venerdì 24 gennaio 2025

Le donne dai molti mariti - Giuseppe Tucci

Il paese delle donne dai molti mariti è il titolo dei racconti di viaggio di Giuseppe Tucci sulle sue spedizioni in Tibet. In questo libro si scopre un Tucci scrittore accurato, attento, competente ma soprattutto Il libro è quasi un diario segreto di questo viaggiatore che con cinquanta muli, una tenda e i Canti di Leopardi in tasca si avventurava nei luoghi più sperduti dell’Asia centrale.  Tucci era un viaggiatore insofferente della vita sedentaria, amante dei grandi spazi, delle giornate di cammino in cui sembra di non esserci spostati tanto è infinito il "paese delle nevi". Il titolo accattivante "Il paese delle donne dai molti mariti", ammicca ad una pratica oggi scomparsa ma che ancora suscita la curiosità nel turista.  

Dalla prefazione di Stefano Malatesta. Giuseppe Tucci è stato un visionario come lo erano i santi e i profeti di una volta. Ma come questi avevano passato la loro vita a cercare gli dei, così Tucci aveva passato la sua ad evitarli, almeno quelli delle culture monoteistiche. Il buddismo, questa forma suprema di laicismo scelta da anime religiose che non si adattano ad avere un pantheon di padri padroni sopra di loro, l’aveva messo in guardia sulla vanità e sull’inadeguatezza della mente inutilmente sovrana del passato e del futuro, del prossimo e del remoto.
E sulla necessità, imperiosa per gli uomini, di staccarsi dall’effimero tragitto che porta dalla nascita alla morte. Quando io l’ho conosciuto aveva passato gli ottant’anni e si era appena rotto una gamba salendo in montagna. «Sono stato per morire », disse, con una voce che sembrava provenire da quell’inferno tibetano che aveva così ben studiato: «Un’esperienza straordinaria».
(...) Aveva già incominciato a interessarsi del paese delle donne dai molti mariti, come lo aveva chiamato, andando alla ricerca di scomparsi testi buddistici in sanscrito che però erano rintracciabili nella tradizione tibetana. Ma questa esigenza filologica ci dice pochissimo su quello che provò Tucci quando mise piede per la prima volta nel Tibet. Non fu solo un cambio o un’alternanza di studi, fu un’attrazione fatale.
Chiunque sia arrivato per la prima volta nel Tibet, ha sempre avuto l’impressione di stare su un altro pianeta. A differenza di altri, Tucci fece completamente suo quel mondo alieno come se stesse aspettando l’incontro da innumerevoli vite: qualcosa di traumatico che gli impedì di scriverne per anni prima che l’eccitazione si fosse depositata in una assoluta consapevolezza.
Raccontava spesso che arrivato di fronte al Kailas, montagna sacra a tre religioni, gli era sembrato di trovarsi in presenza di un dio che faceva piegare le ginocchia. E il lago Manasarovar, il lago di Brahma, aveva il fulgore del simbolo «dell’eterna essenza del cosmo» e di quell’incognita energia che crea «l’infinite forme dell’essere». Le sue descrizioni dei paesaggi partivano sempre dai modi occidentali, cioè l’individuazione dei particolari, accompagnati da uno stile coloristico, e finivano nella spiegazione mistica, nella ricerca di un significato più profondo. Il Chomolai aveva pareti a picco inaccessibili su cui nemmeno le nevi e i ghiacci facevano presa e in cima nascondevano una dea. Nelle pianure immense in fondo alle quali, verso sud, si addormentava in uno scintillio rossastro la catena himalayana, gli uomini e le bestie apparivano minuscoli e insignificanti, schiacciati dalla maestà delle rocce che li sovrastavano.

Una citazione dal libro:  "... la solitudine mi è sempre apparsa la migliore consigliera e amica: estingue le diffidenze, i sospetti, quello stato di allarme continuo che, nella vita consociata, per la necessità della difesa e della vigilanza, rendono l'uomo guardingo: la vita all'aria aperta, fra gli alberi o le rocce, sotto il sole o lo stupore freddo della luna, restituisce all'uomo una serenità innocente. Queste città rimbombanti di rumori e stridori e scoppiettii, la corsa obbligata fra mura e rotaie, il necessario incedere a testa china nei lunghi corridoi delle strade che tagliano il cielo a fette, soprattutto il vivere inconsapevoli delle vicende della Gran Madre comune, privano l'uomo di resistenze fisiche necessarie, logorano i nervi, intossicano lo spirito, ingombrano la mente di curve vane.

L'uomo cominciò con l'essere un nomade; questo modo antico depositato in fondo al nostro subconscio monta spesso alla superficie con i suoi capricci archetipali e con la bramosia del viaggiare che sboccia in noi con il lume della ragione e ci accompagna per tutta la vita. E ne giova perché apre la mente.

Però stiamo attenti: il viaggiare con i mezzi meccanici che traduce in termini moderni il nomadismo ancestrale, se ben considerate, è soltanto illusione di libertà, soggetto com'è al vincolo degli orari, ai posti negli alberghi, ai programmi certi, onde diviene piuttosto prigionia dalla partenza all'arrivo, senza evasione di soste o divari; persino l'automobile ci incatena per l'incanto della corsa, perché occorre sempre uno sforzo per sottrarsi alla malia della velocità e ubbidire all'invito di una rovina o al richiamo di un orizzonte aperto. Ma quando avete una carovana tutto è diverso; vi sentite padroni del mondo: i padri antichi che vennero forse dall'Asia a popolare la squallida Europa, rivivono in voi, vi sentite parenti di conquistatori primordiali; oggi qui domani non sapete dove, dove c'è erba e acqua o dove vi incanta la bellezza dei luoghi, la maggior delizia per il poeta che in fondo a noi, se non siamo divenuti come i bruti torpidi e sprovveduti, sempre vigila e sogna. Soltanto allora trovate e godete la libertà."

 Biografia di Giuseppe Tucci  (Macerata 1894 - San Paolo dei Cavalieri (Tivoli) 1984)

Tucci è considerato il più grande orientalista italiano del Novecento, e fra i massimi tibetologi a livello internazionale. Fu giornalista, scrittore, archeologo, antropologo, esploratore, Accademico d'Italia, presidente onorario di numerose istituzioni di grande prestigio in tutto il mondo, vincitore del "Premio Nehru", e ha meritato ben cinque lauree honoris causa. Concittadino del gesuita e sinologo Padre Matteo Ricci, Giuseppe Tucci nasce a Macerata il 5 giugno 1894 e muore a San Polo dei Cavalieri, vicino a Tivoli, il 5 aprile 1984. Dotato di eccezionali qualità naturali e di un'ottima preparazione classica, giovanissimo conosce già una decina di lingue europee. Nel 1915 parte per la Grande Guerra,  congedandosi col grado di tenente. Nel 1919 si laurea in Lettere e Filosofia. 

Tucci aderì al regime fascista, seppure senza grande interesse politico, preso dai suoi studi che Mussolini deciderà di finanziare a fini politici, per diffondere l'immagine dell'Italia in Asia e prendere contatti con l'India in vista di un disgregamento dell'Impero britannico.   Parole di Tucci: «È meglio che io sappia chi è il mio padrone, piuttosto che mi senta disperatamente, ma ugualmente schiavo in nome di un'astrazione che si chiama stato, democrazia o che so io. Il fatto è che l'uomo è nato con un duro destino dal quale può trovar scampo soltanto l’asceta o il poeta.»

Lavora prima come bibliotecario della Camera dei deputati, ma già tra il 1925 e il 1930 partì con Carlo Formichi per insegnare italiano, cinese e tibetano presso varie Università indiane, dove fra l'altro incontra il poeta Tagore e Gandhi.  Nel 1926 visitò l'Assam per accompagnare Tagore ma, dopo le aspre critiche al fascismo proferite da Tagore, il governo italiano ritirò il suo sostegno all'università di Visva Bharati, e Tucci iniziò ad insegnare nelle università statali indiane di Dacca, Varanasi e Calcutta. Durante questi anni si recò nel Punjab, nel Kashmir e per due volte in Ladakh, almeno due volte in Sikkim e una in Nepal, principalmente per studiare i testi buddisti contenuti nelle biblioteche monastiche.  Negli anni in cui insegnava in India, ebbe come collega di studi Mircea Eliade, e appena il caldo delle pianure indiane si faceva insopportabile, Giuseppe Tucci emigrava verso il più fresco nord, come il resto della colonia europea. E qui, tra le montagne tra Simla e il Kashmir, incontrava quasi tutti i viaggiatori e gli esploratori più famosi dell’epoca, da Sven Hedin a Aurel Stein a Paul Pelliot.

Dal 1930 diviene docente di lingua e letteratura cinese all'Università di Napoli, e dal 1932 insegna religione e filosofia dell'Estremo Oriente all'Ateneo di Roma. Nel 1933 fonda assieme a Giovanni Gentile, che ne è il primo presidente, l'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (Is.M.E.O.), con lo scopo di "promuovere e sviluppare i rapporti culturali fra l'Italia e i paesi dell'Asia Centrale, Meridionale ed Orientale ed altresì di attendere all'esame dei problemi economici interessanti i Paesi medesimi". L'attenzione rivolta anche agli aspetti politico-economici è documentata, oltre che dalle numerose pubblicazioni dell'Istituto come i periodici Bollettino dell'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (1935) e Asiatica (1936-1943), dallo specifico interesse di Tucci per la geopolitica dell'Asia in un periodo cruciale della sua storia, e dalla sua amicizia personale con Karl Haushofer, che invita a tenere importanti conferenze su questa materia.
Tucci concentra i suoi viaggi di ricerca nella vasta regione himalayana, quale naturale crocevia storico fra tutte le diverse culture dell'Asia, raccogliendo sistematicamente materiale archeologico, artistico, letterario, di documentazione storica e altro. Risultati eccezionali vengono così ottenuti dalle sue lunghe spedizioni in Tibet fra il 1929 e il 1948, anno in cui l'Is.M.E.O. riprende in pieno la sua attività postbellica sotto la sua diretta presidenza, destinata a durare fino al 1978. 

Tra il 1950 e il 1955 egli organizza nuove spedizioni in Nepal, seguite dalle campagne archeologiche in Pakistan ('56), in Afghanistan nel ('57) ed in Iran ('59). Sempre nel 1950 avvia il prestigioso periodico in lingua inglese East and West, e nel 1957 fonda il Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma.
Tra i suoi numerosi ed importanti scritti ricorderemo solamente, sia i sette volumi di Indo-tibetica (Accademia d'Italia, 1932-1942) che i due di Tibetan Painted Scrolls (Libreria dello Stato, 1949) per la loro ampiezza documentaria, e la Storia della filosofia indiana (Laterza, 1957) per la sua portata innovativa, specie per quanto riguarda la logica indiana.

Recensioni. 
Giuseppe Tucci una vita nomade a caccia del mito - di Bernardo Valli - Domenica di Repubblica 4 settembre 2005
Ai piedi del Potala, nel tardo autunno di due anni fa, socchiudo gli occhi e lascio alla fantasia il compito di ricostruire Lhasa cosi come era nel 1948, quando Giuseppe Tucci vi mise piede per l’ultima volta. Ho appena letto la sua descrizione, ed anche di altri, in particolare quella meno aristocratica e più passionale di Alexandra David - Néel della stessa epoca.
La città, cresciuta senza un piano, prestabilito, è popolata da gente di tutte le razze e vestite in tutte le fogge. È una tavolozza di colori sui quali prevalgono il rosso e il giallo. Sulle piazze e le strade scorre un fiume umano in piena: pellegrini, mercanti, mendicanti, asceti si confondono con uomini e donne del posto; si muovono come un gregge senza pastore, in direzione di pagode cariche d’oro e gremite di statue, tra i cumuli di rifiuti e le fosse che servono da latrine, esposte a tutte le curiosità e a tutte le intemperie. La luce nobilita anche gli angoli più luridi. La luce del Tibet non è paragonabile a nessuna altra. L’azzurro intenso del cielo e il bianco antico delle montagne innevate si contendono il ristallo dello spazio. Il sole accende i colori senza attenuare il gelo, che quasi non si sente tanto è asciutto. Con la sua mole massiccia, il Potala protegge la città e domina l’intera valle tagliata dal corso del Chiciu e serrata a nord e a sud da montagnenude, quando non sono coperte di neve.
Là, oltre la città, si stende un paese silenzioso e strano; geloso dei suoi segreti; apollaiato sul tetto della Terra, l’altare del mondo, a un’altitudine che può uccidere chi vi sale partendo dal livello del mare; allungato su steppe sterminate, costellate di laghi la cui acque gelate sono di un blu più intenso di quello del cielo.
Quando riapro gli occhi, per alcuni minuti tengo alto lo sguardo, lascio che si perda nello spazio in cui si riflettono colori eterni e inviolati. Cerco di non disperdere subito le immagini recuperate dagli scritti dei viaggiatori di un tempo. Concludo il gioco infantile ritornando al traffico, automobilistico e umano, simile a quello di tante altre città della Cina. La Cina che ha inghiottito il Tibet conosciuto da Giuseppe Tucci, riducendolo a un paese come tutti gli altri. O quasi.

