sabato 11 dicembre 2021

L'India vista da Tiziano Terrzani

 Tiziano Terzani (1938 -2004) in questo testo Un altro giro di giostra, viaggio nel male e nel bene del nostro tempo, racconta gli ultimi anni della sua vita, dopo che gli era stato diagnosticato un tumore allo stomaco.   Vedi link http://www.tizianoterzani.com     .

 
In questo articolo riporto la parte del libro dedicata all'India.  In India, l’ora più bella è quella dell’alba, quando la distinzione tra tenebra e luce non è ancora netta. Come il falso e il vero che sono due aspetti della stessa cosa e difficilmente separabili.
In quell’ora i rishi, "coloro che vedono", meditano solitari nelle loro remote caverne di ghiaccio dell’Himalaya, caricando l’aria di energie positive e permettendo anche ai principianti di guardare dentro di sé, alla ricerca della spiegazione del Tutto.
In Asia il riferimento al divino è continuo, in India si saluta unendo le mani davanti al petto,  pronunciando Namaste, che significa:  Saluto il divino che c’è in te.
Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. Una volta incontrata non se ne può fare a meno. Si soffre a starne lontani, così è l’amore: istintivo, inspiegabile, disinteressato.
L’India fa sentire ognuno parte del creato. Alcuni millenni fa i rishi,  ebbero l’intuizione che la vita è una. Ogni vita, la mia e quella di un albero fanno parte di un Tutto dalle mille forme che è la vita. Il tempo è circolare e il progresso non è il fine delle azioni umane, visto che tutto si ripete e che l’avanzare è considerato pura illusione. La realtà percepita dai sensi non è presa per vera, Non è la realtà ultima. 
Da qui, uno stato d’animo di distacco che rende il Paese così particolare e la sua realtà a volte proprio orribile, ma in fondo accettabile. La vita è tutto e il contrario di tutto, la vita è morte, non c’è piacere senza dolore, non c’è felicità senza sofferenza. La contrapposizione degli opposti e l'inevitabile dualità dell’esistenza. Si entra in una logica per cui niente è davvero drammatico.
L’India è un’esperienza che ti accorcia la vita, ma è anche un’esperienza che dà senso alla vita.
A Lodhi Garden uno dei più bei parchi di Delhi, si vedono praticanti yoga sui tappetini, vecchi che portano ogni giorno da mangiare alle formiche,  le stesse  formiche che cancellano tra le decorazioni fatte sul suolo con farina di riso (rangoli), mangiandosi il riso.  In India, le persone segnano una linea con un gessetto, fatto da una combinazione di erbe, sulla soglia di casa per non fare entrare le formiche. Lo stesso fece  Lakshmana, uno degli eroi del Ramayana, con la cognata Sita, tracciò una riga e gli chiese di non oltrepassarla per metterla in sicurezza dai demoni che la cercavano.
In Occidente, investiamo tutte le nostre energie nel consumare, e al consumismo,  come se la vita fosse un eterno banchetto romano in cui si mangia, e si vomita per poter mangiare. Non ci sentiamo parte del tutto, al contrario, ognuno si sente un’entità separata ed proprio questo proviamo un grande senso di solitudine e di tristezza.
La storia della rana nel pozzo. I rishi, dicono che abbiamo perso il nostro collegamento cosmico, siamo diventati come kup manduk, la rana che aveva passato tutta la sua vita nel pozzo. Un giorno questa rana incontra una rana che veniva dall’oceano, e chiede "Che cosa è l’oceano?" "Un posto molto grande."  "Ma grande come?"  "Grande, molto grande" e la rana traccia un cerchio, molto più grande, a questo punto traccia un cerchio grande quanto il pozzo, e dice "Molto più grande di questo", e la rana si arrabbia.
In India, nessuno è stato mai messo al rogo per le sue idee, sin dall’antichità il vero potere era quello dei sapienti. Anche i re andavano nella foresta a rendere umilmente omaggio ai saggi. I rishi si interessavano non al mondo, ma all’essere, erano in grado di percepire i diversi stati della mente a seconda che l’io sia sveglio, sia addormentato o sogni.
Ramakrishna, il grande mistico indiano, racconta la storia del taglialegna che sta sognando di essere un Re e che quando viene svegliato da un amico si arrabbia dicendo “Stavo seduto su un trono e mi occupavo degli affari di stato e tu vieni a disturbarmi,” l’amico risponde “ma era solo un sogno”, “tu non capisci, essere un Re in un sogno è vero quanto essere un boscaiolo da sveglio”.
Per gli indiani che, negli ultimi duemila anni non hanno invaso nessun altro Paese vicino, l’obiettivo è sempre stato la conoscenza, non del mondo, ma la conoscenza del Sé. Conoscere il Sé, vuol dire conoscere tutto, perché il fondo di quel Sé, è ciò che resta immutabile nell’eterno mutare del tutto.
Il mondo che ci circonda è come sabbia sollevata dal vento, mutevole e irrilevante. Per questo gli indiani non si sono mai preoccupati di cambiarlo o di migliorarlo ( vedi il problema della povertà e della miseria che si vede in India).  La filosofia in India è parte della vita, è la conoscenza di Sé. In Occidente la conoscenza è quella utile ed applicabile.
Paul Brunton negli anni 30, fece un viaggio in India sulle tracce della sua sapienza, incontrò uno yogi che gli disse: "Solo quando i sapienti occidentali rinunceranno ad inventare macchine che corrono più veloci di di quelle che già avete, e cominceranno a guardare dentro di sé, la vostra razza scoprirà un po' di vera felicità".
Nelle città occidentali, la vita scorre veloce, senza un solo momento di pausa o riflessione, senza un solo momento di quiete che bilanci la continua corsa al fare, siamo bravissimi ad inventarci scuse per non fermarci. Da ragazzo ho conosciuto gente che aveva tempo, erano i pastori dell’Orsigna. Stavano ore ed ore con un filo d’erba in bocca distesi in cima ad un monte.
