni fa (gli anni 50) a Sarnath, lo stesso luogo dove nacque questo grande movimento, io domandavo a un monaco hindu, buddista theravada molto amico mio, (l'editore del Tripitaka in hindi e che in seguito diventò rettore dell'università di Nalanda) come mai in India non ci fossero buddisti, come mai in tutta l'India, la patria del Buddha, il buddismo come religione non esistesse più. E il bhikkhu mi guardava e mi diceva: «Ah sì? Non ci sono buddisti?». E io mi rimangiavo la domanda. Diciamo che non ci sono buddisti perché non c'è gente che ha firmato per il partito buddista, perché non c'è gente che si dichiara buddista, perché il buddismo come religione in India non esiste. Abbiamo perduto ormai lo spirito del vero buddismo.
L'India non ha buddisti, secondo le nostre statistiche, e secondo le nostre classificazioni non ci sono buddisti in India. E l'unico monaco buddista che c'era rimaneva sorpreso che io fossi ancora tanto stupido da chiedergli se in India ancora ci fossero o non ci fossero buddisti. O si prende sul serio quello che le tradizioni umane ci dicono dal punto di vista più profondo e più reale, oppure ne facciamo un'ideologia, un partito politico, o anche una religione. E certamente i buddisti delle statistiche classificatrici si trovano tutti fuori dell'India, eccetto forse i tre milioni di neo-buddisti del Dr. Ambedkar, i quali per ragioni sociali e politiche, per superare la schiavitù delle caste moderne, si stanno convertendo al buddismo, stanno accettando il buddismo come una delle grandi religioni, per potersi liberare dall'ignominia dei fuori casta e acquistare una certa identità. Vi si stanno verificando allora conversioni in massa al buddismo, ad un buddismo che farebbe sorridere anche il Buddha.

È prendendo rifugio nel Buddha , come uno dei tre gioielli (sangha e dhamma sono gli altri due) che si diventa buddisti. Ma prendere rifugio nel Buddha come ho fatto io, non vuol dire abiurare il cristianesimo o l'induismo o altro. Perché dobbiamo fare tutto sempre secondo le nostre categorie? Se l'induismo non ha un fondatore, il buddismo ne ha uno, benché il Buddha non fondi niente, dunque è piuttosto un simbolo. Egli che sorride quando gli si porge una domanda, egli che tace quando qualcuno fa una cosa cattiva.
Il Buddha ormai vecchio si trovava nel nord dell'India; lascia l'India centrale perché ha sentito dire che alcuni fratelli maltrattavano e disprezzavano un monaco che aveva preso una malattia repellente. Gôtama va laggiù, lo cura, e poi dice ai monaci: «Monaci, a me mi avreste curato! Quello che fate a qualsiasi uomo, lo fate a me». Questo succedeva più di quattro secoli prima che alcune parole simili fossero state pronunciate da un giovane rabbi di un'altra tradizione! Parlare dunque del buddismo implica parlare con una certa devozione. Il Buddismo non permette di farne soltanto un'ideologia, di spiegarne soltanto alcune dottrine, siano di filosofia o di logica. C'è tutta un'ideologia buddista, indiscutibilmente, ma lo spirito, incluso quello del più acuto forse di tutti i logici della tradizione buddista, Nâgârjuna, è sempre guidato da ciò che lui stesso dirà che è l'essenza del buddismo. Così come l'induismo non ha essenza, il buddismo ne ha una, e secondo la tradizione mâhâyanica si può riassumere in una sola parola, parola difficile da tradurre e ancor più difficile da praticare: Mahakarunâ, la grande compassione, cum patire, patire insieme con tutte le cose che esistono, senza far discriminazioni di alcun tipo.
Scoprire il pathos della cosa stessa e condividerlo. Sunt lacrimae rerum, diceva Virgilio. Mahakarunâ, la grande karuna, la grande compassione, è dove la tradizione mâhâyana ha riassunto l'essenza del buddismo, ma per una ragione: non per lasciarmi sofferente, ma perché io ho realizzato le quattro verità fondamentali e so che c'è sofferenza, che questa sofferenza ha un'origine, ma che può cessare, e che c'è una via per uscirne. E per questa cessazione la tradizione buddista usa la stessa parola classica di tutto lo yoga. Buddha utilizza la parola nirodha, la cessazione del dolore corrisponde alla cessazione della corrente mentale, del fiume di pensieri, della TV interna che ci distrae e non ci permette di fruire della verità della vita. Yogas citta vrtti nirodhah dice il secondo degli Yogasutra di Patañjali: yoga è la cessazione dei processi della mente.

