sabato 13 settembre 2025

Biografia di Alexandra David Neel

Louise Eugénie Alexandrine Marie David, più conosciuta con il nome di Alexandra David-Néel, nata il 24 ottobre 1868 a Saint-Mandé e morta l’8 settembre 1969 a Digne-les-Bains, fu un’orientalista, tibetologa, cantante d’opera, giornalista, scrittrice ed esploratrice, femminista, anarchica, massone e buddhista francese. Nel 1924, fu la prima donna occidentale a raggiungere Lhasa, capitale del Tibet, un’impresa di cui i giornali parlarono un anno dopo e che contribuì in modo decisivo alla sua fama, oltre alle sue doti personali e alla sua erudizione.    .   

Sito ufficiale di Alexandra:   https://www.alexandra-david-neel.fr/  
Bibliografia:   https://www.alexandra-david-neel.fr/bibliographie/


Alexandra nacque il 24 ottobre 1868, figlia unica di Louis David e Alexandrine.   Lousi David era un massone, maestro elementare,  militante repubblicano durante la rivoluzione del 1848 e amico del geografo anarchico Élisée Reclus.
Oltre alle lezioni di pianoforte e canto, la piccola Alexandra si appassionò alla lettura dei racconti di viaggio di Jules Verne e sognava terre lontane sfogliando l’atlante regalatole dal padre. Per darle un’educazione rigorosa, fu iscritta a un collegio calvinista, ma verso i dieci anni, a causa di un’anemia, venne trasferita in un collegio cattolico.  Prima dei 15 anni, si sottopose a pratiche ascetiche estreme: digiuni, mortificazioni fisiche, ispirate alle biografie di santi asceti.  A 15 anni, in vacanza a Ostenda con i genitori, fuggì da casa e tentò di imbarcarsi per l’Inghilterra.  
Durante l’infanzia e l’adolescenza frequentò Élisée Reclus, che la introdusse al pensiero anarchico (Max Stirner, Michail Bakunin) e agli ambienti femministi. Collaborò con il giornale femminista La Fronde, fondato da Marguerite Durand, e partecipò a riunioni del Consiglio nazionale delle donne francesi e italiane. Tuttavia, rifiutava alcune posizioni, come la rivendicazione del diritto di voto femminile, preferendo la lotta per l’emancipazione economica. Verso la fine del XIX secolo fu iniziata alla massoneria. 
Per il biografo Jean Chalon, la sua vocazione orientalista e buddhista nacque al Museo Guimet, la cui inaugurazione avvenne il 20 novembre 1889. A 21 anni si convertì al buddhismo, evento annotato nel diario pubblicato poi nel 1986 come La Lampe de sagesse.  Per perfezionare l’inglese, indispensabile alla carriera orientalista, partì per Londra, frequentò la biblioteca del British Museum e conobbe membri della Società Teosofica, di cui divenne membro nel 1892.  L’anno seguente si trasferì a Parigi per studiare sanscrito e tibetano con Édouard Foucaux, Hervey de Saint-Denis e il suo successore Édouard Chavannes.

1895-1902: la carriera di cantante lirica. Su incoraggiamento del padre, Alexandra David-Néel entrò al Conservatorio Reale di Bruxelles, dove studiò pianoforte e canto, ottenendo il primo premio di canto.  Per aiutare i genitori in difficoltà economiche, accettò, sotto lo pseudonimo di Alexandra Myrial (ispirato al nome di Myriel, un personaggio de I Miserabili di Victor Hugo), l’incarico di prima cantante all’Opera di Hanoi (Indocina) durante le stagioni 1895-1896 e 1896-1897. Interpretò ruoli come Violetta ne La traviata (Verdi), cantò ne Le Nozze di Jeannette (Victor Massé), Faust e Mireille (Gounod), Lakmé (Léo Delibes), Carmen (Bizet), Thaïs (Massenet). In quel periodo intrattenne corrispondenza con Frédéric Mistral e Jules Massenet.

Dal 1897 al 1900 visse al 3 di rue Nicolo a Parigi con il pianista Jean Hautstont, con il quale scrisse Lidia, dramma lirico in un atto (musica di Hautstont, libretto di Alexandra).

Il 27 giugno 1898, al Museo Guimet, assistette a una cerimonia buddhista tibetana, presieduta dal lama mongolo Agvan Dorjiev, vicino al XIII Dalai Lama, in presenza di Georges Clemenceau. 

Dal 1893 al 1899, con lo pseudonimo Mitra (nome di una divinità vedica), scrisse articoli per riviste come Le Lotus bleu (organo della Società Teosofica) e L’Étoile socialiste

Cantò all’Opera di Atene (novembre 1899-gennaio 1900) e poi, nel luglio dello stesso anno, all’Opera di Tunisi, dove conobbe Philippe Néel, ingegnere capo delle ferrovie tunisine e futuro marito. Lasciò la carriera di cantante nell’estate 1902 e assunse per qualche mese la direzione artistica del casinò di Tunisi, continuando le sue ricerche.

Tra il 1900 e il 1908, firmando ancora come Alexandra Myrial, pubblicò diversi articoli, tra cui uno studio sul Potere religioso in Tibet per il Mercure de France. Scrisse anche il romanzo Le Grand Art (1901-1902), satira dell’ambiente artistico di fine Ottocento, che però non trovò editori. Nel 1904, alla vigilia del matrimonio, rinunciò a pubblicarlo perché conteneva elementi “troppo autobiografici”

1904-1911: la donna sposata. Il 4 agosto 1904, a Tunisi, sposò Philippe Néel, suo compagno dal 15 settembre 1900. Aveva 36 anni. La loro convivenza, a tratti burrascosa ma basata sul rispetto, terminò il 9 agosto 1911, quando Alexandra partì sola per il suo terzo viaggio in India (1911-1925; il secondo era stato durante una tournée lirica. Tre ministeri francesi contribuirono a finanziare il viaggio. Non volle figli, consapevole che la maternità era incompatibile con il suo bisogno di indipendenza e di studio. Promise a Philippe di tornare entro diciotto mesi; in realtà rientrò solo quattordici anni dopo, nel 1925, e si separò di nuovo dopo pochi giorni, tornando alle esplorazioni con il giovane lama Aphur Yongden, che adottò nel 1929.  Nonostante la separazione, mantennero una fitta corrispondenza fino alla morte di Philippe, l’8 febbraio 1941. 

Secondo lo studioso Michel Renouard, i viaggi di Alexandra non sarebbero stati possibili senza il sostegno economico del marito, che agì anche come suo intermediario finanziario, pur aiutandola di tasca propria nei momenti più difficili.

Dal 1909 si dedicò interamente agli studi asiatici e firmò con il suo nome di nascita articoli e saggi, tra cui Il modernismo buddhista e il buddhismo del Buddha (1911). Il successo, però, arrivò solo dieci anni dopo

1911-1925: il grande viaggio indo-tibetano.    Arrivo in Sikkim (1912).  Alexandra arrivò in Sikkim nel 1912, a 43 anni, stringendo amicizia con Sidkéong Tulku Namgyal, figlio maggiore del sovrano del regno. Visitò numerosi monasteri buddhisti e conobbe il giovane Aphur Yongden, allora quindicenne, con il quale si ritirò in un eremo a oltre 4.000 metri di altitudine.

Incontro con il XIII Dalai Lama (1912) Grazie al lama Kazi Dawa Samdup, fu ricevuta dal XIII Dalai Lama a Kalimpong il 15 aprile 1912. Il leader tibetano, sorpreso dalla sua conversione al buddhismo, le consigliò di studiare a fondo il tibetano, cosa che fece.

Soggiorno a Lachen (1912-1916) Visse per anni accanto a Lachen Gomchen Rinpoché, maestro spirituale che le insegnò tecniche come il tummo (generazione di calore interno) e le conferì il nome religioso Yéshé Tömé (“Lampada di Saggezza”).

Intrattenne rapporti epistolari con Sidkéong, che nel 1914 le offrì una statuetta sacra del Buddha Sakyamuni. Il 10 febbraio 1914, alla morte del maharaja, Sidkéong divenne sovrano e avviò un programma di riforma religiosa con la consulenza di Alexandra. Pochi mesi dopo, però, morì improvvisamente, forse avvelenato.

1916-1924: verso Lhasa   Nel 1916, Alexandra David-Néel lasciò il Sikkim e si recò in Giappone, dove incontrò per la prima volta il famoso maestro zen Ekai Kawaguchi. Successivamente partì per la Corea e poi per la Cina, dove rimase a lungo, viaggiando attraverso il paese in condizioni spesso precarie.

Nel 1918 raggiunse il Tibet orientale, stabilendosi a Kumbum, grande monastero situato nella provincia dell’Amdo (oggi Qinghai). Qui studiò testi sacri, il rituale buddhista e le lingue locali. Fu accolta con rispetto, ma la sua permanenza non passò inosservata alle autorità cinesi.

Per anni tentò di ottenere il permesso ufficiale di entrare a Lhasa, ma le autorità britanniche, che controllavano l’accesso al Tibet, glielo negarono ripetutamente, temendo complicazioni diplomatiche.

Determinata a realizzare il suo sogno, nel 1923 partì da Darchen, ai piedi del monte Kailash, insieme ad Aphur Yongden. Si travestì da pellegrina mendicante tibetana: il volto annerito dal fumo, abiti logori, mani sporche, un rosario e una ciotola per le elemosine. Yongden la accompagnava come suo figlio adottivo e guida.

1924: l’arrivo a Lhasa.  Dopo mesi di marcia attraverso passi innevati e territori isolati, il 28 gennaio 1924 Alexandra e Yongden entrarono di nascosto a Lhasa, capitale del Tibet, città proibita agli stranieri. Rimasero due mesi, ospitati da amici tibetani e vivendo con estrema discrezione per evitare di essere scoperti.   Fu la prima donna occidentale a raggiungere Lhasa, un’impresa considerata impossibile per l’epoca. Descrisse in dettaglio la città, i palazzi, i monasteri e le cerimonie religiose, informazioni preziose poiché Lhasa era ancora completamente chiusa al mondo esterno.  La loro permanenza si concluse quando, temendo di essere riconosciuti, decisero di lasciare la città e intraprendere il lungo viaggio verso l’India.

1925: ritorno in Europa. Dopo aver attraversato l’Himalaya e l’India, Alexandra rientrò in Francia nel maggio 1925, accolta come un’eroina. I giornali francesi e internazionali le dedicarono ampi articoli, esaltando il coraggio, la resistenza fisica e la conoscenza profonda della cultura tibetana.

Pubblicò immediatamente Voyage d’une Parisienne à Lhassa (1927), che divenne un bestseller internazionale e la consacrò come una delle più grandi viaggiatrici ed esploratrici del XX secolo.  Continuò poi a scrivere numerosi libri sul Tibet, il buddhismo e le sue esperienze spirituali, divenendo una voce autorevole nel campo dell’orientalismo.