In India, tutti hanno tempo e molti dei grandi saggi, rishi, o santi sono stati personaggi di origini semplicissime o autodidatti. Nisargadatta Maharaj era un venditore di sigarette (bidi-bidi), Ramakrishna era nato contadino (di lui scrisse Max Muller e Romain Rolland), così come Ramana Maharishi che considerava il silenzio uno dei più efficaci mezzi per comunicare. Anche Kabir, uno dei poeti più amati dell’India, un rishi vissuto nel XVI secolo era un tessitore, e diceva: "Tessere è il mio modo di pregare".
Ad una certa età dobbiamo coltivare ciò che non muore.
Qui Terzani ci racconta la storia di Guru Nanak che arriva in un villaggio, vede una bellissima casa e chiede di chi è, gli dicono che è la casa del più ricco del paese, uno che presta soldi, ed ogni volta che mette da parte una cassa di monete, fa una festa, Guru Nanak bussa, il padrone lo riconosce ed è felice di ospitarlo, Guru Nanak gli chiede se può fargli un favore, il mercante contento di fare un’opera buona e guadagnare karma, risponde "Farò quello che volete", Guru Nanak tira fuori dalla tasca uno spillo di ferro e gli chiede "Tienimelo in deposito, me lo restituirai quando ci incontreremo nella prossima vita".
La morte ci toglie tutto, se riuscissimo ad alleggerirci prima ci sentiremo più leggeri. Dobbiamo buttare a mare la zavorra di cose ed emozioni che ci portiamo dietro.
Poi Terzani racconta un'altra storia dell’Asia Centrale sulla morte, che viene riportata anche da Robert Musil. Un giorno il Califfo manda il suo Vizir al mercato a sentire cosa dicesse la gente, e nella folla il Vizir nota una donna alta, magra avvolta da un mantello nero, che lo guarda fisso,
Terrorizzato scappa, e dice al Califfo, "Aiutami ho visto la morte al bazar, è venuta per me. Dammi il tuo cavallo più veloce, stasera sarò in salvo a Samarcanda", e parte a spron battuto verso Samarcanda. Il Califfo va lui stesso al mercato, nella folla vede la donna (la morte) e l’avvicina, "Perchè hai fatto paura al mio Vizir",  e la morte risponde "Non gli ho nemmeno parlato, ero solo sorpresa di vederlo qui, perché il nostro appuntamento è questa sera a Samarcanda".
Adesso l’India comincia a soffrire degli stessi malanni degli occidentali. E’ l’India che non è più vegetariana, beve alcol, si veste con i jeans, manda i figli a studiare all’estero, è produttore della bomba atomica; L’India che ha rifiutato Gandhi. Nel 1994 c’è stato un ritorno della coca cola e la progressiva occidentalizzazione. Tutta la saggezza dell’India è adesso riciclata in chiave new age ed appare in riviste olistiche.
Qualcuno mi disse, "l’India corre dietro a tutto, ma molto lentamente, vedrai che arriverà tardi anche al funerale della cultura occidentale", e che avrebbe digerito anche l’attuale processo di occidentalizzazione come aveva fatto in passato con le invasioni mussulmani e inglesi.
In India niente viene mai distrutto e sostituito con il nuovo.
L’India è il solo Paese al mondo in cui si pratica ancora l’unami, antica medicina greca fondata da Ippocrate e portata in India da Alessandro Magno nel IV secolo a.c.
In India coesistono i più svariati sistemi di medicina: la medicina occidentale, l’ayurveda, l’omeopatia, la naturopatia, la medicina cinese e tibetana.
Nella città di Hyderabad migliaia di persone fanno la fila per ingoiare sardine ed erbe, sembrerebbe che sia una cura miracolosa contro l’asma, cura tramandata dalla famiglia Goud fin dal 1845.
 
Nell'India è nato anche il Buddhismo.  Bihar, uno Stato dell'India nord-orientale, è la culla del buddhismo, a Rajgir ci sono le grotte dove il Buddha e Ananda meditavano, le rovine di Nalanda, la famosa università buddhista, che tra il IV e XIII secolo è stata distrutta dagli arabi. A Bodhgaya troviamo l’albero sotto il quale il Buddha raggiunse l’illuminazione. A Sarnath, vicino Benares, il Buddha iniziò ad insegnare la via di mezzo. Tathagata era il nome con cui voleva essere chiamato che significa "Colui che è passato di qui". Il Buddha morì ad 80 anni avvelenato dal cibo offerto da un intoccabile.  Il buddhismo con la sua negazione dei riti e il concetto di compassione, estraneo all’induismo, rappresentò una vera e una grande rivoluzione.
Gli induisti con Shankaracharia, un santo commentatore dei Veda, cominciarono una controffensiva ideologia intorno al VIII secolo, i mussulmani alla fine del XIII secolo fecero il resto per eliminare la dottrina dell’illuminato in India.
La città di Benares è sacra ma solo dalla parte ad ovest, e solo chi muore sulla sponda occidentale del Gange si salva dal rinascere, i neonati e i sadhu non vengono cremati ma lasciati nelle acque. La spiegazione è che i sadhu venivano cremati simbolicamente quando prendevano i voti.
Benares è la più antica città vivente e milioni di indiani sono venuti qui a morire, per noi occidentali è difficile identificare il sacro con lo squallore, lo sporco, il putridume. Ma quella indiana è la civiltà che ha come ideale di vita i mendicanti.
Che ci sia davvero una grande saggezza nel pensiero orientale, secondo cui ciò che è fuori da noi è immutabile e che la sola speranza è cambiare dentro di noi. La morte era un fatto contro cui nessuno sembrava ribellarsi, E noi occidentali invece abbiamo tanto difficoltà ad accettarla! Per noi è sempre una sconfitta. In India il corpo è uno strumento da buttar via senza rimpianti. Nei funerali non c’è musica che lo accompagni, c’è solo il grido di alcuni "Ram nama satya hey" che significa  "solo il nome di Rama è verità". Durante la cerimonia il primogenito del defunto appicca il fuoco alla pira e va a fare le abluzioni di purificazione e torna nella ruota del mondo.