Tucci ha avuto la fortuna di esplorare, di conoscere, di studiare quel Tibet in gran parte scomparso. Vi aveva trovato una terra promessa, un rifugio per evadere dall’Occidente industrializzato e in generale dalla sua modernità, che aborriva.
Aveva partecipato alla Prima guerra mondiale e l’esperienza l’aveva spinto, come altri giovani ufficiali, verso il fascismo. E questo lo induceva a pensare che la battaglia, l’azione, il rischio, fossero «un antidoto alla fredda razionalità e alla spersonalizzazione dell’era contemporanea ». Anche la conoscenza delle religioni orientali poteva servire a immunizzare l’Occidente da quei mali che l’avrebbero portato a un’inevitabile decadenza. Per salvarsi la civiltà europea doveva attingere forze e idee dalla civiltà asiatica. Il Tibet, per la sua inviolata autenticità, era l’antidoto per eccellenza. Era incontaminato.
Immobile nella sua perenne, preziosa, incantata antichità. Qualcosa di simile a uno scrigno smarrito, dimenticato, lassù, sulle vette più alte. Irraggiungibile per gli affannati comuni abitanti delle metropoli occidentali a corto di fiato.
Le difficoltà materiali per raggiungerlo ed esplorarlo, e il lavoro intellettuale per aprirlo e decifrarne il contenuto, impegnavano tutte le sue doti e sollecitavano le sue ambizioni, eccezionali e sconfinate. Il fisico, l’intelligenza, la cultura (conosceva le principali lingue europee, il cinese, il sanscrito, il tibetano, l’hindi e vari antichi idiomi asiatici), e una passione alimentata da una vanità incontenibile, gli consentivano di affrontare avventure perigliose e imprese scientifiche rimaste esemplari, per gli studiosi dell’Asia (un tempo chiamati orientalisti).
L’immagine che si ha di lui assomiglia a quella di un superuomo, cosciente di essere tale. E quindi superbo. Non sempre simpatico. Altezzoso. A tratti arrogante. Cosi mi apparve quando lo incontrai e non mi lasciò neppure il tempo di porgli una domanda. Parlò per più di un’ora. Ma non mi pentii di averlo ascoltato in silenzio. Era anche un seduttore.
Alla fine sentii una profonda riconoscenza per il tempo che mi aveva concesso.
A trent’anni, grazie a Carlo Formichi, suo professore di sanscrito, Tucci ottiene la cattedra di lingua e letteratura italiana all’Università indiana di Shantiniketan, fondata da Rabindranath Tagore. E in quel periodo traduce dal cinese e dal sanscrito vari testi classici. Ma l’esperienza in quell’università non dura a lungo. L’interrompe un incidente al quale lui è personalmente estraneo.
Tramite Carlo Formichi, il governo italiano invita Tagore a Roma, e durante la visita il poeta si indigna per il modo in cui la stampa affianca fascismo e nazionalismo indiano, e rompe ogni tipo di collaborazione con l’Italia. I tentativi di sfruttare i richiami di Gandhi (e di Nehru) al Risorgimento italiano, e in particolare a Mazzini, si ripeteranno anche negli anni seguenti, da parte di Carlo Formichi, il cui obiettivo era appunto di alleare fascismo e nazionalismo indiano in funzione anti britannica.
Costretto a lasciare l’università di Tagore, Tucci resta comunque a Calcutta e poi a Dacca con vari incarichi universitari e pubblica alcuni saggi sul confucianesimo e il taoismo. L’esibita fede fascista gli servirà poi per ottenere i finanziamenti indispensabili alle sue spedizioni. Per questo non esiterà a sottoscrivere il documento del regime sulla condanna della razza ebraica. Tuttavia la passione per le esplorazioni e la ricerca scientifica prevarrà ampiamente,  consentendogli alla caduta del fascismo di far apparire quella ideologia più strumentale che autentica. L’indiscutibile valore dei suoi studi, e il prestigio internazionale, contribuiranno a ristabilire molto presto la sua autorità anche sull’Ismeo (Istituto per il Medio ed Estremo Oriente) da lui fondato nel ‘34, con Giovanni Gentile.
I suoi studi restano oggi un punto di riferimento per chiunque si occupi di Tibet e in particolare di arte tibetana. Come vengono riconosciute e celebrate alcune sue scoperte archeologiche, anche in Cina, in Iran, in Pakistan, nel Nepal.
Tucci amava la vita nomade. Nella raccolta di suoi scritti appena pubblicata, con una introduzione di Stefano Malatesta (Il paese delle donne dai molti mariti, Neri Pozza, euro 17,50), racconta «l’irrequietezza mai sazia» che gli faceva detestare fin da ragazzo le pareti domestiche e prediligere il vagabondaggio come forma di vita. Gli esempi di due concittadini, entrambi nati come lui a Macerata, l’hanno subito spinto verso l’Oriente. La grande avventura intellettuale di Matteo Ricci in Cina nel tardo Cinquecento, e quella di Cassiano Beligatti in Tibet nel Settecento, hanno acceso la sua fantasia d’adolescente.
Amava le carovane, la solitudine sulle alte valli del Tibet, del Sikkim, del Nepal, e le avventurose indagini per arrivare a un manoscritto o a un dipinto.
Nel ‘52, quando ha cinquantotto anni, dopo una marcia di quaranta giorni dalla frontiera tibetana, Giuseppe Tucci arriva in prossimità di Rumindei (oggi Lumbini, nel Nepal). È il 27 novembre ed è già il crepuscolo.
Il sentiero polveroso sul quale avanza nella pianura monotona sembra senza fine. I soli rilievi in cui inciampa lo sguardo sono due leggere prominenze, due timide gobbe, che nella luce metallica del tramonto sembrano un trepidante miraggio destinato a sparire in quella sconfinata solitudine.
«...Il silenzio sospeso nell’aria vegliava, solo, sul luogo dove era nato Gauthama Siddhartha che doveva, dopo il suo risveglio spirituale, diventare il Budda». Cosi uomini caduti nelle sue battaglie vittoriose, viene in pellegrinaggio a Rumindei per cercare la pace nelle parole di Siddhartha.
Tucci è affascinato da quella celebre conversione del sovrano tormentato dal rimorso per la violenza delle guerre in cui ha trionfato.
Anche lo studio del buddismo (tantrico, cioé iniziatico ed esoterico) che incontra in Tibet conduce Tucci a qualcosa di molto simile a una conversione. Ma non a una conversione totale. Le sue restano le incursioni di un occidentale.
Egli si tuffa nell’Oriente ma non vi si perde. Non si lascia inghiottire. Per lui le scuole di quel tardo buddismo, annidate nei grandi monasteri (in cui ama soffermarsi e discutere, conquistando i monaci con la sua conoscenza della loro lingua e della loro cultura), sottopongono a un’acuta analisi il nostro io e servono a enucleare dall’imperfetta creatura che siamo un essere perfetto al di là di ogni contingenza e dolore. Ma la teologia e la metafisica di quelle scuole, pur avendo una poderosa impalcatura logica, devono dimostrare anzitutto la falsità delle opinioni e delle teorie correnti, e condurre alla conclusione che il vero è oltre la formula logica, non oggetto di conoscenza, ma di esperienza. Tucci trova sul tetto del mondo un alleato contro il razionalismo dei suoi contemporanei occidentali.

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Gli dei di burro -  Nel Tibet di Giuseppe Tucci - Mario Biondi - Infinite storie, Settembre 2005

Quando si visita un monastero buddista bisogna procedere con molta cautela, in particolare se non si è ancora svolta o si sta svolgendo la funzione mattutina. E con moltissima cautela bisogna puntare la macchina fotografica. Escluso sempre in maniera tassativa di farlo all'interno dei templi, anche all'aperto ci si troverà ovunque davanti qualche monacello imberbe e imbronciato, di stazza minuscola ma compatta, che ci mulina l'indice sotto l'obiettivo esplodendo certi gutturali ”No, no“ che preludono al cupo salmodiare lo “Om Mani Padme Hum“ in tonalità degne di Scialiapin. Poi magari nel pomeriggio ti corrono dietro per farsi fotografare abbarbicati a te, cercando di parlare di football e di scrivere faticosamente un indirizzo mail a cui mandare la foto, ma il mattino, in attesa della preghiera, niente da fare.

Anche nei cavernosi recessi del monastero trovi sempre un monacone rasato a zero e drappeggiato nella tunica rossa che ti sventola severo il dito sotto il naso: ”No photo, no photo“. Finché inopinatamente, sulla porta di uno dei tanti antri, ampio e coloratissimo, il monaco di turno ti dice che, sì, lì puoi fotografare tutto quello che vuoi. Tu rimani di stucco, perché sei circondato da un policromo tripudio di immagini sacre votive, che mai penseresti di poter dissacrare con il tuo flash. Invece sono soltanto rappresentazioni del sacro, Non il sacro in sé, che non può consustanziarsi in un oggetto appartenente all'illusorio ambito del reale. Al contrario, dunque, il flash, con la sua luce, e la tua presenza, con il suo calore, contribuiranno al modificarsi di tale rappresentazione fino al suo disfacimento e al conseguente passaggio nel vero reale, il vuoto. Perché - come del resto avrebbe dovuto avvertirti il sentorino quasi di piedi - le bellissime (o anche truci) e coloratissime immagini sono fatte con il più deperibile dei prodotti, il burro, sia pure di yak.

Foto a parte, tutto ciò viene spiegato con impareggiabile maestria in Il paese delle donne dai molti mariti di Giuseppe Tucci, grande specialista di filosofie orientali e in particolare di buddismo e cultura tibetana, uno dei più grandi al mondo. Grandissimo ma non precisamente indimenticato, in Italia. Se si effettua una ricerca nella più importante libreria virtuale del nostro paese, compaiono al massimo cinque titoli, di cui uno indisponibile. Se invece lo cerchi su Amazon americana, ti viene scaraventato sotto il naso lo stupefacente numero di poco meno che 600 titoli, sia pure in buona misura doppioni o in lingue diverse o di disponibilità limitata (e probabilmente qualcuno di quei Tucci non è lui). «Il Tibet, Tucci?» si sentirebbe chiedere oggi se proponesse un suo testo a una qualsiasi pubblicazione di qui. «A chi interessa? Va be', al massimo un paio di cartelle, visto che ha queste foto di moda e modernariato tibetani (ce le dà gratis, vero?), ma non si diffonda come al solito in quelle sue mortali disquisizioni su arte, cultura e religione. Chi le legge? Sia breve e lieve, diverta...» Doppiamente meritevole, quindi, il lavoro di chi ha raccolto questi anche ardui testi per riproporli al lettore italiano di oggi.

Quanto ”io“ c'è nei racconti del professor Tucci: ”Io che ho fatto questo, io che ho scoperto codesto, io che ho decifrato quello“ eccetera. Per quanto sia tutto verissimo e certificato, non sembra un atteggiamento precisamente da persona aspirante a dissolversi nella suprema realtà del vuoto buddista, ma tant'è. D'altra parte il professore esigeva sempre di essere chiamato Eccellenza e ci teneva moltissimo a far sapere quanto fosse potente nella Roma fascista. I testi sono comunque affascinanti, e possiamo soltanto sperare che ne seguano presto altre raccolte e riedizioni. Perché Il paese delle donne dai molti mariti? Perché nella società tibetana vige la poliandria. Ogni donna ha non soltanto il proprio marito ma anche i fratelli di questo: le condizioni di vita sono durissime, il marito può sparire da un momento all'altro tra il ghiaccio o in un crepaccio, calpestato da uno yak, sotto una valanga o una frana, tanto vale adattarsi fin dal principio all'idea e attrezzarsi. Se n'era accorto persino il corrucciato Sven Hedin, che pur avendo eletto a propria ”fredda sposa“ l'Asia, ammette che con una certa promiscua sposina, in un certo angolo del Tibet, potrebbe anche essere successo qualcosa. Una, in diverse decine di anni di esplorazioni: che resistenza. Si può perdonargli la scappatella e auspicare soltanto che un giorno qualcuno traduca in italiano lo splendore delle sue memorie intitolate ”La mia vita da esploratore“. Mentre le compilava non era ancora stato preso dal demone del nazismo.

Hedin, Tucci, tanti altri amici di Hitler e Mussolini... Che cosa facevano tra quelle altissime vette, con i ramponi ai piedi o in groppa a uno yak? Davvero si limitavano a esplorare? C'è da dubitarne. Controllare il Tibet avrebbe significato, per le potenze tese a coalizzarsi nell'Asse, provocare un bel grattacapo per i britannici dell'India, approfittando della temporanea debolezza della Cina, sgravata dell'imperatore ma in sanguinosa guerra civile. La consuetudine di Tucci con Karl Haushofer è perlomeno inquietante, ma bisogna ammettere che il professore soprattutto studiava culture, religioni e arti dei paesi che andava letteralmente arando con i tracciati delle sue spedizioni. Infatti l'Italia uscita dal fascismo continuò giustamente a finanziare le sue ricerche. Così oggi possiamo godere dei testi raccolti in Il paese delle donne dai molti mariti, che spaziano su un arco temporale che va dai Trenta ai Cinquanta.

”Visioni“ e ”Incanti“, montagne e deserti, giungle e fiumi, divinità e demoni, buddismo e induismo, tutto si compone a formare un unicum straordinario teso anzitutto a fare da ambiente per l'uomo e il suo ”dolore dell'esistere“, che nell'immediato sembra tuttavia essere ”piacere dell'esistere“ se non addirittura ”furia dell'esistere“. Così le donne dai molti mariti e il turbinoso cromatismo delle immagini di burro, le risate senza freno e il fervere di avidi mercati dentro il tempio, dove in un angolo neanche dei più remoti o bui puoi avvistare un gruppetto di monaci ingobbiti come nibelunghi a contare e impacchettare i mucchi di banconote depositate come offerte sugli altari. Poi esci dalla cupezza rimbombante di ”Om“ e Tucci ti guida per mano tra gli edifici e le celle del monastero, e poi fuori, nel villaggio o nella città, fin dentro le case, con la loro struttura a volte impensabilmente prospera, i loro oggetti d'arte, i mobili, le masserizie. Persino nelle dimore di nobili, grandi lama e re.

Conclude il libro lo straordinario racconto di una ”kora“, il pellegrinaggio da effettuare in senso orario (se si è buddisti, al contrario se si è seguaci della precedente religione Bon del Tibet) in circa 3 giorni. Ma Tucci ce ne mette molti di più, su e giù, di monastero in monastero, attorno al Kailash (6600 metri, ”Kailasa“ lo chiama lui), la montagna più sacra dell'Asia, venerata allo stesso titolo da buddisti e induisti, per i quali è il Paradiso di Shiva. Sembra di essere lì, appena sopra le cristalline acque del lago Manosarovar, avendo negli occhi la visione degli ex voto schiaffeggiati dal vento e negli orecchi il cigolio dei mulinelli di preghiera. Applausi alle visionarie capacità evocative di Giuseppe Tucci e a chi ha avuto l'idea di riproporlo, soprattutto in questa epoca oscura in cui - nella nostra insopprimibile ansia di provincialismo - sembra che gli unici degni di attenzione quando scrivono di viaggio siano gli stranieri.