Qualsiasi approssimazione al buddismo che non arrivi a toccare queste fibre della compassione universale, di rinunciare, come diranno i bodhisattva, alla mia salvezza personale in favore di tutti gli esseri viventi che ancora forse hanno bisogno del mio aiuto, non ha capito niente di quel che voglia dire il buddismo. Un grande arhant (e qui stiamo dentro l'ironia delle due grandi tradizioni buddiste), avendo compiuto la propria vita terrena sale al nirvâna, al cielo meritato, e il suo grande desiderio è di vedere il maestro e di sapere dove il maestro vive. E sale per tutti i cieli del nîrvâna, e si potrebbero descrivere le apsara , le ninfe e le cose preziose che trova, fino ad arrivare al settimo cielo. Qui le porte sono aperte e grida e cerca, perché vuole vedere Gôtama, il Buddha. Non lo trova e grida, ed esce un'apsara, esce una ninfa, una fanciulla che lo guarda tutta stupita. Egli le dice: Cerco Sakyâmuni, l'Adhibuddha. Essa gli risponde: «Ma tu non sai quel che cerchi, il Sakyâmuni, il vero, il Buddha non è mai venuto qui, è sempre rimasto tra gli uomini e ci rimarrà finché l'ultimo essere senziente non sia arrivato al nirvâna».
Il posto del Buddha è tra coloro che soffrono, tra gli uomini. La grande compassione che fa sì che si possa essere un bodhisattva, fa che si rinunci alla propria salvezza per collaborare col resto degli esseri viventi alla liberazione dell'universo. Il voto del bodhisattva che fa il monaco della tradizione mahayâna, dopo cinque anni di preparazione come minimo, è la rinuncia a qualsiasi beneficio e merito personale, di non farci caso e di non capitalizzarlo, finché l'ultimo essere vivente non arrivi alla propria pienezza. E quando si vuol costruire tutto un sistema filosofico quel che si vuole è sbancare tutta la forza della logica per dimostrare, logicamente, che qualsiasi costruzione intellettuale, distrugge se stessa quando si vuol formulare. Questo è lo spirito del buddismo.

Lo yoga e le altre cinque darshana indiane

Per capire la vera natura dello Yoga, come un percorso di realizzazione spirituale, è necessario avere una piccola comprensione delle sei scuole o sistemi classici della filosofia indiana, o induista, di cui lo Yoga fa parte. Lo yoga è infatti una delle sei darshana (letteralmente "visioni" o scuole filosofiche) e incorpora al suo interno componenti degli altri sistemi. Spesso i grandi maestri di yoga sono esperti di tutti questi sistemi. E' noto che il maestro Krisnamacharya, fosse ad esempio "laureato" in tutti e sei gli insegnamenti.  A questi  sistemi filosofici che cercano di rispondere alle eterne domande dell’uomo: Cosa è la realtà, qual’è il senso della vita? potremmo aggiungere gli insegnamenti di Buddha come settimo sistema o scuola di filosofia.  Alcune scuole induiste hanno inglobato il buddismo nel proprio orizzonte conoscitivo e considerano il Buddha un avatar di Visnu (bisogna precisare che oggi il buddhismo è scomparso dall'India).  Le date per la formalizzazione di questi sistemi variano da circa 2000-5000 anni fa.

Le sei Darshana sono le seguenti:

