mercoledì 14 maggio 2025

Patanjali e lo Yoga - Mircea Eliade

Il termine yoga serve a definire tutte le tecniche di ascesi e di meditazione. Esistono anche dei tipi di yoga non bramanici come quello buddhista e jainista.  Yug significa legare e lo scopo è unificare lo spirito, di abolire la dispersione e gli automatismi che caratterizzano la coscienza profana, e il presupposto è la rottura dei legami che uniscono lo spirito al mondo, Per le scuole devozionali (mistiche) questa unificazione, non fa che precedere la vera unione tra l'anima umana e Dio. 
Lo yoga  ha una struttura iniziatica e si può iniziare il percorso solo con un maestro (guru). Lo yogi si sforza di morire a questa vita, per rinascere a un altro modo di essere che le varie tradizioni descrivono con i termini moksha, nirvana, asamkrta, etc.    

Lo yoga è stato integrato e valorizzato in tutti i movimenti religiosi, induisti e eretici, e rappresenta una contrapposizione alle speculazioni metafisiche e agli eccessi di un ritualismo fossilizzato.
Il termine Yoga nella letteratura indiana ha molti significati, il meglio precisato è quello esposto nella filosofia yoga (yoga-darshana) attraverso il libro Yoga Sutra di Patanjali. 
Lo yoga è uno dei sei darshana tollerati dal Brahamanesimo.  
Lo Yoga sutra è stato scritto tra il II e il V . secolo a.C ed è costituito da 4 capitoli (padha) il primo 51 versi, il secondo 55, il terzo 55, il quarto molto più corto, 34 versi; sembra essere stato aggiunto successivamente (in totale 155 versi). Alcuni commentatori sottolineano alcune tracce di antibuddhismo e quindi pensano che dati dopo il V secolo a.C. e altri commentatori pensano che il testo sia stato modificato più volte a secondo il periodo storico di riferimento. Uno dei primi commenti e uno dei più importanti è lo Yogabhaskya di Vyasa (VI-VII secolo).
Patanjali non fa che riprendere la filosofia Samkhya, filosofia atea,  che inserisce in un teismo superficiale (lo yoga postula l'esistenza di un Dio supremo Ishvara). Altra differenza: la filosofia Samkhya asserisce che la sola via alla liberazione è la conoscenza metafisica, mentre per lo yoga sono indispensabili le tecniche di meditazione. 
Patanjali ha trasformato lo yoga da tradizione mistica a un sistema di filosofia.  La filosofia Samkhya è la più antica e si rifa a un trattato la Samkhya Karika d'Ishvara Krishna che è sicuramente antecedente al V secolo a.C.  La ricerca di questa filosofia si basa sullo sforzo di identificare gli elementi costitutivi dell'esperienza umana: quelli mortali e quelli immortali che accompagnano l'anima dopo la morte e che costituiscono il vero Sé, l'elemento immortale dell'uomo (pag. 14). Per il Samkhya e lo yoga il mondo è reale, mentre per la filosofia Vedanta è un'illusione.
In ogni caso il mondo si manifesta grazie alla nostra ignoranza. 
L'India rigetta il mondo a partire dalle Upanidhad, esiste qualche altra cosa che è al di là del divenire, della temporaneità, della sofferenza. L'India è assetata del sacro.  Neti Neti, tu non sei questo, non sei quello, non appartieni al Cosmo come appare. Si cerca di arrivare alla Conoscenza suprema che permette di liberare l'essere umano dall'ignoranza e dal dolore e dal ciclo delle reincarnazioni.   In alcune forme di yoga, tra cui lo yoga tantrico si avverte uno sforzo disperato di rendere l'esistenza sacra, di sacralizzare l'esistenza. 
Altro punto in comune tra buddhismo, yoga e samkhya e cercare di scappare dalla sofferenza, "il saggio cerca di scappare dalla sofferenza", scrive Patanjali (cap. II, 15), e Ishvara Krishna, l'autore del più antico trattato Samkhya scrive che esistono tre tipi di sofferenze: la miseria celeste, le miserie terrestri e le miserie interne (organiche). Ma non c'è pessimismo in quanto tutte le filosofie o percorsi spirituali indiani asseriscono che esiste il mezzo per mettere fine al dolore procurato dall'ignoranza: o tramite la conoscenza metafisica  o tramite pratiche o tecniche meditative. Ed arrivare così alla conoscenza del vero Sè.     
Lo spirito ( o anima) è accettato da tutte le filosofie eccetto il buddhismo e i materialisti. Per il Vedanta l'atman ha le qualità di Sat Cit Ananda. Per il Samkhya e o Yoga, lo spirito (purusha) non ha nessuna qualità, è quello che E' e Conosce ed è inesprimibile.  Mettono l'accento sullo strano rapporto tra purusha e prakrti. La buddhi (l'intelletto) è il prodotto estremamente raffinato della sostanza (o materia)  primordiale, la prakrti. Visto che proviene dalla prakrti, la buddhi non potrà mai riuscire a conoscere il Sé. Patanjali parla della prakrti (2, 3) e delle sue modalità (sattva, rajas, tamas), sempre presenti in ogni cosa in proporzioni diverse.  Le tre modalità sono sempre presenti nei cinque elementi sottili (potenziali) del mondo fisico.  L'ahamkara (l'ego) ha creato un duplice universo: quello esterno e quello interno, che hanno molte corrispondenze. La differenza tra l'uomo e il Cosmo, non è che una differenza di proporzioni, non di natura.  
Il Samkhya asserisce che una creazione così vasta, un insieme così complesso di organismi e forme (manifestazioni della Prakrti, debba avere una giustificazione e un significato che poi viene trovato nel Purusha.  Anche la coscienza è un prodotto della prakrti e non può in nessun modo entrare in contatto con lo spirito e l'essenza.  La comprensione del mondo esterno si può ottenere solo grazie al riflesso del Purusha nell'intelligenza (buddhi). Ma il Sè rimane puro, libero, impassibile e eterno.   Niente di Divino interviene nella creazione (il Samkhya nega l'esistenza di Dio e Patanjali non gli dà molta importanza).  
Perchè il purusha puro e statico, privo di contatto con la Natura permette l'impurità, il divenire, l'esperienza, il dolore e la storia?  
Questo è il punto critico della filosofia Samkhya; il Vedanta risponde dicendo che quello che vediamo è Maya (illusione) e critica le posizioni dello Yoga e del Samkhya che affermano che una parte dello Spirito è in ciascun essere umano (ed esiste quindi una pluralità di Sè).
La liberazione (moksa) è una liberazione dal male e dal dolore. E la persona che è arrivata a questo stato perde l'identità, non è più lui in quanto sè. Il samkhya asserisce che la sofferenza non può mantenere un rapporto con il Sé e pertanto non esiste (pag. 40). 
Lo yoga classico di Patanjali ingloba tutta la filosofia samkhya, ma pensa che la conoscenza può solo preparare il terreno in vista dell'acquisizione della libertà (mukti) attraverso la pratica (abhyasa) comprendente tecniche ascetiche  (tapas) e metodi contemplativi. E passare così da una coscienza normale a una coscienza più alta che possa arrivare a comprendere la verità metafisica. Tutte le esperienze psicologiche sono prodotte dall'ignoranza della vera natura del Sè (Purusha).  Lo yoga si propone di distruggere uno dopo l'altro, i vari stati della coscienza.
Patanjali descrive cinque matrici produttrici di stati psico-mentali (citta vrtti): l'ignoranza (avidya), il sentimento di individualità (asmita), l'attaccamento (raga), il disgusto (devca), e l'amore della vita (abhiniveca) che producono sofferenza. Lo yoga permette di sospendere le vrtti e di abolire la sofferenza.  Tutte queste matrici vengono dal subconscio, queste latenze (vasana) sono l'ostacolo alla liberazione. Le vasana hanno la loro origine nella memoria (vyasa) e condizionano il carattere e la vita di un individuo.  Gli atti dell'uomo (karma) suscitate dagli stati psico-mentali (citta vrtti), suscitano a loro volta altre citta vrtti.  Qui sorge la similitudine tra lo yoga e la psicanalisi, lo yoga mette in relazione il conscio con l'inconscio e crede che il subconscio possa essere dominato e conquistato dall'ascesi unificando i vari stati di coscienza. ( Pag 53)
Le tecniche dello yoga.  
Uno yogi deve poter ottenere in qualsiasi istante la concentrazione su un solo punto.  Le asana sono delle tecniche caratteristiche della ascesi indiana. Sono trattate nelle Upanishad, nella letteratura vedica, e allusioni alle asana sono presenti nelle Epopee e nei Purana. A livello del corpo, l'asana è la concentrazione in un solo punto. Il pranayama, la disciplina del respiro, è il rifiuto di respirare come l'uomo comune, in maniera aritmica. L'obiettivo è quello di ritmare più lentamente possibile la respirazione, e attraverso questo processo sperimentare stati di coscienza e consapevolezza diversi (la psicologia indiana individua quattro stati di coscienza, l'ultimo il tuyra è la coscienza catalettica). 
 I veri yogi cercano di controlalre il loro corpo al fine di penetrare il segreto della vita psicosomatica. Desiderano conoscere i livelli profondi della psiche e i suoi meccanismi, per poi trovare i mezzi per controllarla. (pag. 65). 
Nonostante l'importanza del pranayama, Patanjali gli dedica solo tre sutra (versetti). Si trovano dei dettagli tecnici nei testi dei vari commentatori agli Yoga Sutra, tra questi anche dei dettagli tecnici di Vyasa.    
Il controllo del respiro è presente anche nel Taoismo con il nome di respirazione embrionale (t'ai-si) e i taoisti, influenzati dallo yoga tantrico,  praticano il controllo del respiro.
pag. 70. Isvara, il Dio degli Yoga sutra, è un puro spirito che NON ha creato il mondo, e NON interviene nella storia, né direttamente, né indirettamente. Lo yoga ha un valore religioso in quanto lo yogi cerca di imitarlo, cercando di superare la condizione umana e arrivare alla liberazione, la perfetta autonomia del purusha. Attraverso l'immobilità e la concentrazione su se stessi, ogni attività è sospesa, realizzando citta-vrtti nirodha, la soppressione degli stati psico-mentali, la citta (la coscienza) dimora in se stessa (svarupamatre). Anche restando staccato dai fenomeni, lo yogi continua a contemplarli nell'essenza degli oggetti (tattva). Per arrivare a questo lo yogi usa il samyama, concentrazione, meditazione e samadhi.  Isvara è un purusha libero (pag. 76) sin dall'eternità, mai toccato dal dolore. Il suo ruolo è modesto, può essere di ispirazione agli yogi che hanno deciso di mettersi su questo cammino. Diventa in questo modo un archetipo dello yogi, un Macro-yogi. Un guru dei saggi di epoche immemoriali, non legato al Tempo (I, 26).
Questo è il motivo che spiega perchè Patanjali abbia sentito il bisogno di introdurre Isvara che del resto ha un ruolo modesto. Infatti, il Samadhi può essere ottenuto anche senza questa concentrazione su Isvara. Autori e commentatori successivi, influenzati dalla bakthi e dal vedanta accorderanno a Isvara un ruolo più importante, una speciale grazia capace di predestinare la vita degli uomini.   
Samadhi è lo stato contemplativo nel quale il pensiero percepisce immediatamente la forma dell'oggetto, e l'oggeto si rivela in lui stesso, come se era vuoto in se stesso (III, 3).  Il samadhi, più che una conoscenza è uno stato, una modalità specifica dello yoga. Fissata nel samadhi, la coscienza (citta) può avere la rivelazione immediata del Sé (purusha).  Praticando il samyama lo yogi acquisisce una serie di poteri occulti (diventa un mahasiddha). Tra cui il conoscere il momento della morte (III, 21).
Pag. 141. Il Buddha ha formato il suo pensiero nel seno della tradizione dello yoga e il suo l'obiettivo è quello della liberazione dalla sofferenza. Ma il buddha rifiuta di postulare l'esistenza di un purusha o atman;  rifiuta anche le conclusioni speculative delle Upanishad: ossia il postulato di un Brahman, spirito puro, assoluto, immortale e eterno, identico all'atman,  perchè questo dogma rischiava di soddisfare l'intelligenza dell'uomo e impedirgli di svegliarsi. La liberazione per il buddhismo, come per lo yoga si ottiene solo grazie agli sforzi personali, di una assimilazione concreta della verità. Tutto quelloche si può dire del nirvana ( o javan-mukta) è che non è di questo mondo. Il tathagata è inesprimibile, insondabile come il grande oceano. Corrisponde al neti, neti delle Upanishad.
Il tantrismo e lo yoga. Tantra è quello che estende la conoscenza. Tantrismo è il movimento che si sviluppa a partire dal IV secolo e prende forma nel VI secolo in India e in poco tempo la filosofia, la mistica, i rituali e la morale, l'iconografia e la letteratura sono influenzati dal tantrismo. Esiste un tantrismo buddhista, indù e jainista, e ci sono forti influenze nello shivaismo del Kashmir. Nel buddhismo è stato introdotto da Asanga (verso il 400) e da Nagarjuna (II secolo d.C.) e corrisponde al buddhismo vajrayana. Il Guhtasamaja-tantra, considerato da alcuni scritto da Asanga, è il più antico testo del vajrayana.   Nel II  secolo per la prima volta nella storia dell'India ariana viene esaltato il mistero della donna, e la Grande Dea assume un ruolo predominante: nel buddhismo diventa Prajnamita che incarna la saggezza suprema, e Tara la deessa dell'India aborigena della cultura dravidica; nell'induismo è presente Shakti, la forza cosmica, la madre divina che si può collegare alla cultura dravidica. La donna incarna il mistero della creazione, dell'Essere, di tutto quello che è e che diviene, muore e rinasce in maniera incomprensibile. Riproduce lo schema della filosofia Samkhya, lo spirito, il maschio, il purusha è l'immobile e il contemplativo;  è la prakrti che lavora, genera e nutre. Il tantrismo ha un'attitudine antiascetica, anti-speculativa. Non c'è bisogno di mantra, immagini e della meditazione. Accetta il Vuoto (sunya) come la vera natura e in questo si avvicina al Brahman del Vedanta. Il celebre Guhyasamaja-tantra afferma che la perfezione si può acquisire facilmente attraverso la soddisfazione di tutti i desideri e attraverso l'esperienza totale della vita. Il corpo umano acquista con il tantrismo un'importanza straordinaria, mai raggiunta nella storia spirituale dell'India. Il corpo diventa lo strumento per conquistare la Morte e nello Hatha Yoga c'è la volonta di controllare il corpo per trasmutarlo in un corpo divino.  L'apparizione dello Hatha Yoga è associata al nome di un asceta Gorakhnath che sarebbe vissuto nel XII secolo che era stato in stretto contatto con il Vajrayana. A lui si attribuisco due importanti testi l'Hatha Yoga (che è andato perduto) e la Gorakrshacataka. Ci sono poi i cosiddetti tre testi tantrici. Questi testi, influenzati dal buddhismo e dal Vedanta hanno come oggetto soprattutto la fisiologia e l'aspetto fisico, le tecniche di purificazione. Il filo conduttore di queste pratiche è che niente si può ottenere senza una pratica costante.  Attraverso questi esercizi gli yogi (yogin) sviluppano delle capacità incredibili di controllo del sistema neuro-vegetativo, e l'influenza che possono esercitare sui ritmi cardiaci e respiratori. In questi testi si parla di energia sottile, di prana, nadi, chakra, ecc.   Le esperienze post-mortem, descritte nel libro tibetano dei morti il Bardo Thodol corrisponde stranamente agli esercizi di meditazione yogico-tantrico.  Nello yoga bisogna prepararsi a un altro modo di essere, per arrivarci, occorre morire a questa vita. L'ideale dello yoga è lo stato di jivanmukta, è di vivere in un eterno presente fuori dal tempo acquisendo un modo di essere trascendente, una coscienza-testimone che è lucidità e spontaneità pura.
Patanjali menziona il potere di conoscere il momento della morte. L'uomo che rifiuta la propria condizione e reagisce contro questa cercando di abolirla è assetato di libertà, dell'incondizionato,  del sacro... Nel rifiuto della vita profana lo yogi imita il modello trascendente di Isvara. Cerca di unire due delle più importanti funzioni della vita, la coscienza e la respirazione.  Lo scopo è coincidere con il Tutto, la perdita del dualismo, abolire il tempo è la creazione. Il carattere iniziatico dello yoga e quello di morire per rinascere.
Pag. 111  Lo yoga si rifà a due tradizioni: quella degli asceti e estatici che si rifà al Rig Veda e quella  dei Brahmana e dell'interiorizzazione del sacrificio. E questo porta ad una sintesi spirituale importantissima. I veda contengono dei rudimenti di yoga ed accennano a discipline estatiche. Lo yoga ha giocato un importante ruolo nella spiritualità indiana.
Pag 113. Le upanishad e lo yoga. Seguendo le indicazioni delle Upanishad i rishi abbandonano l'ortodossia vedica per mettersi alla ricerca dell'assoluto. Tra le upanishad e lo yoga c'è sempre stata un'osmosi, certe tecniche yoga sono accettate  come esercizio preliminari di purificazione e contemplazione in vista della ricerca metafisica e della contemplazione.
Il termine yoga si ritrova per la prima volta nella Taittiriya (ii,4) e la Katha (ii,12) ma le tecniche yoga soni presenti nelle upanishad più antiche come la Chandoya e la Brhadaranyaka.  La conoscenza porta alla liberazione dalla morte. Nella Tattiriya viene illustrato il viaggio del giovane brahmano Naciketas agli inferni dove incontra Yama. Ci sono allusioni alle tecniche yoga.
 Le tre vie per la liberazione sono la conoscenza delle upanishad, le tecniche yoga e la beatitudine (devozione) che saranno poco a poco integrate. Nella Svetasvatara si venera Shiva al posto di Vishnu. Il Brahman è identificato con Shiva, ci sono analogie nelle upanishad con gli yoga sutra. Le tecniche yoga producono la manifestazione del Brahman. La Madukya illustra i quattro stati di coscienza e il loro rapporto con la sillaba mistica Om. Lo yoga è il  processo che prrmette di unire il prana, la sillaba Om e l'universo con tutte le innumerevoli forme. 
Tra le varie upanishad (10 / 11) che parlano yoga la più importante è la Yogatattva in cui vengono menzionati gli otto anga di Patanjali e vengono menzionati quattro tipi di yoga ( mantra, laya, hatha, raja)  e illustrate delle tecniche di pranayama. Vengono citate delle siddhi che hanno una relazione con l'alchimia e con la fisiologia mistica. Il samadhi è descritto come l'incontro del javatma (anima individuale) con paramatma (spirito universale) e non c'è più distinzione.
Pag 119. Nella Yogatattva la tecnica yoga è rivalutata e il jivatma è il paramatma sostituiscono il purusha è Isvara. Lo scopo dello yoga è il raggiungimenuo della condizione di uomo/Dio ossia la libertà illimitata e longevità.

