venerdì 8 marzo 2024

Shintoismo in Giappone

Lo shintoismo ( “via degli dei”) o scintoismo, viene considerato la religione autoctona e più antica del Giappone.

Lo shintoismo: non ha un fondatore, né un testo sacro, né un “Dio” unico superiore. Ci sono comunque dei testi base dello shintoismo che sono il Kojiki e il Nihon Shoki. Sono opere che narrano le origini mitologiche del Giappone e vennero fatte redigere dalla famiglia imperiale nell’VIII secolo per giustificare la propria egemonia sugli altri clan e attribuirsi antenati divini. Lo shintoismo non è particolarmente interessato alla morte e all’aldilà (che rientrano più nell’orbita buddhista), ma a tutto ciò che concerne la vita in questo mondo, la natura, gli inizi e la trasformazione. Lo shintoismo non è nemmeno centrato su una dottrina morale specifica. Alla base dello shintoismo abbiamo la presenza del sacro nella natura e nei fenomeni che la circondano, e il praticante vuole mantenere l’armonia con queste forze e  ottenere favori e protezione da queste forze.

Una delle preoccupazioni principali dello shintoismo è la purezza e gli esseri umani nascono puri e la purezza è la loro condizione naturale. Capita, però, che si contaminino, ad esempio nel contatto coi morti, e che debbano quindi purificarsi con appositi riti e pratiche. La purezza è un ideale che compare già nel mito di Izanagi e Izanami, raccontato nel Kojiki e nel Nihon Shoki. Secondo la leggenda, alla morte della dea Izanami, suo marito Izanagi andò nell’aldilà per tentare (invano) di recuperarla. Al ritorno in questo mondo dovette purificarsi per essere entrato in contatto con la morte, e lo fece immergendosi nel fiume Tachibana.
Questo mito è rappresentativo per due motivi: ci fa capire che la morte è considerata impura. Lo stesso vale per la malattia, il sangue mestruale o quello del parto. È una credenza che ha avuto una certa importanza nella creazione della casta degli intoccabili, i burakumin. Questa classe era in parte composta da gente che lavorava a contatto con il sangue o con i morti.

Il secondo elemento importante è il ruolo purificatore dell’acqua. Per accorgersi della sua importanza, basta visitare qualunque tempio: prima di entrare bisogna sciacquarsi mani e bocca in una specie di fontana chiamata chōzu-ya o temizu-ya. Analogamente, non è raro vedere persone spargere acqua davanti a casa o al proprio negozio. Altri elementi purificatori sono il fuoco e il sale: quest’ultimo viene usato per purificare il ring nel sumo.

Essendo una religione di stampo animistico e politeista, lo shintoismo riconosce numerose divinità o spiriti, dette kami. Questi kami sono delle entità intangibili che eccellono nel loro essere, sia esso buono o cattivo. Sono qualunque cosa generi timore o rispetto. In concreto, possono essere fenomeni naturali, elementi animati o inanimati: la dea del sole Amaterasu (l’antenata della dinastia imperiale) e gli imperatori morti sono dei kami, ma lo possono essere anche gli antenati, piante, rocce e animali. Il loro numero è infinito. Essendo una religione “sincretica”, che cioè assorbe e unisce elementi presi da diverse tradizioni, lo shintoismo ha accolto al proprio interno anche divinità di origine cinese e indiana.
Anche il concetto di kami è qualcosa di “sentito”, di “avvertito”, che non è facile definire logicamente o descrivere a parole. Nello shintoismo di stato, nato a fine Ottocento, anche l’imperatore vivente era considerato un kami.