1- Nyaya letteralmente significa “metodo”, “regole” o “giudizio, è un sistema di indagine sistematico basato sulla logica, è una scuola di speculazione filosofica, divenuto solo in seguito un sistema metafisico. Si basa su testi conosciuti come Nyaya Sutra, che furono scritti da Aksapada Gautama, nel II secolo a.C. Il contributo più rilevante apportato dal Nyaya all’Induismo moderno consiste nella metodologia; quest’ultima è basata su un sistema logico che in seguito fu adottato dalla maggior parte delle altre scuole induiste (ortodosse o non), similmente al modo in cui scienza, religione e filosofia occidentali possono considerarsi basate sulla logica aristotelica. Nyaya differisce dalla logica aristotelica, in quanto non è semplicemente una logica fine a sé stessa, ma si spinge oltre, mettendo in relazione diretta la logica con lo sviluppo spirituale. Secondo questa scuola di pensiero, ottenere una valida conoscenza è l’unico modo per ottenere la liberazione dalla sofferenza; l’unica conoscenza autentica è quella che non potrà mai essere soggetta a dubbio o contraddizione, quella che riproduce l’oggetto per ciò che realmente è, e che pertanto permette di percepire la realtà in maniera veritiera e fedele. Solamente questa può considerarsi vera conoscenza, ed è contrapposta al ricordo e al dubbio, così come al ragionamento puramente ipotetico e, quindi, incerto. Nyaya è probabilmente il più vicino equivalente indiano della filosofia analitica. La scuola di Nyaya condivide alcune delle sue metodologie, e l’idea del fondamento della sofferenza umana, con il buddismo; tuttavia, una differenza fondamentale tra i due è che il buddismo ritiene che non ci sia né un'anima, né un sé nel modo immaginato dalla scuola di Nyaya, che, come le altre scuole dell'induismo, crede che ci sia un'anima e un sé, e che la liberazione (moksha) sia uno stato di rimozione dell'ignoranza, della conoscenza sbagliata, l'acquisizione della conoscenza corretta e della continuazione senza impedimenti del sé.
La verità viene contrapposta all’ignoranza causa della sofferenza umana. La liberazione dello spirito del sè, sono temi cari anche allo yoga. Le opere classiche dello yoga, a partire dagli Yoga sutra, applicano in una certa maniera, nell’esposizione, la logica della scuola nyaya.