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Giuseppe Tucci - Un Himalaya di conoscenze.  di Lorenzo Scandroglio - Il Giornale

Chi non sa che quello ritratto in alcune foto seppiate degli anni Dieci e Venti del Novecento è Giuseppe Tucci da giovane, per un attimo potrebbe quasi pensare che si tratti di una giovane donna in abiti da viandante, questi sì maschili, con calzettoni di lana grossa, scarponi di cuoio, pantaloni arrotolati sotto il ginocchio, alla zuava, giacca pesante e bastone. L'impressione si deve a quel ciuffo di capelli neri, che si alzano di lato e ricadono sulla fronte, su un viso dai tratti delicati. L'immagine di sé che Tucci ha consegnato alla storia ce lo mostra però due-tre decenni dopo, impegnato nel guado di fiumi, solo o al fianco di portatori tibetani, guardiani di monasteri, arcieri dai tratti inconfondibilmente asiatici, con il volto che tutti, tibetologi, etnologi, esploratori, orientalisti, hanno imparato a riconoscere: le sopracciglia leggermente cadenti e gli occhi socchiusi di chi è abituato a protendere lo sguardo verso l'orizzonte.
Forse meno noto al grande pubblico del suo amico-nemico Fosco Maraini (col quale ruppe i rapporti, complice un carattere e un'indole non prive di asperità, per aver messo gli occhi sulla stessa principessa tibetana che piaceva a lui), non di meno Tucci vanta una produzione sterminata di scritti, anche in ambito pubblicistico, con articoli per riviste geografiche specializzate che, in parte, vengono ora raccolti nel libro uscito in questi giorni «Il paese delle donne dai molti mariti» (Neri Pozza, pagg. 287, euro 17,50), titolo di un articolo pubblicato ne «La Lettura» del 1936 che, in questo caso, intitola l'intero volume. Corredato da un apparato fotografico nel quale si segnala una foto del grande Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, distrutto dai talebani, che inchioda il lettore non meno della parte testuale, il libro è una sorta di spaccato sociale, culturale, religioso, umano, delle popolazioni che vivono nell'Himalaya soprattutto tibetano. Nella sezione che lo intitola, che indubbiamente evidenzia l'abisso culturale che separa Occidente e Oriente (che poi è il bello delle differenze culturali e, conseguentemente, dell'autentico viaggiare), Tucci descrive la pratica della poliandria nelle aree rurali del Tibet occidentale, pratica che per altro è ancora in auge: «Di mariti quasi tutte ne hanno più d'uno, perché nel Tibet vige ancora il costume della poliandria. Una ragazza sposa non solo il suo fidanzato ma insieme con lui tutti quanti i suoi fratelli e, come se ciò non bastasse, può anche prendersi una specie di assistente, un marito più o meno legale che, essendo scelto per capriccio o per più valide ragioni, finisce presto per diventare la persona più autorevole di questo strano regime familiare. I figli, in mezzo a tanti padri, non sanno distinguerli che in rapporto all'età: e così essi sono gli unici al mondo ad avere un padre seniore e dei padri iuniori. Ma con tutto ciò una grande armonia regna in queste famiglie che non conoscono il tarlo della gelosia o il furore delle passioni. I mariti hanno il loro turno e si avvicendano con rassegnata sottomissione ai voleri della loro signora che di fatto gode di una grande autorità, accresciuta da quello spiccatissimo senso di economia e da quella naturale tendenza a dirigere, amministrare, comandare che è vivissima nelle donne tibetane».
Il passo offre lo spunto per una breve divagazione riguardante la tentazione, ancora presente in Occidente, di interpretare un simile spaccato sociale in senso quasi matriarcale. Ora, premesso che quella del matriarcato è comunque soltanto un'ipotesi giacché non ci sono prove di una sua esistenza nemmeno passata, la poliandria - come ha fatto più volte notare l'antropologa e tibetologa Hildegard Dienberger, docente alla University of Cambridge e profonda conoscitrice della società tibetana contemporanea - non ha niente a che vedere con essa.
Gli spunti di interesse offerti dal libro di Tucci non si esauriscono naturalmente nel capitolo dedicato alle donne dai molti mariti, anzi. Più oltre, sempre riguardo al Tibet, si legge: «in mezzo a così sconsolato paese, in contrade ove vivere è spesso sinonimo di patire, i tibetani sono fra i più sereni popoli della terra. anche gli asceti raminghi, che vanno compiendo certi loro riti notturni paurosi, in mezzo ai cimiteri, per sprofondarsi nella contemplazione della irriducibile insostanzialità di tutte quante le cose e sono coperti di ossa umane e bevono in scatole craniche e suonano trombe fatte con femori, hanno un aspetto così lieto, così beatifico, sono così pronti al sorriso, che incontrarli, nonostante i loro macabri utensili, è quasi sempre un piacere».
È evidente in tutto questo che la conoscenza diretta, e soprattutto la frequentazione, Rabindranath Tagore (Nobel della letteratura nel 1913) e dello storico delle religioni rumeno Mircea Eliade che, come lui, fu spesso in India, non sono semplicemente due dati di interesse biografico, ma ci dicono qualcosa di più dello stile e della sostanza dell'opera di Giuseppe Tucci. Per carità, non si fraintenda: la sua prosa non è affatto lirica, ma la definizione del Tibet come «Altare della terra», o certi articoli che costellano il libro, quali «L'abisso delle Madri» e «Acque cosmiche», rivelano fin da subito in modo inequivocabile che per l'orientalista maceratese la sua fu - come opportunamente evidenziava la mostra tenutasi nel 2004 a Macerata nel centesimo anniversario della nascita - innanzitutto un'esplorazione dell'anima.
Forse non c'è esplorazione vera, viaggio vero, che non siano esplorazioni e viaggi dell'anima e nell'anima, nell'anima mundi e in tutte le sue molteplici manifestazioni: gli spiriti del luogo. Ecco, Tucci fu attratto dalla sfera metafisica dei luoghi così come tanti esploratori, soprattutto anglosassoni, lo furono da quella fisica, fatta salva l'intrinseca magia e ieraticità delle montagne himalayane che fecero dire allo stesso Marco Polo di non essere riuscito a rendere che una minima parte della magie delle terre che aveva attraversato.
Giuseppe Tucci fu un autodidatta straordinariamente erudito, capace di parlare i principali idiomi asiatici e, soprattutto, di non ridurre la sua erudizione a mera conoscenza: se la conoscenza si fonda infatti su una mole di nozioni accumulate orizzontalmente, fu la sapienza, che le attraversa con la verticalità del pensiero, dell'intuizione, dell'analogia e del simbolo, a caratterizzare Tucci.

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Tucci rivisitato od operazione commerciale?    tratto da Himalaya e dintorni, Newsletter di Marco Vasta - N° 20 - Ottobre 2005 .

 Tucci soprattutto studiava culture, religioni e arti dei paesi che esplorava con le sue spedizioni. Negli anni in cui insegnava in India, dal 1926 al 1930, avendo come collega di studi Mircea Eliade, appena il caldo delle pianure indiane si faceva insopportabile, Giuseppe Tucci emigrava verso il più fresco nord, come il resto della colonia europea. E qui, tra le montagne tra Simla e il Kashmir, incontrava quasi tutti i viaggiatori e gli esploratori più famosi dell’epoca, da Sven Hedin a Aurel Stein a Paul Pelliot. Uomini abituati alla rudezza dell’Asia centrale e alle fatiche e ai pericoli dei viaggi e poco portati a sognare a occhi aperti. Eppure Tucci era solito dire che questi traversatori di spaventosi deserti e scalatori di montagne considerate inaccessibili nascondevano tutti come un desiderio infantile: un giorno, al mattino, quando la nebbia si dirada e i panorami tornano sconfinati, avrebbero trovato Shangri-là, quel paese dell’eterna giovinezza immerso nella luce e abitato da saggi vestiti di bianco. Quello che Tucci taceva era che anche lui faceva parte del gruppo «bella Shangri-là» ed era in attesa dell’apparizione come i suoi amici.
Colui che è stato, infatti, il più grande studioso del Tibet, un poliglotta che parlava tutte le maggiori lingue e i dialetti asiatici, un sapiente venuto da ovest che conosceva i segreti delle culture indiane e tibetane e si muoveva tra queste con la stessa disinvoltura dei santoni che oggi richiamano folle deliranti al Kumbamela, non ci ha lasciato soltanto una vasta ed erudita opera oggetto di studi nelle università di tutto il mondo, ma anche racconti di viaggio che narrano di vicende avvincenti e articoli corposi, accompagnati da fotografie stupende, apparsi su riviste come «Asiatica», «Le Vie d’Italia e del Mondo», il «Bollettino della R. Società Geografica Italiana». Scritti che mostrano un intreccio unico di dottrina, passione ed empito visionario e hanno il ritmo delle carovane così amate da Tucci: un lento, meraviglioso e quasi incantato avvicinamento a una Shangri-là dell’anima, a un mondo agli antipodi di quello occidentale, svelato vallata dopo vallata fino a quando la carovana non ha raggiunto il passo da dove lo sguardo spazia e le domande più difficili diventavano per la prima volta alla portata degli umani.

Vedi:  https://www.marcovasta.net/libreria/LibreriaSingola.asp?id=1487

giovedì 23 gennaio 2025

Lezioni di yoga alla Biblioteca Pasolini

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I 5 Addestramenti alla consapevolezza - Thich Nhat Hanh

Dal sito dell'Interessere :  https://www.interessere.it/5-addestramenti-alla-consapevolezza/  

I Cinque Addestramenti alla Consapevolezza rappresentano la visione buddhista di una spiritualità e di un’etica universali; sono espressione concreta degli insegnamenti del Buddha sulle Quattro Nobili Verità e il Nobile Ottuplice Sentiero, la via della retta comprensione e del vero amore che conduce alla guarigione, alla trasformazione e alla felicità nostra e del mondo. Praticare i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza significa coltivare la visione profonda dell’interessere, la Retta Visione che è in grado di rimuovere ogni discriminazione, intolleranza, rabbia, paura e disperazione. Se viviamo seguendo i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza siamo già sulla Via del Bodhisattva. Sapendo che siamo su quel cammino evitiamo di perderci nella confusione riguardo alla nostra vita di oggi o nelle paure riguardo al futuro.

I Cinque Addestramenti alla Consapevolezza nascono dai Cinque Precetti offerti dal Buddha, ampliati e aggiornati più volte dal monaco zen Thich Nhat Hanh fino alla presente stesura perché possano portare consapevolezza in ogni area della nostra vita. Ci offrono una cornice di riferimento perché i nostri pensieri, le nostre parole e azioni possano generare più felicità per noi stessi e il mondo in cui viviamo.

Chiunque si senta in armonia con gli Addestramenti li può adottare e praticare nella propria vita quotidiana. “Ricevere la Trasmissione dei Cinque Addestramenti” significa riconoscerli apertamente come linee-guida della propria vita, in una cerimonia che si tiene nel corso o al termine di un ritiro di alcuni giorni, celebrata da uno o più  Insegnanti di Dharma con il sostegno di tutta la comunità. Si tratta di un momento toccante nella vita del praticante e del sangha che in quel momento lo accoglie e festeggia. L’aspirazione si rinnova e rafforza ogni volta che gli Addestramenti vengono ricordati, letti individualmente o recitati in un contesto collettivo.
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Il Primo Addestramento: rispetto per la vita. Consapevole della sofferenza causata dalla distruzione della vita, mi impegno a coltivare la visione profonda dell’interessere e la compassione e a imparare modi di proteggere la vita di persone, animali, piante e minerali. Sono determinato(a) a non uccidere, a non lasciare che altri uccidano e a non dare il mio sostegno ad alcun atto di uccisione nel mondo, nei miei pensieri o nel mio modo di vivere. Riconoscendo che le azioni dannose nascono dalla rabbia, dalla paura, dall’avidità e dall’intolleranza, le quali a loro volta derivano da un modo di pensare dualistico e discriminante, coltiverò l’apertura, la non discriminazione e il non attaccamento alle opinioni per trasformare la violenza, il fanatismo e il dogmatismo in me stesso(a) e nel mondo.

Il Secondo Addestramento: vera felicità. Consapevole della sofferenza causata dallo sfruttamento, dall’ingiustizia sociale, dal furto e dall’oppressione, mi impegno a praticare la generosità nel mio modo di pensare, di parlare e di agire. Sono determinato(a) a non rubare e a non appropriarmi di nulla che possa appartenere ad altri; condividerò tempo, energia e risorse materiali con chi è in stato di bisogno. Praticherò l’osservazione profonda per riconoscere che la felicità e la sofferenza degli altri non sono separate dalla mia stessa felicità e sofferenza; che è impossibile essere davvero felici senza comprensione e compassione e che rincorrere ricchezza, fama, potere e piaceri dei sensi può portare molta sofferenza e disperazione. Sono consapevole che la felicità dipende dal mio atteggiamento mentale e non da condizioni esterne; so che per vivere felicemente nel momento presente mi basta ricordare di avere già condizioni più che sufficienti per essere felice. Mi impegno a praticare il Retto Sostentamento per contribuire a ridurre la sofferenza degli esseri viventi sulla Terra e a invertire il processo di riscaldamento globale del pianeta.

Il Terzo Addestramento: vero amore. Consapevole della sofferenza causata da una condotta sessuale scorretta, mi impegno a coltivare in me il senso di responsabilità e a imparare modi di proteggere la sicurezza e l’integrità di individui, coppie, famiglie e società. Sapendo che il desiderio sessuale non è amore e che l’attività sessuale motivata dalla brama è sempre dannosa per me stesso(a) e per gli altri, sono determinato(a) a non intraprendere relazioni sessuali senza un reciproco consenso, prive di vero amore e di un impegno profondo e duraturo. Per poter mantenere integra la mia relazione ho la ferma intenzione di trovare sostegno spirituale in persone di famiglia, amici o membri del sangha con i quali ho un rapporto di fiducia e di sostegno reciproco. Farò tutto ciò che è in mio potere per proteggere i bambini dagli abusi sessuali e per prevenire la rottura di coppie e famiglie a seguito di un comportamento sessuale scorretto. Riconoscendo che corpo e mente sono interdipendenti, mi impegno a imparare modi appropriati di prendermi cura della mia energia sessuale e a coltivare i quattro elementi fondamentali del vero amore – la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia e l’inclusività ‒ per la maggiore felicità mia e degli altri. Riconoscendo le diversità fra le esperienze umane mi impegno a non discriminare alcuna forma di identità di genere o di orientamento sessuale. Sappiamo che se pratichiamo il vero amore la nostra esistenza avrà una meravigliosa continuazione nel futuro.