1925-1937: nuovi viaggi e scrittura.  Dopo il ritorno in Francia, Alexandra non rimase ferma a lungo. Negli anni seguenti intraprese conferenze in tutta Europa e pubblicò numerose opere, tra cui studi sul buddhismo e resoconti di viaggio. Nel 1937, accompagnata da Yongden, partì di nuovo per l’Asia, passando per l’Egitto, l’India e il Tibet orientale.

1937-1946: la lunga permanenza in Cina.  Durante la seconda guerra mondiale, Alexandra e Yongden rimasero bloccati in Cina per quasi nove anni. Vissero in condizioni difficili a causa della guerra sino-giapponese e della guerra civile cinese, spostandosi di città in città per evitare i combattimenti. Nel 1946 riuscirono a rientrare in Francia, stabilendosi definitivamente a Digne-les-Bains, nelle Alpi dell’Alta Provenza, in una casa che chiamò Samten Dzong (“Fortezza della meditazione”).

1946-1955: la scrittrice consacrata. In questo periodo Alexandra si dedicò intensamente alla scrittura. Pubblicò opere fondamentali come Mystiques et Magiciens du Tibet e Initiations Lamaïques, divenendo una delle massime autorità occidentali sul buddhismo tibetano.  Nel 1955 morì Aphur Yongden, compagno di una vita e figlio adottivo, la cui scomparsa fu per lei un colpo durissimo.

1955-1969: gli ultimi anni. Nonostante l’età avanzata, continuò a scrivere e a ricevere visitatori e studiosi da tutto il mondo. A novant’anni rinnovò il passaporto “per ogni evenienza”, dichiarando: «Non si sa mai, potrei partire di nuovo domani.».     Nel 1959 incontra sul suo cammino Marie-Madeleine Peyronnet (1930-2023) che l'assisterà nei suoi ultimi dieci anni di vita.   Marie-Madeleine, nel suo libro "Dieci anni con Alexandra David-Neel",  racconta il suo rapporto con Alexandra, un rapporto tra "l'istrice" e "la tartaruga".  Tartaruga era il soprannome che Alexandra aveva dato a Marie-Madeleine. 

Nel 1969, a quasi 101 anni, morì nella sua casa di Digne-les-Bains, il 8 settembre. Le sue ceneri, insieme a quelle di Yongden, furono disperse nel Gange, in India, secondo il rituale buddhista tibetano.

Eredità. Alexandra David-Néel rimane una figura leggendaria dell’esplorazione e del pensiero spirituale. Fu una pioniera per le donne viaggiatrici, un ponte tra Oriente e Occidente e una delle prime divulgatrici accurate della cultura tibetana. La sua vita unì il coraggio fisico, la disciplina intellettuale e una profonda sete di libertà.

India, Induismo e le sei Darshana.

Le parole ‘India’ e ‘Induismo’ sono estranei all’India, essendo stati creati dai primi viaggiatori provenienti dall’Occidente.  Definirono India tutto quello che era al di là del fiume Indo (che in realtà si chiamava Sindhu), le genti che lì vivevano, Indiani, e la loro religione, Induismo. Gli ‘Indiani’ chiamano la loro terra Bharatavarsha, la terra dei discendenti di Bharata, grande re leggendario, e la loro religione Sanatana Dharma, gli insegnamenti spirituali atti ad elevare gli individui e condurli fino a Moksha, la liberazione dal ciclo di nascite e morti. 
Nell’ambito del Sanatana Dharma (la religione di sempre), esistono sei scuole riconosciute, o meglio, sei Darshana, visioni, punti di vista, perché, anche se la realtà, Sat, è e non può essere che una e immutabile, i modi per accostarsi ad essa sono molti, e le Darshana rappresentano i sei principali sistemi epistemologici e gnoseologici. Piuttosto che considerarsi dottrine rivali, i darshanas sono tradizionalmente percepiti come approcci complementari, che offrono diverse prospettive su una stessa verità ultima.
Sono considerate scuole ortodosse ( astika), perchè riconoscono l'autorità dei Veda, mentre altre  scuole eterodosse (nastika), la rifiutano (come il buddismo e il giainismo, che non sono considerati darshanas indù in senso stretto). 
Le sei Darshanas ortodosse sono tradizionalmente raggruppate a coppie, a causa delle loro affinità concettuali:
Nyaya : la scuola della logica e dell'epistemologia,   basata sui Nyaya Sutra di Akshapada Gautama.
Si concentra sui mezzi di conoscenza validi (pramana), come la percezione, l'inferenza, il confronto e la testimonianza. Sviluppa una metodologia rigorosa di argomentazione e ragionamento logico.  Il suo scopo è raggiungere la liberazione attraverso la corretta conoscenza della realtà.
Vaisheshika : la scuola della fisica e della metafisica atomista, Fondata dal rishi Kanada. Analizza la realtà in termini di atomi, loro combinazioni e qualità. Elabora una teoria delle categorie (padarthas) per classificare i diversi aspetti dell'esistenza. Spesso associata al Nyaya, con cui condivide concetti e metodi.
Samkhya :  la scuola del dualismo metafisico, Fondata da Kapila. Postula l'esistenza di due principi fondamentali: Purusha (la coscienza pura, il Sé) e Prakriti (la natura primordiale, la materia). Descrive l'evoluzione del mondo materiale a partire da Prakriti e la sua interazione con Purusha. Il suo scopo è la discriminazione tra Purusha e Prakriti, che porta alla liberazione.
Yoga : la scuola della pratica spirituale e dell'autocontrollo. Associata a Patanjali, autore degli Yoga Sutra. Si basa sulla metafisica del Samkhya, ma pone l'accento sulla pratica, in particolare sulla meditazione e sulle tecniche psicofisiche. Propone un percorso ottuplice (Ashtanga Yoga) per raggiungere l'unione con il Sé (Samadhi).
Mimamsa : la scuola dell'esegesi vedica. Si basa principalmente sui Mimamsa Sutra di Jainini,  Si concentra sull'interpretazione dei testi vedici, in particolare dei mantra e dei rituali. Cerca di stabilire il dharma (dovere religioso e morale) analizzando i precetti e i divieti dei Veda. Pone l'accento sull'importanza dell'azione rituale (karma).
Vedanta : la scuola della non dualità (Advaita) e dell'unità del Brahman. Basata sugli Upanishad, la parte finale dei Veda. La corrente più influente è l'Advaita Vedanta che si fonda sul Brahma Sutra Karika, Il commentario dei Brahma Sutra è opera di Badarayana, e in seguito perfezionata e diffusa dal grande rishi Adi Shankaracharya. Postula l'unità assoluta del Brahman (la realtà ultima) e l'illusione del mondo fenomenico. Il suo scopo è la realizzazione dell'unità con il Brahman, la liberazione dal ciclo delle rinascite (samsara).

Le due Darshana di cui ci occupiamo sono lo Yoga di Patanjali e l’Advaita Vedanta di Shankara.

Il Vedanta. Questo sistema si basa su un monismo assoluto (Advaita vuol dire non dualistico) che viene
sinteticamente espresso nella Mahavakya (grande affermazione): Brahma satyam jagan mithya ovvero: Brahma è reale, l’universo, la natura sensibile, è irreale. Non irreale in quanto non esistente, ma in quanto transitorio: nasce, cresce, decade e muore, o più precisamente, si trasforma in qualcos’altro. “Sharira parigraha dukham eva”, “Il possesso del corpo è sicuro dolore”.
In altre parole, la causa di ogni dolore e affanno è l’incarnazione dell’Atman, la porzione individuale del Brahman, l’anima cosmica, mai nata ed eterna, in un corpo. 
Cercare di spezzare questa catena carica di dolore e sofferenza, il Samsara, è lo scopo del Vedanta e dello Yoga.
Vediamo quindi che il Vedanta si basa su un’apparente dicotomia: Brahman - Anima Cosmica da una parte, e Prakriti o Maya o Jagad, natura o illusione o universo, dall’altra. Una falsa dicotomia, però, perché solo il Brahman è reale, gli altri sono sue produzioni momentanee (anche se il ‘momento’ dura miliardi dei nostri anni). Quindi, tutta la Sadhana, la pratica spirituale, ha come obiettivo l’elevazione spirituale del Jiva, dell’Atman incarnato. All’elevazione spirituale corrisponde l’elevazione del livello vibratorio del Jiva. 

