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sabato 22 aprile 2023

L'innocente interazione tra sua Santità il Dalai Lama e il bambino indiano

How and why an innocent interaction between His Holiness the Dalai Lama and a young Indian boy has been sensationalized into a clickbait story with leading titles and fake descriptions, and a carefully spliced video.  

Come e perché un'innocente interazione tra Sua Santità il Dalai Lama e un giovane indiano è stata sensazionalizzata in una storia di clickbait con titoli e descrizioni false e un video accuratamente montato.

https://www.youtube.com/watch?v=bT0qey5Ts78

https://www.youtube.com/watch?v=P38uylAkhHU

venerdì 21 aprile 2023

Spiriti d'Oriente - articolo sull'episodio riguardante il Dalai Lama

"La nostra pigrizia intellettuale spiana la strada alla propaganda, ai regimi, alle dittature invisibili".

 “Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che fanno il male, ma a causa di quelli che guardano senza fare niente” -  Albert Einstein.

"Soprattutto in questo periodo così oscuro caratterizzato dalla pandemia e dalla guerra tra Russia ed Ucraina, chi non prende posizione diventa complice".

Sotto è riportato l'articolo del Foglio sull'episodio riguardante il Dalai Lama.


 

Riconosciuto un bambino, come reincarnazione dell'ultimo grande maestro tibetano della Mongolia

(ANSA) - NEW DELHI, 28 marzo 2023 - Il Dala Lama, leader spirituale del buddismo tibetano, nel corso di tre giorni di insegnamenti rivolti alla comunità dei tibetani di origine mongola a Dharamsala, la città indiana dove vive da rifugiato, ha riconosciuto un bambino di otto anni, come reincarnazione dell'ultimo grande maestro tibetano della Mongolia.
Il quotidiano Hindustan Times scrive che il bimbo era già stato "consacrato" nel monastero tibetano di Gandan, nella capitale mongola di Ulan Bator, prima di essere presentato al Dalai Lama che lo ha accettato come decima reincarnazione del Rinpoche (venerabile maestro) mongolo Khalkha Jetsun Dhampa.
Il bambino, di cui non viene rivelata l'identità, è nato negli Stati Uniti ed è figlio di un ricco uomo d'affari mongolo. Il riconoscimento, tuttavia, non si traduce in una designazione alla possibile successione del Dalai Lama che, giunto ormai alla soglia degli 88 anni, ha ripetutamente affermato di non avere ancora deciso se indicare o meno a chi lasciare la guida spirituale. E se lo dovesse fare, nella comunità internazionale del buddismo tibetano sono almeno mille i lama, ovvero i maestri, riconosciuti come reincarnazioni di precedenti leader spirituali. Riconoscimento che avviene grazie a segnali che loro stessi danno o tramite le indicazioni di oracoli o delle persone a loro vicine.

Il riconoscimento del bambino ha però un'importanza politica, perché mira a rivitalizzare la presenza del buddismo tibetano nella Mongolia, il Paese asiatico "schiacciato" tra Russia e Cina dove, nel sedicesimo secolo, il re Altan Khan, convertitosi al buddismo, conferì il titolo di Dalai Lama (Oceano di saggezza) al maestro Gelugpa Sonam Gyatso, terzo esponente del lignaggio mongolo.

Da tempo non erano stati riconosciuti lama mongoli rilevanti e il lignaggio rischiava di interrompersi: l'identificazione del piccolo rappresenta l'ennesima azione politica dell'anziano leader spirituale tibetano che non smette di lottare, dal suo esilio in India, per il suo Paese occupato dal 1950 da Pechino.  L'azione mira a contrastare l'influenza cinese in Mongolia.


Il Panchen Lama

Il Paṇchen Lama, è un importante titolo assegnato a un lignaggio di lama incarnati.  Il Monastero di Tashilhunpo è la sede tradizionale del Pan Chen Bla Ma  che è stata la seconda carica più importante lamaistica del Tibet fino al 1950.
Durante l'invasione cinese molti testi sono andati distrutti e lo stesso monastero è stato in parte distrutto. Sede per più di 4000 monaci era una delle strutture più importanti nella cultura tibetana. Oggi è sotto la stretta sorveglianza cinese perché ritenuto pericoloso.

