sabato 11 dicembre 2021

Il ritiro sull'Himalaya - Tiziano Terzani

 Tiziano Terzani (1938 -2004) in questo testo Un altro giro di giostra, viaggio nel male e nel bene del nostro tempo, racconta gli ultimi anni della sua vita, dopo che gli era stato diagnosticato un tumore allo stomaco.   Vedi link http://www.tizianoterzani.com

 
Queste righe riportano la parte del libro riguardante il suo ritiro nell'Himalaya ad Almora.

Almora, un posto dove l’India confina con il Tibet e il Nepal, si trova al centro di un triangolo tantrico, ed aveva la fama di posto particolarmente adatto alla meditazione e alla vita spirituale. Aveva attirato anche molti stranieri. Come ad esempio Evan Wentz un teosofo a cui dobbiamo la prima edizione del libro tibetano dei morti e la vita di Milarepa, e Lama Govinda Anagarika.   "Qualcosa è nascosto, vai a cercarlo, vai e guarda dietro ai monti, qualcosa è perso dietro ai monti, vai, è perso ed aspetta te".
Qualcuno mi aveva detto che sul crinale di quelle montagne viveva ancora un Vecchio. Aveva ottant’anni e una memoria formidabile. Era un pittore, aveva bruciato tutti i suoi quadri e si era dedicato a mettere a fuoco la mente, ad andare al di là. Quando incontrai il vecchio gli dissi solo che in tutta la mia vita non avevo fatto che viaggiare e che ora volevo fermarmi. E’ il solo modo per conoscersi, commentò. E disse anche "Il Vedanta è troppo intellettuale ma è un ottimo punto di partenza. La vera conoscenza non viene dai libri, neppure quelli sacri, ma dall’esperienza, il miglior modo per capire la realtà è attraverso i sentimenti, l’intuizione, non attraverso l’intelletto. L’intelletto è limitato".
"Ciò che è fuori è anche dentro, e ciò che non è dentro non è da nessuna parte. Per questo viaggiare non serve, se uno non ha niente dentro, non troverà mai niente fuori, è inutile andare a cercare nel mondo quello che non si riesce a trovare dentro di sé". Mi sentii colpito, aveva ragione.
Stavamo davanti al massiccio di Nanda Devi, una gloriosa natura vivente che mutava sotto i nostri occhi, nella capanna dove vivevo gli inglesi aveva tenuto prigioniero Nehru.
Quando l’allievo è pronto il maestro compare. Lo stesso è vero di un amore, di un posto, di un avvenimento che solo in certe condizioni diventa importante. Inutile cercarne le ragioni, c’è una realtà al di là dei sensi.
Il pellegrino, il pellegrinaggio e il cammino: niente altro che me verso me stesso, Era un viaggio che non si poteva fare in due. Angela mi moglie capì e fu generosissima, mi lasciò partire da solo.
Non volevo morire senza aver capito perché ero vissuto, o molto più semplicemente dovevo trovare dentro di me il seme di una pace che poi avrei potuto far germogliare ovunque. I sanyasin quando lasciano il mondo tagliano tutti i legami, muoiono nei confronti del loro passato, io non volevo arrivare al quel punto, volevo prendere la distanza, per provare quel solitario viaggio di cui sentivo il bisogno. Hima è la neve, alaya dimora delle nevi, quelle montagne sono state il simbolo dell’aspirazione umana al divino. L’Himalaya era la sede di tutti i miti, la fonte della vita e della conoscenza, li nascono tutti i sacri fiumi, lì i rishi concepirono i Veda, lì Vyasa scrisse la Gita e il Mahabharata, bisognava salire su quelle vette per esserne conquistati, le persone che erano lì, non avevano più nulla a cui pensare, tranne che al Sè.
Anche il mio era un allegorico rito di rinuncia al mondo della materia e di iniziazione a quello dello spirito. Il Vecchio raccontava continuamente storie, prese a volte dai Pancatantra. I Pancatantra sono una divertente collezione di storie di animali scritte 1500 anni fa da un eremita per dare a tre figli ignoranti e svogliati di un re alcune fondamentali lezioni di vita e prepararli alla successione. Secondo alcuni, dietro il leggendario autore Vishnu Sharma si nasconderebbe Chanakya, il Macchiavelli indiano autore del trattato Arthashastra, sull’arte del governare.    