Materia-Energia-Livelli vibratori. Nel mondo occidentale si è sempre considerata la materia come qualcosa di inerte che, solo quando è investita del respiro divino diventa viva. La materia inerte si può suddividere in un’immensa quantità di particelle che la compongono, gli atomi. Questi mattoncini di base sono, come dice la parola stessa, indivisibili. Negli anni 30 del ‘900 la visione della fisica occidentale comincia a cambiare. Grazie anche alla possibilità di utilizzare strumenti di analisi sempre più complessi e raffinati, ci si accorge che l’atomo è tutt’altro che immobile e tutt’altro che indivisibile.
Al suo interno si riproduce una struttura simile a quella del sistema solare, con un nucleo, intorno al quale orbitano a velocità vorticosa una miriade di particelle subatomiche, elettroni, neutroni, neutrini ecc. Tutte le particelle sono di massa infinitesimale, ma cariche di energia. Da questo si può facilmente dedurre che il concetto di materia inerte è superato. La materia, in un certo senso, non esiste. Esiste solo l’energia che, a seconda del suo livello vibratorio, cambia di stato. Se scaldiamo un pezzo di ghiaccio, ossia gli comunichiamo dell’energia, in questo caso termica, diventa acqua; se scaldiamo ancora, diventa vapore. Quando l’energia contenuta nel vapore comincia a dissiparsi nell’ambiente, esso si condensa e torna ad essere acqua; se togliamo ulteriore energia, avremo di nuovo il ghiaccio. È sempre H2O, ma la forma cambia radicalmente in base alla quantità di energia che possiede e al livello vibratorio dell’energia stessa. Se l’idea che l’intero Universo sia in realtà composto di sola energia è, per noi Occidentali, qualcosa di relativamente recente, lo stesso non si può dire per le scuole filosofiche indiane. Gli antichi Rishi sapevano benissimo, non solo che l’intero Universo è una massa viva e vibrante di energia, ma sapevano anche che il livello vibratorio di quest’energia ne determina, oltre alla forma (ghiaccio-acqua-vapore), anche la consapevolezza. Un’energia di basso livello darà vita a cose statiche, con nessuna consapevolezza di sé, come i minerali; un’energia di livello un po’ più alto produrrà esseri più complessi e dotati di una consapevolezza di base, come le piante. Salendo di livello in livello, alla sottigliezza dell’essere corrisponde una sempre maggiore consapevolezza di sé. Si passa dalla pianta al batterio, dal batterio all’insetto e così via fino all’uomo, e dall’uomo comune all’uomo spiritualmente evoluto, l’uomo il cui livello vibratorio è talmente elevato, da conferirgli la consapevolezza del suo essere divino. Tutta la Sadhana è rivolta all’innalzamento del livello vibratorio del praticante, affinché, con esso, si innalzi il suo livello di consapevolezza. La cosmogonica indiana è stata in qualche modo accettata anche dalla fisica moderna. La teoria del ‘big bang’, la grande esplosione, corrisponde al concetto di nascita dell’universo che troviamo negli antichissimi Shastra indiani. Secondo la fisica moderna, l’energia accumulata e concentrata in uno spazio minimo, un buco nero, a un certo punto si libera, dando il via ad un’immensa esplosione. Questa massa enorme
di energia, man mano che si allontana dalla fonte originaria, inizia a rallentare, abbassando il   proprio livello vibratorio, e diventando sempre più grossolana, trasformandosi prima in gas, poi in liquidi e infine in materia solida. Quando la forza centrifuga iniziale si sarà esaurita completamente, l’Universo smetterà di espandersi e la forza centripeta del buco nero avrà di nuovo il sopravvento, richiamando a sé tutto quello che ne era uscito.
Il racconto indiano della Creazione è analogo, anche se un po’ più variopinto. All’inizio, non dei tempi, ma di ogni ciclo cosmico, Mahavishnu, l’Essere Supremo, dorme disteso su un immenso serpente che galleggia nell’oceano cosmico, lo spazio infinito. Il serpente è arrotolato in tre spire e mezzo, come la Kundalini nel Muladhara Chakra prima del suo risveglio. Dall’ombelico di Mahavishnu spunta un fiore di loto, all’interno del quale siede Brahma, il dio che presiede alla Creazione dell’universo. Per motivi legati al Karma, l’equilibrio tra i Guna viene alterato, e da questo disequilibrio nasce la vibrazione primigenia, Shabdabrahman, il suono senza suono, la vibrazione talmente sottile da non essere percepibile. Man mano, la vibrazione, allontanandosi dalla fonte primigenia, tende a rallentare. La massa di energia continua ad espandersi e, ogni volta che raggiunge un punto in cui non può espandersi più, si differenzia. La Creazione procede quindi per espansioni e differenziazioni, fino ad assumere tutte le forme della Natura che conosciamo. È importante ricordare che tutte queste forme che conosciamo sono in realtà diversi aspetti di un’unica energia divina, di Brahman, che si manifesta in innumerevoli modi.

Il Karma è quella legge inderogabile che fa sì che ad ogni azione ne corrisponda un’altra, uguale e contraria. È la conseguenza di ciò che noi abbiamo fatto, in questa e, soprattutto, nelle vite precedenti. Nasciamo in una data situazione, corpo, intelligenza, famiglia, salute, agiatezza ecc., non casualmente, ma per poter riprendere il cammino spirituale, l’avvicinamento alla fonte divina, dallo stesso punto in cui lo avevamo lasciato nella vita precedente. Nella Bhagavad Gita, quando Arjuna chiede a Krishna cosa accade a coloro che, pur avendo percorso la via dello Yoga, sono morti prima di aver raggiunto Moksha, la liberazione, Krishna così risponde: “L’uomo che hai descritto non sarà perduto né in questo mondo né nell’altro, perché chi persegue il bene non può mai percorrere i sentieri della rovina. Dopo aver raggiunto i mondi dove vivono i giusti, ed esserci rimasto per una successione ininterrotta di anni, colui che ha fallito in questo yoga rinasce quaggiù, nella casa di persone prospere e virtuose.” B.G. VI, 40-42. E poi aggiunge: “Nel nuovo corpo egli ritroverà comunque il raccoglimento che aveva conseguito nella vita precedente, e potrà impegnarsi ulteriormente verso la perfezione. Anche senza cercarlo, egli sarà spontaneamente e irresistibilmente attratto dai principi della meditazione. Tenterà così di riafferrare la conoscenza, e solo facendo questo egli sarà già più avanti di chi ha eseguito tutti i riti purificatori raccomandati nelle scritture.” Ogni vita dipende dalle precedenti, nel bene e nel male, e pone i presupposti per le successive. Tutto quello che ci accade dipende esclusivamente da noi, anche se non ne siamo sempre coscienti.
I Guna sono tre: Sattva, Rajas e Tamas, purezza, azione e inerzia. I Guna pervadono l’intero Universo, tanto che Jagad, l’Universo, in realtà corrisponde ad essi. Jagad non potrebbe esistere senza Guna, di cui è manifestazione, né i Guna senza Jagad, di cui sono causa. È importante notare che in ogni cosa i tre Guna sono sempre presenti contemporaneamente. Nulla e nessuno, finché appartiene a Prakriti, la Natura, può essere completamente privo di uno dei tre. Quello che cambia è la proporzione tra loro. Un cibo sano, fresco, ottenuto senza violenza, è prevalentemente Sattvic. Un cibo un po’ meno puro, ma molto energetico, è Rajasic. Un cibo morto, stantio, derivato dalla violenza, che altera la mente, è Tamasic. Lo stesso criterio si applica a tutte le cose che appartengono alla Natura, inclusi gli esseri umani. A livello vibratorio, Sattva è ovviamente molto più sottile sia di Rajas che di Tamas. Per questo è importante, nella Sadhana, capire bene il significato dei Guna e come si manifestano. Poiché gli strumenti di cui disponiamo per il nostro progresso spirituale sono corpo, mente, respiro, Prana e, in qualche modo, i Guna, è su questi strumenti che dobbiamo fare affidamento nel nostro percorso karmico verso la fonte divina. 
Quindi, se siamo indolenti, dobbiamo imparare a superare l’indolenza dovuta ad una prevalenza di Tamas, con l’attività di Rajas. Questa indispensabile attività va però disciplinata e resa sottile da Sattva. Dobbiamo quindi sempre tendere verso quest’ultimo Guna, sapendo però che anch’esso andrà poi superato, in quanto comunque parte di Prakriti, la Natura sensibile. 
C’è, a tal proposito, una storia molto istruttiva. Un mercante viaggia per il suo lavoro, quando, attraversando un bosco, viene aggredito da tre ladri. Dopo averlo derubato, cercano di decidere cosa fare del mercante. Uno propone di ucciderlo subito e scappare; un altro dice di legarlo ad un albero e andarsene. Quindi, lo legano ad un albero e lo abbandonano. Il terzo ladro, impietosito, torna indietro, lo slega e lo conduce sulla strada, salvandolo. I tre ladri sono ovviamente i tre Guna, Tamas ti uccide, Rajas ti lega e Sattva ti libera. Ma Sattva è pur sempre un ladro, e qualsiasi attaccamento, anche il più puro, costituisce un impedimento alla liberazione. 
Nella Bhagavad Gita, Krishna ci spiega il concetto con chiarezza: “La Fede degli esseri incarnati, che è radicata nella loro disposizione naturale (derivante dalle impressioni delle nascite passate), è di tre tipi: quelle della natura di Sattva, di Rajas e di Tamas. Ti prego di ascoltare. La Fede di ognuno è in relazione alla sua disposizione naturale (derivata dalle impressioni passate). L’uomo è costituito dalla sua Fede. Ciò che la sua Fede è, quello egli è.” B.G. XVII, 2-3.
Per arrivare ad una fede Sattvic, bisogna rendere Sattvic tutto il nostro essere, corpo, respiro, Prana, mente. Questo è il compito dello Yoga. Portare gradualmente il praticante ad essere Sattvic in ogni parte della sua vita. È una sfida immensa, ma va affrontata. 

I quattro percorsi dello Yoga. Lo Yoga è una disciplina spirituale estremamente complessa, così com’è complesso l’essere umano. Non c’è un aspetto dell’uomo che non prenda in considerazione, dal corpo al respiro, dalla mente al superamento della mente. Per questo abbiamo più sentieri dello Yoga, anche se i principali sono quattro: 
  • Karma Yoga, lo Yoga che trasforma l’azione da causa di legami, a strumento diliberazione; 
  • il Bhakti Yoga, lo Yoga della devozione, che trasforma l’amore umano, solitamente egoistico, in amore disinteressato e universale, Prem; 
  • Jnana Yoga, lo Yoga della conoscenza, che, tramite lo studio degli Shastra e l’autoanalisi, permette alla mente superiore di calmare quella inferiore e di elevarsi a livelli divini; 
  • il Raja Yoga, la via reale o lo Yoga dei poteri psichici. Del Raja Yoga fanno parte tutte le pratiche più note, dall’Hatha Yoga al Mantra Yoga o allo Yoga Kundalini, pratica molto avanzata, riservata a chi ha già fatto un percorso di purificazione e di consapevolezza di buon livello. 
Ci soffermiamo leggermente sul Raja Yoga, detto anche Ashtanga Yoga, lo Yoga delle otto parti, in quanto diviso, appunto, in otto parti, ognuna propedeutica all’altra. Le otto parti sono: i cinque Yama e i cinque Niyama, dieci norme etico-comportamentali per la purificazione e la preparazione alla pratica vera e propria; Asana, le posture yogiche; Pranayama, il controllo del Prana, ottenuto attraverso il controllo del respiro; Pratyahara, il ritiro all’interno dei sensi; Dharana, la concentrazione, tendente a portare la mente a fermarsi su un unico punto; Dhyana, la meditazione vera e propria, e infine Samadhi, l’unione dell’Atman, l’anima individuale, con Brahma, l’anima cosmica.

Su quanto sia prezioso ed insostituibile il percorso dello Yoga, e della meditazione in particolare, Swami Sivananda così scrive: “Condurre una vita virtuosa non è sufficiente in sé per ottenere la realizzazione di Dio. È assolutamente necessario raggiungere la concentrazione della mente. Una vita buona e virtuosa prepara semplicemente la mente ad essere uno strumento adatto alla concentrazione e alla meditazione. Sono la concentrazione e la meditazione che alla fine conducono alla realizzazione del Sé. Senza l’aiuto della meditazione non potrete raggiungere la Conoscenza del Sé. Senza il suo aiuto non potrete sviluppare lo stato divino. Senza di essa non potrete liberarvi dalle pastoie della mente e ottenere l’immortalità. La meditazione è l’unica via regale per il conseguimento della salvezza, di Moksha. È una scala misteriosa che conduce dalla terra al cielo, dall’errore alla verità, dalle tenebre alla luce, dal dolore alla beatitudine, dall’inquietudine alla pace permanente, dall’ignoranza alla conoscenza. Dalla mortalità all’immortalità.” 