Alla stazione della vecchia Delhi, un viaggiatore occidentale che non abbia fatto l’abitudine all’India può essere preso dal panico, una fiumana di folla povera e colorata che dorme sotto pensiline, ecc… 
Da Delhi si arriva in treno a Pathankot che è la stazione più vicina a Dharamsala e McLeod Ganj, la cittadina dove sua santità il Dalai Lama risiede e la sede del Governo dei tibetani in esilio da quando nel 1959 i cinesi invasero il Tibet.  Nel 1989 il Dalai Lama ricevette il premio Nobel per la pace.
Gli occidentali vanno a Dharamsala, perché sono infelici, e sperano di trovare un paradiso dove gli esseri umani sono in pace con se stessi. L’uomo ha un innato bisogno di pensare che da qualche parte esiste un El Dorado.  A Dharamsala c'è il Men-Tse-Khang, l’istituto medico astrologico, là il direttore, il dott. Tenzin Choedrak disse:  Noi tibetani, nelle vite passate, dobbiamo aver fatto del gran male ai cinesi. Per sopravvivere ai lavori forzati ho attivato il fuoco nel mio stomaco, che mi permetteva di digerire il cibo immangiabile. La depressione è una malattia soprattutto occidentale, e la ragione è che voi occidentali siete troppo attaccati alle cose.
Quella di produrre una grande quantità di energia è una vecchia pratica yoga insegnata ai monaci, per aiutarli a sopravvivere al gran freddo, si insegna loro a riscaldarsi concentrando la mente su un fuoco immaginato nel fondo del ventre. L’allievo doveva sedersi nudo per terra e coprirsi con un telo di cotone, inzuppato d’acqua. Col calore che l’adepto sviluppava, nel giro di poco tempo quel telo doveva completamente asciugarsi. Il grande poeta ed eremita tibetano Milarepa veniva chiamato l’uomo vestito di cotone, perché aveva asciugato, una dietro l’altra, tre coperte intrise d’acqua. Il Dalai Lama chiese a dei giovani monaci di fare questo esercizio, il tummo, davanti ad un gruppo di medici di Harward.
 Nel ritornare col treno a Delhi, si attraversa la grande baraccopoli della periferia, caratterizzata da cumuli di plastica, spazzatura, fetore, sporcizia, miseria. Il finestrino del treno era come lo schermo di un televisore su cui passava un film dell’orrore.
Così doveva sembrare agli indiani benestanti che viaggiavano col treno. La loro apparente indifferenza mi colpì, ricordandomi quello che mi era sembrato il buco nero dell’induismo: la mancanza di compassione. Capivo perché tanti indiani delle caste basse si fossero in passato convertiti al buddhismo, e perché in seguito, molti, molti di più fossero diventati mussulmani.

Per rimanere sani bisogna arrabbiarsi di meno, ridere di più e tenere in ordine l’intestino. La pulizia dell’intestino era una vecchia pratica fra gli yogi. Inutile fare corsi di meditazione per controllare la mente, se non si impara a controllare il corpo.  Per confermare il valore terapeutico del digiuno, basti sapere che all’università di Nalanda in India, quando uno studente si ammalava, prima di dargli delle medicine, veniva messo a digiuno per una settimana. Comunque, anche grandi figure spirituali indiane sono morti di cancro: Ramakrishna, Ramana Maharishi e Nisargadatta Maharaj.   Un vecchio detto indiano recita: L’uomo dice che il tempo passa, Il tempo dice che l’uomo passa.
 
Yoga e musicoterapia. In vari miti della creazione il suono viene indicato come fonte di tutto, in principio era il Verbo, per gli indiani il mantra AUM era il primo di tutti i suoni, all’origine della creazione. Anche per gli scienziati l’universo è iniziato con il Big Bang, il grande botto. 

Terzani nel libro descrive la sua partecipazione ad un seminario di yoga in un ashram a Coimbatore, nel Tamil Nadu.  All’ashram dove Terzani ha trascorso diversi mesi,  i partecipanti cercavano di identificare quali raga, le strutture musicali classiche, hanno il giusto ritmo per curare le malattie. Fin dalle origini, lo yoga ha attribuito enorme importanza al suono, e una delle discipline per trascendere il corpo e far si che l’individuo diventi Uno con l’Assoluto è il Nada yoga, lo yoga del suono.  Al corso di yoga mi guardavo attorno e non vedevo una faccia serena, non una persona con un bel sorriso, qualcuno che emanasse un sentimento di pace, e ognuno per conto suo era impegnatissimo a fare le contorsioni.
Lo yoga significa unione, ed è una disciplina impegnata a liberare l’uomo dall'essere un’esistenza individuale separata dall’universo, per unirlo con il tutto. Ma come questo fine può essere perseguito in seno ad una società come la nostra, completamente dominata dal principio dell’individualità e della separazione? Forse il solo provarci crea conflitti, schizofrenie e quella tristezza che mi sentivo tutto attorno.
La musica Raga accompagnava gli esercizi e il pranayama, quella musica che quasi non si interrompe per più di due ore e che sembrava non avere né inizio, né fine, semplicemente scorreva come l’acqua, come la vita.   Lo swami che guidava il ritiro, aveva una visione integrata della natura e dell’universo, La ricerca spirituale è la ricerca della conoscenza, e la sola conoscenza che vale la pena perseguire è la conoscenza di sé.
Noi crediamo di sapere, ma sappiamo solo quello che vediamo, quello che sentiamo, tutto quello che proviamo con i nostri sensi. In verità tutto quello che ci appare come realtà non è reale. Lo yoga fa bene al corpo, ma il fine dello yoga non è il corpo. Yoga vuol dire controllo della mente, unione tra mente e corpo. Il corpo è un mezzo di trasporto, va tenuto bene perché si possa arrivare a destinazione: Non bisogna fare l’errore di confondere il fine con il mezzo.
Yoga significa essere coscienti di se stessi in ogni momento, essere coscienti di ogni gesto, di ogni pensiero. Nella pratica c’è molto di più delle asana e pranayama, che sono due degli otto aspetti dello yoga, gli altri sei sono: rinuncia alla violenza, distacco dalle cose materiali, rinuncia alla falsità, ritiro dei sensi, concentrazione e meditazione. Lo yoga è il mezzo, è la via con cui l’uomo unisce il suo Sé limitato all’Essere infinito. I partecipanti non sembravano interessati a questo, per loro il seminario era per loro un investimento e un futuro mestiere.