Il "Panchen Lama" è un titolo e non una persona. Questo titolo è assegnato solo ai riconosciuti come discendenti di Lama, letteralmente il significato pan chen vuol dire grande studioso. Questo titolo viene tramandato da moltissimo tempo, il primo Panchen Lama fu Khedrup Gelek Pelzang 1385.


Il Panchen Lama attuale è  Gedhun Choekyi che è nato nel 1989, ed riconosciuto come undicesimo Pachen Lama, seconda maggiore carica del buddhismo tibetano. L'attuale Dalai Lama lo elevò allo stato di Panchen Lama nel maggio 1995, all'età di 6 anni. Lo stesso anno la "Repubblica" Cinese lo rapì, con tutta la famiglia, sostituendone con un altro di loro interesse e sotto il loro controllo.  Il "Falso Panchen Lama" sostituito dalla Cina ha il compito di modificare la tradizione e obbedire al partito. Gyaltsen Norbu, il Panchen Lama nominato da Pechino, nel 2021 ha affermato che le “forze anti-cinesi” interferiscono negli affari interni del Tibet per ragioni politiche e per ostacolarne lo sviluppo.

Solo le Nazioni Unite e Amnesty International  hanno fatto sentire la loro voce ed hanno chiesto notizie e spiegazioni. Di Gedhun Choekyi e della sua famiglia si sono perse ogni tipo di tracce.

Il Consiglio dei diritti Umani dell'ONU  ha discusso in data 2 Luglio 2019 a Ginevra in merito alla faccenda del piccolo (ormai 31 anni ... ) Panchen Lama ed ha invitato la Cina a rendere pubblico il luogo in cui si trova. La risposta Cinese è stata la seguente: il bambino e i suoi genitori “sono stati affidati al Partito Comunista per essere protetti dai tentativi di rapimento messi in atto dai seguaci del Dalai Lama, il bambino è al sicuro come richiesto dai genitori”.

La repressione religiosa non è una novità in Cina ma sta costantemente crescendo. Milioni di Tibetani subiscono da decenni il controllo statale sull’esercizio della loro religione, ma lo stesso vale anche per i Cristiani e per i seguaci del movimento Falun Gong. Attualmente chi maggiormente subisce le violenze di Pechino sono però i credenti musulmani nellregione dello Xinjiang. Almeno 1,5 milioni di musulmani dello Xinjiang sono internati in campi di lavoro forzato e l’intera regione viene monitorata tramite un controllo digitale senza precedenti.

La cerimonia: i voti del Bodhisattva

I quattro grandi voti fatti da un Bodhisattva sono:     

  • Faccio voto di liberare gli innumerevoli esseri senzienti nella vera natura.
  • Faccio voto di estirpare le infinite contaminazioni nella vera natura.
  • Faccio voto di apprendere gli incalcolabili insegnamenti nella vera natura.
  • Faccio voto di realizzare la suprema Via del Buddha nella vera natura.

Dal Sūtra della rete di Brahma (Brahmajāla Sūtra) - I precetti del Bodhisattva sono i seguenti:

  1. Non uccidere. Proteggere e incoraggiare a proteggere la vita.
  2. Non prendere ciò che non è stato dato. Coltivare e incoraggiare la felicità degli esseri senzienti.
  3. Non indulgere in comportamenti sessuali irresponsabili. Coltivare e incoraggiare il rispetto e la temperanza.
  4. Non parlare falsamente. Coltivare e incoraggiare la giusta conoscenza.
  5. Non vendere o dare bevande alcoliche e droghe. Coltivare e incoraggiare la chiarezza mentale.
  6. Non pettegolare sugli errori dei praticanti buddhisti. Coltivare e incoraggiare l’armonia con gli altri.
  7. Non lodare se stesso e sminuire gli altri. Coltivare e incoraggiare lo spirito di servire tutti gli esseri.
  8. Non essere avari e non ingiuriare. Coltivare e incoraggiare la generosità.
  9. Non nutrire ira e rancore. Coltivare e incoraggiare pace e comprensione.
  10. Non diffamare i Tre Gioielli.  Coltivare e incoraggiare profondo rispetto per Buddha, Dharma e Sangha
     

I precetti minori:  