Dhyanabindu è l'upanishad più ricca in indicazioni tecniche, a carattere magico e anti devozionale. Tutti i peccati di un uomo sono distrutti dalla meditazione yoga. Ed è la posizione del tantrismo che si emancipa da tutte le leggi morali e sociali.  Comincia con la descrizione della sillaba OM ( a u m in sanscrito ).  Si associa il pranayana agli dei vedici:  Brahman all'inspirazione, Vishnu alla sospensione e Rudra all'esalazione del respiro. Si parla di energia sottile e risveglio della kundalini.

Nelle upanishad dello yoga non c'è più il primato della conoscenza pura, l'identità atman-brahman non si ottiene più grazie alla contemplazione ma sperimentalmente con tecniche ascetiche e fisiologia mistica. La devozione, il culto personale e la fisiologia sottile sostituiscono il ritualismo e la speculazione metafisica.

Pag 126. Il Mahabharata.  Nel poema che data tra il VII e VI secolo a.C   sono stati aggiunti successivamente vari capitoli e varie parti nei secoli successivi, tra cui la Bhagvad-Gita (VIcapitolo) e la Mokshadharma (VII capitolo).  È in questo libro che si trovano molte allusioni allo yoga e al Samkhya.
La Moksha afferma che i precursori degli yogin si trovano nei Veda (le upanishad) e nel Samkhya.  La Bhagavad Gita  afferma che lo yoga e il Samkhya sono uno.  Lo yoga vuole dire parecchie cose, perchè lo yoga è parecchie cose; ogni tradizione ascetica ha il suo yoga, la sua tecnica mistica. La Gita assegna allo yoga una grande importanza, ma a uno yoga appropriato all'esperienza religiosa Vishnuita.
Pag. 130. Lo yoga può essere compreso: 1- come disciplina che ha come scopo l'unione delle anime umane e divine. 2- come esperienza mistica applicata nelle correnti devozionali. Nella Gita per arrivare alla liberazione si può ricorrere 1- alla meditazione mistica ( sama ) e conoscenza 2- alla azione (karman), due metodi entrambi validi.
Propone uno yoga che non è più lo yoga magico del Mahabharata ma non è ancora lo yoga di Patanjali. Non è possibile astenersi dall'azione e dall'agire.  L'azione è superiore alla non azione (III, 8). Meglio adempiere al proprio dovere (swadharma) anche se in modo parziale. La grande originalità della Gita è di aver insistito sullo yoga dell'azione, che si realizza rinunciando ai frutti dell'azione. E questo che ha contribuito al successo senza precedenti in India. Questo concetto ha permesso di distaccarsi dal mondo e nello stesso tempo continuare a viverci e agire, e con questo concetto la Gita ha cercato di conciliare tutte le vocazioni ascetiche, mistiche, attive e ribadito l'estrema flessibilità dello yoga. Nella Gita si può arrivare al nirvana (perchè non samadhi?) solo con la meditazione su Krishna. La devozione mistica (bhakti) di cui Krishna è l'oggetto ha un ruolo molto più importante  di Ishvara negli yoga sutra.   E importante la grazia di Krishna che permette allo yogin di raggiungere il samadhi. Concetto che si svilupperà poi nella letteratura vishnuita. Un vero yogin raggiunge la beatitudine infinita per il contatto con Brahman. Krishna nella Gita è lo spirito puro, il grande Brahman non è che la sua matrice. Krishna è il supporto di Brahman, come lo è dell'immortalità, dell'industruttibile, dell'ordine eterno, e della felicità. L'infinita beatitudine che risulta dall'unione con Brahman permette allo yogin di vedere l'anima (atman) in tutti gli esseri e tutti gli esseri nell'atlantico (vi, 30, 31).   Tra le strade che portano alla liberazione la migliore è quella dello yoga, lo yoga è superiore all'ascesi (tapas), superiore alla scienza (jnans) e superiore al sacrificio. Le pratiche yoga si posizionano così al più alto livello nella spiritualità indiana e acquistano una grande popolarità.  Queste pratiche yoga sono accettate anche dalla corrente devozionale vishnuita. Il discorso di Krishna equivale alla validazione di fronte all'induismo di uno yoga devozionale, delle tecniche yoga come un mezzo indiano di ottenere un'università mistica con il Dio personale. La maggior parte della letteratura moderna  sullo yoga trova la sua giustificazione teorica nella Gita. 