Lo swami insegnava il Vedanta, la fonte di tutta la saggezza. La spiritualità indiana non era legata ad un popolo o a un paese, e non s’era fatta strangolare dalla teologia. L’astrologia spirituale era un modo per capire la predisposizione spirituale delle persone. I maestri sceglievano in modo meticoloso gli allievi, Lo stesso Vivekananda, aveva dovuto superare varie prove prima di essere accettato come discepolo da Ramakrishna.
Lo swami all'ashram, mi diceva: Non ho più bisogno di tempo, ho fatto tutto quel che volevo fare, il tempo che mi resta è tempo pubblico, Quando avrai scoperto che sei la totalità, niente ti potrà più essere tolto; la pace va cercata dentro di noi, non fuori di noi.

Lo swami mi considerava uno shisha (uno che merita di studiare) e prendevo lezioni di sanscrito, studiavo i testi sacri indiani, e stonato come sono, cercavo di cantare gli inni vedici e i mantra. Per trentanni avevo fatto il figlio, il marito, il padre, l’amico, il giornalista, il viaggiatore e altro: Quelli erano stati i ruoli, le maschere con le quali mi ero anche divertito: Ma io? E poi, quale io?    Quel che un tempo m’era parso importante non mi pareva più tale.
Il vero motivo che mi aveva portato in quell’ashram era l’aspirazione a fare un nuovo tipo di viaggio, un viaggio dentro e non fuori. Un viaggio la cui metà non era un luogo fisico ma un posto della mente, uno stato d’animo, una condizione di pace con me stesso e col mondo a cui agognavo ormai più che a qualsiasi altra cosa. Non volevo più parlare di me al passato ma solo al presente. Sarei stato una settimana senza parlare, che mi chiamassero Anam, il senzanome.
Chi sono io? Cosa restava di me senza il mio nome, la mia storia, senza quello a cui per una vita avevo così assiduamente lavorato? Lo swami disse che la risposta c’era e l’avremmo trovata nel Vedanta, la parte finale dei Veda, dedicata al Sè che non nasce e non muore, Il Sè che resta immutabile quando tutto cambia, il Sè la cui esistenza non dipende dall’esistenza di nient’altro.
Lo swami entrava nell’ashram dalla porta nord (delle energie positive), noi shisha usavamo la porta ovest (delle energie neutre).  Guru non è un titolo, ma indica un rapporto, per cui una persona è guru per i suoi discepoli, non è guru per tutti. In India non si studia sui libri ma andando a vivere con un guru. Gu significa tenebra e ru vuol dire cacciare e disperdere, il guru è colui che scaccia le tenebre, colui che porta la luce nel buio dell’ignoranza. Il mio guru si chiamava Dayananda Saraswati ed io ero membro dell’Arsha Vidya Gurukulam, Tutti nomi dei sanyasin terminano con ananda, per indicare che non hanno ormai altra meta che ananda, la completezza.
Alle 5 del mattino, si celebrava la grande puja, il lavaggio rituale delle statue al canto dei mantra. Alle 6 c’era arati, la cerimonia del fuoco, venivano offerti agli dei i cinque elementi di cui è fatto l’universo: il fuoco, l’acqua, la terra, l’aria e l’etere. Alle 8 si svolgeva il satsang, letteralmente stare con la verità, che consiste di affrontare un tema con altri saggi.
La vita di un uomo è divisa in quattro stagioni, ognuno coi suoi frutti, i suoi diritti, e si suoi doveri.
  • La stagione dell’infanzia e adolescenza, dello studio, uno impara ciò che gli servirà per la vita.
  • La maturità, l’uomo diventa padre, marito, assume il proprio ruolo nella famiglia.
  • La stagione del distacco, i figli diventano mariti e padri, è il momento del distacco, dell’andare nella foresta.
  • La stagione ultima, se la si sceglie, in cui, ormai slegato da tutto, la persona diventa un semplice mendicante, diventa sanyasin, vestito col colore del fuoco nel quale ha simbolicamente bruciato tutto quello che era l’io temporale, compresi i desideri, cerca ormai solo moksha, la liberazione definitiva dal samsara, il mondo dei mutamenti, l’oceano della vita e della morte. 
Moksha è la destinazione finale del sanyasin, del rinunciante. Per segnare questo momento, viene fatto un funerale simbolico, lui stesso si accende la pira per saltarci sopra e uscirne nuovo, ora non è più legato a niente, neppure alla religione e ai suoi riti. Dopo il funerale andrà in giro con una tunica arancione fatta con un unico pezzo di stoffa. Il suo corpo sarà buttato nel fiume perché lui è già passato attraverso le fiamme.
Se facciamo un parallelismo, anche l’Occidente con la pensione ha ritualizzato questo passaggio. Più ci avviciniamo a quel che veramente siamo, più siamo felici, ad ogni età.  Tutto sta nel sapere chi siamo. Meravigliosa la vecchiaia, possiamo finalmente pensare alla vita, diventare esploratori del mondo interiore. La nostra vita quotidiana è piena di piccole luci che ci impediscono di vederne una più grande.   Tagore scrive: la bellezza era tutta intorno a me, ma il lume di una candela ci separava,  quella piccola luce impediva alla bella grande luce della luna di raggiungermi.
Lo swami per presentare il Vedanta disse che l’uomo si è sempre interrogato sulla natura del suo essere, e da sempre è angosciato dall’incertezza della risposta. Il mondo gli appare come distinto da sé, sono due entità distinte, colui che vede e ciò che viene visto, colui che conosce e il conosciuto.
Questo mondo poi è messo assieme in maniera così intelligente, che l’uomo non può esserne stato l’artefice, per spiegare questo nascono le religioni.
L’induismo è una filosofia di vita e il Vedanta è uno strumento di conoscenza, la conoscenza della realtà. Tutto ciò che l’io percepisce, è fuori dall’io, sembra qualcosa diverso dal sé, così come l’onda considera l’oceano una cosa diversa da sé. Eppure appena l’onda si rende conto che è fatta d’acqua, che le altre onde sono fatte d’acqua e che l’oceano intero è solo acqua, il senso di separazione svanisce.