Patanjali, nel secondo dei 196 aforismi dello ‘Yoga Sutra’, dice che “Yogas Chitta Vritti Nirodah”, ovvero “Lo Yoga è l’arresto delle alterazioni della mente”, cioè l’arresto delle onde di pensiero, di ogni attività mentale. Perché è così importante fermare la mente fino all’immobilità totale? Un esempio che si usa spesso per spiegare questo concetto, è il seguente: quando il mare è agitato, l’acqua intorbidita ci impedisce di vederne il fondo, che contiene un grande tesoro. Calmando l’acqua, fino a fermarla del tutto, essa diventerà trasparente, permettendo di vedere quel tesoro che prima era nascosto. Così la mente, in costante movimento, erige una sorta di cortina fumogena davanti alla parte divina, l’Atman, impedendoci di percepirlo e, di conseguenza, di prendere coscienza della nostra vera natura, che è divina. Naturalmente, queste non sono cose che si ottengono facilmente e in tempi brevi.  
Lo Yoga riconosce 5 stati della mente, essi sono:
  • Kshipta ……. Mente disturbata e dispersa
  • Mudha………Mente stordita e intontita
  • Vikshipta……Mente distratta, attenta solo occasionalmente
  • Ekagra………Mente concentrata su un unico punto
  • Niruddha……Mente completamente ferma e sotto controllo nella concentrazione.
È fin troppo ovvio che Kshipta, è uno stato, purtroppo molto comune, in cui la mente conclude ben poco, disperdendo la propria energia in mille rivoli inutili. Per fortuna, anche nelle persone comuni la mente non è sempre in quello stato. Spesso è solo un po’ distratta, a volte concentrata, a volte tanto concentrata che si va in un’apnea involontaria, si trattiene il respiro. L’obiettivo è quello di rendere, tramite la pratica yogica, la mente sempre più presente a se stessa; questo migliorerà non solo il nostro livello spirituale, ma anche la nostra vita di ogni giorno. Prima di praticare Dhyana, non è indispensabile essere dei maestri assoluti dei sei ‘Anga’ precedenti, ma bisogna praticarli assolutamente, altrimenti i progressi nella meditazione saranno ben pochi.  Swami Vishnudevananda sostiene che non si possa insegnare a meditare, come non si può insegnare a dormire; però, come è sicuramente più facile dormire su un buon letto, in una camera silenziosa, anche osservare certe regole di base può non essere sufficiente a meditare, ma certamente ridurrà gli ostacoli che si frappongono tra il praticante e l’obiettivo. Queste regole di base sono: costanza e, possibilmente, uniformità di orario; l’ora migliore per la meditazione è il Brahma Muhurta, prima dell’alba; cercare di avere una stanza, o almeno un angolo protetto e tranquillo, dove si pratica solo la meditazione, con un altare dov’è esposta l’immagine dell’Ishta Devata, la divinità preferita; utilizzare le energie migliori della Terra, orientandosi verso est o verso nord; utilizzare il respiro per calmare la mente, perché, se la mente è agitata, meditare diventa quasi impossibile; concentrare la mente sul punto tra le sopracciglia o sul Chakra del cuore. Ultimo, ma
non meno importante: recitare il proprio Mantra, per coloro a cui è stato impartito da una persona qualificata, o il Mantra universale OM, adatto a tutti.

L'uso dei Mantra è molto importante nel percorso spirituale. Swami Vishnu lo definisce in questo modo : “Il Mantra è energia mistica racchiusa in una struttura sonora.” È quindi energia divina, quella stessa energia che è alla base della creazione dell’universo e che tutto pervade, troppo sottile per essere percepita e che, leggermente meno sottile, si fa suono. Ripetere il Mantra, dapprima ad alta voce, poi sussurrandolo a fior di labbra, infine solo mentalmente, significa far vibrare tutto il nostro essere ad una frequenza che altrimenti riusciremmo a raggiungere solo con enormi difficoltà. Quando recitiamo un Mantra, non creiamo quel suono, perché quel suono già esiste, è sempre esistito, ma noi non abbiamo i mezzi per percepirlo, come non riusciamo a percepire le onde radio se non disponiamo di un apparecchio adatto. Quando recitiamo il Mantra, non facciamo che sintonizzarci, attraverso il suono grossolano, sulla sua essenza sottile, che è diretta espressione dell’energia divina. Abbiamo detto che l’intero Universo non è che energia; dietro ad ogni manifestazione grossolana di Prakriti, la natura sensibile, si nasconde un’essenza sottile, e dietro l’essenza sottile si nasconde una natura divina. Mettendo il nostro corpo e la nostra mente in vibrazione, dapprima grossolana, poi via via più sottile, ci avviciniamo sempre di più alla nostra vera, profonda natura, quella divina. Se tutta la Sadhana è tesa ad alzare il livello vibratorio del praticante, a renderlo sempre più sottile, quale sussidio migliore del Mantra? Esso ci permette di fare in brevissimo tempo un percorso che sarebbe altrimenti lungo e difficoltoso. 
La parola Mantra deriva dalla radice Man, mente e da Trai, che vuol dire sia proteggere che liberare. Quindi, il Mantra protegge la mente, o libera attraverso la mente. Perché un Mantra possa definirsi tale, deve possedere sei caratteristiche:
  • 1. Deve avere un Rishi che ha raggiunto la realizzazione del Sé per la prima volta tramite questo Mantra, e lo ha donato al mondo. È il veggente di questo Mantra. Il saggio Vishwamitra, per esempio, è il Rishi del Gayatri mantra.
  • 2. Il Mantra deve avere una metrica, Pada, che governa l’inflessione della voce. Alcuni invece di Pada, parlano di Raga, musica, nel senso che il Mantra ha degli accenti che ne stabiliscono il ritmo e la musicalità, essenziali perché esso mantenga tutto il suo potere.
  • 3. Il Mantra deve avere un particolare Devata, la divinità che presiede al Mantra stesso.
  • 4. Il Mantra ha un Bija o seme. Il seme è l’essenza più sottile del Mantra, e gli conferisce un potere speciale.
  • 5. Ogni Mantra ha una Shakti. La Shakti è l’energia divina insita nel Mantra. L’energia creatrice che si manifesta nel Mantra stesso.
  • 6. Il Mantra ha un Kilaka, una sorta di tappo. Kilaka chiude la Mantra Chaitanya, la coscienza che è nascosta nel Mantra. Quando questo ‘tappo’ viene gradualmente consumato e, infine, eliminato, con la ripetizione costante e prolungata del nome dell’Ishta Devata, la divinità di riferimento, la Chaitanya, la coscienza nascosta si rivela e il devoto ottiene la Darshana, la visione, dell’Ishta Devata.
I Mantra sono in lingua Sanscrita e sono assolutamente intraducibili, non perché non ne sappiamo il significato, ma perché traducendoli in una lingua diversa dal Sanscrito, essi perdono buona parte, se non tutta, la loro forza spirituale ed evocatrice. Abbiamo visto, accennando alla cosmogonia indiana, che essa procede per espansioni e differenziazioni. Gli Shastra ci dicono che alla quinta differenziazione appaiono i Varna, colori o sfumature, da cui, per ulteriori differenziazioni, avranno origine tutti i suoni e tutte le lingue. Oggi, la cosa più vicina ai Varna sono le 54 lettere dell’alfabeto Sanscrito, i Devanagari, la scrittura degli dei. I suoni del Sanscrito, e quindi i Mantra, sono i suoni conosciuti più puri e più prossimi alla fonte divina originale, e proprio in questo consiste la loro straordinaria forza. Traducendoli, il significato rimane, ma l’energia spirituale svanisce. Per questo motivo è oltremodo importante che i Mantra vengano recitati con la pronuncia appropriata.
Mettete una barra di ferro in una fornace ardente, diventerà rossa come il fuoco. Toglietela dalla fornace e perderà il suo colore rosso. Se volete mantenerla sempre rossa, dovrete tenerla sempre nella fornace. Allo stesso modo, se volete mantenere la mente carica del fuoco della saggezza brahmica, dovete tenerla sempre in contatto col fuoco brahmico della conoscenza, attraverso una costante ed intensa meditazione. Dovete mantenere un flusso ininterrotto di coscienza brahmica. 
"Se riuscirete a meditare per mezz’ora, sarete capaci di impegnarvi nei compiti di ogni giorno con pace e forza spirituale. Questi sono gli effetti benefici della meditazione. Poiché nella vostra vita quotidiana dovete muovervi usando diversi aspetti peculiari della vostra mente, prendete la forza e la pace dalla meditazione. Poi, non avrete più né problemi né preoccupazioni.” --Swami Sivananda - Pratica dello yoga
Se, come dicevano i Romani, Repetita juvant è un’affermazione valida per qualsiasi pratica a cui si riferisca, dallo studio, all’arte, allo sport, ancora di più è vera quando si parla di plasmare non il corpo o la mente inferiore, ma la psiche profonda. Solo una pratica regolare e, soprattutto, prolungata, Abhyasa, può produrre risultati che tendono a stabilizzare la mente. Man mano che si procede nella pratica, vi accorgerete che il tempo che impiega la mente ad entrare in uno stato meditativo, si riduce sempre più. Per stabilire nella mente questo tipo di memoria, l’uso del Mantra è un sostegno straordinario, e anche per questo, una volta adottato un Mantra, non bisogna cambiarlo. 
Ci vuole un po’ di tempo, a volte un bel po’ di tempo, perché il Mantra manifesti tutta la sua Shakti, che è poi il tempo che serve alla nostra sensibilità per diventare abbastanza sottile da percepirla.

La Japa, la ripetizione di un mantra, si può praticare in tre modi: ad alta voce, e viene chiamata Vaikhari Japa; sussurrando a fior di labbra, ed è detta Upamsu Japa; mentalmente, Manasika Japa. Questa è la forma di ripetizione più potente e richiede una concentrazione più intensa, poiché la mente dopo un po’ tende a chiudersi. Nel caso ci si accorga che ci si sta assopendo, si può ripetere il Mantra ad alta voce per un po’, oppure fare un ciclo di Kapalabhati, e ricominciare. Uno strumento molto utile per tenere il conto dei Mantra, quando si fa la Japa, è il Mala. Una corona di perline, simile al Rosario, composta da 108 grani più uno, il Meru, che non va superato. Quindi, quando si arriva al Meru, si gira il Mala e si ricomincia a sgranare nell’altro senso. 
Sul perché di questo numero, 108, che peraltro troviamo spesso nell‟Induismo e nel Buddhismo, ci sono parecchie risposte: sul Chakra del cuore, l’Anahata, convergono 108 Nadi; i Devanagari, le lettere dell’alfabeto sanscrito, sono 54 e ognuna ha un suo doppio, maschile e femminile; nello Sri Yantra, lo Yantra dell Dea, ci sono 54 Marma, intersezioni, e anch’esse hanno un doppio, maschile e femminile; 12 segni zodiacali x nove pianeti ecc. ecc. 
Il Mala può essere composto di vari materiali, anche se i più usati sono la Rudraksha, il seme di una bacca comune in India, il legno di Tulsi, una pianta sacra simile al basilico con un gambo legnoso, o di sandalo, il cristallo di rocca, e poi qualsiasi pietra preziosa o semipreziosa. Normalmente, durante la Japa, il Mala viene tenuto con la mano sinistra, all’altezza dell’Anahata Chakra, al centro del petto, e si sgrana con la destra, evitando di toccarlo con l’indice, che è considerato il dito che rappresenta l’io e l’egoismo.