  1.     Non mancare di portare rispetto ai Maestri, ai monaci e a coloro che hanno preso i precetti da più tempo.
  2.     Non consumare bevande alcoliche, né incoraggiare altri a farlo.
  3.     Non cibarsi della carne di nessun essere senziente. Chi mangia carne non fa germogliare la radice della grande compassione e recide il seme della buddhità presente in lui stesso e causa paura negli animali.
  4.     Non mangiare i cinque tipi di piante pungenti: aglio, cipolla, scalogno, porro, erba cipollina. (Questi, se mangiati cotti, aumentano il desiderio sessuale; se crudi l'ira.)
  5.     Non mancare di insegnare come fare pentimento a colui che è stato visto violare i precetti.
  6.     Non mancare di ospitare, fare offerte e chiedere insegnamenti ad un Maestro di Dharma venuto per una visita da molto lontano.
  7.     Non mancare di ascoltare le spiegazioni dei Sūtra e degli insegnamenti morali, là dove si trovi un maestro di Dharma.
  8.     Non parlar male, essere in opposizione all'insegnamento mahāyāna o seguire insegnamenti in disaccordo con il Dharma.
  9.     Non trascurare chi sta male. Si dovrebbe a lui/lei provvedere come si facessero offerte al Buddha.
  10.     Non possedere armi o usare trappole per distruggere la vita. Tanto meno vendicarsi della morte di qualcuno, persino di quella dei propri genitori.
  11.     Non agire come emissario della nazione dove tale impegno può causare guerre e uccisione di esseri senzienti.
  12.     Non far commercio di schiavi, schiave o animali domestici a fini alimentari.
  13.     Non calunniare la gente virtuosa (monaci, monache, saggi, maestri).
  14.     Non accendere fuochi distruttivi per pulire foreste, specie nei periodi in cui vi è più vita e vegetazione.
  15.     Non dare insegnamenti parziali o devianti. Insegnare a tutti la via del Bodhisattva per realizzare la natura di Buddha.
  16.     Non dare insegnamenti senza prima aver studiato e ben compreso il loro significato profondo. Non insegnare per profitto personale.
  17.     Non rendersi amici dei potenti per esigere viveri, danaro o prestigio.
  18.     Non insegnare come un Maestro senza un'adeguata comprensione del Dharma e mancando di osservare i precetti.
  19.     Non parlare maliziosamente e con doppiezza creando discordia e disarmonia tra le persone virtuose.
  20.     Non mancare di coltivare la mente compassionevole per soccorrere gli esseri senzienti in pericolo di morte liberandoli dalle loro sofferenze, come ad esempio gli animali dalla macellazione. Durante infiniti eoni, tutti gli esseri senzienti possono essere stati nostro padre e nostra madre.
  21. Non rispondere all'odio con l'odio né cercare vendetta né comportarsi con violenza.  Togliere la vita ad un altro essere per vendicarsi è contrario alla filialità (perché siamo tutti interrelati attraverso eoni di rinascite).   Un Bodhisattva novello non deve essere arrogante e rifiutarsi di ricevere istruzioni sul Dharma da un maestro di condizioni più umili, povero o che ha disabilità fisica.
  22. Non inorgoglirsi della propria conoscenza del Dharma, né rifiutare di insegnare a chi chiede insegnamenti.
  23. I precetti del Bodhisattva vengono dati da un Maestro di Dharma che a sua volta li ha ricevuti in trasmissione. Tuttavia se nel raggio di circa 500 km non ci sono Maestri di Dharma, eccezionalmente, dopo almeno sei giorni di pratiche di pentimento e di purificazione, ci si può conferire da soli i precetti. Ciò deve avvenire di fronte all’immagine del Buddha, soltanto dopo aver ricevuto, come auspicio, una visione a testimoniarne la sincerità.
  24.     Non trascurare di studiare e praticare gli insegnamenti mahāyāna dedicandosi a quelli non buddhisti.     Un abate o un responsabile della comunità dovrebbe amministrare bene le risorse di cui dispone e le offerte, così mantenendo l’armonia nel Sangha.
  25.     Non si deve mancare di trattare allo stesso modo dei residenti i monaci in visita al tempio, offrendo loro sistemazione e vitto adeguati al loro grado di anzianità monastica. Li si dovrebbe, inoltre, invitare alle cerimonie in cui vi sono donazioni.
  26.     Non accettare per sé stessi le offerte che appartengono al Sangha. Prendere per sé stessi ciò che è stato offerto alla comunità è come rubare quello che appartiene agli otto campi dei meriti: Buddha, saggi, Maestri di Dharma, Maestri dei precetti, monaci e monache, madri, padri, malati.
  27.     Nel fare offerte i donatori non dovrebbero discriminare tra monaci e monache, amici e altri.