Una storia del Pancatantra. una tigre aveva due seguaci, un leopardo e uno sciacallo, ogni volta che la tigre azzannava una preda, mangiava e lasciava i resti agli altri. Un giorno la tigre uccise tre animali, uno grande, uno medio e uno piccolo, e chiese “come li dividiamo?” Semplice, rispose il leopardo, tu prendi il grande, io il medio e lo sciacallo il piccolo. La tigre non disse nulla, ma con una zampata uccise il leopardo, e chiese allo sciacallo di nuovo “come li dividiamo?” Oh, tu prendi il piccolo per colazione, il medio per cena e il grande per pranzo. Dimmi sciacallo da chi hai imparato tanta saggezza?  Dal leopardo Maestà.

Altra storiella dei Pancatantra. Un vecchio leone andava a fare un sonnellino ma era regolarmente disturbato da un topo, il leone non riusciva ad acchiappare quel minuscolo animale. Chiese ad un gatto da fargli da guardiano e in cambio gli avrebbe dato da mangiare, il topo vedendo il gatto non uscì dal suo buco, il leone dormiva tranquillo e il gatto mangiava a sazietà. Un giorno il topo ormai affamato uscì dal suo buco e il gatto senza pensarci due volte lo ammazzò. Da quel giorno il comportamento del leone cambiò, non diede più da mangiare al gatto e non gli parlò più. Il gatto non capiva, ho fatto il mio dovere perché mi tratti così? Misera piccola bestia, sei un servo che non serve più, vattene e lasciami dormire.
Storia di animali per suggerire un fine più alto nella vita. Un'allegoria del messaggio dei Veda.
Un falco un giorno, vede un pesce su uno stagno, lo prende col becco e vola via, una banda di corvi che ha seguito la scena si precipita su di lui e cerca di portargli via il suo boccone, sono in tanti petulanti e rumorosi. Il falco cerca di alzarsi in aria, ma i corvi gli sono addosso, lo attaccano, lo beccano e non gli danno tregua. Quando il falco si accorge che tutto questo succede perché lui resta attaccato alla preda, la lascia andare. I corvi si precipitano verso il pesce e il falco vola via, leggero.
Niente e nessuno può distrarlo più e finalmente può salire, sempre più in alto, verso l’infinito, è libero e in pace.  La verità è senza limiti, è come la bellezza, non può essere imprigionata nelle parole e nelle forme. La verità è senza fine.   Storiella. Un discepolo va dal suo guru e gli dice che vuole la verità più di ogni cosa, il maestro non risponde, lo prende per il collo, lo trascina al vicino torrente e gli tiene la testa sott’acqua finché il poveretto sta per soffocare. All’ultimo momento lo tira fuori. "Allora cos’è che volevi più di ogni cosa quand’eri sott’acqua?"  "L’aria" risponde con un filo di voce. "Bene, quando vorrai la verità come un secondo fa volevi l’aria, sarai pronto ad imparare".   Ero pronto io? Non siamo noi a trovare la verità, è la verità a trovare noi, dobbiamo solo prepararci.