Non appena l’uomo scopre che lui stesso è la totalità,  la dualità scompare.
L’onda non ha bisogno di diventare l’oceano, deve solo rendersi conto di essere l’oceano. Non c’è da cambiare, c’è solo da capire chi si è. Come può l’uomo fare questo salto di coscienza? Da qui nasce la necessità di un guru.
Storia per spiegare questo: Dieci pellegrini devono attraversare un fiume, arrivati all’altra sponda, il capo li conta e la somma è sempre nove, Disperati si mettono a chiamare e scrutare l’acqua. Dov’è il decimo? Di lui non c’è nessuna traccia, Piangono e non sanno più cosa fare. Si avvicina un vecchio che da lontano ha seguito la scena, e dice:  Non c’è ragione di essere tristi, il decimo c’è.
Ma come? Dice il capo e ricomincia a contare uno, due … nove, Il vecchio punta il dito al petto del capo e dice "Il decimo sei tu", Il vecchio non ha fatto altro che indicare l’ovvio: Colui che cerca è il cercato. Lui è il problema, lui è la soluzione.
Il Sè non può conoscersi senza un adeguato mezzo di conoscenza. Lo strumento di conoscenza, lo specchio con cui il Sè ha modo di vedersi sono i Veda, o meglio il Vedanta la parte finale costituito dalle Upanishad e dalla Bagvad Gita.
Questa totalità non è altro che la coscienza, coscienza senza limiti, fuori dal tempo e dallo spazio, che pervade tutto e che sostiene tutto e che si manifesta in ogni forma.  Una è la verità, anche se i saggi la chiamano con molti nomi atman, brahman, è dio, è totalità, satchitananda, è ishwara, bhagawan.
La risposta alla domanda Chi sono io?  è quella magica frase che pervade tutte le Upanishad “tat tvam asi” Tu sei tutto questo. Da qui l’idea indiana che Dio è in ogni forma, in ogni essere vivente, in ogni cosa, Riconoscere quel sé e la sua natura divina è il vero fine della vita umana.
Storia sull’importanza di conoscere il sé.
Su una barca che attraversa il fiume c’è un pandit , un bramino dotto in scritture sacre, il pandit chiede al vecchio barcaiolo sai il sanscrito? no.
un quarto della tua vita è perso, conosci la letteratura classica? no
un altro quarto della tua vita è perso, ci sono libri bellissimi, sai leggere e scrivere? No
un altro quarto della tua vita è andato perso.
Il pandit si accorge che entra acqua nella barca, le sue gambe sono già a mollo, la barca sta andando a fondo, Sai nuotare? Chiede il barcaiolo al pandit, No rispose quello impaurito
Tutta la tua vita è persa, conclude il barcaiolo.
Morale: è inutile saper leggere e scrivere, conoscere il sanscrito e l’intera letteratura se non si conosce se stessi.
Contenuto della Ishavasya Upanishad:
OM! Quello è infinito (Totalità), questo è infinito,  Da quell’infinito proviene questo infinito,  Sottraendo questo infinito a quell’infinito,  Ciò che resta è infinito. OM! Pace, pace, pace!
Solo quell’unico mantra basterebbe a tener viva la tradizione e a far ragionare chi vuol capire.
La tradizione dell’insegnamento del Vedanta era stata stabilita da Shankaracharia nel VIII secolo ma si era presto indebolita, ciò era dovuto prima ai secoli di dominazione mussulmana, poi alla colonizzazione, e i Veda venivano insegnati nella clandestinità. Venivano insegnati da maestro a discepolo in qualche eremo nella foresta. Lo swami, si era dato come compito, di insegnare il Vedanta a chiunque fosse interessato, bramino o meno, indiano o meno. Il Vedanta ha un solo obiettivo spirituale: riconoscere la propria completezza: In questa vita. Ora.
Sotto la spinta di Vivekananda alla fine dell’ottocento , molti, anche in Occidente pensarono che il Vedanta potesse diventare il Vangelo universale come lo definì Romain Rolland.
Lo swami disse il mio karma è insegnarvi, il vostro karma è d’essere i miei shisha.
Non c’è vita senza problemi, senza problemi non ci sarebbe la gioia, i problemi sono la molla della ricerca spirituale.
Lo swami ci spiegava: Come un bruco arrivato in cima ad un filo d’erba si raccoglie su se stesso per passare al prossimo, così il Sè arrivato alla fine di una vita, si raccoglie e passa dal corpo vecchio al nuovo.
Era bravo a spiegare concetti come jiva,  che è l’individuo in ogni essere vivente, quello che passa da vita in vita a volte umana o volte no, jagat che è il mondo, la manifestazione di Brahman, ma non separato da Brahman, come la tela non è separata dal ragno che la produce, il samsara il mondo del divenire, dei desideri, del dharma o dovere, quello che mi aspetto dagli altri è quello che io debbo agli altri, questa è la giusta via. L’aiutare disinteressatamente qualcuno produce punya un credito, i demeriti creano papa, un debito.  Abbiamo la consapevolezza della presenza della ciotola o della non presenza della ciotola, ma la consapevolezza c’è sempre. L’io è presente in tanti ruoli, il comune denominatore di tutti questi io è l’io consapevolezza.
Storia raccontata da Ramakrishna per spiegare la nostra natura divina:
Una leonessa partorendo muore e il leoncino viene adottato da un branco di pecore, cresce con loro, mangia l’erba, impara a belare e ad essere socievole come una pecora, finché un giorno un vecchio leone che aveva osservato da lontano, con un gran ruggito attacca il branco, tutte le pecore scappano insieme al leoncino, ma il vecchio leone lo raggiunge, lo prende per la collottola, lo porta ad uno stagno e lo costringe a guardarsi nello specchio d’acqua, "Allora chi sei? Una pecora?"  Per la prima volta al leoncino viene da ruggire. Quel piccolo leone siamo noi che non sappiamo chi siamo, il vecchio leone è il guru, lo specchio d’acqua è il vedanta. Senza guru non c’è conoscenza.