Normalmente i Mantra vengono divisi nei seguenti gruppi: 
Saguna, o personali, Saguna vuol dire ‘con qualità’. 
Nirguna, impersonali.  I Nirguna, a loro volta, si dividono in  Gayatri, Bija Mantra astratti

I Saguna Mantra sono tutti quei Mantra che si riferiscono ad una divinità specifica, come Om Ganapataye Namah, il Mantra di Ganesha, Om Namo Narayanaya, il Mantra di Vishnu, On Namah Sivaya, il Mantra di Siva, e così via. 
A questo proposito, vorrei riportare un bellissimo pensiero di Swami Sivananda, rivolto in particolare a chi pensa che quella di invocare una divinità specifica sia una forma di idolatria ‘pagana’, politeista: “Dio Si rivela ai Suoi devoti in vari modi. Egli assume esattamente la forma che il devoto ha scelto per il suo culto. Se Lo adorate come Signore Hari con quattro mani, vi Si presenterà come Hari. Se Lo adorate come Siva, vi darà Darshan come Siva. Se Lo adorate come Madre Durga o Kali, verrà a voi come Durga o Kali. Se Lo adorate come Rama, Krishna o Dattatreya, verrà a voi come Rama, Krishna o Dattatreya. Se Lo adorate come Cristo o Allah, verrà a voi come Cristo o Allah". 
"Sono tutti aspetti di un unico Isvara o Signore. Sotto qualsivoglia nome o forma, è sempre Isvara ad essere adorato. L’adorazione va a Colui che è dentro, il Signore nella forma. Pensare che una forma sia superiore ad un’altra è pura ignoranza. Tutte le forme sono esattamente la stessa cosa. Adoriamo tutti lo stesso Dio, le differenze sono solo differenze di nome dovute alle differenze in coloro che adorano, ma non nell’oggetto dell’adorazione. Il vero Gesù o il vero Krishna sono nel vostro cuore. Egli vive lì eternamente, dimora dentro di voi. È sempre il vostro compagno, non c’è un amico migliore di Colui che dimora dentro di voi. Affidatevi a Lui, rifugiatevi in Lui, realizzateLo e siate liberi.” -- Swami Sivananda
Identificare Dio con un Ishta Devata, una divinità preferita, di riferimento, è soltanto un modo di rappresentare Brahman, il Divino universale, in maniera più confacente alla nostra mente limitata, che altrimenti non sarebbe in grado di concepire l’inconcepibile, l’illimitato. È un gradino utile, spesso indispensabile, per prepararci a passare dallo stato umano, con i suoi limiti e le sue miserie, a quello divino. L’aspirante spirituale solitamente inizia la sua ricerca con Saguna, perché è più accessibile, più facile e può dare risultati tangibili in tempi ragionevoli. Solo quando è arrivato ad un considerevole livello di sviluppo, può cominciare a utilizzare nella sua pratica elementi Nirguna, privi di qualità, che sono certamente molto più potenti, ma, proprio per questo, richiedono purezza, forza e capacità di gestire le immense forze spirituali che sprigionano.
I Nirguna Mantra, come abbiamo appena accennato, sono quei Mantra privi di Guna, che non hanno qualità, e sono fondamentalmente dei Mantra astratti, a volte composti da un’unica sillaba priva di un significato apparente, ma carica di energia spirituale. Talmente carica, che il loro uso è consigliabile esclusivamente ai praticanti più esperti, che già hanno acquisito la capacità di gestire al meglio questa massa di energia sottile senza fare danni. 
I Nirguna più usati sono i Bija Mantra. Bija vuol dire seme, e così come il seme, benché piccolissimo, racchiude in sé tutta la potenza dell’albero maestoso che da esso nascerà, così il Bija, monosillabico, racchiude in sé una potenza spirituale straordinaria. 
Ogni Chakra ha il suo Bija, che ne rappresenta ed è lo stesso Bija dell’elemento associato a quel Chakra. Partendo dal basso, i Bija dei Chakra sono: 
  • Lam per il Muladhara, elemento Terra; 
  • Vam per lo Svadistana, Acqua; 
  • Ram per il Manipura, Fuoco; 
  • Yam per l’Anahata, Aria; 
  • Ham per il Vishuddha, Etere, e infine 
  • OM per l’Ajna. 
  • Il Sahsrara, il loto dai mille petali, alla sommità della testa, non ha un Bija, ma solo silenzio. 
Anche i Devata hanno il loro Bija, che spesso si aggiungono all’inizio del loro Mantra, per conferirgli ulteriore forza spirituale. 
Così il Mantra di Ganesha diventa Om Gam Ganapataye Namah, 
quello di Durga, Om Dum Durgaye Namah, 
quello di Sarasvati, Om Aim Sarasvatye Namah e così via. 
L’uso dei soli Bija Mantra nella meditazione è solitamente sconsigliato a chi non abbia già raggiunto una notevole esperienza nella pratica, e andrebbe sempre usato sotto la guida di un insegnante qualificato. Altri Nirguna Mantra sono quelli astratti, come So Ham (io sono), che indica l’identificazione del praticante col Divino ed è collegato anche al respiro cosmico, e OM, il Mantra universale. 
I Gayatri sono dei Mantra che hanno una particolare metrica, di solito 24 sillabe, in parte lode ad Ishvara, il Creatore, in parte preghiera per l’illuminazione. È un Mantra molto popolare in India, e questa è la forma più diffusa: "Meditiamo sulla gloria di Ishvara, che ha creato l’universo, che è degno di essere adorato, che è l’incarnazione della conoscenza e della luce, che toglie tutti i peccati e l’ignoranza. Possa Egli illuminare i nostri intelletti".

OM Simbolo del Para Brahman
Bhur Bhu-Loka (piano fisico)
Bhuvah Antariksha-Loka (piano astrale)
Svah Svarga-Loka (piano celeste)
Tat Quello; Paramatman trascendente
Savitur Ishvara o Creatore
Varenyam Degno di essere venerato o adorato
Bhargo Che elimina peccati ed ignoranza.
Splendore di gloria
Devasya Risplendente; luminoso
Dheemahi Noi meditiamo
Dhiyo Buddhi; intelletto; comprensione
Yo Che; chi
Nah Nostro
Prachodayat Illumina; guida; spinge a fare

Oltre a questo, che è il Gayatri Mantra fondamentale, esistono anche i Gayatri delle varie divinità, così abbiamo il Gayatri di Ganesha, di Vishnu, di Durga e così via. 
Mahavakya Vak vuol dire ‘parola’ e ‘maha’ grande. Quindi, Mahavakya vuol dire ‘grande espressione verbale’ o ‘grande affermazione’. Sono delle frasi brevissime che racchiudono l’essenza della saggezza del Vedanta. Le quattro più conosciute e più importanti sono estrapolate ognuna da uno
dei quattro Veda, e sono le seguenti:
  • Prajñānam brahma - "La coscienza è Brahman" – Rig Veda
  • Ayam ātmā brahma - "Questo Sé (Atman) è Brahman" –Atharva Veda
  • Tat tvam asi - "Tu sei quello” - Sama Veda
  • Aham brahmāsmi - "Io sono Brahman" – Yajur Veda.
Tutte e quattro affermano in maniera inequivocabile l’identità dell’Atman col Brahman. Nella prima l’Atman viene indicato come pura coscienza, Prajñānam, cioè, per unirsi al Brahman, bisogna essere coscienti della nostra natura divina, che è un riflesso del Brahman stesso. Nella seconda, l’identità è tra Atman e Brahma. Nella terza Tat, quello, indica l’incommensurabile, l’Essere Supremo; tvam, tu, il Jiva, e asi, sei, l’unione tra i due. Nella quarta, lo stesso concetto viene espresso in prima persona, Aham. 
 
OM: “La sillaba Om è tutto l'universo". Eccone la spiegazione. Il passato, il presente, il futuro: tutto ciò è compreso nella sillaba Om. E anche ciò che è al di là del tempo, che è triplice, è compreso nella sillaba Om. "Ogni cosa è il Brahman; l'Atman è il Brahman. Questo Atman ha quattro modi di essere.” Mandukya Upanishad, 1-2 Om è il Mantra universale, il Mantra della Creazione, il suono dell’Universo. Om è l’espressione sonora o, in assenza di suono, di vibrazione sottile dello stesso Brahman. È causa ed origine di ogni suono e di ogni cosa nel Cosmo intero. 
Il Vangelo di Giovanni inizia con queste parole: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.” Non è difficile cogliere il parallelo tra il Verbo del Vangelo e la Vibrazione prima, lo Shabdabhraman che si trasforma in Om. Om, come il Verbo, è causa di ogni cosa. 

Pur essendo normalmente considerato un suono unico, in realtà OM è composto da tre suoni distinti: A, U e M. Parte dalla parte posteriore della bocca (A), passa al centro (U) e si conclude anteriormente verso le labbra (M). È consigliabile fare una piccola pausa di silenzio alla fine di ogni Om, vedremo presto perché. I tre suoni coinvolgono anche tre Chakra, sede dei Granthi, sorta di nodi, cancelli, che impediscono alla Kundalini di salire lungo la Sushumna Nadi fino a quando il praticante non è pronto a gestirla. I tre Granthi sono: 
-il primo è Brahma Granthi, nel Muladhara Chakra (perineo), il suono è A; 
-il secondo è il Vishnu Granthi, nell’Anahata Chakra, il suono è U; 
-il terzo è il Rudra, o Siva, Granthi, nell’Ajna Chakra, il suono è M. 

Om rappresenta molte triadi presenti nel Vedanta: Creazione (Brahma), preservazione (Vishnu) e cambiamento, Pralaya (Siva); passato, presente e futuro, i tre Guna, Tamas, Rajas e Sattva; i tre mondi o piani, Bhur, la Terra, Bhuva, l’atmosfera e Svah, il Cielo; i tre Sharira, corpi: Sthula Sharira, il corpo grossolano, fisico, Sukshma Sharira, il corpo astrale, e Karana Sharira, il corpo causale. 