  28.     Non sostentarsi sfruttando la prostituzione o esercitando magia, divinazione, lettura delle mani, produzione di veleni, addestramento di falchi e cani per la caccia, macellazione di animali ecc.
  29. Un bodhisattva monaco o monaca non deve compiere mediazioni negli affari dei laici, p. es. agire per combinare matrimoni, creando così karma di attaccamento.  
  30. Se per un bodhisattva laico è difficile essere sempre vegetariano, dovrebbe esserlo almeno per sei giorni al mese o per tre mesi l'anno.
  31.     Non evitare di riscattare oggetti sacri quando si trovino in situazioni di abuso o contrabbando, nonché cercare di liberare i monaci e le monache che siano stati imprigionati o schiavizzati.
  32.     Non nuocere ad esseri senzienti, facendo commercio di armi, rubando i beni altrui, oppure allevando cani, maiali e altri animali per farne commercio (e quindi ucciderli per fini alimentari).
  33.     Non guardare esercitazioni militari, combattimenti tra uomini o animali. Non indulgere nell'ascoltare musica mondana, non giocare d'azzardo o predire il futuro.
  34.     Non perdere mai la determinazione adamantina di studiare e mantenere i precetti del Bodhisattva. Nel fare ciò si mantiene costantemente bodhicitta (la mente del risveglio), senza rischiare di regredire.
  35.     Non trascurare di fare “grandi” voti personali, ad es. rispettare e aiutare i propri genitori e Maestri di Dharma, praticare con buoni compagni della Via, comprendere profondamente il Dharma.
  36.     Non trascurare di adempiere ai propri grandi voti, generati per prevenire la mente dall'essere coinvolta in azioni che portino a rompere i precetti.
  37.    Il bodhisattva novello dovrebbe recitare i precetti due volte al mese. b) Nei periodi di ritiro il Bodhisattva dovrebbe evitare luoghi pericolosi, come i paesi governati dai tiranni, giungle remote, foreste infestate da animali feroci, zone avversate da calamità naturali.
  38.     Non trascurare di avere un comportamento umile e rispettoso nei confronti dei membri più anziani del Sangha, lasciando loro i posti a sedere davanti.
  39.     Non trascurare di parlare del Dharma e della moralità per il bene di tutti; incitare a edificare templi, monasteri e stūpa; recitare i testi sacri per il bene dei malati o delle vittime di calamità.
  40. Non discriminare nel conferire i precetti del Bodhisattva: sia questi una persona nobile, un ricco, uno povero, un monaco, una monaca, un laico, una laica, una prostituta, un deva, uno schiavo, un asessuato, un omosessuale, uno straniero o altro.  Comunque, le persone che hanno commesso uno delle sette gravissime trasgressioni non possono ricevere i precetti del Bodhisattva in questa vita.  Le sette gravissime trasgressioni sono: ferire il Buddha, uccidere un arhat, matricidio, patricidio, uccidere il proprio Maestro spirituale, uccidere il proprio Maestro di Vinaya, creare divisione nel Sangha.
  41. Il Bodhisattva monaco o monaca dovrebbe usare abiti di colore monastico (ocra, zafferano, porpora, bordeaux, marrone) distinguendosi in tal modo dai laici.
  42.     Non insegnare il Dharma per denaro, fama o potere personale. Non impartire i precetti del Bodhisattva a chi, avendo commesso una o più delle dieci gravi trasgressioni, non abbia osservato un periodo di ravvedimento per almeno sei giorni.
  43.     Non recitare i grandi precetti dei Buddha dinanzi a persone che non li abbiano ancora ricevuti, che non sono buddhisti o che seguono vie errate.
  44.     Non avere intenzioni di violare e aggirare i precetti. Chi fa ciò non è degno di ricevere le offerte dei donatori.
  45.     Non mancare di rispettare e recitare i Sūtra mahāyāna e i testi dei precetti. Andrebbero conservati, ricopiati e distribuiti. Non si dovrebbe porre sopra di essi oggetti mondani e non poggiarli per terra.
  46.     Non mancare di diffondere la conoscenza del Dharma agli esseri senzienti. Ovunque il Bodhisattva si trovi, dovrebbe aiutare tutti gli esseri a sviluppare bodhicitta (la mente del risveglio), insegnando anche agli animali.
  47.     Non insegnare il Dharma occupando una posizione inferiore, sedendo in basso o rimanendo in piedi di fronte a coloro che ricevono l'insegnamento. (Eccezione: chi ha difficoltà fisica può sedere sulla sedia quando l’insegnante di Dharma siede sul cuscino in basso.)
  48.     Non abusare della propria eventuale influente posizione per stabilire regole o leggi che contrastino con le regole morali del Buddhadharma.
  49.     Non nuocere al Dharma, ad es. insegnando a uomini di potere in maniera arrogante o entrando nei loro intrighi e causando in tal modo rischi di persecuzione a monaci, monache e praticanti.