Dio risiede dentro di te, tu sei Dio, Allora non cercare Dio, cerca invece un guru che ti guidi alla scoperta di te stesso. E da qui rapporto di assoluta dipendenza del discepolo dal suo guru.
L’ashram era un isola fuori dal mondo e un’occasione per ripensare il tutto. Venivano giornalmente recitate delle cerimonie.  Come la cerimonia dedicata alla dea Dakshinamurti, l'incarnazione di Shiva, protettrice dei Veda. Venivano fatte dei Pujia, ossia delle abluzioni alla statua, che veniva lavata con acqua, olio di cocco, latte e yogurt, il capo pujiari che dirigeva la cerimonia pronunciava i 108 nomi della dea, con 108 manciate di petali.
In Occidente sulla spinta laica e iconoclasta abbiamo ridicolizzato ogni credo, eliminato ogni rituale, togliendo con questo il mistero, cioè la poesia dalla nostra esistenza. Senza la cerimonia-iniziazione manca la presa di coscienza del passaggio. Anche io, seguendo questa tendenza non ho fatto battezzare i figli, e mi sono sposato in presenza dei soli testimoni.
In India i riti sono una parte importantissima della vita, tutta la vita è un rito, i riti sono il grande soggetto dei Veda. I Veda alla fine rivelano che il loro vero fine è il superamento dei Veda stessi.
I Veda sono la religione, il Vedanta è la liberazione da tutto, anche dalla religione. Il Vedanta è tutto sul sé, sulla coscienza illimitata fuori dal tempo e dallo spazio.
Lo swami insegnava non pagato da nessuno, perché era il suo karma, a noi era tutto regalato, il vitto e l’alloggio erano il frutto di offerte.  Quando tutti i desideri che dimorano nel cuore sono abbandonati il mortale diventa immortale e raggiunge Brahman, qui e ora. Anche se il mangiare era necessario, non bisognava farne un piacere di cui poi essere schiavi. Il sanscrito degli inni vedici e dei mantra agisce sulla mente ed alza il livello di coscienza, recitando sempre lo stesso mantra, legando l’ultima sillaba alla prima (japa) il respiro acquista un ritmo particolare e determina il cambiamento della mente. Spesso cantare i mantra mi dava un senso di leggerezza che rasentava la gioia.
Il guru che ha completa fiducia nel suo discepolo gli dà, come fosse un prezioso regalo, un mantra che legherà i due per sempre. Il potere non sta nella cosa in sé, ma nel potere della mente che crede nel potere della cosa, in questo caso la mala.
I tibetani spiegano il potere della mente con questa storia.
Un monaco, dopo anni di assenza, va a trovare la madre, che immagina stia per morire di fame, ma al villaggio lo aspetta una sorpresa, la madre sta benissimo, un vecchio sadhu le ha dato un mantra grazie al quale lei mette dei sassi in una pentola e quelli, al suono del mantra diventano patate. Mentre la madre prepara la cena cantando il mantra, il monaco espertissimo di cose sacre, si accorge che la pronuncia delle parole in sanscrito non è corretta, e la corregge. La madre orgogliosissima del sapere del figlio, intona il mantra nella nuova versione. Ma il risultato è deludente, i sassi restano sassi e i due non hanno niente da mangiare. Il monaco capisce, prega la madre di tornare alla sua vecchia versione del mantra, e miracolosamente, nella pentola appaiono le fumanti patate.
Lo swami mi dette l’indirizzo di un medico ayurvedico di cui si fidava.
Andai quindi a Kottakal, una piccola cittadina in Kerala, a cercare l'Arya Vaidya Sala, l’Istituto di medicina ariana, il più vecchio e rinomato centro ayurvedico dell’India, fondato nel 1902 da Vaidyaratman P.S. Varrier (1869-1844).
Ero diffidente verso la democrazia indiana, Nerhu, la figlia Indira Gandhi era diventata primo ministro, il figlio Rajiv Gandhi era a sua volta diventato ministro e assassinato, adesso la vedova Sonia Gandhi un’italiana forse diventerà il possibile primo ministro.
La de-gandhizzazione dell’India iniziò con Nehru, il successore di Gandhi, Nehru era il contrario di Gandhi, era raffinato, elegante, era contro il piccolo per il grande, grandi dighe, grandi industrie, grandi fabbriche, ebbe persino un amore con la moglie del viceré dell’India Lord Mountbatten.  Povero Gandhi era stato tradito, lui che era per il piccolo, per la tradizione, per l’uomo, per i villaggi.
Gli stati del Kerala e  del Tamil Nadu sono diretti da comunisti e cristiani, che ne hanno fatto gli stati con il più alto livello di scolarità dell’India.
Per darsi pace bisogna limitare i desideri come suggeriscono le Upanishad e la Gita.
L’India è un paese povero, ma anche un Paese in cui la gente ha meno desideri, meno bisogni, per questo in fondo è più contento di altri Paesi.   Contento è meno di felice, ma sta per soddisfatto, per chi non agogna a niente di più.
Oltre i medici ayurvedici fra lo stato del Kerala e del Tamil Nadu operano anche i Tangali che sono dei guaritori mussulmani.
I testi sacri dell’ayurveda definiscono il cancro adbhuta rota, una malattia eccezionale, e non rientra tra le malattie curabili e non curabili. E quando l’ayurveda non basta c’è sempre la medicina allopatica. Si registra la mancanza della chirurgia nei trattati ayurvedici, perché non esistono anestetici nella farmacopea ayurvedica.
Per l’ayurveda il cibo è una cosa importantissima, il cibo più costa e più fa male.  Tutti gli animali che vivono nell’acqua come il pesce, aumentano le infiammazioni.
La rinascita dell’ayurveda è stato il frutto di una operazione politica di segno anti coloniale.