Il Vecchio disse di averla intravista alcune volte per un attimo. Ma quell’attimo gli era bastato per capire che non veniva dalla fede ma dall’esperienza. Non di altri, ma la sua. Era quella certezza a tenerlo legato alla ricerca. Swami Sathyananada gli aveva aperto la testa, Khrisna Prem l’inglese che era diventato sanyasin gli aveva aperto il cuore.
Quella dei libri è conoscenza di seconda mano, conoscenza presa in prestito, non vale un granché.
Il vero capire non avviene con la testa, ma col cuore, con l’esperienza diretta. Lui usava il trucco della candela, restare davanti ad una candela accesa tutti i giorni per almeno 10 minuti. Con il passare del tempo quei 10 minuti erano diventati ore, ma non aveva dimenticato l’importanza di quel primo passo. Prima, devi calmare la tua mente, solo allora potrai ascoltare la Voce che hai dentro di te. Quella voce che ti parla è la voce dell’uomo Cosmico, del Sè.  Sappi che c’è e che quello è il vero Sè. Perché tu e Quello non siete due, Tu sei Quello.
I giorni cominciarono a scorrere, l’uno dopo l’altro in assoluta pace, senza programmi, senza aspettative, senza scadenze tranne quelle del sorgere e tramontare del sole. Ascoltando le nostre esigenze, le esigenze del nostro corpo ci impediamo di vedere il mondo e noi stessi, in modo diverso dal solito. Importante è svuotare la testa dalle nostre conoscenze e ritornare ad essere un foglio bianco su cui poter scrivere qualcosa di completamente nuovo.
Storiella zen: Un colto professore va a trovare un monaco e gli chiede, "dimmi, che cosa è lo zen?"
Il monaco non risponde, lo invita a sedersi, gli mette dinanzi una tazza e comincia a versarci del tè,
la tazza si riempe, ma imperterrito il monaco continua a versare tè, il professore è interdetto, per un po’ non dice nulla, poi vedendo che il monaco continua lo avverte “E’ piena, è piena!”
Già risponde il monaco, "anche tu sei pieno di opinioni e pregiudizi. Come posso dirti che cosa è lo zen se prima non vuoti la tua testa?"
Non ho mai sognato tanto come lassù, mi spurgavo, mi ripulivo, ma nell’intestino profondo della memoria. Usavo il trucco della candela, di fronte a quella piccola fiamma arancione, di notte, chiudevo gli occhi e osservavo con indifferenza, senza intervenire, senza provare a cacciare i pensieri, i ricordi, le immagini. Li osservavo senza identificarmi con loro, come non avessero niente da fare con me, io non ero quei pensieri. Rimanevo nel silenzio, lassù il silenzio diventava suono. Solo nel silenzio è possibile tornare in sintonia con noi stessi.
Una vecchia storia indiana:  Un re va da un famoso rishi nella foresta, e gli chiede: "Dimmi quale è la natura del sé?"   Il vecchio lo guarda e non risponde, il re chiede ancora, ma il rishi resta muto, il re chiede ancora ma non ha una risposta, a questo punto il re si arrabbia e urla “Io chiedo e tu non rispondi!”  "Tre volte ti ho risposto ma tu non stai a sentire", dice calmo il rishi, "La natura del Sè è il silenzio".
Il mistico Ramana Maharshi diceva “Ci sono vari modi di comunicare con qualcuno: toccandolo, parlandogli, ma soprattutto col silenzio”. Il silenzio di Ramana era potentissimo e molti visitatori era sopraffatti dalla sua semplice presenza. Somerset Maugham, lo scrittore inglese entrò nella stanza e svenne, Jung aveva chiesto un appuntamento ma all’ultimo momento decise di non incontrarlo. Forse temette che il semplice silenzio di Ramana facesse crollare la sua teoria sulla psiche.
Il silenzio mi dava momenti di vera esaltazione. Mai come oggi il mondo avrebbe bisogno di maestri di silenzio e mai come oggi ce ne sono pochi. L’altra grande esperienza del mio stare lassù era la natura. C’è qualcosa di intimamente sacro nella natura in cui l’uomo non ha ancora messo le mani per sfruttarla e piegarla ai sui fini.
Per il Vecchio tutto era legato, era convinto che tutto quel che ci succede ha un senso, anche se il più delle volte siamo incapaci di vederlo.
C’è un albero che ha le sue radici in cielo e le fronde vanno verso la terra, quello è l’albero della vita spirituale che parte dalla materia, per risalire al cielo, appunto alle sue radici divine. E’ quella, la vita spirituale che conta. È il primo passo il più difficile, si tratta di staccarsi dalla terra, dalle certezze che abbiamo, si tratta di evitare la trappola dell’intelletto.
Il fine dello yoga è mettersi in contatto con la coscienza cosmica. Una volta che ci riesci non c’è più tempo, non c’è più morte.  Gli indiani svilupparono l’hatha yoga copiando quattro importanti attività degli animali: lo stiramento, la pulizia, la respirazione e il riposo. La vita degli animali e in perfetta sintonia con la natura, la nostra un po' meno. Il Vecchio aveva capito che il divino è ciò in cui coesistono gli opposti: tutto e il contrario di tutto, la bellezza e l’orrore, l’odio e l’amore. E’ tutto lì, non c’è dualità. I rishi ebbero il coraggio di vedere il male come parte di Dio. Anche Kali la dea distruttrice è rappresenta il male dell’universo.