Samkhya è un termine sanscrito che indica la "numerazione", il "numero".  Secondo alcuni è la più antica filosofia sistematica apparsa fra le tradizioni hindu, e ha influito considerevolmente sulle altre scuole filosofiche. Nella letteratura esistono due versioni del Sāṃkhya, una ritenuta teista e l'altra non teista. Secondo Vivekananda, il fondatore del razionalismo indiano è stato il mitico Kapila, il fondatore del pensiero Sāṃkhya. D'altronde è lo stesso Īśvarakṛṣṇa che, nella sua Sāṃkhyakārikā, scrive d'essere il depositario di una scuola il cui iniziatore è Kapila.
E’ importante sottolineare che, nei suoi sviluppi iniziali, il Sāṃkhya è connesso con lo Yoga classico. Così l'orientalista Giuseppe Tucci si esprime nella sua “Storia della filosofia indiana”: «Di questi due sistemi quasi sempre si discorre insieme perché entrambi hanno uno sfondo dottrinale comune. […] Le idee che i due sistemi esprimono hanno origini antiche.» Infatti lo Yoga classico, così come esposto da Patañjali nel suo Yoga Sūtra, si appropria della metafisica dualista del Sāṃkhya, con qualche variante, differenziandosene non tanto nella dottrina quanto soprattutto nel metodo: lo Yoga ritiene insufficiente la conoscenza metafisica ai fini della liberazione, sostenendo invece la pratica di discipline psichiche e fisiche le cui origini sembrano essere ancora più remote. C’e’ una sostanziale convergenza tra i sutra di Patanjali e la scuola Samkhya riguardo ai concetti di spirito individuale e spirito universale.
Nella  kārikā di 70 versi è adoperato il termine tantra per indicare la dottrina che Īśvarakṛṣṇa sostiene di aver ereditato da Kapila. L'indologo indiano Chandra Bagchi identifica da questo il Sāmkhya come una forma di Tantra.  Anche Śankara usa il termine Kapilasya-tantra per denotare il sistema esposto da Kapila (la filosofia Sāmkhya) e il termine Vaināśikā-tantra per denotare la filosofia buddista dell'esistenza momentanea.  Secondo il sistema filosofico esposto da Kapila, l'intera realtà scaturisce dalla relazione fra due princìpi onnipervadenti ed eterni: il puruṣa e la prakṛti, la materia. I puruṣa sono gli spiriti delle individualità umane, le monadi spirituali, che sono di numero infinito. Tali puri spiriti, i puruṣa, sono spettatori passivi e testimoni silenziosi delle evoluzioni della prakṛti (la "materia" o "natura") che è completamente pervasa da tre qualità costitutive, i guṇa: sattva, rajas e tamas. Queste entrano nella composizione di qualsiasi manifestazione della natura e corrispondono, rispettivamente, alla "leggerezza, luminosità", al dinamismo" e alla "pesantezza, oscurità". Quando la quiete della prakṛti, cioè l'equilibrio fra i tre guṇa, viene alterata, si ha l'inizio di un nuovo universo e, quindi, l'avvio evolutivo del mondo manifesto. Questa alterazione dello stato originario di quiete è dovuta alla stretta vicinanza tra puruṣa e prakṛti e causata dalla relazione intercorrente fra questi due princìpi. Il Puruṣa va infatti considerato come il perenne ispiratore che, con la sua sola presenza, dona coscienza e vitalità all'intero creato e che, all'interno della singola manifestazione e quindi dell'uomo, diviene anima e assume l'aspetto di colui che conosce e non agisce. La prakṛti, invece, con l'imperfezione che la contraddistingue, è un ente agente e non cosciente. Lo stato di assoluto isolamento (kaivalya) del sé (puruṣa) rispetto ai tre mondi - terreno, intermedio e divino - consiste nel riconoscere la diversità fra questi due enti attraverso la conoscenza dei 25 princìpi che strutturano il sistema Sāṃkhya.
La filosofia Sāṃkhya è un dualismo fondamentalmente ateo, che esclude qualsiasi concetto di divinità o Īśvara e si limita a considerare le individualità umane (i puruṣa) e la materia (la prakṛti). Tali due principi sono considerati equivalenti, per quanto i puruṣa umani, rappresentanti la spiritualità, siano gli attori di un'ascesi spirituale e morale. Da questo l'ipotesi che il Buddhismo possa avervi fatto riferimento. L'onnipervadenza della prakṛti è lo scenario in cui i puruṣa fluttuano alla ricerca di una perfezione individuale. Come nel Buddhismo, il fine più immediato è quello del superamento della sofferenza per mezzo della "conoscenza".     La scuola del Sāṃkhya è la prima a proclamare l'indipendenza della ragione umana dalla rivelazione tipica della cultura vedica tradizionale, come avviene, ad esempio, nelle Upaniṣad. I puri spiriti, le anime individuali, debbono liberarsi dai vincoli karmici, dal susseguirsi delle reincarnazioni. Benché ciò evochi la possibilità di un'"anima generale" originaria sparpagliata nelle anime individuali, di questo concetto non v'è alcuna traccia nel Sāṃkhya, mentre è tipico del Vedānta panteistico e anche di alcune scuole yoga. L'anima individuale, il "corpo sottile", che, in quanto essenza già presente nella quiete originaria della prakṛti, ha la possibilità di evolvere fino al conclusivo "isolamento dalla materia", svincolandosi definitivamente dal saṃsāra ed ottenendo così la liberazione dalla sofferenza (duḥkha).  Secondo una teoria cosmologica comune a molte dottrine dell'induismo, e del buddhismo anche, l'universo ha evoluzione periodica: il tempo è circolare e non lineare. Ogni qual volta il tempo riprende, una nuova evoluzione dell'universo ha origine, un ulteriore ciclo cosmico (kalpa). Prima che il tempo riprenda, il cosmo è immanifesto, la prakṛti giace cioè in uno stato di quiete, ed è soltanto in questo stato che le sue tre componenti, le tre guṇa (rajas, sattva, tamas), si trovano in equilibrio fra loro. A causa del karma, ossia delle azioni compiute nei cicli precedenti dagli esseri che non ebbero raggiunto la liberazione (mokṣa), e destinati quindi a reincarnarsi, lo stato di equilibrio viene alterato: la prakṛti si mette, per così dire, in movimento e un nuovo ciclo prende inizio. Questo passaggio di stato che dà luogo a una nuova manifestazione del cosmo avviene dunque per cause etiche, e l'intero susseguirsi dei cicli avrà termine soltanto quando tutti gli esseri avranno conseguito la liberazione.