Il Quarto Addestramento: parola amorevole e ascolto profondo. Consapevole della sofferenza causata dal parlare senza attenzione e dall’incapacità di ascoltare gli altri, mi impegno a coltivare la parola amorevole e l’ascolto compassionevole allo scopo di alleviare la sofferenza e promuovere la riconciliazione e la pace in me stesso(a) e fra gli altri ‒ persone, gruppi etnici e religiosi e nazioni. Sapendo che le parole possono essere fonte di felicità o sofferenza, mi impegno a parlare in modo veritiero, usando parole che ispirino fiducia, gioia e speranza. Quando in me si manifesta la rabbia, sono determinato(a) a non parlare. Praticherò la respirazione consapevole e la meditazione camminata per riconoscere la mia rabbia e osservarla in profondità. So che le radici della rabbia possono essere trovate nelle mie percezioni erronee e nella mancata comprensione della sofferenza in me stesso(a) e nell’altra persona. Parlerò e ascolterò in un modo che possa aiutare me stesso(a) e l’altra persona a trasformare la sofferenza e a trovare una via d’uscita dalle situazioni difficili.
Sono determinato(a) a non diffondere notizie di cui non sono sicuro(a) e a non pronunciare parole che possano causare divisione o discordia. Praticherò la Retta Diligenza per alimentare la mia capacità di comprensione, amore, gioia e inclusività, e trasformare gradualmente la rabbia, la violenza e la paura che giacciono nel profondo della mia coscienza.

Il Quinto Addestramento: nutrimento e guarigione. Consapevole della sofferenza causata da un consumo disattento mi impegno a coltivare una buona salute sia fisica che mentale per me stesso(a), la mia famiglia e la società, praticando la consapevolezza nel mangiare, nel bere e nei consumi in genere. Praticherò l’osservazione profonda del mio modo di assumere i Quattro Tipi di Nutrimento, ossia cibo commestibile, impressioni dei sensi, volizione e coscienza. Sono determinato(a) a non giocare d’azzardo, a non assumere alcolici, droghe o altre sostanze o stimoli che contengano tossine, come certi siti internet, videogiochi, programmi televisivi, film, riviste, libri e conversazioni. Coltiverò la pratica di tornare al momento presente per stare in contatto con gli elementi rasserenanti, risananti e nutrienti che si trovano in me stesso(a) e intorno a me, senza lasciare che rimpianti o dispiaceri mi trascinino di nuovo nel passato né che ansie, paure o avidità mi distolgano dal momento presente.
Sono determinato(a) a non cercare di coprire la solitudine, l’ansia o altra sofferenza con acquisti e consumi compulsivi. Alla luce della contemplazione dell’interessere, orienterò le mie scelte di consumatore in modo da proteggere la pace, la gioia e il benessere nel mio corpo e nella mia coscienza, come nel corpo e nella coscienza collettivi della mia famiglia, della società e della Terra.

Lunana - Il villaggio alla fine del mondo

 Lunana - Il villaggio alla fine del mondo, è un film del 2019 sul Bhutan del regista Pawo Choynging Dorji ed è stato candidato ai premi Oscar per il miglior film internazionale 2022. 

Ugyen, giovane insegnante del Bhutan, sogna di diventare cantante in Australia. Quando gli viene assegnato un incarico nel remoto villaggio montano di Lunana completamente isolato da tutto, pensa di rifiutare, ma sua nonna lo convince ad accettare l'impiego. Dopo diversi giorni di cammino e notti passate all'aperto, arriva al villaggio.
Gli abitanti del villaggio sono entusiasti del suo arrivo, e gli vanno incontro al completo per dargli il benvenuto. Ma Ugyen, sconvolto dalle pessime condizioni del luogo, ammette di sentirsi rammaricato e vorrebbe tornare indietro. Michen lo informa che i muli hanno bisogno di tempo per riposare. La mattina dopo, Ugyen viene svegliato dall'alunna Pem Zam, la quale si presenta come la "capitana della classe" e gli dice che i bambini lo stanno aspettando in classe: qui Ugyen è colto alla sprovvista dal loro affetto per lui, poiché i bambini credono che gli insegnanti abbiano la capacità di "toccare il futuro". Decide perciò di restare e insegnare fino alle prime avvisaglie dell'inverno, come suggeritogli dal capo villaggio Asha.

All'avvicinarsi dell'inverno, Ugyen deciderà di ritornare in città  con l' intenzione di lasciare il Bhutan per sempre. Il capo villaggio, i bambini sperano che un giorno torni e unisca la voce alla loro canzone Yak Lebi Lhadar.   Ugyen legge la lettera dei bambini in cui essi lo ringraziano e lo definiscono il loro insegnante preferito, esortandolo a tornare in primavera. Durante la discesa dalla montagna, Ugyen si ferma al cumulo sacro di pietre posate dai viandanti e depone una pietra in offerta per un cammino sicuro, dichiarando che spera di tornare.

Alla fine del film si vede che Ugyen ha realizza il suo vecchio sogno di andare in Australia a cantare, dove si esibisce in un bar, ma nessuno gli presta attenzione. Allora smette di suonare e con evidente profonda nostalgia per Lunana e la sua gente, canta Yak Lebi Lhadar, rapendo l'attenzione del pubblico.

ICTED Magazine

ICTED  (Information Communication- Technologies Education)  Magazine  è un periodico trimestrale, in formato digitale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per l’istruzione e la formazione; un progetto editoriale che vede impegnati docenti, genitori, tecnici, esperti e professionisti delle diverse categorie del sapere.   Il sito contiene tantissimi articoli sull'uso consapevole delle nuove tecnologie, sulla sicurezza informatica.   Vedi sito: https://www.ictedmagazine.com/index.php/chi-siamo.html 

L'obiettivo del gruppo di lavoro è di contribuire a migliorare la consapevolezza, dei genitori e della Società tutta, relativamente alle problematiche legate all’uso delle tecnologie con particolare attenzione ai minori, agli studenti, ai disabili ed a tutti coloro che vivono una condizione sociale debole.

Vengono, inoltre, trattati temi che riguardano la sicurezza e la protezione del proprio computer dai continui attacchi esterni nonché indicazioni a docenti e studenti su tematiche relative a istruzione, formazione, didattica e orientamento scolastico. Altre sezioni, che intendono offrire approfondimenti su tematiche relative all’arte e alla storia, alle scienze e all'etica,  alla robotica educativa ed alla informatica forense, coronano una visione interdisciplinare orientata ad una prospettiva olistica del sapere.

PHR - Personalità e Relazioni Umane

" Il nostro obiettivo è di liberare in ogni persona le ricchezze del suo essere e tutte le sue potenzialità. Per il suo bene personale innanzitutto, ma anche per il bene dell’Umanità".

"C'é tutto in questo sottosuolo dell'umanità, in questo sottosuolo interiore degli uomini e delle donne di questo pianeta: c'è tutto per forgiare un mondo più umano". 

Frasi di Andrè Rochais (1921-1990), il fondatore di PHR (Personalità e Relazioni Umane).  Questo straordinario sacerdote sociologo, appassionato dell’umanità ha dedicato la sua breve vita a capire “cosa fare perché l’uomo impari a viversi bene, a mettere a frutto il giacimento di risorse di cui è dotato". Attraverso lo studio del funzionamento dell’uomo, Rochais è riuscito a mettere a punto un metodo che consente a chiunque di conoscersi a fondo allo scopo di mettere in atto i cambiamenti necessari per migliorare la propria vita.    “Ognuno di noi dà il meglio di sé se riesce a individuare ciò per cui è chiamato” – diceva Andrè Rochais -. Partendo da quello che hai dentro di buono riuscirai la tua vita”.

C'è in tutti qualcosa di buono (tutti gli esseri senzienti hanno la natura di Buddha, hanno tutte le qualità positive per diventare Buddha),  e la consapevolezza della visione profonda dell’inter-essere (Il maestro Zen Thich Nhat Hanh ha coniato la parola interessere, per indicare lo stretto legame che lega qualsiasi cosa - noi compresi - ad ogni altra cosa che ci circonda); Da queste basi  dobbiamo coltivare una fiduciosa speranza per realizzare quello che desideriamo. 

PRH (Personalità e Relazioni Umane) è una “scuola di speranza per l’Umanita”, una Scuola Internazionale di formazione e ricerca, specializzata nella crescita e nello sviluppo personale. La formazione si rivolge agli adulti e ai giovani adulti che desiderano acquisire più chiarezza su loro stessi, essere autonomi e meglio equipaggiati per affrontare le difficoltà quotidiane. Si rivolge anche alle persone che sono alla ricerca di una maggiore qualità di vita e più armonia nelle relazioni personali o professionali.

PRH vede lo sviluppo di ogni persona e la sua competenza relazionale come un potente motore per un apporto più costruttivo alla società. Tutta l’offerta di formazione è il risultato di una ricerca continua sulla crescita delle persone, delle coppie e dei gruppi. PRH è presente in 40 paesi da più di 50 anni. Vedi sito: https://www.prh.it/  La presidente di PRH Italia Maria De Giuseppe

I principi di PHR sono:  - apertura alla trascendenza,  - controllo delle emozioni,  - metodo del discernimento (come effettuare una scelta, sulla base di quali elementi   -  analisi e discernimento), . partecipare alla sinfonia del mondo (Interrelazione). 

Esempi di laboratori organizzati dalla PHR:

  • Come decodificare i propri vissuti.   Come hai vissuto l'esperienza di contatto con il tuo vissuto e con quello degli altri?  Che cosa ho provato partecipando a un evento, ecc   
  • Scoprire le proprie ricchezze personali.   Incontro con se stesso, chi sono io?  Quali qualità ho?  (Esempi: Altruista, onesto, perseverante, tollerante, responsabile, comunicativo, coerente, autentico, autonomo, libertà interiore, vivace, deciso, ecc. )  Da quali elementi è costituita La miniera delle mie ricchezze personali (Esempi: essere capace di aprirsi all'altro in modo positivo, di aprirsi al confronto e alla diversità, ecc. )   
  • Saper decidere è una carta vincente.   Importante è applicare il Metodo del discernimento, imparo a prendere consapevolezza, in un dato momento, sulla base di quali elementi decido , ( ad esempio i miei valori, le convenzioni sociali, il senso del dovere, il senso di responsabilità, ecc...)    Con l'obiettivo di mettersi all'ascolto, analizzarsi, scoprire chi sono, coerente con me stesso, consapevole della mia unicità, indipendenza. Per aiutare la persona a conoscersi, occorre percorrere quattro tappe: reperire la sensazione, nominare la sensazione, esplorare e descrivere la sensazione, evidenziare il nuovo che si prova, nella speranza di diventare più umano.

giovedì 16 gennaio 2025

Cosa è lo yoga?

Cosa è lo Yoga?   Per Satyananda, lo Yoga è l'unione tra coscienza individuale e coscienza universale, è un percorso per eliminare la separazione che crea sofferenza. Per Iyengar, il praticare Yoga è il disciplinare l'intelletto, la mente, l'emozione, la volontà, per trovare la pace interiore.         


Durante la pratica yoga, lavorando sul corpo, sulla mente, sull'anima si cerca di trovare un equilibrio. Il percorso Yoga è un lavoro su se stessi e per se stessi, un lavoro per cercare di essere in armonia con se stessi, con l'ambiente che ci circonda e con il Tutto.

La pratica yoga è la palestra per distruggere il proprio ego.  Di solito ci si identifica con il corpo, con i risultati raggiunti ecc...  Ci si definisce per differenziarci; ciò crea separazione, e ci fa sentire non completi. Vogliamo essere separati, unici, invece il benessere deriva dalla interdipendenza.

Il vuoto che cerchiamo di riempire quotidianamente è creato dall'essere disconnessi dalla natura,
intesa come l'energia globale dell'universo.

Lo yoga rende più sensibili, più empatici,  aiuta a comprendere che non siamo solo un corpo e una mente,  ma  abbiamo anche un'anima,  che non rappresenta una goccia nell'oceano ma è tutto l'oceano.
Lo yoga ci porta a non odiare, a non competere, a non discriminare.

Le religioni e le filosofie in Asia

L'India dette vita a molte religioni e filosofie che ebbero una profonda influenza in Asia.
La civiltà della valle dell'Indo che data 2600 -1900 a.C. è rappresentata da statuette di divinità femminili, animali che sono stati trovate durante le ricerche in questa vallata.  Il primo testo sacro è chiamato Veda (1500-800 a.C.), un complesso di testi sacri che parlano di divinità, da cui prende nome la più antica religione delle popolazioni arie dell’India (vedismo), da cui successivamente si svilupperà l’induismo. Il buddhismo si basa sulle idee di Siddharta Gautama (anche chiamato Shakyamuni), un principe che visse nell'est dell'India durante il 6 - 5 secolo a.C.  e riverito come il Buddha (l'illuminato). Induismo e buddhismo condividono la credenza nella reincarnazione, e il superamento del mondo materiale. Certe pratiche come la meditazione sono comuni. A partire dall'ottavo secolo il buddhismo e l'induismo furono praticati in molte parti del Sud Est asiatico.        

Buddhismo e Jainismo si svilupparono nel 5 secolo a. C.. Tutti gli aspetti della vita quotidiana dei membri della Sangha (comunità) sono regolati da codici monastici chiamati Vinaya. Ogni giorno i monaci e le monache fanno dei giri vicino al loro monastero per dare alle persone l'opportunità di ottenere del merito mettendo del cibo nella loro ciotola da mendicante.