Chiamati a scegliere tra intellettuali bellicisti e maestri di pace

Articolo di Roberto Fantini.  https://www.flipnews.org/index.php/life-styles-2/technology-2/item/4342-chiamati-a-scegliere-fra-intellettuali-bellicisti-e-maestri-di-pace.html   

Ancora una volta ci troviamo costretti a riconoscere quanto la mera cultura non sia in grado di costituire, di per sé, un antidoto sufficientemente efficace contro la peste della guerra e dei suoi più o meno entusiastici adoratori e seminatori. Ne avevamo avuto un esempio particolarmente eclatante quando, di fronte alla mattanza in cantiere della Prima guerra mondiale, si erano visti incolti contadini e braccianti pronti a spararsi su un piede o a cavarsi i denti piuttosto che obbedire alla chiamata alle armi, mentre raffinati intellettuali inneggiavano alla guerra come salvifica cura igienizzante del genere umano.

Dopo più di un secolo e dopo la produzione di intere biblioteche di studi sugli orrori delle guerre e di ricerche sul tema della pace e dei diritti umani, rieccoli qua i sapientoni disincantati, gli unici che sanno come funziona il mondo e gli unici in grado di insegnarci come viverci dentro, quelli che ci  spiegano che la pace “intorpidisce” (Umberto Galimberti) e che urge, quindi, risvegliare in noi l’antico spirito combattivo del guerriero (Antonio Scurati).

Di fronte a ciò, si impongono, a mio avviso, alcune poche ma granitiche certezze:
    Mentre molti degli intellettuali di inizio Novecento andarono fieramente al fronte per uccidere e per farsi uccidere, nessuno di quelli del terzo millennio si azzarderà ad abbandonare la propria dorata postazione televisiva per indossare scarponi ed elmetto.
    La cultura non basterà mai a liberarci dal culto della Forza finché resterà ingabbiata nella polverosa dimensione antiquaria e monumentale (per dirla in termini nicciani), ovvero finché sarà ridotta a narcisistico baloccamento erudito di grandi menti con piccolo intelletto e con piccolo cuore.
    La Sapienza e la Saggezza di tutti i veri Maestri dell’umanità ci hanno sempre donato un chiarissimo messaggio basato sul rifiuto del “bellum omnium contra omnes” e di tutte le sue possibili varianti, più o meno abilmente mascherate. Tutti gli spiriti migliori dell’ umana famiglia, credenti e non credenti, teisti, atei, agnostici, deisti e panteisti, si sono prodigati nel tentativo di seminare in tutti noi l’odio per la violenza e l’amore per valori come:   comprensione, tolleranza, dialogo, solidarietà e fratellanza.

    Il luminoso messaggio dei maestri di Pace non è (come sempre hanno sostenuto i suoi detrattori) fondato su una visione ingenua e troppo generosamente ottimistica della realtà, bensì trae origine da una conoscenza profonda, serissima e pienamente consapevole della dimensione interiore della natura umana e delle sue concrete manifestazioni storiche.
    A compiere opera di idealizzazione mitizzante sono, invece, i bellicisti di tutti i tempi che idolatrano la bellezza della Forza e che legittimano il suo “doveroso” impiego, non certo coloro che ci ricordano, con estrema crudezza, l’aspetto degradante e devastante dell’uso delle armi. Perché se è vero che per amare la guerra è necessario non averla “vista in faccia”, a fare opera di verità, strappando maschere apologetiche e squarciando veli censori, sono i nonviolenti, mentre ad annebbiare occhi e ragione sono, con tutte le loro immense risorse, i seguaci di Marte.

    Il messaggio dei maestri di Pace non è, pertanto, un sogno “buonista” per sognatori bambini ed animi codardi, ma un messaggio rigoroso quanto coraggioso, basato sulla massima onestà intellettuale e morale.
    Il messaggio dei maestri di Pace, non riducibile a vuota utopia irrealizzabile, è concretissimo disegno di rifondazione dei rapporti umani, possibile a condizione di riuscire a sbarazzarsi di tutte le ideologie e le mitologie che distorcono le menti e che avvelenano i cuori.
    Oggi più che mai, ognuno di noi è chiamato a scegliere, con fermezza e coerenza, da che parte schierarsi.

 “Al giorno d’oggi la guerra è un fenomeno così largamente recepito, che chi la mette in discussione passa per stravagante e suscita la meraviglia; la guerra è circondata di tanta considerazione, che chi la condanna passa per irreligioso, sfiora l’eresia: come se non si trattasse dell’iniziativa più scellerata e al tempo stesso più calamitosa che ci sia.”   ERASMO DA ROTTERDAM

Perché l’oppressione e le guerre inique finiscano, perché nessuno si ribelli contro quelli che sembrano i colpevoli, perché non vi siano più regicidi, non vi è che un metodo molto semplice. Che gli uomini comprendano le cose come sono e le chiamino col loro nome; che sappiano che l’esercito non è attualmente che lo strumento dell’assassinio in massa chiamata guerra, che il reclutamento e la direzione degli eserciti di cui si occupano così fieramente i re, gli imperatori, i presidenti di repubblica, non sono oggi che preparativi di omicidio. Che ogni re, imperatore, presidente, si persuada che la sua parte di organizzatore di eserciti non è né onesta, né importante, come gli dicono gli adulatori, e che è al contrario un’opera cattiva e vergognosa come ogni premeditazione di assassinio.”   LEV N. TOLSTOJ

Noi dobbiamo essere i martelli che foggiano una nuova società piuttosto che le incudini modellate dalla vecchia società. Questo soltanto ci trasformerà in uomini nuovi, ma ci porterà una nuova forma di potere. Un mondo buio, disperato, confuso e ammalato, è in attesa di questa specie di uomo e di questa nuova forma di potere.”  MARTIN LUTHER KING 

Le ragioni della tolleranza: oltre i confini dell'indifferenza

Articolo di Roberto Fantini.  Vedi:  https://www.flipnews.org/index.php/life-styles-2/technology-2/item/4221-le-ragioni-della-tolleranza-oltre-i-confini-dell-indifferenza.html                      

  “Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta è la tolleranza reciproca.” - Mahatma Gandhi   

  “ Le ragioni della tolleranza valgono ovunque: nei banchi di scuola, in ufficio, in fabbrica, allo stadio, nella cabina elettorale, nell’aula giudiziaria, nelle pubbliche manifestazioni. Perché sia abbattuta la barriera fra vizi privati e virtù pubbliche occorre che la tolleranza divenga un abito mentale. E’ essenziale cioè che essa divenga un valore per tutti, che il suo significato profondo venga appreso, acquisito dalla nostra coscienza e faccia parte di noi.”   -  Salvatore Parlagreco

La discordia è la piaga del genere umano, e la tolleranza ne è il solo rimedio.”   Voltaire 

Capita spesso di veder confuse, in maniera alquanto discutibile e fuorviante, tolleranza ed indifferenza. Come se, l’unica possibilità per liberarci dalle innumerevoli forme di faziosità settaria, di diffidenza e rifiuto dell’altro, nonché di odio violento nei confronti di tutto ciò che appare diverso e nocivo, possa derivare dal rifiuto radicale del prendere posizione sulle cose che contano, barricandosi dentro gli angusti ma confortevoli confini della propria egoità.

Certo, nel caso non ci si interessasse affatto di religione, di politica o di calcio, ci apparirebbero del tutto prive di senso sia le varie possibili contrapposizioni e querelles di carattere teorico che potrebbero sorgere intorno a simili tematiche, sia le lotte di carattere pratico miranti a denigrare, discriminare, perseguitare le fazioni avverse, in vista di una tanto bramata conquista del primato.

La condizione dell’indifferenza, però, pur risultando indubbiamente preferibile a quella di chi esercita l’intolleranza fanatica e aggressiva, non è in grado di presentarsi come una strategia capace di proteggere l’umanità dalla piaga dell’intolleranza. E questo, innanzitutto, perché l’indifferenza  non potrà mai venire estesa a tutti gli ambiti, ma solamente a quelli che ciascuno di noi potrà ritenere (in maniera inevitabilmente opinabile) privi di significato e di rilevanza. Inoltre, avrà sempre un’efficacia estremamente parziale e precaria: potrà soltanto provvisoriamente impedire ai suoi sostenitori e praticanti di gettarsi nella mischia, ma non certo che altri lo facciano.

Ma perché, dopo millenni di odio teologico, di persecuzioni etnico-razziali, di crociate, inquisizioni, anatemi, epurazioni, deportazioni e stermini di massa, nonostante i tanti appelli al dialogo, all’ascolto, al reciproco rispetto, ecc., ancora  tante e così granitiche difficoltà nel coltivare e praticare elementari forme di tolleranza?
Credo che, alla base di simili resistenze, sia possibile intravedere meccanismi di ordine psicologico ricorrenti in tutta la storia del genere umano. E, come ci insegna meglio di chiunque altro il Socrate platonico, la causa prima dell’intolleranza andrebbe sempre individuata nell’ignoranza, intesa come il non sapere di chi crede di sapere.

Questo perché il credere di sapere implica necessariamente la certezza di essere in possesso della Verità e, di conseguenza, la presunzione di sapere cosa sia necessario, cosa sia utile, cosa sia doveroso fare in vista del Bene (in ogni campo e ad ogni livello): chi rifiuta quella Verità, che io ritengo essere l’unica vera e che io “so” di possedere, verrà percepito come “nemico del Vero” e, come tale, anche “nemico del Bene” (il Bene può nascere, infatti, soltanto dal Vero).

Quindi, io, che so di avere la Verità e che so cosa si dovrebbe operare per il conseguimento del nostro Bene, come potrei non sentirmi moralmente obbligato a combattere chi, volontariamente o involontariamente, rifiutando il Vero, finisce inesorabilmente per ostacolare la realizzazione del nostro Bene?
E, nello stesso tempo, come potrei non sentirmi in dovere di cercare di impedire (al fine di difendere e di realizzare il Bene di tutti) il verificarsi di tutto quello che ritengo poter nuocere all’affermarsi del Vero e alla sua concretizzazione oggettivata, sia nella sfera individuale che in quella collettiva?

E come non sentirmi pienamente autorizzato e legittimato a ricorrere ad OGNI mezzo umanamente possibile per impedire o, almeno, semplicemente rallentare il trionfo del Bene?