Ma la triade più importante, rappresentata dalle tre componenti dell’Om, è quella degli stati mentali: veglia, sogno e sonno profondo. Dall’analisi della mente in questi tre stati si può comprendere l’irrealtà del mondo sensibile e che l’unica realtà eterna e immutabile, Sat, è il Brahman, e il suo riflesso nel Jiva,
l’Atman. 
Il silenzio alla fine della recitazione dell’Om rappresenta il superamento del tempo, l’infinito, del corpo e dei Guna, Moksha, dei mondi, la dimensione divina, e il quarto stato della mente, Turiya, lo stato di fermezza vigile e imperturbabile. Lo stato che si raggiunge quando il nostro livello di consapevolezza ci rende capaci di identificarci, non più, erroneamente col complesso corpo-mente-prana, ma con la nostra vera essenza divina, l’Atman.   ---   Hari Om Tat Sat

Le religioni si incontrano a Lavaur per meditare insieme

L’Istituto Vajra Yogini di Lavaur  ha ospitato un incontro spirituale interconfessionale di rara portata, che ha riunito 80 partecipanti provenienti da Francia, Olanda, Inghilterra e Georgia.  Erano presenti il rabbino Marianne van Praag, il venerabile Losang Gendun e il vescovo metropolita Malkhaz Songulashvili. All'origine di questa ritiro fuori dal comune: il Venerabile Losang Gendun. Al suo fianco, un vescovo georgiano, una rabbina olandese e una filosofa dei Paesi Bassi orchestrano un’esperienza collettiva in cui la spiritualità si vive a più voci.     Situato a pochi chilometri da Lavaur (vicino Toulouse in Francia), l'Istituto buddista “Vajra Yogini” è un centro di studi e meditazione della scuola Gelug del buddismo tibetano.       

Ogni giorno: silenzio, meditazione e discussioni scandite da un tema – equanimità, gioia, amore, compassione… ma senza un programma rigido.

«È un’esperienza di trasformazione interiore» spiega Losang Gendun, «ma anche di co-creazione. Non si tratta di affiancare le religioni, ma di inventare insieme un nuovo significato.»

La particolarità di questo ritiro risiede nel metodo: tutti gli esercizi vengono svolti in coppia o in piccoli gruppi interreligiosi. Questo lavoro a specchio favorisce l’ascolto attivo e l’adattamento reciproco. Anche le meditazioni vengono rielaborate collettivamente, parola per parola, affinché risuonino con le diverse tradizioni rappresentate — compresi i facilitatori.

Lontano dai classici convegni o dai dibattiti interreligiosi, qui si privilegia il sentire, l’interiorità, e la costruzione di una spiritualità viva, radicata nell’amicizia.
Frutto di questa dinamica relazionale, sono nati riti ibridi: né fusione né confusione, ma una convivenza consapevole e sensibile. Celebrazioni comuni, preghiere condivise, teatro spirituale: le forme sono libere, ma sempre ancorate al rispetto delle identità di ciascuno.

«Quello che stiamo creando è una pratica spirituale senza nome, ma profondamente sentita», spiega il monaco. Un modo per dimostrare che le tradizioni non solo possono dialogare, ma anche inventare insieme.
Per Losang Gendun, si tratta di un’urgenza: «Dopo l’attentato di Tolosa nel 2008, ho capito che la politica non bastava più. Quello che ci resta è il legame. Il vero potere è l’amicizia.»

Per molti dei partecipanti, tornati nei loro rispettivi Paesi, questa settimana ha seminato molto più di semplici ricordi: un modo nuovo di credere, dialogare, vivere insieme — forse, un inizio. 

Lavaur si trova a circa un'ora da Toulouse. Link al centro buddhista: Link al centro buddhista     https://www.institutvajrayogini.fr/

Il Vedānta e le sue Correnti Filosofiche

Vedānta (devanāgarī: वेदान्त, "fine dei Veda") è un termine sanscrito che indica la parte finale del corpus vedico, rappresentata principalmente dalle Upaniṣad, e che simboleggia anche il culmine del pensiero spirituale indiano, orientato verso la liberazione (mokṣa).      

In senso dottrinale, Vedānta si riferisce anche alla Uttaramīmāṃsā ("esegesi ulteriore"), fondata sullo studio del Brahmasūtra (o Vedāntasūtra), un testo di aforismi attribuito a Bādarāyaṇa, strutturato in quattro adhyāya (capitoli), ciascuno diviso in pāda (sezioni), per un totale di 555 sutra.

   

La base scritturale del Vedānta si fonda sul prasthānatraya ("i tre punti di partenza"):

  •     Le Upaniṣad
  •     La Bhagavadgītā
  •     Il Brahmasūtra

Queste opere sono oggetto di interpretazioni diverse, da cui derivano varie scuole vedāntiche. Tradizionalmente, il Vedānta si articola in sei principali correnti filosofiche:

  •     Advaita Vedānta di Śaṅkara (VI–VII secolo)
  •     Viśiṣṭādvaita Vedānta di Rāmānuja (XI secolo)
  •     Dvaita Vedānta di Madhva (XIII secolo)
  •     Dvaitādvaita Vedānta di Nimbārka (XIV secolo)
  •     Śuddhādvaita Vedānta di Vallabha (XV–XVI secolo)
  •     Acintyabhedābheda Vedānta di Caitanya (XVI secolo)

Queste scuole, pur avendo come riferimento lo stesso canone, giungono a concezioni molto differenti sulla natura dell’Assoluto (Brahman), del sé (ātman), e del mondo empirico (jagat).

Advaita Vedānta. Advaita (sanscrito: "non-dualismo", o "monismo") è la scuola Vedānta più influente, fondata in forma sistematica da Śaṅkara (Śaṅkarācārya), ma preceduta dal pensiero del filosofo del VII secolo Gauḍapāda, autore del Māṇḍūkya-kārikā, un commento in versi sulla Māṇḍūkya Upaniṣad.

Gauḍapāda, influenzato anche dal buddhismo mahāyāna (in particolare dalla dottrina dello śūnyavāda), afferma:

  •     L’unica realtà è la non-dualità (advaita).
  •     Tutta la percezione fenomenica, nella veglia come nel sogno, è māyā (illusione).
  •     Il jīva (anima individuale) non è realmente distinto dall’ātman, l’Essere universale.

    Non c'è divenire, solo apparenza: come lo spazio in un vaso non è diverso dallo spazio infinito, così l’anima individuale non è distinta dal Brahman.

Śaṅkara sviluppa l’Advaita in modo filosoficamente rigoroso nel suo Śārīraka-mīmāṃsā-bhāṣya, il commento ai Brahmasūtra. La sua visione si fonda su alcuni principi chiave:

  •     Brahman è l’unica realtà: senza attributi (nirguṇa), al di là del tempo, dello spazio e della causalità.
  •     Il mondo è illusorio (māyā): reale solo in senso relativo.
  •     L’ātman individuale è Brahman: la conoscenza di questa identità porta alla liberazione.

    L’errore percettivo (adhyāsa) consiste nel sovrapporre attributi all’Io, come nell’esempio della corda scambiata per un serpente.

Viśiṣṭādvaita significa "non-dualismo qualificato". Fondata da Rāmānuja, questa scuola propone una visione in cui l’unità dell’Essere supremo (Brahman) è mantenuta, ma è qualificata dalla presenza della prakṛti (materia) e degli ātman individuali, che costituiscono il corpo del Signore (sarīra-sarīrī bhāva).

  •     Il jīvātman non è identico al Brahman, ma eternamente connesso ad esso.
  •     La molteplicità è reale, ma subordinata all’unità organica del tutto.
  •     L’affermazione "Aham Brahmāsmi" è letta in chiave devozionale: l’unione con Dio non annulla la dualità, ma la sublima in comunione.

Una metafora spesso utilizzata è quella della scintilla e del fuoco: il jīvātman è una parte del Brahman, ma non è il tutto.

    Dvaita Vedānta di Madhva afferma una netta dualità: Dio e l’anima individuale sono eternamente distinti.

    Dvaitādvaita, Śuddhādvaita e Acintyabhedābheda cercano diverse forme di conciliazione tra unità e diversità. Differenze di prospettiva e coesistenza delle visioni. Una celebre risposta di Hanuman a Rāma sintetizza poeticamente le tre visioni vedāntiche:

  •     Quando sono consapevole del mio corpo, sono il Tuo servo.
  •     Quando sono consapevole della mia individualità, sono una parte di Te.
  •     Quando sono consapevole della mia essenza, sono Te stesso.

Questa risposta incarna:   -  La prospettiva dvaitica (servo),   - Quella viśiṣṭādvaitica (parte),    -  E infine quella advaitica (identità totale).

Molti vedāntin contemporanei sottolineano che le tre visioni non si escludono, ma possono essere viste come progressive realizzazioni spirituali.

Conclusione.    Il Vedānta rappresenta un corpus filosofico vasto e profondo, in cui le diverse scuole interpretano in modi differenti la natura dell'Assoluto e il rapporto con l’individuo e il mondo. Sebbene Advaita sia stata la scuola più influente storicamente, Viśiṣṭādvaita, Dvaita e le altre correnti offrono alternative altrettanto coerenti e profonde.  La loro diversità non implica necessariamente contraddizione, ma riflette differenti vie di accesso alla verità, adattabili ai livelli e agli stati di coscienza dei ricercatori spirituali.

Advaita Vedanta

 Advaita (sanscrito: non dualismo, talvolta Monismo), è la più influente delle scuole del Vedanta, una delle sei scuole filosofiche ortodosse dell' India. Mentre i suoi seguaci trovano i temi principali già completamente espressi nelle Upanisad e codificati nel Vedanta-sutra, ha il suo inizio storico con Gaudapada, un filosofo del VII secolo, autore del Mandukya-karika, un commento in versi sulla tarda Mandukya Upanisad.     

Gaudapada argomentò anche sulla filosofia buddista del Mahayana di Shunyava-da (vacuità). Sostenendo la non esistenza della dualità; la mente, nella veglia o nel sogno, si muove nella maya (illusione o ignoranza metafisica); e soltanto la non dualità (advaita) è la verità finale. Questa verità è celata dall' ignoranza dell' illusione. Non c'è alcun divenire, né da una cosa in sé o da una cosa a un'altra cosa. Non c'è infine il Sé o anima individuale (jiva), ma solo l'atman (l'Essere o spirito omnipervadente), in cui gli individui sono temporaneamente delineati così come lo spazio in un vaso si delinea come una parte dello spazio principale: quando il vaso è rotto, lo spazio specifico torna ancora una volta parte dello spazio principale.