Il Buddha è spesso rappresentato nell'arte come un monaco con una tunica con gli occhi semi-aperti in meditazione. Nei templi i devoti fanno offerte e si prostrano davanti alle immagini del Buddha. Queste offerte sono messe su un altare ornato con statuette di deva, arahat e bodhisattva. Il Buddha in stato di nirvana, è li, presente  per i suoi devoti. 

I governanti nel periodo di Angkor mantenevano la loro posizione al vertice dell'ordine sociale e religioso attraverso sontuosi e pubblichi doni. Molti degli antichi monumenti come i templi di Angkor  e Champa furono donazioni fatte dai sovrani.
La generosità e il fare dei doni (dana in sanscrito e pali) sono pratiche essenziali nella cultura Khmer.  Nel buddhismo fare doni è una delle perfezioni (paramita) - qualità che occorre coltivare se teniamo all'illuminazione. ll donatore guadagna meriti spirituali che avranno un frutto nella sua futura vita, portandolo  più vicino al nirvana (illuminazione). Il merito è anche dedicato "al beneficio di tutti gli esseri viventi". Idee simili del "puro" dono possono essere trovate anche nella filosofia Jainista e Hindù.

Il Jainismo è stato continuamente praticato in India sin dal 6 secolo a.C. Viene alla luce come reazione al Brahmanismo e il sistema delle caste, e da una differenza sul rituale del sacrificio degli animali. Lo scopo di ogni jainista è di sfuggire all'eterno ciclo delle rinascite. Raggiungono l'illuminazione attraverso severe austerità, praticando, acquisendo conoscenza e non ferendo gli esseri viventi. Il jainista riverisce 24 divinità (janas) di cui l'ultimo è Mahavira.  Il janismo si basa sul suo insegnamento. Jina significa liberatore e conquistatore, Jana sono quelli che hanno raggiunto lo stato di benedizione e trascendenza. Sono stati liberati dal ciclo delle rinascite e aiutano le creature a liberare le loro anime dai confini del corpo. Jana sono anche chiamati coloro che attraversano il fiume riferendosi al fiume che separa il mondo naturale e l'oblio.  Oggi ci sono due principali scuole: la scuola monastica di Svetambara (vesti bianche) dove i praticanti portano delle tuniche bianche e  quelli di Digambara (rivestiti del cielo) che vanno nudi.

Buddhismo e Jainismo condividono una idea simile di resistenza ai desideri e di ristrettezza. La storia del Buddha e quella di alcuni Jana sono simili e i primi monumenti jainisti furono degli stupa (senza reliquie). Molti monumenti jainisti dopo il 5 secolo sono posizionati in famosi templi hindù mostrando l'importanza del jainismo alle varie comunità. 

Lo stato del Gandhara fiorì dal primo secolo a circa il 450 d.C., quando fu conquistato dagli Unni, un popolo nomade che viveva nell'Asia centrale. Lo stato del Gandhara si trovava nell'attuale Pakistan e nel nord-est dell'Afganisthan, ed è stato un punto di contatto tra la Cina e l'Asia del sud est, e il mediterraneo. Il Gandhara fu  influenzato dai Greci, e dalla cultura indiana. Molte delle prime rappresentazioni di Buddha furono riprodotte nel Gandhara, sotto la forte influenza dell'arte greca e romana del mediterraneo.  Figure del Buddha apparirono intorno al 1 secolo in Mathura, un'area a sud di Delhi che faceva parte dell'impero  Kushan. L'arte di Mathura riprende molto delle tradizioni indiane. I bodhisattva assomigliano molto al Buddha e sono simili a forme di Shiva. Maitreya e Avalokiteshvara furono riprodotte sia nel Gandhara, sia a Mathura.
Il Buddha nella forma umana appare per la prima volta nell'arte dell'impero Kushan (dal 1 al 3 secolo). Il buddhismo Mahayana riprendeva le qualità umane del Buddha. Divenne popolare perché enfatizzava la salvezza di tutti gli esseri viventi, e non soltanto dei monaci. Questo tipo di buddhismo attirò la classe dei mercanti che supportarono la costruzione dei più grandi templi e monasteri. Gli esseri divini chiamati bodhisattva divennero molto importanti. Sono esseri compassionevoli che hanno raggiuto l'illuminazione ma rimangono nel mondo fisico per aiutare gli altri.

Sri Lanka fu una tappa del traffico marittimo tra il centro e l'Asia dell'Est ed ha una ricca storia culturale. Il Buddhismo arrivò a Sri Lanka dall'India nel 3 secolo b.C. ed è rimasta la religione dominante. Furono eretti molti stupa che  ancora oggi sono usati. Molti monasteri furono costruiti  e ci fu un contatto diretto con i centri buddhisti dell'India. Questi contatti influenzarono lo stile delle arti di Sri Lanka. Il buddhismo Theravada fu la filosofia più praticata, ma le immagini del buddhismo Mahayana suggeriscono che ci furono contatti anche con il nord dell'India dove questa forma di buddhismo era molto popolare. Come in India, molti elementi delle religioni animiste furono assimilati nel pantheon buddhista: come ad esempio serpenti (naga) e spiriti della natura ( yaksha e yokshi) ad esempio. Malgrado l'influenza indiana, uno stile distintivo dell'arte di Sri Lanka prese piede, che a sua volta influenzò le arti buddhiste nel sud-est asiatico. Dopo che  la religione buddhista perse importanza in India, i devoti viaggiavano verso Sri Lanka per imparare le più ortodosse forme di buddhismo. I più antichi testi sopravvissuti del buddhismo Theravada furono scritti in Sri Lanka, aumentandone così l'importanza come centro di insegnamento buddhista. 

A partire dal 7 secolo d.C. il buddhismo e l'induismo cominciarono a adattarsi alle culture e ambienti del sud est asiatico. Stilisticamente le immagini e le sculture cominciarono ad adattarsi alle caratteristiche locali.  Tutti i re venivano associati a Vishnù, molti personaggi si identificarono come avatar di questa divinità indù. I concetti buddhisti - come l'accumulare meriti - furono ereditati dalla classe dirigente che divenne donatore nella costruzione di templi e stupa.  Le culture asiatiche di quel periodo furono Dvaravati nella fertile piana della Thailandia centrale,  Chenla in Cambogia, precursori della civiltà di Angkor,  Pyu e Mon nella Birmania (Myanmar) Srivijaya in Sumatra,  Sallandra a Java che creò Borobudur, uno dei templi buddhsiti più grandi del mondo.

Tibet. L'arte tibetana prende ispirazione dai maestosi picchi dell'Himalaya. La religione e l'arte sono collegabili all'India e al Nepal. Il buddhismo arrivò nel 7. secolo d.C., e nel 10 secolo fu totalmente stabilito. Padmasambhava, un maestro indiano, portò il buddhismo tantrico in Tibet. Un'altra importante religione è il Bon che segue molti dei principi buddhisti, e incorpora anche credenze animiste. L'Induismo invece non divenne mai popolare in Tibet. Gli oggetti rituali tibetani sono molto importanti per i praticanti durante i rituali tantrici. Il tantra è un misterioso codice di rituali e pratiche regolate da magiche parole e matematici diagrammi, questi rituali sono usati per accedere al soprannaturale. I praticanti tantrici meditano sull'energia che circola nell'universo, e nel loro stesso corpo, per raggiungere i loro obiettivi. Il corpo è visto come un microcosmo dell'universo e l'energia sessuale umana è identificata con l'energia creativa. Tantra è la dottrina e il rituale della mano sinistra, il lato sinistro dell'essere associato al femminile. Il principio femminile Shakti è la forza dominante nell'universo e permette alle divinità maschili di agire. Questo sembra associato a un ri-emergere degli antichi culti della dea madre, ed è presente in numerose immagini delle dee. Il pensiero tantrico depredò l'induismo, il buddhismo, e il jainismo, e queste religioni adottarono elementi tantrici in modi diversi. Complicate immagini tantriche apparvero nelle pitture e sculture per illustrare questi concetti esoterici.

Quando vediamo le immagini del Buddha dietro delle vetrine o su una base in un museo, noi colleghiamo loro a delle opere d'arte. Ma in altri luoghi, templi, monasteri, altari famigliari o shrine, sono venerate per differenti ragioni. Nel tempio sono presenti l'odore di sandalo,  l'incenso, i fiori con colori rosa e viola su un altare basso, i praticanti si inginocchiano tre volte davanti al Buddha e toccano la testa sul suolo per tre volte. La statua é una persona storica?  un ritratto del principe Siddharta? o un idolo vivente, al quale puoi chiedere protezione dai demoni? E' un aiuto devozionale per aiutare a portare alla mente le quattro nobili verità e l'ottuplice sentiero? 

Le prime scritture buddhista (sutra) non parlano di immagini. Ma molte delle prime immagini del Buddha in India (1 secolo  d.C.) hanno delle iscrizioni con desiderio di merito per i famigliari dei donatori e per il benessere e la felicità di tutti gli esseri. Testi posteriori dal Sud Est dell'Asia incoraggiano i buddisti a fare, riparare, adorare le statue del Buddha per acquisire meriti.

Nepal. Le montagne sono considerate sacre in molte religioni e soprattutto in Nepal che è circondato dall'Himalaya. I credenti nepalesi considerano le montagne la sede degli dei. Il commercio con il Tibet e l'India contribuirono a una ricca tradizione artistica. Il centro culturale e artistico del Nepal è la vallata di Katmandhu, con tre centri Katmandhu, Patan e Bhaktopur. Gli artisti ebbero il sostegno dei sovrani per secoli e il Nepal ebbe una lunga e stabile dinastia. Quando i Lichchhavis (330 - 880 d.C.) arrivarono dal Bihar (nel nord dell'India),  buddhismo e Induismo erano già presenti. Il gruppo etnico chiamato i Newars, di cui si ritrovano le loro tracce in Shakyamuni, aderiri sia al Buddhismo sia all'induismo. 

Il sistema religioso induista in Nepal ruota intorno a Shiva e Vishnu. Shiva è rappresentato spesso in forma di linga. un culto indipendente si sviluppò intorno a Garuda.  Il buddhismo fu introdotto in Nepal dal nord dell'India durante il regno del re Asoka ( terzo secolo a. C.)  e raggiunse il suo culmine durante il periodo che è stato chiamato il Transitional Period (880-1200) ma poco documentato. Questo periodo coincide in parte con la dinastia Pala in India. Nell'arte di Pala viene rappresentato il buddhismo tantrico costituito da elaborati rituali, esoterici e exoterici, che coinvolgono molte divinità, anche femminili. L'arte di Pala è stata influenzata dall'arte del Nepal e viceversa. 

Devozione. Durante l'anno, i devoti che desiderano prendere darsana, da dei e dee Hindù devono visitare le loro immagini in pietra nei templi. O durante i vari festival i devoti possono incontrare le varie divinità. Nel festival Chitirai a Madurai nel Tamil Nadu, l'immagine di bronzo della dea Minakshi, vestita con seta, gioielli e fiori viene portata in processione su un carro nelle strade, da centinaia di fedeli, per andare al matrimonio con il dio Shiva. I devoti seguono la processione cantando inni e suonando tamburi.

La bhakti è una pratica religiosa nell'induismo dove il praticante cerca un diretto contatto con il dio prescelto; di solito Shiva o Vishnù, o la dea Shakti. Nel 7 e 8 secolo i santi-poeti Sambandar, Appar e Sundarar (chiamati muvar, i tre)  viaggiavano da città in città nella regione del Tamil, scrivendo e cantando preghiere a Shiva nei posti dove risiedevano. Questi inni nel linguaggio del Tamil sono cantati ancora oggi, e permettono all'ascoltatore di sperimentare l'amore per Dio.
A partire dall'11 secolo, numerosi templi in pietra furono costruiti nel Tamil Nadu. I più famosi dalla dinastia Chala. Brihadishvara tempio in Thanjavur, costruito da Rajaraja (regnò tra il 985 e 1014) è un esempio. Nuove forme di devozione nei templi chiamate puja si svilupparono a fianco delle pratiche bhakti. La presenza di un dio o di una dea risiede in una immagine scolpita dopo l'esecuzione dei rituali di consacrazione.

Il primo testo sanscrito a concepire l'ultima realtà come femminile è il Devi Mahatmya del 6 secolo d.C.    Devoti di Durga recitano inni tratti da questo testo. In questi inni l'energia femminile/dea è chiamata "Goddess" e è esaltata come Shakti (energia divina), Prakriti (natura terrena) e Maya (la creazione di illusioni). E' chiamata anche Lakshmi, Parvati, Kali e molti altri nomi.  

I Tantra, sono delle liturgie e pratiche che implicano una iniziazione segreta da parte di un guru, e erano diffuse tra gli Hindù, Buddhisti e Jainisti a partire dal 10 secolo. I praticanti eseguivano riti sacrificali per persuadere le divinità femminili chiamate yogini e dakini ( termine usato nel tantra), a dare loro dei poteri chiamati (siddhi).

Durga Puja
è un importante festival del raccolto in Bangladesh e nel nord est dell'India, per celebrare la vittoria della dea Durga sul demonio bufalo Mahisha. I preti risvegliano la dea e la invitano a risiedere nelle immagini policrome fatte di argilla e paglia. Queste sculture viaggiano tra pubblici santuari (pandals) attraverso la città. La folla va da santuario a santuario nella notte per essere vista da Durga. Il decimo giorno le donne augurano addio alla dea come se fosse la loro propria figlia con betel e dolcetti. Le immagini di argilla ora gusci vuoti sono poi immersi nel fiume e lasciati alla corrente.