Di fronte ad un fine tanto elevato (e tanto indiscutibilmente giusto), risulta legittimato, anzi, doverosamente richiesto, il ricorso a qualsiasi mezzo ritenuto “utile”: censura-imposizioni-limitazioni varie-controllo sistematico-isolamento-incarcerazione-tortura-deportazione-pena di morte.

Il non farlo verrebbe ad evidenziare una grave mancanza di senso di responsabilità e di attenzione agli interessi della collettività, e, quindi, una psicologia ed una moralità spregevolmente e pericolosamente egocentriche.

Il ritenere, quindi, di poter possedere (in modo assoluto) una Verità assoluta prepara la strada alla accettazione e consacrazione di poteri anch’essi assoluti e, come tali, senza confini.  Di fronte ad una simile mentalità, potrà risultare massimamente efficace  l’esercizio terapeutico della Filosofia in ottica autenticamente socratica ed ecletticamente teosofica.
Ovverosia, educando il pensiero:
    all’uso critico-sistematico del dubbio;
    al coraggio del giudizio autonomo;
    alla capacità di autoanalisi e di autocritica;
    alla consapevolezza del limite sia delle proprie che delle altrui certezze; anzi, alla consapevolezza dei limiti invalicabili dello stesso pensiero umano nel cercare di approdare a qualcosa di definibile come assolutamente certo e, quindi, non più rivedibile-discutibile-correggibile-migliorabile;
    alla consapevolezza, perciò, della necessità irrinunciabile di un continuo processo di ricerca e, quindi,     della necessità di diffidare di tutte le risposte blindate, dogmaticamente imposte sulla base della strategia dell’ ipse dixit; nonché della necessità di una costante disponibilità al confronto sincero, allo scambio, alla cooperazione paritaria, alla consapevolezza che ogni verità è inevitabilmente “figlia del Tempo”, e che ogni verità rappresenta inevitabilmente (soltanto) il risultato della nostra (soggettivissima) attività conoscitiva condotta nel tempo e nello spazio (nel nostro tempo e nel nostro spazio), e che, quindi, è in grado di rappresentare esclusivamente il punto di approdo del nostro sguardo sul mondo, ovvero sempre lettura prospetticamente fondata, e, come tale, sempre valida relativamente e provvisoriamente.

Un simile atteggiamento potrebbe condurci, allora, a pensarci come esseri non più divisi e contrapposti in quanto credenti e non-credenti, platonici e aristotelici, teisti e panteisti, rivoluzionari e controrivoluzionari, ortodossi ed eterodossi, ecc., bensì come viandanti, pellegrini, eterni ricercatori, desiderosi di conoscere sempre più e sempre meglio il Vero e il Bene.

E i vari credo (religiosi, filosofici, politici, ecc.) potranno apparirci, finalmente, non più come entità boriosamente e cruentemente condannate a lottare fra loro, bensì come differenti itinerari, tutti percorribili e tutti sperimentabili, ovvero differenti sentieri  inerpicantisi su di un’unica immensa montagna: tutti relativamente validi;  tutti meritevoli di essere presi in considerazione, di essere esaminati senza pregiudizi, di essere discussi criticamente, con lealtà, con franchezza e con rispetto.

In un articolo apparso su Lucifer, nel gennaio 1888, Helena Petrovna Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica (New York 1875), vulcanica scrittrice e infaticabile demolitrice di pregiudizi culturali, ci fornisce un’analisi estremamente efficace e convincente del fenomeno dell’intolleranza.
Chi crede di aver trovato l’oceano nella sua brocca d’acqua – scrive - è naturalmente intollerante nei confronti del suo prossimo, il quale, a sua volta, si compiace d’immaginare d’aver versato il mare della verità nel suo piccolo vaso, ma chiunque conosce, come i teosofi, quanto infinito è l’oceano dell’eterna saggezza, per essere scandagliato da qualche uomo, classe o partito, e comprende quanto poco contiene anche il più grande recipiente fabbricato dall’uomo, in confronto a quanto giace sopito e non ancora percepito nelle sue oscure e abissali profondità, non può essere che tollerante; perché vede che gli altri hanno attinto con i loro recipienti nello stesso grande serbatoio nel quale ha attinto egli pure e, per quanto l’acqua nei vari recipienti possa sembrare diversa all’occhio, ciò può darsi soltanto perché è colorata dall’impurità che si trovava nel recipiente prima che vi venisse versato il cristallino elemento – parte dell’eterna ed immutabile Verità.

Secondo questa prospettiva, i produttori-possessori di ciascun  recipiente conoscitivo (ovvero fede religiosa, sistema filosofico, ideologia politica, ecc.), ignorando di aver attinto tutti ad un unico immenso serbatoio, cadrebbero nell’errore di ritenersi i soli capaci di raccogliere, contenere ed offrire al mondo la sola salutare e salvifica acqua, considerando il contenuto degli altrui recipienti  sostanzialmente diverso dal proprio e, pertanto, inadeguato e nocivo.

Unica via alternativa in grado di espellere l’intolleranza dalla nostra storia, sarebbe quindi costituita – secondo la prospettiva teosofico- blavatskyana (in chiara sintonia con quella neoplatonica di Ammonio Sacca e con quella irenico-umanistica di un Giovanni Pico della Mirandola o di un Erasmo da Rotterdam) – dal saper accettare l’idea della presenza di una parte della Verità all’interno di ogni religione e di ogni sistema filosofico e politico, nella consapevolezza che  “se vogliamo trovarla dobbiamo cercarla alle origini ed alle sorgenti di ogni sistema, alle sue radici ed ai primi germogli, non nelle tardive escrescenze delle sette e dei dogmatismi.

 E unica cura contro tutti i fanatismi potrà essere soltanto – sempre su questa via - il riconoscere che tutte le proprie amatissime convinzioni non siano altro che piccolissimi  granelli di verità, inesorabilmente mescolati all’errore e  che, nello stesso tempo, “gli errori degli altri sono come quelli propri:  misti alla Verità”.  

I significati del mandala nella tradizione indo-tibetana

Una breve introduzione ai significati del mandala nella tradizione indo-tibetana.
Massimiliano A. Polichetti - Funzionario storico dell’arte, Curatore delle Collezioni tibetane e nepalesi del Museo delle Civiltà.

Nella tradizione esoterica, liturgica ed iniziatica del Buddhismo mahayana, il bodhi (risveglio), nonché la peregrinazione verso di esso, possono essere descritti tramite la formalizzazione geometrica di un impianto architettonico. Il mandala viene perciò proposto quale rappresentazione ideale, in forma grafica, dei rapporti esistenti tra l’universo e la mente di chi sperimenti una delle realtà del multiverso. 

Il mandala può anche definirsi come “il mondo dell’essere presieduto dalla verità”; il bhavachakra (la pittografia ad andamento circolare rappresentante la “ruota delle rinascite”) è di contro il mondo del divenire, il samsara divorato dall’inconsapevolezza rappresentata da Yama, il dio della morte nella cosmologia buddhistica.    

Nella lingua sanscrita esistono più significati per il termine mandala (cerchio o circonferenza). Questo termine può significare il capitolo di un testo sacro (ad esempio il celebre decimo mandala del Rig Veda), oppure la sfera di influenza politica esercitata da una struttura di potere. È nella sua accezione religiosa che il termine mandala definisce un diagramma in cui vengono descritti e stabiliti i nessi tra l’uomo e l’universo.
Nel mandala interpretato secondo quest’ultima accezione vengono riassunte le principali concezioni cosmologiche e psicologiche buddhistiche alle quali Giuseppe Tucci, grande figura di asianista e padre della tibetologia contemporanea, diede la definizione, divenuta oramai classica, di “psicocosmogramma”, in quanto in questo sacro diagramma è rappresentata sinteticamente la serie di nessi che fanno della realtà, apparentemente frammentata, un tutto organico e coerente fin nella sue parti più infinitesimali.

Un mandala può essere rappresentato con una pittura, una scultura, per mezzo di pietre preziose, fiori, riso, pietre o sabbie colorate; può essere ricreato all’interno della propria mente per trasformarne attivamente i processi. La sabbia è considerata il materiale grossolano più efficace, in quanto tradizionalmente tratta da sostanze preziose che necessitano di un’estrema attenzione nell’esecuzione dei dettagli.

Nella tradizione Vajrayana del Buddhismo Mahayana la buddhità nonché il cammino verso di essa possono  essere descritti tramite la formalizzazione geometrica di un impianto architettonico. Il mandala viene perciò proposto quale rappresentazione ideale in forma grafica dei rapporti esistenti tra l’universo e la mente dell’uomo.  Sebbene prodotto su di una superficie piatta, il mandala è infatti da leggere nel suo sviluppo tridimensionale, essendo la divina dimora al centro della quale un buddha può manifestare lo stato del risveglio verso tutte le direzioni dello spazio.