Vaisheshika è la terza delle sei scuole ortodosse della filosofia indù. Nei suoi primi stadi, il Vaiśeṣika era una filosofia indipendente, un sistema completo. Nel corso del tempo, il sistema Vaiśeṣika divenne simile nelle sue conclusioni etiche alla scuola Nyāya, che abbiamo già visto, ma mantenne la sua differenza nell'epistemologia, ovvero lo studio della natura e delle strutture logiche, e nella metafisica. La scuola di Vaisheshika è conosciuta e famosa per le sue intuizioni nel naturalismo. La modernità delle sue intuizioni lascia davvero stupefatti: Ha postulato che tutti gli oggetti nell'universo fisico sono riducibili a atomi (paramāṇu), e le esperienze derivano dall'interazione della sostanza (la funzione degli atomi, il loro numero e le loro disposizioni spaziali), la qualità, l'attività, la comunanza, la particolarità e l'inerenza. Secondo la scuola Vaiśeṣika, la conoscenza e la liberazione erano realizzabili attraverso una completa comprensione del mondo dell'esperienza. Questo particolare aspetto l’avvicina allo yoga classico. Lo studio delle categorie di conoscenza della scuola dell'induismo Vaiśeṣika, come il buddismo, accettava solo due mezzi affidabili per la conoscenza: la percezione e l'inferenza. La scuola Vaiśeṣika e il Buddhismo considerano entrambe le rispettive Scritture come mezzi incontestabili e validi per la conoscenza, con la differenza che le Scritture ritenute una fonte valida e affidabile fossero per Vaiśeṣika i Veda.  La forma di atomismo del Vaisheshika, postula che la realtà sia composta da cinque sostanze ( terra, acqua, aria, fuoco e spazio). Ognuno di questi cinque elementi è di due tipi, paramāṇu e composito. Un Paramanu (Para significa oltre e Anu significa Atomo o particella molto piccola ma divisibile mentre il parmanu è indivisibile) è ciò che è indistruttibile, indivisibile e ha un tipo speciale di dimensione, chiamata "piccolo" (aṇu). Un composito è ciò che è divisibile in paramanu. Qualunque cosa percepisca l'essere umano è composita, e anche la più piccola cosa percettibile, cioè una macchia di polvere, ha parti, che sono quindi invisibili. Ogni diade ha due parti, ognuna delle quali è un atomo. Le dimensioni, la forma, le verità e tutto ciò che gli esseri umani sperimentano nel loro complesso sono una funzione del paramanu, del loro numero e delle loro disposizioni spaziali. Come dicevamo, lascia molto sorpresi l’analogia con la fisica e la chimica moderni in un sistema filosofico tanto antico.
Il sistema Vaiśeṣika fu fondata da Kaṇāda Kashyapa intorno al VI-II secolo AC. La scuola Vaishesika differiva dal Nyaya in un aspetto cruciale: dove Nyaya accettava quattro fonti di conoscenza valida, i Vaishesika, come detto, ne accettavano solo due, percezione e inferenza. Infine, può essere interessante indagare come, mentre l'induismo identifica sei Pramāṇa come mezzi affidabili per la conoscenza accurata e le verità. Vaiśeṣika considera solo pratyakṣa (percezione) e anumāna (inferenza) come mezzi affidabili di conoscenza valida e in questo ha dei punti di contatto con il sistema dello yoga. 
Pratyakṣa significa percezione. È di due tipi: esterna e interna. La percezione esterna è descritta come quella derivante dall'interazione di cinque sensi con gli oggetti mondani, mentre la percezione interna è descritta da questa scuola come quella del senso interiore, la menteAnumāna significa inferenza. Il processo di inferenza è descritto come il raggiungere una nuova conclusione e verità da una o più osservazioni e verità precedenti applicando la ragione. Osservare il fumo e inferire il fuoco è un esempio di Anumana. Anche gli altri sistemi filosofici sposano questo processo conscitivo.

Vedanta significa letteralmente "il fine dei Veda". Riflette idee emerse dalle speculazioni e dalle filosofie contenute nel Prasthanatrayi (che include le principali Upanishad, i Bhrama Sutra e la Baghavad Gita intesi come commentari a questi testi sacri).  Tutte le scuole Vedanta, nelle loro deliberazioni, si occupano delle seguenti tre categorie, ma differiscono nelle loro opinioni riguardo al concetto e alle relazioni tra loro: Brahman - la realtà metafisica finale, Ātman / Jivātman - l'anima o il sé individuale e Prakriti - il mondo empirico, universo fisico in continua evoluzione, corpo e materia.