Il rito, più che la dottrina, è il cuore dello shintoismo, ed è una componente molto importante della cultura giapponese in generale.  Ci sono riti legati alle varie tappe della vita:  la nascita, la crescita,  il raggiungimento della maggiore età, , il matrimonio, ecc  per invocare la protezione dei kami.Ci sono riti come il jinchisai per purificare il sito di un nuovo cantiere edile, come l’umi-biraki  per inaugurare la stagione balneare e lo yama-biraki  per inaugurare quella del trekking.  Durante i riti, ma anche nelle normali visite, è possibile imbattersi nelle miko, le aiutanti. Queste non sono sacerdotesse, ma ragazze laiche che danno una mano nella gestione del santuario e a volte si esibiscono nelle danze sacre. Sono distinguibili per i pantaloni (hakama) rossi e la casacca bianca. Non ci sono funzioni religiose settimanali: la gente visita il tempio quando vuole, magari in occasione di riti speciali o matsuri.  Lo scopo delle visite al tempio non è legato all’espiazione di peccati o a benefici nell’aldilà, ma è più immediato e terreno. Di solito si prega per invocare protezione da pericoli e calamità, per la salute, la prosperità e il successo (agli esami di ammissione, ad esempio).

Poi ci sono i matsuri (festival) legati principalmente ai vari periodi dell’anno (Capodanno) e al raccolto (in primavera e in autunno). Durante le feste, solitamente, c’è una parte di purificazione seguita da offerte di cibo e preghiere, danze e musica. Le preghiere recitate dal kannushi (il sacerdote) sono composte in un linguaggio aulico e si chiamano norito.

I luoghi di culto shintoisti si chiamano solitamente “jinja”. Anche se questo termine si traduce come  “santuario”, “jinja” indica tutta l’area sacra, non solo l’edificio principale. Un tempo, infatti, non c’erano edifici permanenti: iniziarono a svilupparsi solo sotto la spinta del buddhismo (ai cui templi rimasero annessi fino a fine Ottocento).  Oggi, tipicamente, un jinja è composto da diversi elementi:     Torii: il portale d’ingresso nell’area sacra. È spesso dipinto di rosso e, nella versione più semplice, è formato da due colonne sormontate da una specie di architrave.
    Chōzu-ya o temizu-ya: una struttura con una fontana e dei mestoli in cui eseguire la purificazione rituale di mani e bocca prima di accedere al santuario.
    Haiden: il padiglione in cui i fedeli possono pregare. Le preghiere di solito non sono molto elaborate e la visita dura pochi minuti. In genere si svolge così: si fa un’offerta simbolica (una moneta da 5 yen è considerata benaugurante) e, se presente, si suona una piccola campana appesa sopra l’offertorio per attirare l’attenzione del kami e purificare l’aria. Dopodiché si fanno due inchini, si battono le mani due volte, si recita dentro di sé una preghiera (una richiesta, non una formula prestabilita) e, infine, si fa un altro inchino.
    Honden: il sancta sanctorum in cui può entrare solo il sacerdote (kannushi) e che contiene lo shintai, un oggetto simbolico in cui risiede il kami. Spesso si tratta di uno specchio. Lo shintai non è il kami, ma solo un oggetto che esso abita per essere accessibile agli umani.
    Alcuni templi non hanno un honden, perché lo shintai è un elemento naturale. L’esempio più famoso è quello del santuario di Ōmiwa, a Nara, dove lo shintai è la montagna.
    Yoshiro: è un oggetto che, come un parafulmini, attrae il kami e gli offre uno spazio fisico da occupare temporaneamente. Lo shintai è quindi uno yoshiro. Può essere un albero, una roccia, una katana o una montagna, e rappresenta la forma più primitiva del jinja. Di solito gli yoshiro sono identificabili perché sono circondati da grandi corde attorcigliate (shimenawa) decorate con strisce di carta a zig-zag.

Spesso nei santuari (ma anche nei templi buddhisti) sono presenti dei posti in cui appendere gli ema e, separatamente, gli omikuji. I primi sono delle tavolette di legno con un’immagine, in origine un cavallo. Il nome significa infatti “cavallo disegnato”, e si riferisce al fatto che, in passato, i ricchi offrissero ai kami questi animali, che sono considerati il loro mezzo di trasporto. Sul retro dell’immagine si può scrivere una richiesta per il kami (in qualunque lingua) e appenderla per fargliela arrivare.
Gli omikuji, invece, sono delle specie di oracoli scritti su carta che si estraggono a sorte e rivelano il futuro di una persona. In teoria, quelli negativi andrebbero appesi per scongiurare la cattiva sorte, ma spesso la gente appende anche quelli con i buoni auspici in segno di ringraziamento.