Personaggi, Divinità e filosofi.   Buddha è spesso rappresentato con Ananda che è il cugino di Shakyamuni e il suo più giovane discepolo, e con il più vecchi monaco Kashyapa.  Ananda fu un campione di diritti femminili e creò l'ordine delle monache.  Vaishravana è il dio dei ricchi, e viene identificato dalla mangusta tenuta con la sua mano destra. E fa emettere dalla bocca della mangusta dei gioielli. La rotonda figura siede su un mitico leone delle nevi. Egli fu adattato dal dio indù Kubera e diventò parte del pantheon buddhista.
Qianshoujing (sutra delle mille mani) è una delle scritture più recitate dai buddhisti cinesi, Si crede che abbia un grande potere e la possibilità di curare le 84.000 malattie. Questo sutra può essere recitato da chiunque senza la guida di un maestro spirituale. Il bodhisattva Avalokiteshvara è rappresentato con le 34 braccia che tengono simboli buddhisti.
Sudhana fu un giovane pellegrino (secondo i testi buddhisti) che viaggiò attraverso il sud e sud-est dell'Asia per studiare con 52 maestri, includendo molti bodhisattva, per cercare di arrivare ad una profonda conoscenza spirituale e divenne un illuminato. In Cina è spesso mostrato come un attendente di Guanyn.  Ramanuja è il filosofo collegato al culto Vaishnava (soprattutto nel sud dell'India) che adora la dea Lakshmi e il dio Vishnù come un inseparabile essere. Nell'induismo si crede che la dea avesse un'importanza particolare perché agiva da mediatrice tra Vishnù e l'umanità.

Arte.   I motivi dei primi testi religiosi (i Veda) sono comuni nell'arte buddhista e induista, per esempio nel re e nella regina serpente (chiamati Naga e Nagini rispettivamente) e gli spiriti della natura. Condividono anche altri elementi quali ad esempio la divinità alata Garuda che è associata con Vishnù nell'induismo mentre nel buddhismo è una divinità di buon auspicio. L'idea di un dio come asse dell'universo data al tempo dei Veda  è  espressa nel linga di Shiva, e la rappresentazione del Buddha come un pilastro del Buddha. L'idea di una semplice vita di astinenza è espressa nella divinità induista Shiva e nel bodhisattva buddhista Avalokiteshvara.     

Una tipica forma artistica buddhista  è lo chorten, che è una forma tibetana dello stupa indiano. la costruzione e il simbolismo degli chorten in Tibet fu standardizzato nel 14 secolo dai leader buddhisti, come Buston Rinchen Grub (1290-1364) l'undicesimo abate del monastero Shalu.
Prima che il Buddha fosse rappresentato sotto forme umane (intorno al 1 secolo d.C.) i buddhisti veneravano lo stupa, un tumulo funerario che incorporava reliquie (denti, ossa, ecc. ) raccolte dopo che il corpo del Buddha fu cremato. Uno stupa è anche l'immagine del Buddha. Emblemi come lo stupa, l'albero della bodhi, la ruota del dharma sostituivano visualmente il corpo del Buddha. Gli stupa dovevano conformarsi a principi iconometrici.

Invece, una tipica forma artistica  induista è il linga. Linga è una parola sanscrita che significa segno o marca, ed è usato come nome delle immagini simboliche del dio Shiva. Il linga posa su una base, chiamata yoni che simbolizza la femminilità.
Alcuni linga contengono riferimenti alle tre principali divinità: la base quadrata rappresenta Brahma, la sezione ottagonale intermedia rappresenta Vishnù, e la parte in alto rotonda rappresenta Shiva, e a volte il suo viso  è inciso su un lato.

Lo stupa è il principale monumento buddhista. la sua forma originale proviene dai tumuli delle tombe e il suo originale scopo era di contenere reliquie associate al Buddha o a monaci importanti. Prima i templi furono costruiti per ospitare immagini del Buddha. Lo stupa era il centro spirituale della comunità buddhista. I rilievi sullo stupa sono un aiuto ai devoti per contemplare il Buddha e il sentiero per l'illuminazione.  Lo stupa prenderà differenti forme quando il buddhismo si propagherà nei diversi Paesi. Possono esser semplici cupole, circondati da piattaforme, o persino piramidi. Le pagode della Cina e del Giappone sono un'estensione del concetto di stupa. Piccoli reliquari furono spesso fatti in forma di stupa. Le prime forme dell'arte buddhista usavano simboli per rappresentare il Buddha, piuttosto che un'immagine del suo corpo o del suo viso. Queste immagini includono la ruota che rappresenta i suoi insegnamenti, e l'albero della bodhi, sotto il quale il Buddha raggiunse l'illuminazione. Questa arte è chiamata rappresentazione aniconica perché non ci sono immagini umane. Dal 2 secolo apparirono le immagini del corpo del Buddha, benché continuarono ad essere usati anche i simboli.

Nel quarto secolo sia l'induismo, sia il buddhismo si diffusero nel sud-est asiatico. I monaci buddhisti e i brahmini trovarono supporto dai locali regnanti. Nei primi racconti si narra che un bramino indiano sposo una regina, o un naga. I re di Angkor nacquero da questa unione e rivendicarono lo statuto di semi divinità. Entrambe le religioni incorporarono le credenze animistiche locali. In Cambogia e Vietnam le locali divinità furono identificate con Shiva e Vishnù. In Laos una montagna fu venerata come un lingam, la rappresentazione fallica del potere di Shiva.  Le prime immagini induiste e buddhiste nel sud est asiatico del 5 e 6 secolo, mostrano una profonda influenza nell'arte dell'impero Gupta dell'India. Più tardi le immagini si fondono con le locali caratteristiche e dal 7 secolo circa emerge un distinto stile dell'Asia del Sud est. 

Il buddhismo arrivò in Cina attraverso l'Asia centrale e l'India nel periodo della dinastia Han (206 b.C. - 220 d.C.).   Inizialmente venne vista come una religione che non aveva punti di contatto con il Confucianesimo e la filosofia Taoista. Durante il regno delle sei dinastie (220-589 d.C.) il buddhismo Mahayana fu maggiormente accettato. Il culto del Buddha Amitaba, del bodhisattva Avalokiteshvara  (Guanin) e di Maitreya, il Buddha del futuro iniziò intorno al quarto secolo d.C.  
Lo sviluppo del buddhismo fu agevolato dalla traduzione di testi sacri indiani in cinese. La traduzione del Sutra del Loto fornì molti temi per l'arte buddhista in Cina. A partire dal terzo secolo furono prodotte anche sculture buddhiste. Ciò mostrava un dialogo tra l'arte del Gandhara e la Cina in uno stile che si ritrovava nella gioielleria e nei tessuti.

Il buddhismo cinese crebbe in seguito ai contatti con le pratiche e le credenze indiane. Questi sistemi di credenze si legarono con il confucianesimo e il taoismo, diventando noti come i "tre armoniosi insegnamenti in uno".
Il buddhismo cinese, allo storico Buddha, aggiunse numerosi Buddha celestiali, come molti bodhisattva, insegnanti e protettori. Due dei più importanti bodhisattva sono Guanyn (Avalokitedhvara in India) che incorpora la compassione e Wenshu (Manjushri), la personificazione della saggezza spirituale profonda. A partire dal 10 secolo, ad entrambi fu attribuito il potere di manifestarsi in una serie di forme. Per esempio Guanyin a volte prendeva la forma di una donna.  
Il bodhisattva Manjushri è conosciuto per la sua saggezza. Egli osserva ogni cosa che accade nel mondo, e guida e insegna agli altri. Si racconta che Manjushri fu il maestro di sette Buddha, incluso Sakyamuni. Egli possiede una così vasta conoscenza che non ha limiti. E' conosciuto come "Uno con Grande Conoscenza" tra i bodhisattva. Fu l'assistente del Buddha Sakyamuni e gli fu dato l'onorabile titolo di Principe del Dharma Manjushri. Usava il suo proprio metodo nell'insegnare ogni volta che era possibile, non limitandosi ai tradizionali metodi di insegnamento buddhisti. Enfatizza la suprema Verità e contribuisce al risveglio di tutti gli esseri senzienti.

Il bodhisattva Samantabhadra simbolizza azione e devozione nel buddhismo Mahayana, E' capace di portare avanti le azioni necessarie per adempiere un voto. Nelle sue molte vite precedenti praticava samskara per guadagnare saggezza e adempiva ai voti per far apparire Budhashetra. Quindi è un modello per i praticanti che sono sul cammino spirituale. Forma una coppia con Manjushri, Samantabhadra è incaricato del samadhi e Manjushri si prende in carico la Prajna (saggezza e conoscenza), si completano reciprocamente e sono essenziali nella pratica del "Percorso verso la Verità". In Cina è considerato uno dei quattro più importanti bohisattva. Durante la dinastia Jin, si dice che apparve sulla montagna Emei, così la montagna divenne un importante luogo sacro per i buddhisti.

Durante la dinastia Ming, il buddhismo Chan (Zen) e il buddhismo della Terra Pura divennero entrambi popolari. Chan si basava sulla meditazione e sulla consapevolezza. Dopo l'8 secolo le pratiche indiane e himalayane furono adottate in Cina. Queste pratiche includono la devozione al Buddha Vairocana, manifestazioni tantriche di bodhisattva e l'uso di mandala e altri diagrammi cosmici. Si credeva che molte di queste pratiche proteggessero la nazione e permettessero di ottenere tangibili benefici come salute e ricchezza ai governanti.  Dopo il 12 secolo, quando il buddhismo scomparve in India, la Cina , Sri Lanka e altri paesi buddhisti divennero un punto importante per lo sviluppo delle pratiche e delle immagini.

Guanyin è il nome cinese del bodhisattva conosciuto in India come Avalokiteshvara. Guanyin significa l'osservatore del suono - riferendosi alle preghiere e invocazioni degli umani. Il culto di Guanyin crebbe in popolarità con l'accettazione in Cina del Sutra del loto. Un'importante scrittura parlava del bodhisattva come la personificazione della compassione, che porta gli esseri alla salvezza ed è la personificazione della protezione. Avalokiteshvara è percepito come maschio o senza genere, mentre Guanyin appare sia maschio, sia femmina nel pensiero e nell'arte cinese. Questo indica la trascendenza del bodhisattva oltre il genere. Il culto della manifestazione femminile può portare la benedizione ai bambini.  

Il Buddha rinunciò ad ogni forma di possesso. ma poi perché si incominciarono a vedere immagini del Buddha con gioielli in India, Cina e sud est asiatico?
Incominciò con l'arte indiana , quando il Buddha fu associato al concetto di supremo regnante (cakravartin in sanscrito). La rappresentazione può anche riferirsi alla ua giovinezza quando era il principe Siddharta. O può essere collegato al suo beato stato di illuminazione. O anche alla sua prossima incarnazione come Maitreya, aspettando nel cielo Tavatimsa. Nelle più recenti rappresentazioni il Buddha è rappresentato con ornamenti reali come l'ombrello. I Buddha ingioiellati appaiono in Afganistan e Pakistan intorno al 5 e 6 secolo. In kashimir intorno all'8 secolo e in Bihar dal 9 secolo.  Più tardi l'immagine diventa popolare in Cina durante la dinastia Ming e nel sud est asiatico, come nel Myanmar, Cambogia e Thailandia. L'immagine prese significati diversi legati a queste diverse culture.
Buddha come simbolo e non come uomo.  Questo concetto mostra anche l'influenza delle vecchie bramaniche idee di una divinità. Il corpo del Buddha non può essere visto come un ritratto di un umano, ma piuttosto come un mezzo di incapsulare le idee religiose.  E' un'immagine del mondo divino, che mostra lo stato di arricchimento spirituale di un vivente.

La dinastia Pala (8-12 secolo) regnò sul nord dell'India e in Bangladesh. La regione contiene molti siti sacri collegati agli eventi della vita del Buddha. Qui si svilupparono monasteri come Nalanda e Kurkihar, che divennero anche centri culturali e artistici, Questi posti attiravano pellegrini da tutta l'Asia e divenne il punto di incontro del Buddhismo, dopo che la maggior parte dell'India era diventata Hindù. Attraverso questi pellegrinaggi lo stile di Pala influenzò l'arte in tutto il sud est asiatico, l'Himalaya e la Cina. Le immagini in metallo trasportabili facilmente e prodotte dagli artisti di Pala contribuirono alla diffusione di questo stile.
L'induismo ha prosperato a fianco del buddhismo. La filosofia e la pratica di entrambe le religioni cominciò a fondersi a partire dall'8 secolo, specialmente nel culto tantrico. Tantra sono gli antichi testi che descrivono rituali attraverso i quali il praticante può velocizzare l'illuminazione e sfuggire al ciclo delle rinascite in poche vite. Con lo sviluppo del buddhismo tantrico (chiamato anche esoterico o Vajrayana), nuove divinità cominciarono ad apparire. L'idea tantrica che l'energia femminile (shakti) è la più potente forza nell'universo cominciò a diventare popolare nell'induismo e nel buddhismo. L'energia femminile mobilita l'energia maschile e la trasforma in azione. Antiche idee della dea madre ritornarono alla superfice ed emerse un gruppo di divinità femminili. Nella regione Chamunda, Manasa e Durga erano le divinità più popolari.

Nel 15 secolo il buddhismo Theravada fu la religione più popolare delle principali luoghi del sud est asiatico. Sia Sukhotai e Ayutthaya in Thailandia, e Hanthawaddy in Bago, nel Myanmar, mandarono e ricevettero missioni da Sri Lanka (il cuore del buddhismo Theravada) durante i secoli per riformare il proprio sangha (comunità di monaci).  
Con la caduta di Angkor a Ayutthaya nel 143, l'induismo dei Khmers fu soppiantato dalla dottrina Therevada. In Vietnam, Champa fu conquistata dalla monarchia Dai Viet nel 15 secolo e l'induismo scomparve sostituito dal buddhismo Mahayana.  Oggi la Thailandia, il Myanmar, la Cambogia e il Laos seguono il buddhismo Theravada, Tracce di pratiche induiste sopravvivono, soprattutto nei rituali reali e nell'ideologia, come in astronomia e la lettura del destino.  Nelle isole del sud est asiatico, l'Islam arrivò con il commercio marino degli arabi, nel 16 secolo. Il Mahjapahit, regno di Java, cadde nelle mani dei sultanati mussulmani. Oggi in Indonesia solo a Bali predomina l'induismo.