 Sotto il profilo della rappresentazione formale il mandala è la proiezione su di un piano bidimensionale di un palazzo a pianta quadrata inscritto all’interno e al centro di una serie di barriere circolari.  
Iniziando dall’esterno, tali barriere potranno presentare una sequenza nella quale si enumera una prima cerchia, la più esterna, fatta idealmente di fiamme intese a tenere lontani i profani, coloro i quali non sono ancora maturi ad affrontare la peregrinazione spirituale verso il “Risveglio” (bodhi) che, simbolicamente, è racchiuso nella serie di percorsi e di corrispondenze delle quali il mandala è letteralmente saturo; è la barriera di fuoco che respinge chi non sia ancora “adatto” (adeptus) ad essere avviato alle complesse liturgie  proprie del veicolo segreto del Buddhismo.  
Segue una barriera di vajra, le “folgori adamantine” per le quali si compendia l’immodificabile natura della mente e le sue principali valenze emancipatorie, definite “metodo” (upaya) e “saggezza” (prajna); barriera impenetrabile per chi, pur avendo osato superare il cerchio di fuoco, non abbia ancora purificato la volontà. Questa barriera di vajra rappresenta la concretezza del piano assoluto della realtà, il piano ove gli adepti del Vajrayana divenendo “esseri adamantini” (vajrasattva) riescono ad esprimere il potere necessario ad intraprendere in modo positivo le liturgie del veicolo esoterico.  
La terza barriera, quella “composta da petali di fiori di loto” (padmavali), rappresenta la purezza  della sensibilità emozionale, la giusta disposizione da suscitare nel cuore di chi si stia accostando al proprio centro ineffabile. Si è giunti a questo punto nel mandala vero e proprio concepito come un divino palazzo e spesse volte disposto su più livelli attraversabili in sequenza attraverso elaborati portali. Ogni elemento di un mandala è la rappresentazione degli aspetti della divinità risiedente al centro.
Ogni porzione di un mandala ha il suo preciso significato. I suoi quattro lati rappresentano le Quattro Nobili Verità: la “sofferenza” (dukha), l’“origine” della sofferenza (samudaya), la “cessazione” della sofferenza (niroda) e il “sentiero” che conduce alla cessazione della sofferenza (marga). Il fatto poi che i quattro lati siano uguali sta a significare l’identità, sul piano assoluto, degli esseri risvegliati con quelli non risvegliati.  La porta orientale rappresenta le quattro attenzioni pure: al corpo, alle sensazioni, al pensiero, ai fenomeni. La porta meridionale le quattro occasioni di superamento: donare, parlare gentilmente, dare soccorso, essere coerenti nelle azioni rispetto alla parola data. La porta occidentale le quattro membra delle manifestazioni miracolose: puro desiderio d’essere, vigore, intelletto, indagine. La
porta settentrionale le cinque facoltà: fede, vigore, consapevolezza, concentrazione, saggezza.
I quattro archi rimandano alle quattro stabilizzazioni meditative. Le quattro cornici che bordano la base delle mura sono le quattro conoscenze discriminanti: dei significati, dei fenomeni, dei linguaggi, della pronta risposta. La decorazione di pietre preziose appaga i desideri degli esseri. Le ghirlande che pendono dalle travi significano il superamento degli ostacoli e delle loro impronte al momento di intraprendere il sentiero della meditazione. Un mandala può essere rappresentato con una pittura, una scultura, per mezzo di pietre preziose, fiori, riso, pietre o sabbie colorate; può finalmente essere ricreato all’interno della propria mente per trasformarne attivamente i processi. La sabbia è considerata tra i materiali grossolani il più efficace poichè tradizionalmente è tratta da sostanze preziose e necessita di un’estrema attenzione
per l’esecuzione dei dettagli del mandala.  Ci possono essere numerosissime divinità in un mandala a simboleggiare le varie manifestazioni degli aspetti della coscienza e del cosmo trasfigurati dalla sapienza trascendente personificata dal nume che risiede al centro del mandala in unione con la propria mistica consorte, personificazione femminile della Saggezza. Il palazzo è diviso in quadranti provvisti di mura e gallerie. I colori sono la specifica rappresentazione degli “elementi grossolani” (mahabhuta) di cui si compone la realtà fenomenica e degli “aggregati sottili” (skanda) sui quali la mente imputa l’esistenza nominale di un “io” convenzionalmente esistente.  
Sebbene prodotto su di una superficie piatta, il mandala è in realtà sempre da visualizzarsi nel suo sviluppo tridimensionale, essendo la divina dimora al centro della quale un buddha può manifestare lo stato del Risveglio verso tutte le direzioni dello spazio. La forma del mandala potrebbe essere ricondotta allo schema del palazzo di un Monarca Universale (chakravartin), concetto riconducibile a sua volta alla formalizzazione dell’ideale urbano iranico. La reggia del monarca indiano, come quella del monarca babilonese, si richiama al modello delle piramidi a gradoni sormontate da un tempio. Il Monarca Universale vi deve risiedere in quanto, come re degli dei, egli deve vivere sulla sommità della montagna cosmica, simboleggiante l’integrazione dell’ordine politico con quello religioso, l’unione indissolubile del
cielo e della terra: « quod est inferius est sicut quod est superius » (Pseudo Ermete, Tabula Smaragdina).
Secondo la descrizione che ne dà il Canone in lingua pali nel Dighanikaya, una tale residenza è circondata da sette muraglie fatte d’oro, argento, berillo, cristallo, rubino, corallo e da vari gioielli. Nella regola dell’ordine monastico mulasarvastivadin il palazzo presenta sette recinti, fatti però solo di quattro materiali preziosi: oro, argento, berillo e cristallo.  

Inevitabilmente la lettura di queste descrizioni riecheggia l’ultimo, in ordine di redazione, dei testi sacri del Cristianesimo; nell’Apocalisse di Giovanni di Patmos si trova la seguente interessante descrizione del Regno di Dio tra gli uomini: «La città è a forma di quadrato […] le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. Le fondamenta delle mura della città sono adorne d’ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffiro, il terzo di calcedonio, il quarto di smeraldo, sardonice, cornalina, crisolito, berillo, topazio, crisopazio, giacinto e ametista» (21, 16-21). Agli effetti della pratica liturgico-iniziatica da compiersi all’interno di “un” mandala (se nella teoria si danno infiniti mandala, nell’arte se ne ritrova la raffigurazione di qualche centinaio) è necessario avere una chiara cognizione di se stessi quale divinità ed assumere il corrispondente “orgoglio divino” (devamana). In un tale processo le apparenze ordinarie, visibili dagli occhi della carne, non vengono negate; piuttosto, non permettendo ai fenomeni ordinari di apparire alla consapevolezza mentale si fa in modo che le divine apparenze brillino più forti. Quando, avendo interrotto le apparenze ordinarie e sviluppato il chiaro apparire di se stessi come una divinità, tale apparenza spirituale diviene finalmente stabile, le apparenze ordinarie degli aggregati fisici e mentali infine cessano. È allora che appaiono all’occhio della mente i divini aggregati fisici e mentali, i divini costituenti e sensi.  

Nel Buddhismo tibetano i mandala vengono creati per i rituali d’iniziazione nei quali un maestro concede il permesso, ai discepoli ritenuti maturi, di impegnarsi nelle meditazioni relative a particolari divinità archetipiche. Il “germe di buddha" (tathagatagarbha) presente nel continuum mentale d’ogni essere senziente viene nutrito dal processo di visualizzazione e contemplazione di questo mistico diagramma.  La resa formale, artistica, di tutto questo processo avviene in virtù di un sofisticato linguaggio simbolico che impiega, per la propria articolazione, una serie di codici presenti sincronicamente nella stessa immagine. Vi è pertanto un codice che si avvale della dislocazione spaziale dei vari elementi figurativi (siano essi geometrici o meno), cos’ come un codice cromatico, un codice sonoro, un codice “teurgico”, nel senso che anche le varie divinità, raffigurate con minore o maggiore realismo antropomorfico, sono a loro volta lemmi di una super-struttura sintattica finalizzata ad essere supporto sensibile alla pratica spirituale. 

I mandala

«Diventiamo ciò che veneriamo". "L’uomo non crea gli dèi a propria  immagine e somiglianza,
ma si concepisce a immagine e somiglianza degli dèi in cui crede". - Nicolás Gómez Dávila (1913 – 1994)

 “Senza beatitudine non c’è risveglio,  poiché il risveglio coincide con la beatitudine” -  Advayavajra, Mahasukhaprakasha, XI sec. E.C

 Mandala significa compassione, sentire insieme, sentire insieme la gioia, e non solo il dolore.  
Per mandala, lemma sanskito, si intende cerchio, sfera di influenza politica. Nel codice Manu si parla di mandala; mandala in tibetano si dice kilkor, parola che significa cerchio e circonferenza, ma anche cogliere l'essenza.

Ma a cosa serve il mandala, che significato ha nell'arte sacra?   Per i fruitori dell'arte sacra è una contemplazione di verità e quindi l'artista deve seguire delle regole molte strette nella realizzazione di queste figure.  In Occidente tra il creatore e l'umanità c'è un gap metafisico, c'è l'impossibilità di identificarsi con il creatore, in Asia il gap è annullato. Nella Chandogya Upanishad, importante testo della filosofia vedanta, sono contenute tre grandi massime o aforismi, detti mahavâkya, ossia grandi detti, che sono tre espressioni sanscrite che esprimono il concetto dell’identità tra Spirito individuale, Atman, e Spirito universale, Brahman.   Questi aforismi sono: 

  • Tat tvam asi,  Quello sei tu, dove Tat sta per ‘immenso, l’impronunciabile, il divino; mentre Tvam Asi significa “questo sei tu”. Pronunciando queste parole affermiamo di riconoscere e rispettare il divino in qualunque forma, entità o sensazione esso ci compaia davanti. 
  •  Aham brahmasmi, “Io sono Brahman, il Divino“. Qui diventiamo consapevoli di essere noi stessi divini
  •  Ayam atma brahman, “Questo Sè è il Brahman“, o anche “Dio e io siamo un tutt’uno“.


Nella tradizione vajrayana del Buddhismo mahayana la  buddhità nonché il cammino verso di essa possono essere  descritti tramite la formalizzazione geometrica di un  impianto architettonico.  Il mandala viene perciò proposto quale rappresentazione  ideale in forma grafica dei rapporti esistenti tra l’universo  e la mente dell’uomo.  Il mandala può anche definirsi il mondo dell’essere,  presieduto dalla verità. L'arte sacra è uno degli strumenti per identificarsi con il termine ultimo della santità. La mente è un cristallo trasparente, se appoggio la mente su un oggetto virtuoso, divento virtuoso; l'arte acellera la Teosi, il passaggio da essere umano a Nume essere.


Il Buddha ha estinto la contaminazione mentale, ma la mente continua ad esistere nel tempo. I tantra sono dei testi per dare dell'indicazioni agli artisti.  Nel Tibetan Painted Scrolls testo in inglese scritto da Tucci nel 1949, c' è un capitolo dedicato ai mandala nella tradizione indo-tibetana. Poi Tucci scrisse Teoria e pratica dei Mandala nel 1961 che è uno dei testi fondativi per capire i mandala.  Nel testo Psicologia del profondo, per Jung: "il mandala è un archetipo di individuazione", la salvezza mentale, la buddhità. Il mandala rappresenta il rapporto trsa l'universo e la mente dell'uomo (il rapporto tra macrocosmo e microcosmo).  Diventiamo ciò che veneriamo.    Teosi significa: Diventare simili a Dio. Non diventare Lui, ma piuttosto partecipare alle energie divine.

Il mandala è anche, ma non solo, la proiezione su di un piano bidimensionale di un edificio a forma quadrata.  Nel santa sanctorum, c'è la casa dell'embrione del Buddha, tutti gli esseri hanno la potenzialità di diventare Buddha. Quando la causa sostanziale e la causa circostanziale si uniscono il seme diventa spiga, e in noi si manifesta la natura di Buddha. Il seme è il Vajra, shakti, descritto nel Kalachakra Tantra, senza beatitudine non c'è risveglio, poichè il risveglio coincide con la beatitudine. Esistono mandala diversi perchè diversi sono i percorsi di Teosi da uomo a Dio. Ognuno di noi si trova in una tappa diversa, quindi occorrono mandala diversi. Occorre fare offerte alla divinità e ripetere il giusto mantra per ritrovare il shambara terra pura  (equivalente al paradiso), che sta qui, da qualche parte.

Nei tantra, l'emozione, se controllata risveglia la Teosi, mentre nei sutra le emozioni disturbano il processo.  

Bisogna distinguere il mandala dallo Yantra che è un paradigma geometrico del mandala, un lontano cugino,  e dal  Bhavachakra, la Ruota dell'Esistenza e delle rinascite, è una rappresentazione visiva cruciale nel Buddhismo tibetano, che illustra il ciclo di nascita, vita, morte e rinascita, noto come samsara. È una ruota che illustra il mondo del divenire, il samsara  divorato dall’oblio rappresentato da Yama, il dio dei morti  nella cosmologia buddhistica.  Uno yantra è una figura geometrica complessa utilizzata nel tantrismo, nello yoga e in altre pratiche spirituali per la concentrazione e la meditazione. Funge come un diagramma o un amuleto mistico che aiuta a focalizzare l'energia e a raggiungere stati di coscienza più elevati.

Nel 1993, c'è stata la costruzione del mandala di sabbie colorate  all'acquario di Roma,  il Kala chakra composto da innumerevoli iconogrammatrie.  I granelli di sabbia colorata sono usati solo in occasione di cerimonie del tantra buddhista. Nelle cerimonie di inziazione, tra le tante cose, c'è anche la costruzione di un Mandala di sabbia che deve essere perfetto. Poi la sabbia deve essere smaltita con l'acqua, Le regole di costruzione sono immutabili, ogni tanto ci sono delle micro-variazioni, che però devono essere giustificate. 

