Termine sanscrito che letteralmente significa «spegnimento». È utilizzato in contesto induista e buddista per indicare la realtà ultima e la liberazione, in opposizione al saṃsāra, dal ciclo delle rinascite in cui consiste l’esistenza ordinaria. Nel Canone buddista pāli il nirvana è descritto come l’assenza di ogni perturbazione mentale causata da ignoranza e attaccamento o avversione.
Il Buddha non risponde a domande specifiche in merito alla natura del nirvana, considerandole inutili nel cammino verso il risveglio (bodhi), e il nirvana stesso, come chi venga colpito da una freccia velenosa dovrebbe occuparsi solo di eliminarla e non di porre domande sul veleno, sull’arciere, o sulla natura della condizione in cui si troverà una volta rimossa la freccia.
Inoltre, secondo un tema implicito nel Canone pāli ed esplicito nel buddismo successivo, il linguaggio è intrinsecamente inadatto a parlare del nirvana perché intrinsecamente condizionato (mentre il nirvana rappresenta proprio l’estinzione di tali condizionamenti). Il nirvana è fra i bersagli dell’acume critico di Nāgārjuna, che arriva a mostrare come anche l’opposizione fra saṃsāra e nirvana sia insostenibile.
Alcuni studiosi hanno suggerito che ciò equivalga a dire che il nirvana non è altro che il saṃsāra una volta rimossa l’ignoranza. Non quindi un’entità esistente ‘altrove’, bensì una trasformazione della nostra esperienza ordinaria. Altro tema dibattuto è se l’ingresso nel nirvana significhi anche la fine di ogni possibile influenza benefica sugli altri. Il raggiungimento del nirvana - seguendo alcuni spunti critici del Mahāyāna – rischia di configurarsi come un desiderio egoistico e può essere un ostacolo nel cammino verso il risveglio. Nel Mahāyāna, la soluzione è offerta dalla figura del Bodhisattva.
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