Sikkismo.  Fu fondato da Guru Nanak (1469-1539) nel Punjab, una regione dell'India alla  fine del 15 secolo. I principi su cui si basa questa religione sono:  una vita onesta, condividere i nostri averi con i meno fortunati, e ricordare il creatore. Non c'è posto per rituali, adorazione di idoli, pratiche ascetiche, o sistemi di caste. Il modo di vita dei Sikh è guidato dalle loro sacre scritture, che sono basate sull'insegnamento dei dieci guru.  La scrittura sacra è chiamata Guru Granth Sahib. Il decimo guru, Guru Gobind Singh, dichiarò che dopo di lui, non ci sarebbe stato nessun altro guru vivente. Così i sikh cercano la guida nelle loro sacre scritture e vedono il libro come loro guru eterno.  Inizialmente i sikh vivevano nel Punjab e le regioni adiacenti che ora fanno parte del Pakistan. Alla metà del 19 secolo i sikh iniziarono a migrare fuori dell'India e ora vivono in diverse parti del mondo. Oggi ci sono circa 12000 sikh a Singapore e 7 templi. Sono integrati alla grande comunità indiana e alla multi-culturale società di Singapore, mantenendo la loro cultura, religione e tradizione.  

Il cristianesimo si diffuse in India nel 7 secolo d.C. soprattutto nel Kerala,  probabilmente attraverso viaggiatori che venivano dal golfo persico, si definivano Cristiani di San Tommaso, uno dei 12 discepoli di Cristo che viaggiò in India nel 1 secolo d.C.
Dopo Goa, l'India fu governata dai portoghesi nel 1510, e ci furono molte conversioni e molte chiese furono costruite. La città fu chiamata la Roma dell'Est, artisti di molte fedi produssero immagini cristiane.
L'imperatore mongolo Akbar (regnò tra il 1556-1605) e suo figlio Jahange (1605-27) stabili contatti con i gesuiti e i cattolici, e molti furono invitati ai dibattiti presso la sua corte. 

Il cristianesimo fu portato nell'Asia centrale e in Cina  attraverso il commercio all'inizio del 7 secolo. Nel 16 secolo i portoghesi e subito dopo gli spagnoli portarono missionari cattolici con loro durante i viaggi commerciali. Commercio e fede cattolica crearono una relazione simbiotica. Goa, Malacca, Manila, Macao, Nagasaki, e altri porti commerciali divennero delle basi per le missioni cristiane. Nel 17 secolo i tedeschi protestanti arrivarono in Batavia (Jakarta) e cominciarono la conversione nel sud est Asia.  La cristianità si sviluppò attraverso l'Asia e  anche al necessità di nuovi lavori artistici per decorare chiese, per raccontare storie cristiane. L'arte europea si combinò  con le tradizioni artistiche asiatiche. Il materiale e le tecniche asiatiche si combinarono con soggetti e immagini tradizionali europee. Ciò diede vita a meravigliose opere d'arte, oggetti che testimoniano storie di diversità e tolleranza.

La Spagna stabili una colonia nelle Filippine nel 1564. Come i portoghesi, avevano l'obiettivo di espandere il cattolicesimo e combinarono il lavoro missionario con il mercato e la conquista. La religione si diffuse rapidamente, ma idiosincratici elementi furono incorporati, incluse le locali divinità e l'uso di amuleti e di medium per gli spiriti. Alcune comunità indigene resistettero alla conversione, e l'ostilità spagnola verso l'islam portò a una serie di conflitti nel sud. Oggi le Filippine hanno la terza più larga popolazione cattolica nel mondo.   Le Filippine e Timor Est sono dei Paesi cattolici in modo schiacciante, e c'è una sostanziale crescita della popolazione cristiana a Singapore. Le comunità cristiane si stabilirono anche a Flores, nel Karen in Myanmar, Bataks in Sumatra, e i Minahassa nelle Sulawesi. Il missionario spagnolo Francis Xavier visitò l'isola Molucca nel 1546-47. Nel 17 secolo i protestanti tedeschi, situati in Batavia (Jakarta) cominciarono a cercare di convertire le persone nel Sud Est Asia.  Nel Vietnam missionari cattolici ottennero grandi successi. Quando la Francia arrivò nel sud del Vietnam giustificò l'intervento per proteggere i cattolici dalle persecuzioni.
La conversione a partire dal 1900, fu vista dalle amministrazioni coloniali europee come uno strumento per portare la modernità, e un maggior controllo - ai gruppi isolati dell'interno che avevano praticato per lungo tempo l'animismo e la venerazione degli antenati.
A Singapore la prima missione cristiana arrivò nel 1819, lo stesso anno l'inglese Stamford Raffles arrivò nell'isola. Nel 1836, la comunità armena aprì la prima chiesa cristiana, dedicata a san Gregorio. Protestanti e cattolici costruirono scuole, orfanotrofi, ripari per i poveri e spinsero per riforme sociali.   Le donne missionarie portarono avanti la battaglia per un miglioramento sociale e educativo per le donne. Attraverso l'Asia, l'educazione era una strategia cruciale per  la conversione. Immigranti e locali iscrivevano i loro figli in queste scuole per acquisire un'educazione che speravano potesse dare migliori opportunità sotto il governo coloniale inglese.

La prima presenza del cristianesimo in Cina data al 7 secolo, quando l'imperatore Tang ufficialmente riconobbe la Chiesa dell'Est. Questo spirito di tolleranza per la cristianità, fu spesso ravvivato, molti governanti mongoli sposarono donne cristiane durante la dinastia Yuan (1271-1368), gli imperatori Wanli offrirono patrocinio ai gesuiti intorno al 1600, e gli imperatori Kangxi emisero un editto di tolleranza nel 1692.   Il carismatico Matteo Ricci (1552-1610) e altri missionari gesuiti arrivarono in Cina alla fine del 16 secolo. Ricci fu il primo cattolico missionario a ricevere il patrocinio nella corte cinese. Si vestiva come uno studioso confuciano, e usava la sua vasta conoscenza in matematica e scienze per ottenere  favori dai governanti. Nonostante le proteste dei suoi superiori, incorporava il confucianesimo e i riti cinesi per gli antenati nelle sue preghiere. Porcellane e avori furono scolpite con soggetti cristiani per esportarli nell'Ovest attraverso i porti di Macao e Guangzhou. Sete cinesi furono usate per le vesti dei preti.  

I missionari gesuiti arrivarono in Giappone con i mercanti nel 1549. Intorno al 1600 i missionari cattolici ebbero un grande successo. Ma dispute sul commercio e lo sviluppo politico bloccarono questa diffusione. Nel 1597 iniziarono una serie di persecuzioni e proibizioni che portarono alla esecuzione di molti devoti cattolici (molti di loro giapponesi) , e proibì l'arrivo di stranieri nel Paese nel 1643.

Il divieto contro la cristianità durò circa 300 anni e molti cristiani continuarono a praticare e pregare  in segreto. Molti di loro "i cristiani nascosti" riapparvero nel 20 secolo per ricongiungersi con le fede cattolica. Ma altri continuarono a pregare in segreto e mantennero la loro fede nel loro proprio modo.  I gesuiti crearono una accademia per insegnare l'arte agli studenti giapponesi che volevano riprodurre immagini della cristianità per le chiese e per le necessità di un crescente numero di cristiani locali. Queste opere furono esportate anche in Europa. Prima delle persecuzioni, la cultura europea era in voga in Giappone e molti samurai portavano rosari e crocifissi e avevano decorazioni cristiane sulle spade e sugli abiti.

Il Giudaismo è centrato sulla credenza di un solo vero Dio, e ancorato nello studio delle scritture, la più importante delle quali è il Tanakh (la Bibbia degli ebrei). uno dei momenti chiave del Giudaismo avvenne intorno al 1300 a.C. quando l'israelita e profeta Mosè ricevette i dieci comandamenti da Dio sul monte Sinai. Questi comandamenti sono parte della Torah, la più antica e sacra parte delle Bibbia ebraica.  La sinagoga è il centro della vita della comunità ebraica, dove preghiere pubbliche sono recitate dai rabbini. La Torah è conservata nella parte più sacra della sinagoga, nel santuario (Ark) rivolto verso Gerusalemme. La comunità ebraica di Singapore data 1819, con la costituzione del porto commerciale inglese, quando Sephardi arrivò qui dall'India per costruire le case dei mercanti. La sinagoga Maghain Aboth  fu costruita nel 1878 ed è la più antica sinagoga esistente del Sud est Asia.

Templi induisti a Singapore.  Tempio Khansama  vedi: www.khansama.com.sg  khansama@pacific.net.sg   e il tempio  Mandapam.
Tempio buddhsita a Singapore: Il Buddha Tooth Relic Temple and Museum fu consacrato dal venerendo Shi Kwang Sheng, presidente della federazione buddhista, di Singapore nel 2008.
Il focus della devozione del tempio e del museo Hundred Dragons Hall è il Buddha Maitreya, il Buddha futuro. Siede con entrambe le gambe ed è supportato da un fiore di loto. Tiene un vaso prezioso con la sua sinistra e mostra la abhaya mudra con la destra che rappresenta l'insegnamento del Buddha. Ai suoi lati ci sono i bodhisattva Fayuanlin ( a sinistra) e Damiaoxiang ( a destra).

 Gesti del Buddha. Buddha siede serenamente con le mani in dhyana mudra (mano destra sopra la mano sinistra , il gesto della meditazione. Il gesto della mano  abhaya mudra - (il palmo della mano in alto) che significa senza paura, a volte vedi il Buddha con entrambe le mani in abhaya mudra.  Altro gesto importante è il dharmachakra mudra. il gesto significa " il girare della ruota della legge". Tutti gli insegnamenti del Buddha costituiscono la legge buddhista, e questo gesto mostra i suoi insegnamenti. Quando il Buddha tocca con la sua mano destra il suolo - bhumisparsha mudra - sta chiamando la terra come testimone della sua illuminazione alla fine della sua lunga meditazione. Il Buddha chiama la dea per aiutarlo a sconfiggere le armate di Mara, il demone che sta cercando di tentarlo e distrarlo. Questo è il mudra più diffuso per le immagini del Buddha in Thailandia.

mercoledì 15 gennaio 2025

I testi buddhisti

 I testi buddhisti si dividono essenzialmente in due gruppi:

-  i Kangyur    -  trasmissione delle parole del Buddha. Alla morte del Buddha, suo cugino e discepolo Ananda disse ai monaci, di trascrivere tutto quello che ricordavano dei suoi insegnamenti ( i tre canestri tradotto in tibetano).

- i Tengyur - i commentari, contiene gli insegnamenti sui tantra, e insegnamenti sulla folgore admantina.

Vedi: https://84000.co/kb-articles/facts-and-figures-about-the-kangyur-and-tengyur

Con la rivoluzione culturale cinese il patrimonio culturale tibetano e cinese fu devastato, e si salvarono pochissimi testi. Lo stesso avvenne quando si affermò il cristianesimo (i cristiani distrussero tutti i documenti romani e greci. Di questi resta solo il 5% della parte tradotta in arabo). 

Tucci nel corso delle sue 20 spedizioni in Himalaya, dal 1928 al 1948, portò centinaia di documenti in Italia. Nel deposito di Palazzo Brancaccio, c'era un Lama che faceva da curatore e traduttore di questi documenti. Il museo di Arte Orientale di Roma si arricchi della donazione fatta da Francesca Bonardi Tucci (l'ultima e la più giovane delle tre mogli avuto da Tucci).  Due dei testi più importanti di Tucci per decifrare l'arte del Tibet sono in inglese: Indo-tibetana e Tibetan painted scrolls.

 La saggezza trascendente (Prajnaparamita), l' identità tra mente creatrice e realtà,  i concetti di zero, vuoto, nulla, interdipendenza sono i concetti cardine del buddhismo.  Su questi argomenti sono stati scritti trattati di migliaia di pagine, il tutto può essere condensato in un trattato di una sola pagina: Il cuore della saggezza.    Questa saggezza viene trasmessa da maestro e discepolo,  e si diventa discepoli attraverso una cerimonia di iniziazione, spesso riservata a pochi individui. 

Solo il Dalai Lama conferisce un tipo di iniziazione chiamata Kala Chakra tantra, che non ha un numero limitato di iniziati.  L’iniziazione (potenziamento) di Kalachakra che significa “cicli del tempo” è un rituale buddhista offerto per promuovere la pace nel mondo e per preparare i praticanti alle meditazioni tantriche. A differenza di altri insegnamenti buddhisti avanzati, questa iniziazione è stata data tradizionalmente al grande pubblico e ha attirato il più vasto numero di spettatori, e ai giorni nostri non fa eccezione. Quando il Dalai Lama conferisce questa iniziazione in India, centinaia di migliaia di persone si riuniscono da tutto il mondo.  Le avanzate pratiche meditative del Kalachakra ci consentono di liberarci dalle grinfie del tempo. Diventiamo capaci di guidare il corso delle nostre vite nella direzione di aiutare gli altri, a prescindere da quello che sta accadendo nei nostri corpi o nel mondo attorno a noi. Quando grandi gruppi di persone di diverse provenienze si riuniscono insieme per imparare qualcosa sull’amore, la compassione e la saggezza, essi creano un tempo e un luogo di armonia. Sparsi lontano, atti del genere come riunirsi per un’iniziazione di Kalachakra sono modi meravigliosi per contribuire alla pace nel mondo.

I buddha del passato, del presente e del futuro sono rispettivamente: Divpankara, Sakhyamuni, Maytreya. Dīpaṃkara — "colui che regge la lampada" -- è un Buddha del passato, che ha ottenuto la Bodhi innumerevoli kalpa prima del Sakyamuni, o Gautama Buddha, e dopo aver vissuto sulla Terra per 100.000 anni.  Nelle rappresentazioni attuali è generalmente affiancato da due bodhisattva, Mañjuśrī e Vajrapāṇi (tipico a Giava) o Avalokiteśvara e Vajrapāṇi (tipico nello Sri Lanka); oppure insieme ai due Buddha a lui cronologicamente successivi, Gautama e Maitreya. 