Cosigliati:  

  • - film:  L'arte della felicità (2013)  di Alessandro Rak  
  • - testo: Teoria e pratica del Mandala. Giuseppe Tucci, 1969 (London 1961)
  • - testo: Il mandala: "archetipo di individuazione" - Carl Gustav Jung

martedì 18 marzo 2025

Yoga a Roma per Karuna

Chi segue regolarmente le lezioni di yoga (in presenza o on line) e volesse fare una piccola donazione all'associazione Karuna Shechen fondata dal monaco buddhista  Matthieu Ricard ( e che io sostengo),  può andare al seguente link:   https://action.karuna-shechen.org/fundraisers/yoga-a-rome

Ho avuto il privilegio e il piacere di conoscere personalmente Matthieu Ricard durante i miei soggiorni in Dordogna (Francia) e posso assicurarvi che è una persona eccezionale. I fondi raccolti andranno in progetti per aiutare le popolazioni locali dell'universo himalayano.
Karuna festeggia quest'anno il suo 25 anno di attività :  https://youtu.be/Spged_aXOSg          

 

Lezioni di Yoga alla Biblioteca Laurentina

 Tutti i lunedì alle ore 11,00  fino a giugno 2025 -   Piazzale Elsa Morante, 00143, ROMA    

Tel. 0645460760   e-mail:  laurentina@bibliotechediroma.it       


 

Lezioni di Yoga alla scuola Rosalba Carriera

 Tutti i giovedì alle ore 16,30 fino a giugno 2025 -   Indirizzo: Via Orazio Console, 80, 00128 Roma RM Telefono: 06 508 3954    


Differenza tra consapevolezza (in tibetano trenpa) e presenza mentale ( rigpa)

Mingyur Rimpoche presenta la differenza tra la consapevolezza e la presenza mentale e sceglie la consapevolezza.  Oggi ci sono molti stili di presenza mentale, alcuni validi altri meno, e molti sono completamente inventati.    

Sostanzialmente ci sono due tipi di meditazione:
- la prima Object oriented  con il focus sull'oggetto  (suoni, corpo, respiro, sensazioni, pensieri, ecc)  dove serve la concentrazione. Quando ci si distrae,  si riporta l'attenzione sull'oggetto, e ciò porta una certa rigidità.
- la seconda Self oriented.

Nello stile di meditazione del mio lignaggio, si da importanza alla consapevolezza, che come allegoria è una specie di lanterna, chee produce una fiamma con due particolarità: - La capacità di illuminare intorno a sé e ogni cosa intorno diventa visibile;  - La lampada è la luce stessa, self - luminosità.
Anche la mente ha la capacità di percepire gli oggetti,  ma anche la qualità di illuminare se stessa, di conoscere se stessa.
Nella tradizione tibetana il focus è sulla consapevolezza; Qualsiasi oggetto può fare da supporto per riconoscere e connettersi con la consapevolezza. La cosa importante è connettersi con la consapevolezza che è aperta e vasta.

Si può anche fare in due step una meditazione chiamata di consapevolezza aperta, senza avvalersi di un oggetto: - il primo passo è rilassarsi senza meditare, - il secondo è riuscire a meditare senza oggetto.

La presenza mentale è più conservatrice, la consapevolezza più liberale;
il respiro e qualsiasi cosa sorga nella mente: quindi esperienza, sentimenti, sofferenza , ecc,  può diventare un supporto, un punto di riferimento per la consapevolezza.
La consapevolezza è sempre presente e libera, è al di là dei fenomeni  e completamente calma e pura;
e questa sua meravigliosa natura è sempre con noi.
Il problema è che non riusciamo a riconoscerla.
Questa libertà, questa qualità di presenza e apertura della consapevolezza, questa presenza vigile di consapevolezza è sempre con noi. E' meraviglioso.
Noi dobbiamo solo connetterci con questa consapevolezza, usando un oggetto o meno, questa è il cuore della pratica.

La consapevolezza è il cielo, e le emozioni, i pensieri, le sensazioni  sono le nuvole.  La consapevolezza è un posto sicuro dentro di noi, che contiene compassione, benevolenza e saggezza. Dobbiamo solo riconoscerla. Il Big secret è la open awareness meditation chiamata anche object-less meditation. Ossia bisogna lasciare la mente così come è, in questo istante. La vera meditazione non richiede di meditare perchè la fondamentale qualità della nostra mente è pura, è oltre, è presente.  Avvertiamo allora il senso di essere, il senso di rilassamento, il senso di presenza. Dobbiamo lasciare ogni cosa così come è; e essere completamente naturali.

Mindfulness (o meditazione di consapevolezza) Buddhista

Mindfulness e meditazione sono diventati argomenti di grande attualità: su Amazon si trovano oltre 50.000 libri sull’argomento, mentre su YouTube esistono centinaia di migliaia di video dedicati alla meditazione. Influencer, guru offrono consigli su come ridurre lo stress e raggiungere la felicità. Molti sostengono che meditare ogni mattina aiuti a eliminare le distrazioni e a mantenere la concentrazione, mentre alcune aziende promuovono la mindfulness tra i dipendenti per aumentare il benessere e l’efficienza sul lavoro.         

Tuttavia, questa interpretazione moderna porta a incomprensioni sulla natura autentica della meditazione di consapevolezza.  Si tende a credere che la meditazione di consapevolezza consista esclusivamente nel vivere il momento presente, lasciando andare le preoccupazioni sul passato e sul futuro per raggiungere uno stato di rilassamento e felicità. La maggior parte delle pratiche di mindfulness implementate da molti professionisti e organizzazioni mancano della comprensione di cosa sia la consapevolezza nella tradizione buddhista e la mindfulness (meditazione di consapevolezza) viene ridotta a una tecnica di auto-aiuto. 

Sebbene ci sia un fondo di verità in questa visione, essa è molto diversa dalla prospettiva buddhista. La meditazione di consapevolezza ha radici millenarie ed è strettamente legata alle pratiche buddhiste. 

L'approccio moderno può addirittura risultare problematico quando le aziende lo utilizzano per promuovere il “non giudizio” in ambienti lavorativi difficili, spingendo i dipendenti ad accettare particolari condizioni di lavoro. La meditazione di consapevolezza non equivale alla semplice consapevolezza non giudicante, né è soltanto uno strumento per ridurre lo stress. Nel contesto buddhista, essa rappresenta un percorso di realizzazione e trasformazione.

Nei testi classici buddhisti, la consapevolezza è definita come un atto di “mantenimento della memoria e del ricordo”, un processo che porta alla comprensione del proprio vero sé. Essa ha un chiaro obiettivo soteriologico: liberare la mente dalle afflizioni, ridurre l’auto-referenzialità, sviluppare una maggiore sensibilità etica e morale e coltivare un senso altruistico verso tutti gli esseri senzienti. In questo contesto, la mindfulness non è uno stato di rilassamento, ma un cammino di trasformazione interiore.

L’equivoco più grande sta nel credere che la meditazione di consapevolezza serva a “sfuggire” alla mente, quando in realtà il suo scopo è affrontarla direttamente. La meditazione buddhista è, infatti, una ricerca profonda della nostra vera natura.

Molte pratiche moderne suggeriscono di chiudere gli occhi, focalizzarsi sul momento presente, sul respiro e non giudicare i pensieri che emergono. A volte si ricorre a meditazioni guidate per facilitare il processo. Tuttavia, nella tradizione buddhista, la meditazione non è un’esperienza esclusivamente mentale, ma si realizza attraverso il corpo.

Nella meditazione buddhista tradizionale, gli occhi rimangono aperti con coscienza consapevole ed espandendo il campo visivo, il respiro gioca un ruolo fondamentale: è guidato dal diaframma, lento e profondo, con lunghe espirazioni che coinvolgono i muscoli addominali. La postura è altrettanto importante: si sta seduti a gambe incrociate con la schiena dritta, le spalle rilassate e il mento leggermente rientrato, creando un’unione tra mente e corpo. Inizialmente questa posizione può risultare scomoda e persino dolorosa, ma affrontare tale disagio è parte del processo meditativo.

A differenza della visione moderna, che fornisce indicazioni su come “controllare” la mente, nella meditazione buddhista non vi sono istruzioni rigide su cosa fare con i pensieri. Ai principianti può essere suggerito di contare i respiri per unificare mente e corpo, ma il vero obiettivo è immergersi completamente nell’esperienza del respiro e del corpo. Attraverso questa pratica, si entra in contatto con il proprio vero sé e si affronta la visione dualistica della vita umana: la separazione tra mente e corpo, sé e altro, vita e morte.

In definitiva, la mindfulness buddhista è molto più di una semplice tecnica di gestione dello stress: è un mezzo per comprendere la natura della mente, trasformare il proprio modo di essere e sviluppare una profonda connessione con tutti gli esseri viventi.

Jésus et Bouddha - Odon Vallet

In questo testo l'autore, Odon Vallet, cerca di fare dei raffronti e di trovare delle similitudini tra il cristianesimo e il buddhismo, e in particolare tra Gesù e il Buddha, i creatori di queste due correnti di pensiero anche se nate in periodi diversi.   Odon Vallet ( 1947 - ) è specialista delle religioni, ha insegnato alla Sorbona, a Sciences-Po, e a l'ENA.     

Il termine cristiano appare per la prima volta  a Antiochia, in Siria, per designare il gruppo di discepoli di Cristo, mentre il termine buddhismo è stato creato dagli orientalisti europei ed è apparso alla fine del XVIII e si applicava al solo buddhismo in India. C'è una differenza di numeri tra cristiani e buddhisti; oggi i primi sono 2,2 miliardi nel 2024  e i secondi circa 500.000.   

Cristo è nato nel periodo di Augusto e ha predicato nel periodo di Tiberio, il Buddha è nato tra il 624 e il 480 a.C.  Zaratustra, Lao Tse e Confucio si situano nel VI secolo a.C. .  Mahavira, il fondatore del Jainismo, è quasi contemporaneo di Buddha.

I primi frammenti della vita di Gesù sono stati messi per iscritto due o tre decenni dopo la sua morte. I più vecchi documenti sugli insegnamenti buddhisti sono stati scritti tre o cinque secoli dopo la morte del Buddha, a Sri Lanka per il buddhismo Hinayana (55 testi in pali)  e altrove per il buddhismo Mahayana (55 in sanskrito) e poi tradotti in cinese, giapponese e tibetano (322 ). Il canone pali composto da 16000 pagine è stato scolpito su delle steli nella pagoda di Mandalay in Birmania. La versione giapponese è quella più grande: 55 volumi di 1000 pagine ciascuno (venti volte la Bibbia).

Il cristianesimo ha integrato una parte delle antiche scritture degli ebrei nell'antico testamento, mentre il buddhismo non ha integrato nulla dei Veda. L'insegnamento del Buddha sembra ateo. I quattro vangeli sono delle raccolte di insegnamenti di Gesù rivisitati sotto la guida degli evangelisti. I tre canestri buddhisti raccolgono gli insegnamenti del Buddha, e differiscono notevolmente secondo la traduzione. Contengono ancora dei segreti sul loro contenuto e sono fonte di saggezza per i lettori europei. Entrambi, Gesù e Buddha si sono fatti conoscere per i loro insegnamenti orali, e trasmessi poi dai loro discepoli.

