Quando pensiamo alle religioni e filosofie seguite in Giappone, probabilmente ci vengono in mente il buddhismo e lo shintoismo. Il confucianesimo sembra essere invisibile, eppure ha avuto un impatto enorme sul piano sociale, politico e morale del Giappone. Molte caratteristiche che ci sembrano tipicamente giapponesi (l’importanza dell’armonia, il rispetto dell’ordine sociale) affondano le radici proprio nel confucianesimo. Anche tanti principi del bushidō, il codice morale dei samurai, derivano da questa disciplina. Se il confucianesimo è diventato invisibile in Giappone non è perché non esista, ma proprio perché alcuni suoi insegnamenti si sono fusi così profondamente con la cultura nipponica da non poterne più essere scissi.
Il confucianesimo, anche se contiene elementi religiosi, è una dottrina incentrata sull’essere umano da una prospettiva secolare: più che proiettare il significato della vita in una dimensione “altra” e in ricompense ultraterrene, il confucianesimo si concentra su questo mondo. Non vuole salvare gli individui, ma creare benessere collettivo nella società. I templi confuciani nel
Paese si contano sulle dita di una mano (Lo Yushima Seido è uno dei più importanti e pochi templi confuciani), e probabilmente nessun
giapponese si professa confuciano.
Lo scopo del confucianesimo è infatti il raggiungimento dell’armonia sociale. Questa è possibile solo se ognuno conosce il proprio ruolo e adempie ai doveri che gli spettano, educandosi ed elevandosi moralmente. In generale, con “confucianesimo” si intende una filosofia/religione/dottrina politica iniziata da Confucio nel VI secolo a.C. e poi sviluppatasi nel corso di più secoli, evolvendosi in quello che viene chiamato “neoconfucianesimo”.
Concretamente, questa disciplina comprende una miriade di modi di pensare e di comportarsi sviluppatisi in Cina e che sono stati uniti in un sistema coerente durante la dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.), quindi secoli dopo la nascita di Confucio. I pensatori politici della dinastia Han hanno usato frammenti di scritti attribuiti a Confucio e ad altri pensatori per creare un apparato testuale e un’ideologia più ampi e coerenti. Gli occidentali hanno chiamato l’intera dottrina “confucianesimo” che riunisce varie correnti di pensiero. A differenza di Buddha, Confucio, pur essendo un grande maestro, non si considerava l’inventore di nessuna filosofia: l’ideale che promuoveva era un ritorno ai princìpi e alle virtù dei saggi sovrani dell’antichità, una specie di età dell’oro esistita secoli prima di lui.
Il principio del confucianesimo è quello di spronare le persone a impegnarsi per elevarsi moralmente. Ha quindi fiducia nella capacità dell’uomo di perfezionarsi e dà grande enfasi allo studio e alla formazione. D’altra parte, dirà Mencio, uno dei grandi pensatori confuciani, la natura umana è buona, quindi l’uomo deve “solo” realizzare la sua vera natura (questo è anche uno dei principi cardini del buddhismo).
La condizione ideale a cui aspira un confuciano è quella di principe in senso morale, di uomo esemplare. Tutti, a cominciare dai sovrani, devono studiare e perfezionarsi. Chi governa deve essere di esempio per generare la giusta trasformazione morale della società. Non può aspettarsi dagli altri qualità che lui per primo non ha.
Le virtù cardinali dell’uomo esemplare sono cinque:
- Benevolenza. È la capacità di interagire con gli altri pensando al loro bene. È la virtù centrale, e va mostrata soprattutto nei confronti dei propri sottoposti.
- Rettitudine, giustizia: si riferisce alla non corruttibilità, alla capacità di mantenere la propria integrità e di comportarsi in modo equo, senza pensare al tornaconto personale. È anche senso del dovere, responsabilità.
- Correttezza rituale: è un concetto complesso che esprime una comprensione del proprio posto e ruolo nella società, un’adesione alle regole rituali e a quelle del comportamento sociale.
- Saggezza o conoscenza: è il discernimento, la capacità di distinguere comportamenti corretti o deviati negli altri.
- Integrità o affidabilità, l’essere degni di fiducia.
Un altro importante concetto, nell’etica confuciana, è la pietà filiale che non è semplicemente rispetto verso i propri genitori, ma un codice di condotta che si applica anche fuori dalle mura domestiche. È il rispetto per le gerarchie e per i superiori e si manifesta anche nei cinque principali rapporti sociali del confucianesimo: governante – suddito, padre-figlio, marito – moglie, fratello maggiore – fratello minore, amico – amico.
Ovviamente Confucio si è soffermato anche su altre virtù, come la lealtà/fedeltà e il coraggio, che spinge una persona ad agire secondo giustizia. Non bisogna però confondere le idee di pietà filiale e lealtà con la cieca obbedienza: come il “sottoposto” (figlio, suddito) deve essere rispettoso e leale, così il “superiore” deve fornire un esempio morale, mostrare benevolenza e prendersi cura dei suoi “sottoposti”. Le relazioni richiedono quindi una sorta di corrispondenza.