L’ayurveda come tutte le cose in India ha origine da un mito, Brahma stabilì le regole con cui sarebbe conservata la vita. L'ayurveda venne portata sulla terra,  dove venne raccolta dai rishi. Attorno al VII secolo a.c. un personaggio di nome Atreya si mise a praticarla e insegnarla in tutta l’India, un diretto allievo di Atreya cominciò a mettere per iscritto i principi fondamentali. Questi commenti arrivano fino al IV secolo d.c. Poi con l’arrivo dei musulmani e degli inglesi molti indiani cominciarono ad abbandonare la loro tradizione medica, la catena di trasmissione fu interrotta, e fu ripresa sola alla fine del 1800, e nel quadro della rivolta indiana contro il potere coloniale, divenne simbolo dello swadeshi, il grande movimento anti britannico per l’autosufficienza. Nel 1835 gli inglesi per combattere il vaiolo, contro le vaccinazioni tradizionali chiusero tutte le scuole di ayurveda.
Oggi solo il 5% del bilancio della sanità va all’ayurveda, e non esiste nessun controllo governativo sulla qualità della medicina ayurvedica. La maggioranza degli indiani si cura con la medicina occidentale e molti occidentali insoddisfatti della medicina di casa loro, si rivolgono all’ayurveda e si avventurano nelle budella dell’India in cerca di una cura antica.
Nata dall’osservazione della natura da parte dei rishi, la Farmacopea ayurvedica era fatta quasi esclusivamente di piante e erbe, soprattutto selvatiche, e la foresta era il grande serbatoio dei rimedi.
Un grande maestro disse ai suoi allievi, andate nella foresta e portatemi tutto quello che credete possa essere inutile, ognuno di loro riportò qualcosa, ma uno che aveva capito che tutto era utile, ritornò a mani vuote e fu elogiato dal maestro.
Le malattie curate con più successo dall'ayurveda sono l’artrite, l'osteoporosi, delle giunture, della pelle, paralisi da trombosi, i postumi da infarto. Le medicine sono classificate in nove categorie. Nel Kerala esiste un’antica scuola di arti marziali, da questa erano nati il karatè e il katana. Il medico ayurvedico che incontrai era come me, moderno, ma con la nostalgia del passato. Sottolineava l'importanza della mente, Il credere a qualcosa.  Anche il grande fisico Niels Bohr teneva attaccato alla porta di casa un ferro da cavallo, e i colleghi che andavano a fargli visita gli chiedevano: Non crederai mica a questa roba? Certamente no, ma dicono che porti fortuna anche a chi non crede. Nessuno lo sa spiegare in termini scientifici, ma a me pareva possibile che una volta acquietata e serena la mente mandasse dei segnali al sistema immunitario perché facesse il suo dovere. In India è molto conosciuto il tulsi, la pianta che tutta l’india considera sacra, è un parente del basilico, nei testi ayurvedici è descritto come la pianta che apre il cuore e la mente e sveglia l’energia all’amore e alla devozione. Anche in Occidente il basilico era in tempi passati una pianta venerata. L’ayurveda è una filosofia di vita, perché ha una dimensione etica e il suo fine non è tanto quello di mantenere l’uomo in salute, ma aiutarlo a raggiungere la sua meta spirituale, la sola garanzia di una vita sana, sta nella forza interiore del paziente. Quale è il fine della conoscenza se non quello di capire la natura per poterne seguire le regole e vivere meglio? Oggi si fa ricerca per scoprire le ricchezze nascoste della natura ed impossessarsene e trasformarle in merci, questa è la causa del degrado spirituale dell’occidente.
Il Kathali è vecchia forma teatrale del Kerala e uno dei classici veicoli di trasmissione della cultura popolare, gli attori sono muti e le storie messe in scena vengono tutte prese dal Mahabharata, dal Ramayana, dalla Gita e dai purana. Durante il festival viene celebrata  Wiswambhara, la divinità protettrice dell’ayurveda.
In un'altra cerimonia veniva celebrato Shiva che tagliava in 51 pezzi il corpo di Sita e ognuno di questi pezzi cade sulla terra e lì venne costruito un grande tempio. Quello dedicato alla yoni, l’organo riproduttivo femminile si trova a Guwahati, la capitale dell’Assam su una roccia, in riva al fiume maschio dell’India il Brahmaputra, Gli altri fiumi, il Gange e  lo Yamuna sono considerati femminili.

Charan Das il sadhu americano, mi ha aveva portato nella piana di Kurukshetra, dove ho assistito al Khumba mela di Allahabad all’incrocio tra Gange e Yamuna e il terzo fiume immaginario o scomparso il Saraswati. C’erano centinaia di migliaia di persone, io ero là e camminavo facendo attenzione agli escrementi, gli altri invasati e disattenti a quello che avevano intorno, erano altrove, aleggiavano in un’anticamera del paradiso. Mentre io ero incapace di entrare in un’altra dimensione. Qui, migliaia di sadhu nudi e coperti di cenere, erano venuti a celebrare il khumba mela, ed ognuno con il suo tridente segnava il proprio territorio, migliaia di pazzi scatenati che mi sono sembrati una sorta di garanzia che l’India non diventerà mai un Paese come gli altri. Una società che si inchina ai loro piedi non diventerà mai completamente materialista
Lasciai l’ashram di Kottakal con le medicine ayurvediche che sapevo che non avrei preso, e mi posi la seguente domanda: "Come avrei fatto a lasciare quella bolla di pace e vivere di nuovo nel mondo?"
Lo swami dopo averci spiegato il Vedanta attraverso le Upanishad, ci parlò della Bhagvad Gita, il vangelo degli indiani.
Il Dio Khrisna per spiegare ad Arjuna la morte dice:
Come un uomo butta via un vecchio abito per indossarne uno tutto nuovo,
così colui che sta in un corpo consumato lo lascia per uno che non è stato mai usato,
per non confondere il jiva che abita nel corpo aggiunge:
E quello, non c’è arma che lo tagli,
non c’è fuoco che lo bruci, non c’è acqua che lo bagni, non vento che lo asciughi,
Impensabile, immutabile, non manifesto
è il Sè e tu sapendoti tale, non hai ragione di soffrire
.