Le più vecchie rappresentazioni del corpo di Buddha appaiono nel regno indo-greco, con l'arte del Gandara. Le statue rappresentano il Maestro, con i tratti distesi del viso, sorridente, che sembra sfidare le angoscie della vita; I suoi gesti sono degli insegnamenti sotto forma di immagini.

Le loro vite riportano il potere miracoloso dell'acqua. Entrambi hanno dato insegnamenti sulle rive di un fiume, il Buddha ha presentato il più importante sermone, come raggiungere il nirvana a Benares, e Gesù ha predicato sulle rive del Giordano. Gesù è stato battezzato da Giovanni Battista nel Giordano e Buddha raggiunge l'illuminazione sulla riviera Nairanjana, un affluente del Gange.

Molti traduttori europei del sanscrito, come ad esempio Eugène Burnouf (uno dei più importanti studiosi del buddhismo in Francia) non avevano mai messo piede in India, o come i traduttori americani dei manoscritti del Mar Morto (documenti contemporanei a Gesù e ponte tra il Nuovo e Vecchio Testamento) non hanno mai messo piedi in Giordania. Per il vecchio testamento non sono state trovate tracce di Abramo, Mosé e Isaia;  c'è qualche iscrizione su Geremia e Davide. Sono state trovate tracce di santuari buddhisti a Sarnath e Bodhgaya, ma nessuna traccia della vita del Buddha tranne una stele di Ashoka nel luogo della sua nascita e tracce di un palazzo che avrebbe potutto essere il luogo della sua gioventù. Nell'India del V secolo a.C. non si usavano pietre e materiali da costruzione. 

Il Dio cristiano siede nel regno dei cieli, e dovrà estendere il suo regno sulla terra, il Dio Indra (nel politeismo indù) risiede nel monte Merù, mentre il Buddha come Epicuro diceva di non avere paura degli dei. Il Buddha non ha riempito, ne vuotato il cielo, si è occupato della terra e dei suoi mali. Il  grande rivale di Gesù sarà Mitra, un Dio solare disceso tra i pastori all'alba del cristianesimo.

Gesù e il Buddha invitavano i loro discepoli a trovare la loro luce interiore, la differenza è che la luce interiore del cristiano è di natura divina, mentre quella del buddhista è il prodotto dell'esperienza, del cammino verso l'illuminazione. Il buddhismo èinteressato alla realizzazione dell'individuo e alla sorte delle collettività.

La morale e l'austerità buddhista hanno fatto sì che i popoli dell'Asia mantenessero le loro credenze ancestrali e le loro religioni costituite anche all'avvento del buddhismo,  vedi taoismo e confucianesimo in Cina, shintoismo in Giappone, ecc...  I buddhisti non hanno mai domandato di abiurare le vecchie credenze.  Non hanno mai cercato di fare proseliti, I cristiani, ha volte, ci hanno provato...

Il nirvana, è una nozione indiana e non solo buddhista, e indica la liberazione (moksha) dal ciclo delle rinascite. E il beneficiario può dissolversi nell'universo, integrarsi al cosmo, come il defunto le cui ceneri sono disperse nell'oceano o nel Gange.

Nelle religioni è comune la tendenza ad avvicinarsi al divino e tendere verso il cielo attraverso santuari, chiese, e altro. Il record delle pagode si registra in Birmania: la Pagoda di Schwedagon (110 metri) a Rangoon, quella di Schwemadaw (114 metri) a Pegu   e  quella in Thailandia a Nakhorn Pathom (127 metri)  vicino Bangkok.

Nel pensiero indiano non c'è un Dio trascendente per elevare la natura dell'uomo,  la parola atman designa sia il soffio che l'anima, il sè profondo e permanente, la realtà ultima dell'essere umano. Questa anima individuale deve cercare di fondersi nell'universale, il brahman. Nel cristianesimo, l'uomo può elevarsi verso Dio, ma non può ridiscende alla sua morte, a livello degli animali. Il buddhismo non postula l'esistenza di un'anima, io e non io, essere e non essere è lo stesso. L'induismo usa il termine samsara per indicare la trasmigrazione delle anime, il buddhismo usa la stessa parola per designare la spirale delle esistenze; l'anima non rinasce, ma l'esistenza ricomincia.  

Buddha e Mahavira non si integrano nel sistema delle caste, si rivolgono agli uomini e alle donne di qualsiasi casta. Il Buddha preferisce dare la priorità al merito rispetto alla nascita. Buddha e Gesù non vivevano in istituzioni democratiche, e senza rinnegare la loro identità, hanno lanciato un messaggio universale. Il buddhismo primitivo non ha ufficialmente soppresso le caste, il cristianismo antico non ha mai abolito la schiavitù. 

Prima dell'arrivo del comunismo in Tibet, i monaci erano il 30% della popolazione maschile, e sono sempre stati dieci volte più numerosi delle monache.  Sia il buddhismo, sia il cristianesimo si sono dotati di una organizzazione interna. Ma nel buddhismo,  non esiste una autorità centrale, ogni sangha e ogni monastero hanno la loro autonomia, e ciò ha portato alla creazione di scuole molto diverse tra loro. Questo fenomeno ha accresciuto la dipendenza del sangha nei confronti delle autorità politiche. In Thailandia, il re è il protettore della fede buddhista e nomina il Grande Venerabile, responsabile supremo nel Paese. In Birmania, i monasteri sono coordinati da un consiglio di 47 grandi monaci, la cui designazione è controllata dal governo. Spesso il potere temporaneo e spirituale si sovrappongono.  In Tibet dal 1577 al 1959, il Paese era diretto dal Dalai Lama, assistito dal Panchen Lama. Dopo la loro morte si reincarnano.  Nel cristianesimo esiste una specie di monarchia, non ereditaria, ma elettiva, la parola democrazia nel Nuovo Testamento appare una sola volta. Il nepostismo è presente sia nel buddhismo che nel cristianesimo. 

La Nonviolenza nel buddhismo ha i suoi limiti e non è stata sempre applicata: i monaci shaolin misero in fuga un'armata nel 600, il re birmano Anaweatha fece guerra al suo vicino nell'XI secolo; in Tibet ci furono spesso degli scontri tra berretti rossi e gialli. Il veicolo del diamante, nato in India del nord ha ereditato dall'induismo i riti, le iniziazioni, i guru e i mantra.

Durante l'impero romano l'80% delle chiese erano situate in Asia e in Africa, i grandi concili si tennero a Costantinopoli, Nicea, Efeso, Calcedonia. Oggi i 4 più grandi Paesi cattolici  sono il Brasile, il Messico, gli Stati Uniti e le Filippine;  Nel 1939 erano l'Italia, la Francia e la Germania. Nel buddhismo c'è una via del sud e una via del nord. La prima per mare del piccolo veicolo porta a Sri Lanka, Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia. La seconda per terra del grande veicolo ha portato il buddhismo in Tibet, Mongolia, Cina, e da qui in Vietnam e in Giappone. Questa seconda via si è servita dei cammelli e degli yak e ad ogni bivacco si è arricchita delle leggende locali e dei culti autoctoni. Il grande veicolo è arrivato a Java, dove si può ammirare il tempio di Borobodur e oggi il buddhismo è quasi scomparso dall'isola. 

Grazie a queste religioni e filosofie, si studia ancora il sanskrito nel buddhismo Mahayana, il pali del buddhismo Hinayana, l'ebreo del Nuovo testamento, il greco del Nuovo testamento, il latino della chiesa cattolica e le lingue slave per la liturgia ortodossa. Gli scismi nell'anno 1000 tra ordodossi e cattolici ha separato anche i fedeli che parlavano greco da quelli che parlavano latino. Così come lo scisma tra buddhismo Mahayana e Hinayama ha separato i fedeli cha parlano sanskrito da quelli che parlano pali. 

Il Buddha è sempre rappresentato immobile, spesso seduto in meditazione, mentre Gesù è spesso rappresentato in movimento; entrambi dominano gli elementi: Gesù marcia sulle acque, mentre Buddha domina sul suo fiore di Loto. 

Come dice Michel Serres: "la religione, è il contrario della negligenza",  i religiosi cristiani e buddhisti, fanno il voto di castità e di povertà. Nei monasteri buddhisiti vengono recitate due volte al mese le regole di vita quotidiana, come mezzo per evitate gli errori. I monaci sono invitati a rivelare davanti ai loro pari, gli eventuali errori commessi, metodo della confessione pubblica già adottata dai brahmani.  Fuori dalla vita monastica, il buddhismo impone solo cinque precetti: non prendere la vita (compresa la vita animale), non rubare, non praticare l'adulterio, non pronunciare brutte parole, non usare prodotti tossici (come alcol).

All'inizio la religione cristiana, non si basava sul dogma, nel senso che Gesù ha posto la compassione del buon samaritano al di sopra della dottrina delle leggi e San paolo ha messo la carità al di sopra della fede: "se mi maca l'amore, non sono niente". La nozione di dogma è poco utilizzata nel Nuovo Testamento, e si sviluppa con i Padri della Chiesa".  In Oriente esiste il Dharma che è l'ordine e la legge al quale il buon induista e il buon buddhista è sottoposto. Nell'induismo il dharma o dovere è in funzione delle caste e della nascita. Nel buddhismo è uguale per tutti; identico per tutte le persone di tutte le condizioni e realizza l'uguaglianza di fronte al bene e al male. Il dharma buddhista è soprattutto morale  e corrisponde alla vera natura dell'uomo. La ruota della legge (Dharma cakra) è il simbolo della dottrina buddhista, e rappresenta l'eterno ciclo dellle rinascite e i suoi otto raggi rappresentano l'ottuplice sentiero. E' stata messa in movimento tre volte: la prima corrisponde al primo sermone e insegnamento del Buddha, la seconda volta quando è stato fondato il Mahayana e poi quando è stato fondato il Vajrayana. La ruota rappresenta anche i l sistema dei centri di energia nel corpo umano.

Ci sono stati nel tempo 21 concili cristiani, ripartiti su due millenni. I concili buddhisti sono stati soltanto sei, agli ultimi due hanno partecipato solo i delegati del Piccolo Veicolo. Non c'è stato più un congresso generale accettato da tutti.  Comunque anche i cristiani (cattolici, protestanti, ortodossi) non sono più riusciti a fare un Congresso comune da circa un millennio, per cercare di attenuare le loro differenze. Il cattolicesimo ha definito il dogma dell'immacolata concezione (1854), dell'assunzione della vergine Maria (1850) e l'infallibilità del pontefice (1870). I primi due concili buddhisti (480 a.C,  e 386 a.C) avevano come tema le regole monastiche.  Altri due sono stati fatti per appianare alcune divergenze, sembrerebbe sotto l'imperatore Ashoka (250 .a C)  e  del re Kanishka (130 a.C) ,  Il quinto è stato presieduto dal re birmano Mindon (1853-1878). Il concilio vaticano II che si è svolto tra il 1862-1965 sotto Giovanni XIII ha avuto come risultato di fondare una nuova comunità ecclesiastica (nel periodo della riconciliazione franco-tedesca).