Durante la dinastia Song (960-1279), in Cina si sviluppa il neoconfucianesimo, una dottrina nata nell’VIII secolo. La diffusione del buddhismo sprona i confuciani ad ampliare la propria visione metafisica per poter competere e distinguersi da questa nuova religione. Il confucianesimo si oppone soprattutto alla visione del buddhismo zen e all’idea che tutto sia vacuità e impermanenza. Per i neoconfuciani, il mondo che percepiamo è del tutto reale. La realtà è composta da una forza generativa, una sostanza capace di assumere varie forme, detta ki e organizzata secondo il principio razionale ri, che le dà ordine intelligibile. Il neoconfucianesimo non si limita a opporsi al buddhismo, ma ne incorpora anche alcuni elementi. Ad esempio adotta e adatta la meditazione seduta dello zen (zazen).
Il confucianesimo arriva in Giappone nel VI secolo d.C., insieme al buddhismo, e viene applicato soprattutto alla sfera politica e amministrativa. Nella Costituzione dei 17 articoli emanata dal principe Shōtoku nel 604 d.C., il primo articolo fa riferimento proprio all’armonia. Il documento stabilisce princìpi confuciani per l’organizzazione della società: importanza della gerarchia, lealtà, obbedienza, decoro rituale, moderazione.
Nel periodo Edo (1603-1868) il Giappone è governato dagli shogun (shogun era un titolo equivalente al grado di generale, ereditario e conferito ai dittatori politici e militari a partire dal 1192). Dopo un periodo di battaglie, il Paese vive una fase di stabilità, ma anche di isolamento: i contatti con l’esterno vengono infatti ridotti all’osso e regolamentati.
La società è organizzata in un sistema gerarchico ben strutturato, ed è facile immaginare l’interesse della classe dominante per alcuni elementi della dottrina confuciana. In verità, però, in questo periodo il confucianesimo è anche in gran parte sinonimo di cultura e si diffonde per il suo legame con l’istruzione.
In quest’epoca di pace e prosperità, i mercanti si arricchiscono e vogliono concedersi un’istruzione raffinata. I samurai, che non sono impegnati a combattere, si dedicano allo studio. E le scuole sono confuciane.
Quando, nel periodo Meiji (1868-1912), con il ripristino del potere imperiale e l’apertura all’Occidente, la politica giapponese prende una piega più conservatrice e nazionalista, alcuni filosofi invocano un ritorno all’etica nazionale, un’ideologia intrisa di principi confuciani come la lealtà e la pietà filiale.
A quest’epoca si deve anche l’elaborazione del bushidō, il codice morale dei samurai. Anche se in teoria le idee che raccoglie risalgono all’epoca feudale, infatti, il bushidō è in verità una creazione del Novecento che promuove un’ideologia politica ed etica al servizio dello stato. E i concetti confuciani di lealtà e coraggio, travisati, si adattano benissimo a questo tipo di ideologia.
Le nozioni confuciane, insieme al bushidō, vengono così adattate e fatte confluire nell’ideologia militarista e imperialista della metà del ‘900 per promuovere l’indiscussa fedeltà all’imperatore e lo spirito di sacrificio.
A causa di questa manipolazione, nel periodo postbellico il confucianesimo verrà visto con un certo sospetto. I suoi principi, però, saranno ormai diventati parte integrante della cultura giapponese.
Il confucianesimo oggi, in Giappone si manifesta nelle gerarchie sociali basate sull’anzianità. È nell’ideale di “armonia” che rifugge il confronto e lo scontro in favore della negoziazione. È nell’importanza dello studio e nell’enfasi sull’apprendimento per emulazione.
È anche nelle parole. Il termine “università” (daigaku) è il titolo di uno dei quattro libri del neoconfucianesimo. Il confucianesimo ha anche fornito una base linguistica e concettuale per l’assorbimento delle filosofie e delle scienze occidentali arrivate nell’era Meiji. Molti termini coniati per tradurre concetti occidentali utilizzano parole confuciane. “Logica” (ronri), ad esempio, contiene gli ideogrammi di discussione (ron) e di ri, il famoso principio razionale introdotto dal neoconfucianesimo.
Persino i nomi delle epoche imperiali sono quasi sempre stati presi dai classici confuciani. In Giappone, ogni volta che un nuovo imperatore sale al trono inizia una nuova epoca. I nomi dei periodi più recenti (Meiji, Taishō, Shōwa e Heisei) derivavano dai Cinque Classici confuciani. Nel 2019, però, è iniziata l’epoca Reiwa ( il “wa” in Reiwa significa Armonia), e per la prima volta si è scelta una parola presa dal Man’yoshu, la più antica raccolta di poesie classiche giapponesi.
Dal sito: https://volcanohub.com/
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