    Il Bodhisattva non deve vendicare nemmeno la morte dei suoi genitori. Astenendosi, così, dall'uccidere, interrompe la catena karmica di violenza, piantando nel presente semi di saggezza e compassione per il futuro. Più trasgressioni gravi una persona commette e più un Bodhisattva dovrebbe avere compassione! Questo insegnamento esiste perché ci sono persone che compiono molte trasgressioni. I Bodhisattva più coraggiosi sono quelli che dimorano nei luoghi ove maggiore è la sofferenza!

vedi sito: http://www.bodhidharma.info/musangam/2017/12/14/cerimonia-i-voti-del-bodhisattva

sabato 15 aprile 2023

Le polemiche sul gesto del Dalai Lama.

Su tutti i media gira un video che è stato ripreso durante un evento il 28 febbraio scorso, quando l’87enne Dalai Lama ha parlato a un gruppo di studenti nel tempio Tsuglagkhang di Dharamshala, nel nord dell’India. Nel filmato si vede un ragazzino che si avvicina a un microfono e chiede al leader spirituale buddista: “Posso abbracciarti?”. Il Premio Nobel per la Pace invita il bambino sul palco,  i due si toccano con la testa, prima che il Dalai Lama dica: “CheLa Sa”. Poi i due si abbracciano, e più avanti nel video, il Dalai Lama fa il solletico al bambino sotto le ascelle.

In seguito alle polemiche relative all'episodio di cui è stato protagonista il Dalai Lama, ho selezionato un paio di interventi nei social in cui mi sono più identificato:

Il primo intervento è di Piero Head Tron Delfino - Amministratore del gruppo Facebook Dalai Lama Italia. 

Quando, ci formiamo un'opinione su qualsiasi questione senza considerare il contesto, stiamo scegliendo di mantenere un importante grado di ignoranza nel nostro ragionamento, quindi farò un ultimo commento sull'abbraccio richiesto alla SS Dalai Lama e che ha suscitato tanta polemica in Occidente.
Una delle ripetute accuse che sono state mosse deriva dalla confusione sull'espressione tibetana "GeCheLé Dyip", "CheLa Sa".
Nella cultura tibetana è comune che i nonni diano ai nipoti un piccolo dolce o cibo direttamente dalla bocca a bocca. 
Dopo, quando non hanno più nulla in bocca, gli dicono "CheLa Sa", "mangiami la lingua", che equivale a dire "Ti ho dato tutto il mio amore e i dolci, quindi l'ultima cosa che posso offrirti è la mia lingua, perciò "mangiami la lingua". ”
È un'abitudine affettuosa e innocente, molto comune nella regione di Amdo da cui è originario il Dalai Lama e che i bambini conoscono bene, ma logicamente questo viene percepito in modo molto diverso quando si traduce erroneamente in inglese come "succhiami la lingua".
Quest'errore di traduzione in inglese (anche da parte del Dalai Lama stesso) è quello per cui Sua Santità si è scusata, "per il dolore che le sue parole hanno potuto causare".
Un'altra questione che è stata discussa a lungo è quella di come il giovane ha percepito questa situazione. Per la cronaca, condivido le dichiarazioni pubbliche fatte da questo giovane e sua madre alla fine dell'evento (circa due mesi fa).
https://www.facebook.com/LamaTrinle/videos/150318354661457
https://www.facebook.com/LamaTrinle/videos/6389306294453239
Capisco che tutto questo può essere stato scomodo e addirittura irritante, visto da una prospettiva decontestualizzata, in un video manipolato, ma ora sono disponibili tutte le informazioni complete e veritiere, e le persone sincere hanno la possibilità di accettare e accettare le cose come sono state e ritirare le gravi accuse, diffamazioni e insulti gratuiti che si sono rivolti contro un essere che ha dato tutta la vita alla pace e al servizio del bene comune.