 Per il Vecchio c’era un nesso che legava i vari personaggi di vari millenni e vari continenti come Platone, Gurdjieff, Plotino, Aurobindo, Meister Eckhart, Ramana Maharshi e Krishna Pen. Sono tutti sulla stessa via spirituale e si sono posti la stessa domanda “Chi sono io?”
Incontravo ad Almora molti occidentali che avevano passato anni nei vari ashram dell’India (Osho o altro), quello che mi colpiva da questi incontri era la dipendenza psicologia di quella gente dai loro guru. Valeva la pena di vivere per anni in un ashram, seguire un maestro se non era per liberarsi, ma per diventarne schiavi?                             Il Vecchio mi rispose con una storia.
Un uomo si sveglia una mattina in catene, non sa come togliersele. Per anni cerca qualcuno che lo liberi, poi un giorno passa davanti alla bottega di un fabbro e gli chiede di aiutarlo. Il fabbro con due colpi rompe le catene, l’uomo gli è gratissimo, si mette a lavorare per lui, diventa il suo servo, il suo schiavo, e per il resto della vita rimane … incatenato al fabbro.
Il guru è importante, ti indica la luna, ma guai a confondere il suo dito con la luna. Il guru ti fa vedere la strada, ma quella la devi percorrere tu … da solo.
Il vero guru è quello che sta dentro di te, qui. Non cercare fuori di tè, Tutto quello che potrai trovare fuori è per sua natura mutevole. La sola stabilità che può aiutarti davvero è quella interiore. E i guru che si rendono indispensabili servono il proprio Io e non la ricerca dei propri discepoli.
Quando Buddha sta per morire, circondato dal gruppo ristretto di discepoli in lacrime, Ananda, suo cugino gli chiede “ E ora chi ci guiderà”, il Buddha rispose: "Siate la luce di voi stessi, rifugiatevi nel Sè." 
Il solo viaggio che mi incuriosiva era quello interiore.
La leggenda descrive Lao tzu, il vecchio filosofo cinese in groppa al suo bufalo sotto l’Himalaya, il guardiano del passo Han gli disse che lo avrebbe lasciato passare e scomparire dalla Cina solo a condizione che gli scrivesse i suoi più importanti pensieri. E così sarebbe nato il Tao te Ching che inizia con il famoso verso “Il Tao che può essere descritto non è il vero Tao”.
Chi pratica il Tao non può che essere in pace con se stesso, perché …
Senza uscire dalla porta conosce tutto quel che c’è da conoscere,
senza guardare dalla finestra, vede le vie del cielo,
perché più lontano si va, meno si capisce,
Il saggio arriva senza partire, vede senza guardare, fa senza fare.
Tao in cinese vuol dire la Via, lo stesso significato di dharma dei veda e del buddhismo.

Una mattina mentre mi chinavo a raccogliere un fiore, mi accorsi che l’erba intorno era piena di maggiolini, mi misi ad osservarne uno, scalava i fili d’erba uno dopo l’altro, appoggiato alla punta di un filo d’erba che si piegava sotto il suo peso passava ad un altro filo d’erba, ad un certo punto ha aperto le sue minuscole ali trasparenti e volò via, via in alto, nel cielo verso le montagne, verso l’infinito. Non era quello un miracolo? Non occorre andare a cercare lo straordinario quando l’ordinario, se osservato davvero, ha in sé tanto di sorprendente e di divino.