Il dio della Gita non ha un popolo eletto, non condanna nessuno per l’eternità, è un dio che è tutto e ovunque, e non ha bisogno di intermediari, che non manda qualcuno sulla terra. Nella visione della Gita mi piaceva l’idea che il mondo dei sensi non fosse visto come Maya, illusione o ostacolo alla vera Conoscenza. Il Vedanta non nega il mondo, è partendo dalla propria percezione del mondo che ognuno può scoprire ciò da cui il mondo dipende.
Soprattutto mi piaceva che non ci fosse il concetto di peccato originale, e i desideri non sono riprovevoli, ma sono parte della vita. I desideri ci legano al samsara, al mondo del divenire, solo tagliando quei fili si può davvero essere liberi.
Gli indiani usano la Storia degli elefanti per spiegare maya, l’illusione. Un uomo muore lasciando ai tre figli 17 elefanti; nel testamento è scritto che la metà deve andare al maggiore, un terzo al secondo, un nono al terzo. I figli non riescono a fare la divisione, pensano di tagliare in due un elefante, e finiscono per litigare. Nel frattempo passa di lì un ministro del re sul dorso di un elefante, assiste alla disputa e dice: prendete il mio elefante, aggiungetelo agli altri e fate la divisione. 18/9 = 9 elefanti vanno al primo figlio; 18/3= 6 elefanti vanno al secondo figlio; 18/9=2 elefanti vanno al terzo figlio.
9 + 6 + 2 la somma degli elefanti è 17, i fratelli ringraziano il ministro, lui riprende il 18 elefante il suo, e ritorna verso la capitale.     Così è il mondo, non un’illusione, ma qualcosa che ci aiuta a fare i conti e a riconoscere che l’intero universo è sostenuto dalla coscienza, da quella realtà o totalità, dal sé, di cui tutto è parte.
Dopo settimane trascorse all’ashram cominciavo ad entrare in crisi, l’isolamento mi pareva forzato,
io ero e restavo europeo, sentivo nascere la contraddizione di fondo tra il nostro modo di essere al mondo e quello degli indiani. Per noi il valore supremo è la vita, per loro la non-vita. Moksha, la liberazione dal rinascere è la grande aspirazione di questa civiltà. La vita così come è continuava a piacermi, ci vedevo ancora tanta gioia, anche se capivo che alla gioia segue la sofferenza, mi piaceva il distacco ma non l’indifferenza. 
Il mondo dell’ashram cominciò ad apparirmi non molto diverso dal mondo fuori, ci vidi le stesse dinamiche, le donne si contendevano, pur gentilmente, di servire gli swami che venivano in visita, si creavano obblighi e tensioni. Se qualcuno pensa che entrando in un ashram sfugge alle trappole della vita si sbaglia.
Quando visitai il bazar, che mi si presentò col solito disperante squallore, mi accorsi che era lontanissimo dall’ashram col suo ordine braminico, la sua gente pulita, vestita di bianco ed intenta a pensare al Sè. Allora inevitabilmente mi chiedevo a che cosa servissero tutte quelle belle idee, quando la società prodotta da quelle idee era così squallida. Il miglior modo di valutare una causa era guardare i suoi effetti, ero sempre più confuso.
Siddha è l'antico sistema di medicina del Tamil Nadu, simile all’ayurveda ma influenzato da pratiche alchemiche cinesi.
Terzani, in questo libro, fa la distinzione tra Le religioni forti e deboli, le prime aggressive e missionarie, come il cristianesimo e l’islam e le religioni che non cercano di fare proseliti come ebraismo, zoroastrismo, e lo stesso induismo, e anche il buddhismo sebbene non sia una vera religione.
Questa posizione era diversa da altri mistici come Ramakrishna che asseriva che tutte le religioni sono uguali, che erano come l’acqua di uno stesso stagno messa in secchi diversi e chiamata in modi diversi, Ugualmente tollerante era stato Vivekananda il suo discepolo.
Secondo lo swami i tempi erano cambiati ed ora l’induismo stava subendo una vera e propria aggressione. Le conversioni all'islamismo e al cristianesimo erano per lui una nuova forma di colonialismo. Secondo lo swami occorreva opporre resistenza e ristabilire le vecchie tradizioni indiane. Avevo voglia di rimettermi in cammino, alla ricerca, liberarsi dei desideri è più difficile di quanto credessi.
Come disse lo swami potevo scegliere tra il me che desidera o il me che rideva del me che desiderava. E mi raccontò la Storia zen del monaco moralista.
Due monaci stavano camminando per una strada allagata da un acquazzone, si trovano davanti una bella ragazza che ben vestita non riesce ad attraversare la pozzanghera, uno dei due la prende in braccio e la deposita all’asciutto. l’altro non dice niente, ma la sera quando sono al tempio dice con aria di rimprovero: "noi monaci dobbiamo stare lontani dalle donne, specie se giovani e belle, toccarle poi è estremamente pericoloso, perché lo hai fatto?"
l’altro monaco risponde, "io quella ragazza l’ho lasciata dall’altra parte della pozzanghera, tu invece te la sei portata dietro fin qui."

Nell'ashram si è svolta la cerimonia di ringraziamento a Dakshinamurti, la divinità dell’ashram, l'incarnazione di Shiva e protettrice dei veda. Durante la cerimonia venivano ripetuti i mantra (japa) e le formule di ringraziamento, il suono aveva il suo potere, ripetere l’OM namashivaya in modo circolare e per ore, svuotava e calmava la mente. E il vedanta? Alla fine non mi sentivo separato dal mondo, anche se non mi prendevo per una piccola onda separata dall’oceano, comunque non avevo più paura della morte. E la vita passa fuori e dentro l’ashram, passa in una sequela di attese, di riti il cui unico significato sta nel fatto che paiono dare un qualche senso all’inutile passare della vita e dell’esistenza.
Se invece di recitare quel mantra centomila volte avessimo investito quel tempo a scavare un pozzo, forse l’India non avrebbe due terzi della sua gente senza acqua potabile.
L’ultimo consiglio dello swami prima della fine del corso fù il seguente: Vivete una vita in cui potete riconoscervi.
Dopo tre mesi ripartimmo, ognuno per la sua strada, ponendoci forse un po’ più coscientemente quella domanda fondamentale a cui, non tutti, credo, avevano trovato una risposta “Chi sono io?”.

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