L'altro intervento è di  Tenzin Peljor è un monaco che da anni si occupa di “problemi complicati del Buddismo tibetano”, come riporta il suo blog, che vanta milioni di visitatori. Peljor racconta agli utenti gli abusi sessuali all’interno della sua comunità, abusi nella maggior parte delle volte avvolti in una coltre di silenzio.
A detta di Peljor chi ha diffuso il video integrale avrebbe inserito emoji con abbracci e altri elementi simili e molto probabilmente in prima battuta quello che è stato recepito è stato solo un gesto affettuoso, comunque “disturbante”, ma assimilabile ad uno scherzo. Peljor ricorda infatti che il Dalai Lama “è una personalità molto calorosa, goliardica, che spesso cerca il contatto fisico”. “Ho conosciuto il Dalai Lama – continua il monaco – posso testimoniare che ha sempre la tendenza allo scherzo, al contatto fisico, me lo ricordo con i nativi americani che prendeva i gioielli che avevano indosso e se li portava a pochi centimetri dagli occhi, ridendo. Altre volte prendeva i capelli di qualcuno e se li metteva sul mento, come una barba. A volte, nel tentativo di esprimere vicinanza, può superare qualche confine. Questa volta, indubbiamente, è successo".


domenica 12 marzo 2023

Calmo e Limpido - Lama Mi-pham

"Possano questi testi aiutare le persone ad aiutare se stesse. Che tutti gli sforzi siano per la liberazione di tutti gli esseri".

Riassunto del testo che è diviso in due parti.

Parte prima. La ruota della meditazione analitica.  Alla meditazione buddhista non interessa l'Io e neppure il super-Io, un io trascendente o qualsiasi altra fantasia, quanto piuttosto infrangere la stretta mortale di queste fantasie, lasciando emergere la vera identità dell'uomo. La meditazione mira quindi a un'esperienza di identità in cui ogni immagine di se stessi non è altro che una distorsione e un travestimento. La stessa analisi deve essere condotta con ciò che viene chiamato mente. La maggior parte delle nostre esperienze viene filtrata attraverso un sistema di categorie, di costruzioni, di fantasie e di compartimenti, sempre centrati sull'io e basati sulla supposizione che il mondo possa essere osservato solo dal punto di vista degli interessi  o delle esigenze di chi lo percepisce.

- Le quattro verità del Mahayana si rifanno alle stesse caratteristiche dei fenomeni: la molteplicità composita, la transitorietà, l'origine della sofferenza e la non sostanzialità dell'essenza. La qualità dei frutti dipende dalla ferma risoluzione a praticare.