Il filosofo medioevale indiano Shankara, o Shankaracarya, elaborò ulteriormente i concetti di Gaudapada, principalmente nel suo commento sul Vedanta-sutra, lo Shariraka-mimamsa-bhasya (Commentario sullo Studio sul Sé).  Shankara nella sua filosofia non inizia dal mondo empirico attraverso un processo di analisi logica ma, piuttosto, direttamente dall' assoluto (Brahman). Se interpretato correttamente, sostiene, le Upanisad insegnano la natura della Realtà Assoluta (Brahman). In questa questa discussione, sviluppa un epistemologia completa per rappresentare l' errore umano nella percezione del mondo fenomenico come reale.  Fondamentale per Shankara è il principio che il Brahman è reale ed il mondo è irreale. Ogni cambiamento, la dualità e la molteplicità sono un' illusione. Il Sé non è null'altro che il Brahman. La visione di questa identità provoca la realizzazione spirituale. Brahman è oltre il tempo, lo spazio e la causalità, che sono semplicemente forme dell'esperienza empirica. Nessuna distinzione nel o dal Brahman è possibile.

Shankara afferma che i testi scritti, dichianti l' identità (Tu sei Quello) o che negano la differenza (Qui non esiste dualità), in realtà affermano il vero significato di una Realtà Assoluta (Brahman) senza alcun attributo o qualità (nirguna). Altri testi che attribuiscono delle qualità (saguna) alla Realtà Assoluta (Brahman) sono da riferirsi non alla reale vera del Brahman ma alla relativa personalità come Divino (Ishvara).

La percezione umana della unitaria ed infinita Realtà Assoluta come molteplice ed infinita è causata dall' essere umano e alla sua abitudine innata della sovrapposizione (adhyasa), da cui un attributo si attribuisce all'Io (Io sono stanco; Io sono felice; Io sto percependo). L'abitudine proviene dall' ignoranza umana (avidya), che può essere evitata soltanto dalla realizzazione dell' identità del Brahman. Tuttavia, il mondo empirico non è completamente irreale, dato che è comunque un'apprensione errata del Brahman reale. Una corda si scambia con un serpente; c'è soltanto una corda e non c' è nessun serpente, ma, finché si pensa ad essa come al serpente, c'è il serpente. 

Shankara ha avuto molti seguaci che hanno continuato ed elaborato la sua opera, considerevole il contributo del filosofo Vacaspati Mishra del IX secolo. La letteratura Advaita è estremamente vasta e la sua influenza ancora è sensibile nel pensiero indù moderno.

Il lato oscuro della meditazione

Sebbene esistano evidenze sugli effetti positivi della meditazione, negli ultimi anni la ricerca ha iniziato a portare alla luce alcuni possibili rischi.  La Meditazione: una pratica positiva o negativa per la propria salute?       
La meditazione viene spesso presentata come una sorta di panacea per tutti i mali: ma è davvero così? Già nel 1976, Arnold Lazarus scriveva “One man’s meat is another man’s poison” sottolineando che questa pratica, pur essendo utile per molte persone, poteva invece essere dannosa per altre.             

La meditazione è spesso concepita come una pratica capace di curare universalmente tutte le sofferenze di coloro che si approcciano ad essa, motivo per cui vi è la credenza che apporti sempre e solo benefici a chiunque la pratichi. Non a caso, il centro statunitense Dhamma Pubbananda, specializzato nella meditazione, l’ha definita un “rimedio universale per mali universali” che permette una “liberazione totale da impurità e sofferenza” (Kortava, 2021). 

La meditazione, nonostante le sue antiche origini buddhiste, è riuscita ad integrarsi nella società e cultura americane odierne, tanto che il 14% della popolazione americana la pratica per migliorare il proprio benessere mentale, emotivo e fisico (Lindahl, 2017). Tuttavia, sebbene esistano evidenze sugli effetti positivi della meditazione, tra cui l’incremento delle emozioni positive e del benessere psicologico, nonché la riduzione dell’ansia e dello stress, negli ultimi decenni la ricerca ha iniziato a portare alla luce rischi ed effetti collaterali delle pratiche meditative, come depressione, agitazione e episodi schizofrenici (Lazarus, 1976). Grazie al lavoro di alcuni ricercatori sta iniziando a diffondersi la consapevolezza che la meditazione può rivelarsi una pratica benefica per alcuni soggetti e dannosa per altri, soprattutto per coloro che hanno una storia pregressa di problemi di salute mentale o condizioni psichiatriche non ancora emerse. Questo filone di ricerca tuttavia è ancora agli albori. 

Chi pensa che la meditazione sia solo pace, amore e benessere, sbaglia. Anche questa pratica millenaria, dai provati effetti benefici, ha un lato oscuro. Un ‘dark side’ in cui rientrano esperienze sgradevoli e inaspettate: si va dall’ansia all’insonnia, fino alle allucinazioni. Il buddismo zen ha persino un nome ad hoc per descrivere questo tipo di percezioni, makyo: combinazione delle parole giapponesi “diavolo” e “mondo reale”. Se ne sa poco, se ne parla ancora meno, eppure esistono e ora a documentarle, yin su yang (nero su bianco), c’è un nuovo studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Plos One. Una ricerca condotta da un’équipe di studiosi della Brown University, negli Stati Uniti, che ha intervistato 60 buddisti occidentali di tradizione zen, theravada e tibetana.
Solo perché qualcosa è benefico e positivo non vuol dire che non dobbiamo essere al corrente della varietà di possibili effetti che può avere”, ha detto a Quartz Jared Lindahl, uno degli autori dell’analisi, spiegando le motivazioni che lo hanno spinto ad indagare. Sotto esame sono finite le testimonianze di meditanti novizi, come di insegnanti che fino a oggi hanno accumulato più di 10mila ore di meditazione. Tutti, durante la pratica, hanno fatto fronte a emozioni poco piacevoli o a disturbi psicofisici. Si tratta di conseguenze che possono essere leggere e transitorie o più serie e durevoli, scrivono gli studiosi. In totale, ne hanno contate 59 riconducibili a sette categorie: cognitive, percettive, affettive (relative alle emozioni), somatiche, conative (relative alla motivazione), senso di sé e sociale. C’è, per esempio, chi ha riportato insonnia, chi un distaccamento emotivo, e chi irritabilità. Altri hanno ripercorso traumi passati, o hanno maturato una maggiore sensibilità alla luce. Una serie di esperienze variegate, che sono ben lontane dall’idea stereotipata della meditazione.

Uno studio interessante, se preso con le dovute precauzioni, precisa a Galileo Antonino Raffone, professore del dipartimento di psicologia dell’università Sapienza. È un’indagine qualitativa, non statistica. Quindi è impossibile sapere quanto sia diffuso il fenomeno tra i meditanti. Non stupisce, però, il fatto che durante la meditazione, quando praticata in maniera intensiva, si possano fare delle esperienze negative. Secondo Raffone, hanno più probabilità di verificarsi tra soggetti vulnerabili che dovrebbero affiancare alla meditazione una psicoterapia. “È un percorso che ci mette in contatto con le nostre attitudini e le nostre emozioni, anche quelle inespresse”, spiega. Una persona inconsciamente ansiosa potrà venire a contatto con la sua ansia. “D’altra parte, la stessa meditazione ci fornisce gli strumenti per ritornare a una condizione di equilibrio”. Niente di preoccupante, quindi. Ma il consiglio è di farsi sempre seguire da istruttori qualificati.

Willoughby Britton, direttrice del Laboratorio di Neuroscienze Cliniche e Affettive della Brown University Medical School, ha dedicato la sua carriera allo studio dei potenziali effetti avversi della meditazione e delle pratiche contemplative. Appena laureata era lei stessa un’avida meditatrice; tuttavia, nel corso di uno studio sulla relazione tra meditazione e qualità del sonno – innovativo in quanto basato su dati di laboratorio, e non solamente sulle impressioni dei partecipanti – ha fatto una scoperta inaspettata: i soggetti che meditavano per più di 30 minuti al giorno si svegliavano più spesso durante la notte e avevano un sonno meno profondo, anche se dichiaravano di dormire meglio grazie a questa pratica (Britton et al., 2010).

I risultati di tale studio hanno portato Britton e il suo team a sottolineare come, fino a quel momento, la ricerca sulle pratiche contemplative si fosse concentrata quasi esclusivamente sui loro benefici, trascurando l’analisi dei possibili rischi ad esse associati. Ciò ha dato vita al “Varieties of Contemplative Experience Project”, un’indagine volta a documentare, comprendere e rendere pubbliche le testimonianze di coloro che hanno sperimentato effetti indesiderati in seguito alla meditazione, coinvolgendo insegnanti e praticanti – con diversi livelli di esperienza – di meditazione delle tradizioni Theravāda, Zen e Tibetana. I dati raccolti hanno permesso di fare luce su possibili fenomeni avversi, tra cui ansia, panico, flashback traumatici, allucinazioni visive e uditive e appiattimento affettivo (Lindahl et al., 2017).

L’accumularsi di queste evidenze ha condotto Britton alla fondazione di Cheetah House, un progetto che si pone la missione di fornire sostegno a coloro che hanno sperimentato problematiche legate alle pratiche contemplative (problematiche che, purtroppo, vengono spesso ignorate da altri professionisti) e di educare gli istruttori di meditazione sui potenziali effetti dannosi di tale pratica.    Vedi: https://www.cheetahhouse.org/  (resources and support for adverse meditation experiences).

E la mindfulness? È dannosa o è semplicemente male interpretata?  Le pratiche contemplative promuovono la mindfulness, ovvero la capacità di stare nel momento presente senza tentare di modificarlo. Oggigiorno la psicoterapia sta volgendo lo sguardo verso i “trattamenti di terza generazione”, il cui denominatore comune è proprio la mindfulness come punto cardine (Ruggiero, 2022).
Proprio come le pratiche contemplative, anche la mindfulness è stata “accusata” di causare malessere psicologico. Whippman (2016) sostiene che la società capitalistica in cui viviamo, specialmente attraverso gli enti governativi e aziendali, incentivi l’idea dell’uomo sano come di una macchina che non prova mai emozioni negative; se le provi non è perché il governo o l’azienda ti stanno facendo mancare qualcosa, ma perché non ti stai impegnando abbastanza per pensare positivamente. È qui che entra in gioco la mindfulness: essa infatti può aiutare a mantenere il pensiero focalizzato non solo sul momento presente, ma anche su una visione positiva della realtà. In termini concreti: ignora quello che non va e continua a produrre.    
Se però la mindfulness può avere questo riscontro dannoso, com’è possibile che la psicoterapia odierna la stia utilizzando come base per evolversi? Per rispondere a questa domanda bisognerebbe innanzitutto chiedersi se il mantenimento del pensiero positivo sia il reale obiettivo della mindfulness. La risposta è no.
Come anticipato, la mindfulness rappresenta la capacità di sentire e tollerare le emozioni, belle o brutte che siano. In altre parole: non ignorarle, ma accettarle. Accettare che qualcosa non va, è il primo passo per  promuovere un cambiamento. La mindfulness ci è utile anche durante questo processo: cambiare non è facile, è una sfida che può provocare ansia, frustrazione e tristezza. Esercitarci a gestire la nostra mente in modo mindful è la chiave per sopportare queste emozioni negative in vista di un bene superiore: il raggiungimento del nostro benessere (Linehan, 1993).