Il tantra è una pratica mahayana avanzata per ottenere l’illuminazione. Viene praticata sulla base di solide fondamenta in tutte le pratiche sutra, così come sono indicate negli insegnamenti sul sentiero graduale del lam-rim (è la via praticata da tutti gli esseri che aspirano ad ottenere lo stato di Buddha.)  Il Tantra più elevato è lo Yoga insuperabile. Nel tantrismo indiano prevale la Shakti, la parte attiva femminile, nel tantrismo tibetano prevale la parte attiva maschile. Nel cammino spirituale c'è la necessità di due ali: il metodo (la divinità maschile) e  la saggezza (divinità femminile). L'atto sessuale rappresenta simbolicamente l'unione di queste due componenti. 

Vedi sito:  https://studybuddhism.com/it   

https://studybuddhism.com/it/buddhismo-tibetano/sul-buddhismo

La parola Yoga

Dal sito Centro Yoga SwamiVishnu -  https://www.cyswamivishnu.com/cos-e-lo-yoga

YOGASCHITTA VRITTI NIRODHAH
Lo Yoga è la cessazione delle modificazioni della mente

La parola Yoga deriva dalla radice sanscrita Yug, che vuol dire unione di corpo, mente e respiro. Quando, attraverso le tecniche dello Yoga e la pratica regolare, abhyasa, si comincia prendere consapevolezza di questa unione, gradualmente si comincia anche ad intuire la parte più sottile di noi, quella spirituale. Quando l’unione tra corpo, mente, respiro e componente spirituale si è consolidata, pian piano a umenta la consapevolezza del fatto che questa parte spirituale non è isolata, chiusa in noi, ma fa parte di una realtà ben più ampia, di respiro cosmico. L’unione del Divino presente in ognuno di noi con il Divino Cosmico è il fine ultimo dello Yoga.      
Un obiettivo così ambizioso si può raggiungere solo con una pratica costante e con disciplina e ritiro dei sensi. Gli antichi Saggi indiani, i rishi, ci hanno tramandato per millenni tutto un insieme di tecniche, fisiche, mentali e spirituali che gradualmente aiutano a migliorare il livello di salute fisica, di efficienza respiratoria, di energia generale e di consapevolezza di sé. Questo insieme di discipline fisiche, respiratorie, mentali e spirituali, che hanno come fine quello di ricondurre l’uomo alla sua origine divina, è quello che chiamiamo Yoga.

Nel corso dei millenni lo Yoga è stata una disciplina altamente esoterica, riservata ad un numero ristretto di adepti. Solo nella seconda metà dell’800 e nei primi del ‘900 alcuni grandi Maestri, come Swami Vivekananda, Ramana Maharshi, Yogananda Paramahansa e Swami Sivananda, hanno cominciato a rivelare ad un numero sempre crescente di persone interessate gli alti insegnamenti dello Yoga, soprattutto in Occidente. Inevitabilmente questa grande diffusione ha portato, in un secondo tempo, in parte ad una diluizione degli insegnamenti, in parte ad un’alterazione degli stessi, nella convinzione (non sempre in buona fede) che lo Yoga si potesse ‘modernizzare’ o ‘migliorare’. 

In realtà lo Yoga è un sistema talmente completo da mantenere la sua potenza filosofica e spirituale nel corso dei millenni proprio perché è rimasto inalterato, fedele ad un’ortodossia che non è puro conservatorismo, ma coscienza di essere una disciplina nata dall’esperienza diretta dei rishi del passato, una disciplina nata perfetta e quindi immodificabile.                                                              

lunedì 13 gennaio 2025

Le ragioni della tolleranza: Oltre i confini dell'indifferenza

 Articolo scritto dal mio amico ROBERTO FANTINI  su Flip News  (Free Lance International Press)  vedi:     https://www.flipnews.org/index.php/life-styles-2/technology-2/item/4221-le-ragioni-della-tolleranza-oltre-i-confini-dell-indifferenza.html

Dato che non penseremo mai nello stesso modo e vedremo la verità per frammenti e da diversi angoli di visuale, la regola della nostra condotta è la tolleranza reciproca.”  - Mahatma Gandhi


Le ragioni della tolleranza valgono ovunque: nei banchi di scuola, in ufficio, in fabbrica, allo stadio, nella cabina elettorale, nell’aula giudiziaria, nelle pubbliche manifestazioni. Perché sia abbattuta la barriera fra vizi privati e virtù pubbliche occorre che la tolleranza divenga un abito mentale. E’ essenziale cioè che essa divenga un valore per tutti, che il suo significato profondo venga appreso, acquisito dalla nostra coscienza e faccia parte di noi.” - Salvatore Parlagreco

La discordia è la piaga del genere umano, e la tolleranza ne è il solo rimedio.” - Voltaire                           
Capita spesso di veder confuse, in maniera alquanto discutibile e fuorviante, tolleranza ed indifferenza. Come se, l’unica possibilità per liberarci dalle innumerevoli forme di faziosità settaria, di diffidenza e rifiuto dell’altro, nonché di odio violento nei confronti di tutto ciò che appare diverso e nocivo, possa derivare dal rifiuto radicale del prendere posizione sulle cose che contano, barricandosi dentro gli angusti ma confortevoli confini della propria egoità.

Certo, nel caso non ci si interessasse affatto di religione, di politica o di calcio, ci apparirebbero del tutto prive di senso sia le varie possibili contrapposizioni e querelles di carattere teorico che potrebbero sorgere intorno a simili tematiche, sia le lotte di carattere pratico miranti a denigrare, discriminare, perseguitare le fazioni avverse, in vista di una tanto bramata conquista del primato.

La condizione dell’indifferenza, però, pur risultando indubbiamente preferibile a quella di chi esercita l’intolleranza fanatica e aggressiva, non è in grado di presentarsi come una strategia capace di proteggere l’umanità dalla piaga dell’intolleranza. E questo, innanzitutto, perché l’indifferenza  non potrà mai venire estesa a tutti gli ambiti, ma solamente a quelli che ciascuno di noi potrà ritenere (in maniera inevitabilmente opinabile) privi di significato e di rilevanza. Inoltre, avrà sempre un’ efficacia estremamente parziale e precaria: potrà soltanto provvisoriamente impedire ai suoi sostenitori e praticanti di gettarsi nella mischia, ma non certo che altri lo facciano.

Ma perché, dopo millenni di odio teologico, di persecuzioni etnico-razziali, di crociate, inquisizioni, anatemi, epurazioni, deportazioni e stermini di massa, nonostante i tanti appelli al dialogo, all’ascolto, al reciproco rispetto, ecc., ancora  tante e così granitiche difficoltà nel coltivare e praticare elementari forme di tolleranza?

Credo che, alla base di simili resistenze, sia possibile intravedere meccanismi di ordine psicologico ricorrenti in tutta la storia del genere umano. E, come ci insegna meglio di chiunque altro il Socrate platonico, la causa prima dell’intolleranza andrebbe sempre individuata nell’ignoranza, intesa come il non sapere di chi crede di sapere.

Questo perché il credere di sapere implica necessariamente la certezza di essere in possesso della Verità e, di conseguenza, la presunzione di sapere cosa sia necessario, cosa sia utile, cosa sia doveroso fare in vista del Bene (in ogni campo e ad ogni livello): chi rifiuta quella Verità, che io ritengo essere l’unica vera e che io “so” di possedere, verrà percepito come “nemico del Vero” e, come tale, anche “nemico del Bene” (il Bene può nascere, infatti, soltanto dal Vero).

Quindi, io, che so di avere la Verità e che so cosa si dovrebbe operare per il conseguimento del nostro Bene, come potrei non sentirmi moralmente obbligato a combattere chi, volontariamente o involontariamente, rifiutando il Vero, finisce inesorabilmente per ostacolare la realizzazione del nostro Bene?

E, nello stesso tempo, come potrei non sentirmi in dovere di cercare di impedire (al fine di difendere e di realizzare il Bene di tutti) il verificarsi di tutto quello che ritengo poter nuocere all’affermarsi del Vero e alla sua concretizzazione oggettivata, sia nella sfera individuale che in quella collettiva?

E come non sentirmi pienamente autorizzato e legittimato a ricorrere ad OGNI mezzo umanamente possibile per impedire o, almeno, semplicemente rallentare il trionfo del Bene?

Di fronte ad un fine tanto elevato (e tanto indiscutibilmente giusto), risulta legittimato, anzi, doverosamente richiesto, il ricorso a qualsiasi mezzo ritenuto “utile”: censura-imposizioni-limitazioni varie-controllo sistematico-isolamento-incarcerazione-tortura-deportazione-pena di morte.   Il non farlo verrebbe ad evidenziare una grave mancanza di senso di responsabilità e di attenzione agli interessi della collettività, e, quindi, una psicologia ed una moralità spregevolmente e pericolosamente egocentriche.

Il ritenere, quindi, di poter possedere (in modo assoluto) una Verità assoluta prepara la strada alla accettazione e consacrazione di poteri anch’essi assoluti e, come tali, senza confini. Di fronte ad una simile mentalità, potrà risultare massimamente efficace  l’esercizio terapeutico della Filosofia in ottica autenticamente socratica ed ecletticamente teosofica.  Ovverosia, educando il pensiero:

    - all’uso critico-sistematico del dubbio;
   -  al coraggio del giudizio autonomo;
   -  alla capacità di autoanalisi e di autocritica;
   -  alla consapevolezza del limite sia delle proprie che delle altrui certezze;     anzi, alla consapevolezza dei limiti invalicabili dello stesso pensiero umano nel cercare di approdare a qualcosa di definibile come assolutamente certo e, quindi, non più rivedibile-discutibile-correggibile-migliorabile;
   - alla consapevolezza, perciò, della necessità irrinunciabile di un continuo processo di ricerca e, quindi,
   della necessità di diffidare di tutte le risposte blindate, dogmaticamente imposte sulla base della strategia dell’ ipse dixit;
 - nonché della necessità di una costante disponibilità al confronto sincero, allo scambio, alla cooperazione  paritaria, alla consapevolezza che ogni verità è inevitabilmente “figlia del Tempo”, e che ogni verità rappresenta inevitabilmente (soltanto) il risultato della nostra (soggettivissima) attività conoscitiva condotta nel tempo e nello spazio (nel nostro tempo e nel nostro spazio),  e che, quindi, è in grado di rappresentare esclusivamente il punto di approdo del nostro sguardo sul mondo, ovvero sempre lettura prospetticamente fondata,  e, come tale, sempre valida relativamente e provvisoriamente.

Un simile atteggiamento potrebbe condurci, allora, a pensarci come esseri non più divisi e contrapposti in quanto credenti e non-credenti, platonici e aristotelici, teisti e panteisti, rivoluzionari e controrivoluzionari, ortodossi ed eterodossi, ecc., bensì come viandanti, pellegrini, eterni ricercatori, desiderosi di conoscere sempre più e sempre meglio il Vero e il Bene.

E i vari credo (religiosi, filosofici, politici, ecc.) potranno apparirci, finalmente, non più come entità boriosamente e cruentemente condannate a lottare fra loro, bensì come differenti itinerari, tutti percorribili e tutti sperimentabili, ovvero differenti sentieri  inerpicantisi su di un’unica immensa montagna: 

- tutti relativamente validi;
- tutti meritevoli di essere presi in considerazione, di essere esaminati senza pregiudizi, di essere discussi criticamente, con lealtà, con franchezza e con rispetto.

In un articolo apparso su Lucifer, nel gennaio 1888, Helena Petrovna Blavatsky*, fondatrice della Società Teosofica (New York 1875), vulcanica scrittrice e infaticabile demolitrice di pregiudizi culturali, ci fornisce un’analisi estremamente efficace e convincente del fenomeno dell’intolleranza.
Chi crede di aver trovato l’oceano nella sua brocca d’acqua – scrive - è naturalmente intollerante nei confronti del suo prossimo, il quale, a sua volta, si compiace d’immaginare d’aver versato il mare della verità nel suo piccolo vaso, ma chiunque conosce, come i teosofi, quanto infinito è l’oceano dell’eterna saggezza, per essere scandagliato da qualche uomo, classe o partito, e comprende quanto poco contiene anche il più grande recipiente fabbricato dall’uomo, in confronto a quanto giace sopito e non ancora percepito nelle sue oscure e abissali profondità, non può essere che tollerante; perché vede che gli altri hanno attinto con i loro recipienti nello stesso grande serbatoio nel quale ha attinto egli pure e, per quanto l’acqua nei vari recipienti possa sembrare diversa all’occhio, ciò può darsi soltanto perché è colorata dall’impurità che si trovava nel recipiente prima che vi venisse versato il cristallino elemento – parte dell’eterna ed immutabile Verità.

Secondo questa prospettiva, i produttori-possessori di ciascun  recipiente conoscitivo (ovvero fede religiosa, sistema filosofico, ideologia politica, ecc.), ignorando di aver attinto tutti ad un unico immenso serbatoio, cadrebbero nell’errore di ritenersi i soli capaci di raccogliere, contenere ed offrire al mondo la sola salutare e salvifica acqua, considerando il contenuto degli altrui recipienti  sostanzialmente diverso dal proprio e, pertanto, inadeguato e nocivo.

Unica via alternativa in grado di espellere l’intolleranza dalla nostra storia, sarebbe quindi costituita – secondo la prospettiva teosofico- blavatskyana (in chiara sintonia con quella neoplatonica di Ammonio Sacca e con quella irenico-umanistica di un Giovanni Pico della Mirandola** o di un Erasmo da Rotterdam) – dal saper accettare l’idea della presenza di una parte della Verità all’interno di ogni religione e di ogni sistema filosofico e politico, nella consapevolezza che  “se vogliamo trovarla dobbiamo cercarla alle origini ed alle sorgenti di ogni sistema, alle sue radici ed ai primi germogli, non nelle tardive escrescenze delle sette e dei dogmatismi.

E unica cura contro tutti i fanatismi potrà essere soltanto – sempre su questa via - il riconoscere che tutte le proprie amatissime convinzioni non siano altro che piccolissimi  granelli di verità, inesorabilmente mescolati all’errore e  che, nello stesso tempo, “gli errori degli altri sono come quelli propri:  misti alla Verità”. 

Introduzione al Blog

Il Blog è nato nel marzo 2021, in tempo di pandemia, per comunicare e condividere le mie letture e i miei interessi.  Nel Blog ci sono ci...