I koan zen, sono un paradosso con cui la mente razionale non riesce a fare i conti. La storia del più noto koan è questa: un giovane monaco chiede all’abate di poter partecipare alla seduta di meditazione, l'abate gli disse "tu sai ascoltare il suono di due mani che applaudono? Bene, qual’è, allora il suono di una sola mano che applaude? Torna quando avrai la risposta".
Il giovane è perplesso e ogni giorno torna dal maestro con una risposta diversa ma sempre errata, il suono di una goccia d’acqua, il canto di una locusta, il canto di una geisha, ecc …
il giovane monaco soffre, pensa e si dispera per un anno. Ogni giorno ripassa i suoni fino a che un giorno ha un’intuizione, Maestro, ho trovato: "il suono che non ha suoni, è il silenzio".
E’ stato difficilissimo arrivare alla soluzione, il giovane monaco ha dovuto affrontare varie emozioni: la rabbia, la disperazione, l’odio fino ad arrivare alla serenità che ha spinto la mente al di là del solito lineare modo di ragionare. Di pensare diversamente, di non pensare, di vedere finalmente come sono veramente le cose, una sola mano non fa alcun suono.
Io, chi sono? Era il koan dei koan. La risposta dei Veda e Upanishad è stata:  "Tu sei quello", quel che innescava era di dubitare della propria identità. La risposta è senza parole, è nell’immergersi silenzioso dell’Io nel Sè.
Un giorno chiesi al vecchio cosa pensava delle pratiche che tendevano a distruggere il proprio Io,
mi rispose con una storia che raccontava Ramakrishna.
Fuori da un villaggio viveva un terribile serpente che assale e morde chi gli va vicino, e anche da lontano terrorizzava la gente con il suo sibilo. Il villaggio non sa più cosa fare, un giorno passa di lì un sadhu e gli viene chiesto di intervenire, Il sadhu parla gentilmente con il serpente e gli dice “ Devi lasciare in pace quei contadini, non terrorizzarli, fallo per me, smettila.” il serpente si commuove e acconsente. Un anno dopo il sadhu nel suo vagabondaggio ripassa dal villaggio e rivede il serpente, messo veramente male. Tutto il corpo coperto di ferite, sanguina dalla bocca, l’occhio chiuso. "Che ti è successo?" chiede il sadhu. "Le tue parole mi hanno davvero cambiato Maestro, ho fatto esattamente quello che mi hai chiesto, adesso vengono anche i bambini a tirarmi i sassi",  Cretino! Sbotta il sadhu, "non ti ho detto di smettere anche di sibilare". Quello che voleva dire Ramakhrishna è che l’io può essere utile, per stare nel mondo. Un po' di io è indispensabile.

La morte non è negativa, può essere utile, è grazie alla morte che ci poniamo le grandi domande della vita. Nella katha upanishad, il giovane Naciketas va dalla morte e la implora di insegnargli cosa è la verità. E’ la lezione del vedanta, tutto ciò che nasce muore, tutto ciò che muore rinasce, solo il Sè, la coscienza pura, che non è mai nata e che è fuori dal tempo, resta.
La storia su che cosa è Maya. Narada è un seguace fedelissimo di Vishnu, e gli chiede la differenza tra il mondo dell’illusione maya e la verità, Vishnu lo manda a prendere un bicchiere d’acqua al fiume, Narada arriva ad un villaggio, incontra una ragazza bellissima e se innamora, fanno dei figli, passano dodici anni ed arriva un uragano sul villaggio. Il fiume straripa, le case vengono trascinate via, ed uno dopo l’altro la moglie e i figli vengono trascinati via, lui sta lottando di salvare il più piccolo ed invoca Vishnu, ti prego signore aiutami, e subito tra i tuoni e i lampi tuona una voce “e il bicchiere d’acqua?” Il villaggio, la ragazza, i figli tutto questo è maya, fa parte del mutamento, del divenire, in questo modo Vishnu ha fatto capire a Narada la differenza.