L’aspetto fondamentale è che, nel tempo, il Vedanta adottò idee dallo Yoga e Nyaya e, attraverso questo sincretismo, divenne la scuola più importante dell'induismo. Molte forme esistenti di Visnuismo, Shivaismo e Shaktismo sono state significativamente modellate e influenzate dalle dottrine delle diverse scuole di Vedanta. La scuola Vedanta ha avuto un'influenza storica centrale sull'induismo. 
Il vedanta si è storicamente articolato secondo alcune grandi scuole, nessuna interpretazione dei testi (Veda) è prevalsa sulle altre, queste sotto-tradizioni spaziano dal monismo o non-dualismo (Advaita) del filosofo Adi Shankara (VIII secolo), al dualismo qualificato o teismo (Vishi-stadvaita) del XI-XII secolo di Ramanuja, al dualismo (Dvaita) del XIII secolo di Madhva. La maggior parte delle altre sub-tradizioni vedantiche sono riassunte sotto il termine all'Acintya-Bheda-Abheda ("simultanea e inconcepibile differenza ed unità") di Caitanya Mahaprabhu.    Tutte le scuole Vedānta, tuttavia, mantengono in comune un certo numero di principi:

  • -la trasmigrazione del Sé (Saṃsāra) e l'opportunità della liberazione dal ciclo delle rinascite (moksha);
  • -l'autorità dei Veda sulle modalità di liberazione;
  • -che il Brahman sia la causa materiale (upadana) e strumentale (nimitta) del mondo;
  • -che il Sé (Ātman) è l'agente dei propri atti (karma) e quindi il destinatario dei frutti o delle conseguenze delle azioni (phala).

L'influenza del Vedānta sul pensiero indiano è stata profonda. A causa della preponderanza di testi Advaita, in Occidente si ha spesso l'errata convinzione che Vedānta significhi Advaita, mentre questa corrente non-dualistica è solo una delle molte sotto-tradizioni, benché forse la più importante.
(Per vedere il contenuto delle principali Upanishad e della Baghavad Gita vedi articoli del blog). Di seguito sarà illustrato il contenuto dei Brahma Sutra, proprio per la loro natura di riassunto delle Upanishad.
Badarayana riassunse e interpretò infatti gli insegnamenti delle Upanishad nei Brahma Sutra, chiamati anche il Vedanta Sutra che sono le basi per lo sviluppo della filosofia Vedanta. Sebbene attribuiti a Badarayana, i Brahma Sutra furono probabilmente composti da più autori tra il 500 AC al 200 DC circa. Questi sutra tentano di sintetizzare i diversi insegnamenti delle Upanishad, tuttavia, la natura criptica degli aforismi ha richiesto molti commenti interpretativi che sono stati scritti tra il 700 e il 1200 DC. Questi commenti hanno portato alla formazione di numerose scuole Vedanta, ognuna interpretando i testi a modo suo. Non è insomma facile orientarsi, comunque le diverse scuole all’interno della tradizione Vedanta, hanno prodotto contesti coerenti ed organici. 
I sutra di Brahma consistono in 555 aforismi in quattro capitoli. Questi versetti riguardano principalmente la natura dell'esistenza umana e dell'universo e le idee sul concetto metafisico della Realtà Ultima chiamata Brahman. Il primo capitolo discute la metafisica della Realtà Assoluta, il secondo capitolo esamina e affronta le obiezioni sollevate dalle idee delle scuole ortodosse concorrenti delle filosofie indù così come delle scuole eterodosse come il Buddismo e il Giainismo, il terzo capitolo discute le categorie conoscitive e il percorso per acquisire le conoscenze spirituali liberatrici e l'ultimo capitolo afferma perché tale conoscenza è un importante bisogno umano.