Al di fuori dello shintoismo più istituzionalizzato sopravvivono molte credenze popolari, parte del substrato da cui ha attinto la religione ufficiale. Lo shintoismo come lo conosciamo oggi è un prodotto di fine Ottocento. Nella sua formazione possiamo distinguere tre fasi:

1. Le origini delle credenze. La prima fase coincide con lo sviluppo di credenze sciamaniche e animistiche, nate probabilmente nel Nord-est asiatico e portate dalle popolazioni mongole. In questa fase non esisteva l’idea di una religione che si chiamasse “shintoismo”, e, siccome non c’era la scrittura, è difficile conoscerne i dettagli.  Per lungo tempo la popolazione giapponese fu organizzata in base ai clan, e ciascuno aveva le proprie credenze e divinità. Nel tempo, le varie fazioni iniziarono a unirsi sotto la guida di un unico clan, il cui dominio si espanse nel resto dell’arcipelago. Si tratta degli Yamato, che diedero origine alla linea imperiale che continua ancora oggi. La religione e la mitologia del clan dominante divennero quindi quelle condivise dal Paese, ma anche i miti degli altri gruppi vennero assorbiti e riorganizzati per costruire un sistema che mettesse al centro l’imperatore.

2. Le origini del termine.  La parola “shintoismo” comparve con l’arrivo del buddhismo nel VI secolo d.C., quando si cercò di trovare un termine per definire tutto ciò che non era buddhismo. Anche in questo caso, quindi, non si trattava necessariamente di un’unica religione organizzata in modo sistematico, ma di un insieme di pratiche e credenze.  Il fatto, però, che si inizi a parlare di shintoismo insieme al buddhismo getta le basi per lo sviluppo di questa seconda fase: la fusione tra i due culti. Per molti secoli, in Giappone, non si sentì la necessità di separare nettamente shintoismo e buddhismo. L’idea di esclusività propria dei grandi culti monoteisti qui non è mai arrivata. Le due religioni si influenzarono a vicenda e divennero inscindibili. Non si parlava tanto di “shintoismo” in sé, in quanto questo era un’usanza in senso ampio, non una religione che si professava. I kami furono visti inizialmente come protettori del buddhismo, poi come entità intrappolate nel ciclo delle rinascite e infine come bodhisattva, esseri illuminati. Per tutti questi motivi, i templi shintoisti e buddhisti sorgevano nello stesso luogo.

3. Le origini del sistema religioso organizzato. La “terza nascita” dello shintoismo risale all’epoca Meiji, a fine Ottocento. Il Giappone si stava aprendo all’Occidente dopo 250 anni di isolamento e sentiva il bisogno di definire la propria identità per evitare di essere fagocitato. Cercò nella propria cultura qualcosa di “originale” e autoctono, e lo trovò nello shintoismo. Mentre il buddhismo venne visto come una dottrina importata e corrotta, lo shintoismo venne esaltato come vera religione nazionale. Per la prima volta, quindi, si crearono due culti distinti.

In questa fase si cercò di analizzare e sistematizzare questa religione, stabilendo cosa fosse shintoista e cosa no. Nello stesso periodo nacque anche lo shintoismo di stato, che venne usato per sostenere il nazionalismo e la militarizzazione di inizio Novecento. Questa dottrina dava grande importanza al culto dell’imperatore, considerato un kami vivente.

Lo shintoismo di stato venne smantellato dopo la seconda guerra mondiale. Al giorno d’oggi, molti giapponesi si dichiarano atei, ma tantissimi fanno visita a un santuario a Capodanno (hatsumode), o magari in vista degli esami. Tra i santuari più famosi ci sono infatti i Tenmangū, dedicati a Tenjin, il kami protettore dello studio. Molto popolari sono anche quelli consacrati a Inari, che protegge le messi e gli affari e che ha come messaggero una volpe. Tante grandi aziende, tra cui la Shiseido, hanno un santuario dedicato a Inari nei loro edifici.
Il santuario Fushimi Inari è una tappa obbligata a Kyoto, ma ce ne sono tantissimi altri in Giappone. 

Dal sito:  https://volcanohub.com/ 

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