Ritornato ad Orsigna, temevo tantissimo il ritorno alla routine del quotidiano, avevo paura di perdermi. I tanti mesi di solitudine era serviti solo a rendermi più insopportabile, non ne era valsa la pena di passare tanto tempo nell'eremo. Dipendere dalla solitudine per essere in pace era una forma di immaturità, ma esserne cosciente non bastava. Nell’Himalaya avevo trovato il silenzio fuori, ma non avevo fatto pace dentro di me. Pensavo solo a ritornare lassù per rimettermi al lavoro.
La goccia che fece traboccare il vaso fu il carrello del supermercato di Maresca, vedevo quella gente che riempiva il carrello e stava in fila per pagare e non ce la feci più, Ero pazzo io o il mondo? Lasciai il carrello e il giorno dopo ripresi l’aereo per Delhi e due giorni dopo ero di nuovo nell’Himalaya.
Chi fa sacrifici e rinuncia ai piaceri del mondo sviluppa, come per compensazione, un senso di superiorità, e se non è in fondo umile, finisce anche per credersi santo.
Gli indiani conoscono bene questo meccanismo e raccontano la storia dello yogi. Dopo anni di dure prove e privazioni uno yogi aveva acquisito i poteri a cui aspirava. Si prepara a lasciare il suo eremo nella foresta quando un uccellino gli fa la popo in testa, lo yogi con uno sguardo lo incenerisce, contento di essere riuscito nel suo intento si avvia verso il villaggio e bussa ad una porta per chiedere da mangiare. Da dentro la casa una voce di donna gli chiede di aspettare, il santone comincia ad irritarsi e quando la donna apre, la guarda male, Ehi, io non sono come quell’uccellino che hai appena incenerito, e lo yogi esterrefatto capisce che ci sono diversi modi per ottenere i poteri.
Angela, mia moglie, senza essersi isolata, senza aver tagliato i ponti con nulla e nessuno, mi sembrava di gran lunga più equilibrata e più in pace di me. Questo non faceva che aumentare la mia frustrazione. La vedevo a volte come un ostacolo, in quarantanni quello fu il momento più duro del nostro rapporto, il fiume non va spinto, scorre da sé, Angela lo aveva capito, mi lascio ripartire senza condizioni, senza scadenze.
Uno degli indovini Rajamanickam di Singapore mi aveva predetto che tra i cinquantanove e i sessantadue anni avrei dovuto affrontare una strettoia nella vita e forse anche un’operazione, ma era stato il solo, gli altri indovini mi avevano dato per longevo.
Riuscire a staccarsi dalle cose del mondo vuol dire diventare indifferenti o solo non esserne schiavi? Io mi sarei riconosciuto solo nel secondo caso.
La storia di Tagore dell’aspirante asceta, un uomo decide di lasciare la famiglia per farsi sannyasin, una notte quando di nascosto sta per partire, getta un ultimo sguardo alla moglie e ai figli addormentati e rivolto a loro chiede: "chi siete voi per tenermi qui incatenato?" Una voce nel buio risponde: "loro sono me, sono Dio", l’uomo non fa attenzione, non ascolta e parte, e a Dio non resta che concludere: "Ecco, uno che per cercarmi mi abbandona".
Non ero fatto per l’ascetismo, la vita era ancora per me qualcosa di meraviglioso, un richiamo forte.
L’11 settembre 2001 fu uno spartiacque nella vita di tutti e anche nella mia. Nella solitudine del cercare me stesso, sentivo qualcosa di profondamente arido, come nell’amore predicato dai sacerdoti. Mi sentivo ancora parte del mondo e volevo cercare di viverci meglio, era il momento di rendere un po’ di quello che avevo preso, accendere una piccola luce affinché il mondo fosse un po’ meno nell’oscurità. Scrissi  Le lettere contro la guerra, dedicato a mio nipote,
Nei tre mesi che rimasi in Pakistan e Afghanistan pensavo alla casa di pietra e al vecchio.
Lo immaginavo sorridere al mio ardore per la causa della non violenza, lo sentivo dire che tutto quello che facevo non serviva a nulla, che questa civiltà non è degna di essere salvata e certo non è correndo qua e là tappando i buchi che si salva una nave che sta per affondare.
Lui era convinto che, l’umanità impegnata solo a perseguire i piaceri dei sensi, era alla vigilia di una grande nevrosi, e vedeva tutto quello che succedeva sulla scala dell’eternità in cui il mondo era nato sette volte e sette volte era stato distrutto.
Anche il mistico Gurdjieff asseriva che sarebbero bastate 200 persone illuminate a cambiare la storia dell’umanità. Meglio cercare di diventare una di quelle.
Sentivo che il vecchio diceva, che l’essere è di gran lunga migliore del fare, ma io pensavo che ci sono momenti nella vita in cui bisogna anche fare per poter essere. In quelle circostanze l’inazione era un’azione che mi pareva immorale. Ritornai a trovare il Vecchio che mi chiese: "Con questo libro che stai scrivendo, lavori per Lui o per te?" Ossia scrivevo perché pensavo di avvicinarmi alla Verità o perché mi piaceva vedere il mio nome nei giornali e avere della gente che veniva ad ascoltarmi?