Per via della sua complessità, è bene fare attenzione alla distinzione tra l’idea di mindfulness propinata dalla società, ovvero una positività pervasiva volta a soffocare qualsiasi tipo di malessere in favore di efficienza e produttività, e quella su cui invece la psicoterapia odierna sta costruendo la propria evoluzione. È quindi consigliabile non sottoporsi a tale pratica arbitrariamente e invece affidarsi a figure competenti che valutino la possibilità di procedere compatibilmente con l’anamnesi presentata. La supervisione di un professionista garantisce inoltre la condivisione delle finalità della mindfulness e consente l’identificazione di un obiettivo funzionale e fondato, diminuendo la probabilità di avere effetti indesiderati.    

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI.
    Britton, W. B., Haynes, P. L., Fridel, K. W., & Bootzin, R. R. (2010). Polysomnographic and Subjective Profiles of Sleep Continuity Before and After Mindfulness-Based Cognitive Therapy in Partially Remitted Depression. Psychosomatic Medicine, 72(6), 539.
    Kortava, D. (2021). Lost in Thought: The psychological risks of meditation. Harper’s Magazine, April 2021. Retrieved April 19, 2024, here.
    Lazarus, A. (1976). Multi-Modal Behavior Therapy. Springer.
    Lindahl, J. R., Fisher, N. E., Cooper, D. J., Rosen, R. K., & Britton, W. B. (2017). The varieties of contemplative experience: A mixed-methods study of meditation-related challenges in Western Buddhists. PLOS ONE, 12(5), e0176239.
    Linehan, M. M. (1993). Cognitive-behavioral treatment of borderline personality disorder. Guilford Press.
    Ruggiero, G. M. (2022). La parola, il corpo e la macchina nella letteratura psicoterapeutica (1st ed.). Alpes Italia srl.
    Whippman, R. (2016, November 26). Actually, Let’s Not Be in the Moment. The New York Times.

La notte dell'anima. Il lato oscuro della meditazione Dal sito:  https://www.stateofmind.it/2024/05/meditazione-possibili-rischi/   Articolo di Di Silvia Bettoni, Silvia Carrara, Michela Di Gesù, Martina Gori, Giulia Onida, Matteo Zambianchi - Pubblicato il 07 Mag. 2024 

Vedi:  https://www.galileonet.it/ansia-insonnia-lato-oscuro-meditazione/ Articolo di Rosita Rijtano

Dalla Superficialità alla Verità: Un Viaggio Spirituale verso l’Unità Interiore

La verità è una, ed è eterna. Non può essere definita, né contenuta nei limiti della parola o del pensiero. Essa si realizza solo nel cuore dell’essere umano che, liberandosi dalla superficialità della vita dominata dall’egoismo e dal materialismo, intraprende la via della ricerca interiore. Questo articolo intende esplorare il percorso spirituale che conduce dalla frammentazione dell’ego alla piena unione con il Divino, attraverso gli insegnamenti dello yoga, della tradizione cristica e delle vie mistiche orientali e occidentali.

L’essere umano moderno, immerso nel consumismo e nella frenesia esteriore, si allontana dalla propria essenza. La perdita del contatto con l’anima genera una condizione di alienazione e insoddisfazione esistenziale. Come la rana che vive tutta la vita nello stagno ignorando l’esistenza del mare, così l’uomo vive nella superficie della coscienza, incapace di percepire la profondità del proprio essere.

Lo yoga, in tutte le sue forme—karma yoga, bhakti yoga, jnana yoga e raja yoga—offre strumenti concreti per il ritorno a sé. Il karma yoga insegna l’agire disinteressato come mezzo di elevazione; il bhakti yoga invita alla devozione amorosa; il jnana yoga guida all’autoconoscenza; il raja yoga, infine, attraverso il silenzio, conduce alla meditazione profonda, là dove si dissolve ogni separazione.

«Il regno di Dio è dentro di te» – questa verità evangelica trova un’eco profonda nella scienza yogica. Il silenzio non è solo assenza di parole, ma è spazio interiore, condizione necessaria affinché l’anima possa risuonare con la sua origine divina. Nella visione di Patanjali, il silenzio mentale (nirodha) è la chiave per raggiungere gli stati superiori della coscienza.

Sat-Chit-Ananda, termine sanscrito che descrive la natura dell’anima (Purusha), significa esistenza-coscienza-beatitudine. Man mano che si va in profondità, dalla materia si passa all’energia, e da lì alla coscienza pura. Come l’acqua che solidifica fino a diventare ghiaccio, così la realtà manifesta scaturisce da una sorgente immutabile. La verità ultima è l’anima, ed è una sola in tutti gli esseri.

Nel cuore del percorso spirituale risiede l’amore, forza centripeta che conduce verso l’unità. «Quando muori, non conta ciò che hai fatto, ma quanto hai amato»: questo principio, radicato nella mistica cristiana e presente anche nel bhakti yoga, esprime la centralità dell’amore come mezzo di unione con il Divino.  

Isvara Pranidhana, uno dei precetti dello yoga di Patanjali, è l’abbandono al Signore, l’affidamento totale dell’ego al Sé superiore. Questo atto non è passività, ma apertura profonda. L’amore autentico dissolve le barriere tra l’io e il tu, tra umano e divino.    

Cristo e l’Oriente: Visioni Unificate del Divino.   Secondo una tradizione orientale e alcuni studi meno ortodossi (come quelli di Notovich), Gesù avrebbe trascorso diciotto anni in India, apprendendo le tecniche del Kriya Yoga e altre pratiche spirituali. In questa visione, Gesù non è solo una figura storica ma un Avatar, una manifestazione dell’Assoluto sulla terra.

Il messaggio centrale del Cristo – “Tu sei figlio di Dio”, “Il regno è dentro di te” – viene interpretato in chiave gnostica e yogica come un invito alla realizzazione interiore. La spiritualità dei Padri del Deserto, così come la gnosi primitiva, non era centrata sul dogma, ma sull’esperienza diretta della Presenza divina attraverso il silenzio e la meditazione.

Nella teologia mistica, la Coscienza Cristica è l’intelligenza divina presente in ogni atomo dell’universo. È il “Dio Figlio”, che insieme al “Dio Padre” e allo “Spirito Santo” compone una trinità attiva. Questo principio è sorprendentemente affine alla concezione indiana della trinità: Brahman (Assoluto), Atman (Sé individuale), e Shakti (energia divina).

L’amore, in questa prospettiva, permea l’intera creazione. Tutti i grandi Maestri spirituali, da Buddha a Yogananda, da Krishna a Cristo, hanno mostrato come il vero cammino consista nell’annullare l’ego per fare spazio al Divino.

Yogananda, maestro del Kriya Yoga, sottolineava che la spiritualità non è un sistema di credenze, ma una scienza sperimentale. Meditazione, preghiera, mantra (japa), e pratiche energetiche come il reiki o la pranoterapia sono strumenti per aprirsi al flusso dell’energia divina. Il silenzio interiore, la pratica regolare e la compassione universale sono pilastri della trasformazione.

Secondo gli insegnamenti di Swami Kriyananda e altri discepoli, il progresso spirituale si realizza nel quotidiano, nel karma yoga del vivere consapevole, nella scelta di gruppi spirituali che stimolino l'evoluzione interiore, e nel coltivare la bontà come riflesso della Bontà divina.

Conclusione: Verso l’Unità dell’Essere.  Siamo tutti pellegrini sul sentiero della verità. La sofferenza spesso ci spinge a cercare, ma la vera libertà arriva solo quando si ama il Divino per il Divino stesso. Ogni atto d’amore, ogni momento di silenzio, ogni respiro consapevole è un passo verso l’unità.

La spiritualità autentica è l’arte di vivere nel mondo senza essere del mondo. È la via che va dalla mente al cuore, dal rumore al silenzio, dall’ego all’amore, dalla molteplicità all’Uno.

Ajahn Chandapalo

Nato a  Preston, nel  Lancashire (Inghilterra), inizia ad interessarsi alla meditazione buddhista durante l’ultimo anno di studi presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Lancaster. A Manchester, ad una celebrazione del Vesak nel 1978, incontra per la prima volta il Ven. Ajahn Sumedho, della tradizione Theravada dei monaci della foresta. Durante gli studi per il Master in Ingegneria Biomedica presso l’Università di Dundee, incontra il Ven. Ajahn Chah ad Edimburgo. Dopo aver ricoperto per quasi un anno la posizione di Assistente Ricercatore nell’Unità di  Bioingegneria di Glasgow, sceglie di intraprendere il sentiero monastico, e prende gli otto precetti come  anagarika (postulante) presso il Monastero di Chithurst nel West Sussex.          


Nel 1981 aiuta Ajahn Sucitto a fondare la prima “succursale” del monastero di Chithurst ad  Harnham, vicino a  Newcastle (oggi noto come  Aruna Ratanagiri).  Riceve l’upasampada (l’ordinazione completa come  bhikkhu  o monaco) nel 1982.  Un anno dopo affianca  Ajahn Munindo nella fondazione di un nuovo monastero a Devon. In seguito si trasferisce insieme ad  Ajahn Sumedho e vari altri monaci in una località vicina ad  Hemel Hempstead, dove viene fondato il monastero di Amaravati. Quattro anni dopo viene invitato in Svizzera insieme ad  Ajahn Tiradhammo, e qui resterà per più di due anni, contribuendo alla fondazione del Monastero  Dhammapala. Risiede per un anno in Thailandia, presso il Monastero Internazionale Wat Pah Nanachat.

Nel 1993 si trasferisce in Italia, presso il monastero Santacittarama, fondato tre anni prima da  Ajahn Thanavaro. Nel 1996, quando Ajahn Thanavaro sceglie di tornare alla vita laica,  Ajahn Chandapalo assume la carica di abate del monastero, la cui sede viene trasferita l’anno successivo in una località nei pressi di Poggio Nativo (Rieti) a pochi chilometri da Roma. Nel 2011, insieme ad Ajahn Amaro,  riceve ufficialmente la nomina di “precettore” (upajjhaya) dal sangha thailandese, venendo così autorizzato a selezionare i candidati adatti alla formazione monastica, che chiedono di entrare nella comunità europea di bhikkhu, e a celebrare le cerimonie di ordinazione. Tiene regolarmente insegnamenti in vari parti d’Italia e all’estero.

https://santacittarama.org/2019/02/20/biografia-di-ajahn-chandapalo/

Introduzione al Blog

  Il Blog è nato nel marzo 2021, in tempo di pandemia, per comunicare e condividere le mie letture e i miei interessi.  Nel Blog ci sono c...