Mimamsa  è una parola sanscrita che significa "riflessione" o "indagine critica" e quindi si riferisce a una tradizione di esecuzione dei rituali. Questa tradizione è anche conosciuta come Pūrva-Mīmāṃsā per la sua attenzione ai primi (pūrva) testi vedici che trattano le azioni rituali, in modo simile al Karma-Mīmāṃsā, a causa della sua concentrazione sull'azione rituale (karma). Questa particolare scuola è nota per le sue teorie filosofiche sulla natura del dharma. La scuola Mīmāṃsā fu fondamentale e molto influente per tutte le scuole vediche, che erano anche conosciute come Uttara-Mīmāṃsā per la loro attenzione alle parti "superiore” dei Veda.  La tradizione Mīmāṃsā investiga anche sullo scopo dell'azione umana.  Mīmāṃsā ha diverse sotto-scuole, ciascuna definita dalla sua interpretazione della realtà. La sotto-scuola Prābhākara, che prende il nome dal filosofo Prabhākara del settimo secolo, descrisse i cinque mezzi affidabili per acquisire conoscenza: pratyakṣa o percezione; anumāna o inferenza; upamāṇa, per confronto e analogia; arthāpatti, l'uso della postulazione e la derivazione dalle circostanze; e śabda, la parola o la testimonianza di esperti affidabili passati o presenti. La sotto-scuola di Bhāṭṭa, dal filosofo Kumārila Bhaṭṭa, ha aggiunto un sesto mezzo al suo canone: anupalabdhi, non percezione, o prova dell'assenza di cognizione (ad es., la mancanza di polvere da sparo sulla mano di un sospetto). La scuola di Mīmāṃsā consiste sia di dottrine ateistiche che teistiche, ma la scuola ha comunque mostrato scarso interesse nell'esame sistematico dell'esistenza degli dei. Piuttosto, sosteneva che l'anima è un'essenza spirituale eterna, onnipresente, intrinsecamente attiva, e focalizzata sulla conoscenza e la metafisica del dharma. Per la scuola Mīmāṃsā, il dharma significava rituali e doveri sociali, non deva, o dei, perché gli dei esistevano solo di nome. I Mīmāṃsakas sostenevano anche che i Veda sono "eterni, senza autore, infallibili", inoltre i vidhi vedici, ovvero le ingiunzioni e i mantra dei rituali, sono “krya” ovvero azioni prescrittive, e i rituali sono quindi di primaria importanza e merito. Hanno considerato le Upaniṣad e gli altri testi relativi alla conoscenza del sè e alla spiritualità come sussidiari, una visione filosofica in cui la scuola Vedānta non era ovviamente d'accordo. Mīmāṃsā diede origine allo studio della filologia, la ricostruzione e la corretta interpretazione dei documenti letterari,  e della filosofia del linguaggio. Mentre la loro profonda analisi della lingua e della linguistica influenzava le altre scuole dell'induismo, le loro opinioni non erano condivise. Mīmāṃsaka considerava che lo scopo e il potere del linguaggio fosse quello di prescrivere chiaramente il giusto, ovvero ciò che era corretto era giusto. Al contrario, la scuola vedanta ha esteso la portata e il valore del linguaggio come strumento per descrivere, sviluppare e derivare. Mīmāṃsaka considerava la vita procedurale ordinata, guidata dalla legge, come scopo centrale e la nobile necessità del dharma e della società, e il sostentamento divino (teistico) era in funzione di tale fine. La scuola Mīmāṃsā è una forma di realismo filosofico. Un testo chiave della scuola Mīmāṃsā è il Mīmāṃsā Sūtra di Jaimini.  Nell’India vedica, ma anche moderna, l’importanza del ritualismo è estrema: solo l’espletazione regolare del sacrificio garantisce la persistenza dell’armonia cosmica (dharma) e del buon ordine sociale. La scuola Mīmāṃsā  ha una filosofia dettagliata relativa al rituale, al culto e alla condotta etica, che si è sviluppata nella filosofia del karma.  Generalmente non si ritiene che questa scuola influenzi più di tanto le altre, compreso lo yoga. Si potrebbe vedere un legame tra il porre l’accento su di un ritualismo codificato, sulla perfezione e ripetizione delle stesse azioni giornaliere e periodiche, proprio della scuola Mimamsa, e la pratica quotidiana dello yoga secondo alcune sue scuole. L’azione, la parola, il mantra, acquisiscono potere nella loro perfezione e corretta esecuzione.

Yoga. In India, lo yoga è uno dei sei sistemi per raggiungere la conoscenza, per indagare la realtà, sistemi che si permeano a vicenda, ma che hanno anche una loro assoluta autonomia.

 Dal sito:  http://www.yogamagazine.it/2019/01/lo-yoga-e-le-altre-5-darsana-indiane.html

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Il Blog è nato nel marzo 2021, in tempo di pandemia, per comunicare e condividere le mie letture e i miei interessi personali.  Nel blog c...