Sarebbe stato molto meglio se fossi rimasto a scavare in un posto solo, invece d’andare a giro a raccogliere ciottoli credendo che erano pietre preziose.
Il vecchio mi disse: "Finirai per trovarla la Via … se prima hai il coraggio di perderti."
Mi aveva fatto capire che non dovevo dipendere da nessuna idea altrui, da nessun guru, tanto meno da lui e che in ogni cosa dovevo fare io direttamente, sulla mia pelle l’esperienza.
Dovevo mettermi in ascolto della Voce, non farmela riferire da altri. Il motore doveva essere l'Eterno bisogno di sapere come mai siamo al mondo e come entrare in contatto con quello che ci ha messo qui.
In India, le varie risposte sono nella bocca della gente, sono nel loro modo di vivere, ma non occorre andare in India, non occorre andare lontano, fuori di sé per capire: Chi muore davvero di questa sete di sapere, non ha che da riscoprire la fonte, la propria fonte. L’acqua è sempre la stessa.
A che serve stare per ore e ore seduto sui talloni per ore a meditare? Se non si è diventati un po' migliori?
Sul mio rifugio a tremila metri, la contraddizione tra quel che pensavo e quel che facevo non si poneva mai. Ogni episodio potrebbe essere un bene o un male, una fortuna o una sfortuna.
Alla visita di controllo, i medici avevano accertato che il tumore si era diffuso ancora, e mi avevano diagnosticato un anno di vita.
I vecchi maestri sufi consideravano la morte improvvisa una disgrazia, perché impediva loro di prepararcisi e apprezzarla. Nel mondo notavo dei segni di una nuova coscienza, da quella nuova coscienza forse verrà la guida spirituale del futuro.
Bisogna resistere alle tentazioni del benessere e della felicità impacchettata. Dovremmo vivere più naturalmente possibile, desiderare di meno, amare di più e anche i malanni come il mio diminuiranno. Sono andato sul mio eremo himalayano a scrivere questo libro. Se uno vive senza mai chiedersi perché vive, spreca una grande occasione, e solo il dolore spinge a porsi la domanda. Nascere uomini è forse un privilegio.  Importante è capire il significato della vita. Occorre fare l’esperienza per capire.
Gandhi conosceva questa verità e la praticava. Un giorno una madre gli portò suo figlio. Aveva quindici anni e il medico gli aveva ordinato di non mangiare più zucchero altrimenti al sua vita sarebbe stata in pericolo. Il ragazzo continuava a rimpinzarsi di dolci e la madre sperava che Gandhi la potesse aiutare. Gandhi disse “Ora non posso farci niente. Tornate fra una settimana”.
Quando tornarono Gandhi prese da parte il ragazzo e gli parlò, Da allora il ragazzo non toccò più dolci, la madre chiese a Gandhi "Come ha fatto?"  Gandhi rispose: "Semplice, per una settimana io stesso non ho toccato zucchero e così sapevo cosa dire a quel ragazzo".  Il messaggio di Gandhi è: " La mia vita è il mio messaggio".
Sulla strada da Delhi a Almora, c’è un ashram di un grande sadhu di nome Nim Karoli Baba, e molti occidentali sono diventati suoi discepoli fra cui Richard Alpert.
E’ dal continuare a distinguere tra ciò che ci piace e ciò che non ci piace, che nasce la nostra infelicità, solo accettando che tutto è Uno, senza rifiutare nulla riusciremo forse a calmare la nostra mente e acquietare l’angoscia.
Anche io non sono indifferente a quel che mi succede, cerco solo di non esserne schiavo e vorrei davvero arrivare a quel famoso distacco dalle cose. Continuo a fare quello che mi pare giusto fare, senza aspettarmi un risultato, senza sperare in ricompense, senza formulare desideri … tranne quello di arrivare a non avere più bisogno di tempo per me e dedicare quello che mi resta agli altri. Ed è quello che era riuscito a fare lo swami. 

I guru, i libri, le religioni servono a indicarci il cammino, ma l’ultimo pezzo di strada, quella scaletta che conduce al tetto dal quale si vede il mondo o sul quale ci si può distendere e diventare una nuvola, quell’ultimo pezzo del cammino va fatto da soli.
A volte anche una sola parola, un gesto possono bastare a far cambiare direzione a una vita e tanti, specie fra i giovani,  cercano quest’occasione. Vivo con la sensazione che l’universo è straordinario, che niente mai ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. Io sono fortunato perché ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra.

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