La trasmigrazione delle anime, ignorata dagli antichi testi vedici, è apparsa in India poco prima della nascita del Buddha e si trova spiegata nelle Upanishad, nella stessa epoca questa concezione si ritrova in Grecia, in filosofi come Pitagora e Paltone che erano stati influenzati dall'orfismo. Il cuore della concezione orfica, che influenzerà ampiamente Platone, è l'obiettivo, tramite riti iniziatici, della liberazione dal demone, del principio divino immortale ma imprigionato in ognuno di noi in corpi mortali. Un accenno al dualismo filosofico, tra corpo mortale e demone immortale. 

La metempsicosi (parola usata nelle filosofie occidentali) è una credenza propria di alcune dottrine religiose secondo cui, dopo la morte, l'anima trasmigra da un corpo all'altro, fin quando non si sia completamente affrancata dalla materia. La reincarnazione è  una delle credenze più riconosciute in ambienti legati all'induismo, al giainismo, al sikhismo e al buddhismo, anche se in quest'ultimo caso non riguarda la reincarnazione dell'anima ma quella del karma. la reincarnazione è presente anche in alcune religioni africane e in altre filosofie o movimenti religiosi.  

Nel buddhismo ciascuno è responsabile del proprio divenire, anche se nel Mahayana c'è l'aiuto dei bodhisattva. Nell'induismo il peccato più grave è quello di tradire la propria casta, nel buddhismo quello di negligere la vita religiosa. La liberazione, l'estinzione o nirvan passa da una riconciliazione dell'Uno con il Tutto, nell'induismo si deve integrare l'atman (anima individuale) con il brahman per ritrovare l'unità primordiale. Il buddhismo procede differentemente in quanto non conosce nè l'essere, nè l'anima. Professa il non-sè (anatman) con la vacuità (sunyata). La vacuità buddhista ricorda la vanità biblica come è descritta dall'Ecclesiaste. Il Qoelet o Ecclesiaste, è un testo contenuto nella Bibbia ebraica e cristiana. È scritto in ebraico e la sua redazione è avvenuta in Giudea nel V o III secolo a.C. ad opera di un autore ignoto. Per i cinesi e i tibetani, il nirvana è visto come qualcosa al di là della sofferenza. Dalla realizzazione della vacuità si passa alla felicità eterna. Il nirvana assomiglia molto al concetto di apatia, sconosciuto nel Nuovo Testamento ma sviluppato dalla patristica greca degli stoici. Nirvana e apatia coltivano l'insensibilità al dolore e il distacco dalle passioni, il controllo delle emozioni.

Cristo e Buddha hanno seguito un cammino differente, Gesù è morto e poi ha conosciuto la luce della risoluzione, il Buddha prima è arrivato all'illuminazione e poi si è estinto. Ha conosciuto due nirvana, il primo corrrisponde alla sua Illuminazione, il secondo si riferisce alla sua estinzione definitiva (parinirvana). Il nirvana buddhista rimette l'uomo nell'eternità, in quanto, questo stato supremo è riservato solo all'uomo, a solo chi è nella condizione umana ( non è riservato nemmeno alle divinità). Il nirvana nei testi buddhisti è descritto come l'altra riva dell'esistenza, dove vengono eliminati tutti i mali della vita.  La nozione  della morte come passaggio è fondamentale nel buddhismo tibetano, e il Libro dei morti (il Bardo Thodol) enuncia gli stati intermedi (bardo) del defunto. 

Tra morte e rinascita, in questo periodo transitorio che dura 49 giorni, i fedeli possono aiutare il defunto a trovare la luce dello Spirito e allontanarsi dalle apparenze. Queste preghiere ricordano le preghiere cristiane per il morto, anche se le finalità non sono le stesse.  Ma la convergenza più marcata tra buddhismo e cristianesimo a proposito della morte è il culto delle reliquie. Frammenti di ossa di santi e lama tibetani sono incassati negli altari delle chiese cattoliche e nei reliquari presenti in ogni luogo in Oriente. Uno stupa è un monumento buddista, originario del subcontinente indiano, la cui funzione principale è quella di conservare reliquie. Il termine chörten in tibetano, dagoba a Sri Lanka, dagon in Birmania, chedi in Thailandia, letteralmente significa "fondamento dell'offerta". È il simbolo della mente illuminata (la mente risvegliata, divinità universale) e del percorso per il suo raggiungimento.

Spesso il Buddha viene rappresentato come androgino (soprattutto in Thailandia) e non viene mai dipinto o scolpito nudo come il suo rivale Mahavira, il fondatore del Gianismo. Il Buddha è perfetto, eterno nella sua illuminazione, ammirabile nel suo corpo misterioso.  I monaci nel V secolo d,C. nel Cashimir praticano il matrimonio, e questo annuncia il tantrismo: il desiderio non può essere eliminato, allora da ostacolo diventerà il veicolo per la liberazione se controllato e guidato con i metodi yoga,  realizzando l'unione dei sessi. 

Nella tradizione giudaica-cristiana e nell'islamismo Dio è sempre rappresentato come un Dio maschile.  Nell'induismo c'è la rappresentazione di Shiva e Shakti, l'energia femminile e principio attivo.  Il tantrismo ha recuperato questo principio per ridare un aspetto femminile al buddhismo segnato dal ruolo predominante degli uomini. Anche Jung influenzato dall'India usa i termini anima e animus. Il tantrismo della mano sinistra (Vamachara) e quello del veicolo del diamante insistono sugli accoppiamenti rituali, mentre il tantrismo della mano destra (Dakshinachara) più portato sul principio maschile e conosciuto in Cina sotto il nome della Scuola dei segreti si accontenta di una unione sessuale simbolica. E' stato poi definito una rinascita dello Shivaismo e del suo culto del linga e della yoni.  Il buddhismo tantrico quando è arrivato in Cina ha trovato già la filosofia taoista impregnata del dualismo del femminile e del maschile, lo yin e lo yang. Ogni aspetto della realtà ha il suo opposto e si riequilibria con una forza uguale e contraria. L'obiettivo qui non è, come esposto in molti trattati tantrici, di arrivare all'unione con una divinità come Tara bianca o Tara verde che sono delle emanazioni del Buddha della compassione, ma piuttosto di ottenere la longevità attraverso una corretta sessualità. E fare un buon uso della Tige di jada e della Grotta di corallo.  In Giappone il buddhismo si è incontrato con lo shintoismo, che con i suoi riti di fertilità e culti fallici aveva una forte componente erotica. E si sono ripartiti i compiti, il buddhismo è associato alla morte e si occupa del culto dei defunti, lo shintoismo è associato alla vita e si occupa dei riti associati al matrimonio e alla nascita.  Nel cristianesimo si evidenzia lo scarto tra l'ideale del non-desiderio e la realtà delle pulsioni sessuali. Il bhramanesimo aveva una visione più unificante celebrando la virilità e la femminilità come i due più nobili valori della vita.

C'è una relazione complessa tra religione e salute, tra corpo e anima,  che varia secondo le varie epoche. Questa relazione culmina con i pellegrinaggi a Lourdes, La Mecca e Benares.  A Lourdes in 140 anni, 65 persone sono state ufficialmente dichiarate guarite sui due milioni di malati che sono stati in pellegrinaggio in questa città dei Pirenei. L'India di Buddha e Israele di Gesù erano caratterizzate da diversi tipi di purificazioni. Il Buddha accordava una grande importanza alla salute dei suoi monaci.  Gesù ha resuscitato il suo amico Lazzaro (Vangelo di Giovanni 11,1) mentre il Buddha non risponde alle sollecitazioni di una donna che era venuta a chiedere aiuto per la perdita del figlio. Gli chiede di portargli un chicco di sesamo proveniente da una casa dove non c'è stato un lutto, una morte.  La spiritualità buddhista si interessa alla salute; in Cina e in Tibet venerano ancora i Buddha della medicina. che sono preposti a portare un conforto al fedele, più che a guarire. Ciò corrisponde alla frase "guarire a volte, confortare a volte, consolare sempre".

Il testo nell'ultimo capitolo si chiede se Gesù e Buddha avranno un avvenire nei prossimi decenni. Oggi ad Hongkong si registra il più basso tasso di natalità mondiale con 1,2 bambini per donna. Le pagode diventano rare, così come i monaci, e come a Singapore la corsa al denaro sta sostituendo la ricerca del Nirvana. Il fervore buddhista si mantiene nei Paesi meno sviluppati dell'Asia come la Birmania dove tutta la popolazione è praticante e i duomi delle pagode continuano ad essere fatte in oro. Tutti i Paesi dell'Asia dell'Est hanno compiuto la rivoluzione industriale e post-industriale in venti anni, quella rivoluzione che in Europa è durata due secoli. Nonostante questo nei villaggi rurali il buddhismo resiste e le strade si animano al suono del gong dei monaci mendicanti.   In Cina e in Vietnam il taoismo ha perso terreno e il buddhismo ha sofferto;  e il paradiso sulla terra è in concorrenza con il nirvana.   Nonostante la scomparsa del marxismo, in Russia e in Europa, non c'è stato un ritorno alle chiese e alle pagode. Con lo sviluppo del capitalismo si vede il ritorno della miseria di un tempo, ma non la fede del passato; i mendicanti sono spesso nella metro e non sulle scale di una chiesa.  

Se il XX secolo sarà religioso, come profetizzava Malraux, non lo sarà in modo tradizionale. Infatti, l'Occidente cristiano si apre alla spiritualità orientale: comunque le conversioni di europei al buddhismo sono rare, anche se la meditazione è molto praticata. Le comunità asiatiche (le varie Cina Town) in Europa apportano le loro feste e i loro culti (Nuovo anno cinese, ecc... ) alla cultura occidentale. In senso inverso, il cristianesimo si propaga in Asia dell'Est. A Hanoi e a Saigon le chiese sono piene di fedeli; Bombay e Calcutta sono piene di seminaristi, ci sono più gesuiti in attività in India che in tutta Europa. In Corea i cristiani sono numerosi come i buddhisti.

I responsabili cinesi e indocinesi si inquietano sulla perdita dei valori asiatici e della occidentalizzazione della società, e cercano di favorire il culto degli anziani e il confucianesimo che sono più vicini alle tradizioni.  Lo sviluppo in Occidente del buddhismo mostra i suoi limiti. Il buddhismo e la meditazione possono essere considerati dei contropesi al materialismo della nostra civilizzazione o un antidoto alla rivolta sociale.  Oggi il buddhismo è la filosofia dei Paesi che stanno conquistando i nostri mercati, come la Cina e il Giappone.   A lungo termine, si prospetta l'avvicinamento tra cristianesimo e buddhismo come in Vietnam, dove che questa sintesi è stata reealizzata nella religione del Cao Dai, una parola che significa Grande Essere, e il suo simbolo è un occhio sinistro che illumina il mondo. Cinque milioni di vietnamiti aderiscono a questo culto che venera Confucio, Buddha, Lao Tse, Mose e Gesù.  Il mondo dovrebbe rendere omaggio alle sue due tradizioni di Oriente e Occidente, e continuare a festeggiare San Benoit, il patrono dell'Europa e favorire la meditazione per arrivare al nirvana.

Oggi il nemico della religione, del percorso spirituale e del sincretismo è il materialismo imperante, l'agnosticismo, e la disperazione. Si spera che questo cambiamento di fede/fedi e di credenze non provochi delle nuove guerre di religione. Possa la persona che crede nel cielo, o non ci crede, colui che attende il paradiso o si prepara al nirvana, costruire la sua speranza tra "la folla immensa dove l'uomo è un amico".

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