La causa delle frustrazioni, dei fallimenti, delle disgrazie e delle ansie non è esterna. Deve essere cercata dentro di noi. La confusione, creata dai conflitti emotivi prodotti dai giochi mentali che distorcono la visione, è l'ostacolo fondamentale alla conoscenza dell'identità di samsara e nirvana. La disciplina della mente conduce alla comprensione e alla piena consapevolezza. Gelosia, odio e orgoglio sono le emozioni che ci perturbano ed offuscano la mente, la passione è la forza emotiva che distrugge la serenità. Una volta che il dominio della sensualità è trasceso le tendenze grossolane sono eliminate. Nel buddhismo mahayana ci sono tre percorsi: 1- lo Sravakayana, il discepolo sopprime le sue emozioni ma non riesce a comprendere la natura della realtà e rimane legato al samsara; 2- il Pratyekabuddha, il praticante si ritira in solitudine e avendo sottomesso la sua natura passionale riesce a liberarsi dall'illusione che via sia qualcosa di esterno, 3-  Il Pratyekabuddha non ha però la spinta altruista che possiede il Boddhisattva, colui ha scoperto il vuoto essenziale di tutta l'esistenza e si dedica agli altri esseri senzienti immerso nel mondo per amore dell'armonia universale.  La mente è come il mare (similitudine indiana): è profonda, trasparente e priva di limiti; quando le correnti delle passioni agitano il fondo e la superfice è disturbata dalle onde del pensiero, non può esservi limpidezza e non può esservi pace.  l praticante potrà  misurare i suoi progressi verso il sentiero della meditazione Samatha e Vipasyana attraverso una struttura idealizzata dei nove stadi della meditazione (pag. 60). Durante la meditazione, la mente tende verso l'interno, rimane concentrata, e quando si distrae ritorna facilmente nello stato di concentrazione, le distrazioni non influiscono più, la mente è meno possessiva, le emozioni si risolvono nella pace, si rimuovono i desideri di ciò che non si ha, ci si concentra su un solo punto e non si ha più voglia di tornare nel mondo esterno, si percepisce l'esistenza incondizionata che è interamente illuminata. Di seguito sono riportati alcuni sutra (strofe) del testo.

  • 1 - Nella vita le cause della confusione e della frustrazione sono le virulente passioni della mente. Alla dispersione e alla distorsione, cause delle passioni, deve subebtrare la incisiva attenzione.
  • 29 - Si riconosce, attraverso la costante meditazione, la complessità, la transitorietà, il dolore e l'insostanzialità di tutta l'esistenza condizionata, sia propria che degli altri corpo-mente. 
  •  30 - La mente si imbeve di piena comprensione.
  •  31 - Libero dai frangenti della passione, l'oceano della mente è sereno e limpido, in armonia con la tranquilla purezza, si raggiunge la concentrazione nella pace e nella calma.
  • 40 - Attaccandosi a nulla, ma aspirando alla compassione, e scivolando nella vita senza paure, come un uccello nel cielo della semplicità, il figlio di Buddha raggiunge la dimensione più elevata.
  • 44 - Nei sutra è detto che l'offerta rituale alla tripla gemma, per mille anni della vita di un dio, è meno benefica del riconoscimento della transitorietà, del vuoto e dell'assenza dell'Io per il solo attimo che basta allo schiocco di due dita.

Parte seconda. Istruzioni sulla visione nella Via di Mezzo.    La tranquillità e la limpidezza della mente sono il punto di partenza per lo sviluppo della compassione. Tutti i praticanti del Buddha Dharma in Tibet sono seguaci della via di mezzo e ci sono due scuole principali che sono: Prasangika e Svatantrika.  Entrambe concordano sull'asserire che l'Io non esiste in nessuna forma sostanziale (pag. 72).  Finchè si crede nell'esistenza delle forme indipendentemente da chi le percepisce, la ricerca di una sostanza auto-esistente continua. Purtroppo le abitudini percettive, ormai profondamente radicate, insistono nel dualismo, nel trovare una distinzione tra Io ed esso, tra soggetto ed oggetto.  La trasformazione più importante si compie quando tutte le cose sono viste come un campo di relazioni reciproche.  Il secondo passo è quando si scopre che non esiste una mente, non vi è più divisione tra pensiero ed esperienza (non vi è l'uno senza l'altra - come calore e fuoco, come acqua e umidità).  Le due verità quella empirica relativa e quella ultima e assoluta diventano una, e lo yogi è colui che possiede la conoscenza di questo autentico stato dell'esistenza. Questo è il culmine del sentiero del Madhyamika, o della Via di Mezzo, sentiero in cui si avanza progressivamente. L'altro sentiero più diretto è quello del MantraYana. Questi sono i due sentieri del Mahayana.  Quelli riportati di seguito sono alcuni principi a cui si ispira il Mahayana.

  • Meditando sulla natura dell'apparente Vuoto dell'illusione, il Vuoto è nella forma e la forma è il Vuoto.
  • La ricerca spossante delle informazioni e della semplice conoscenza oggettiva diviene inutile con l'esperienza della meditazione che conduce rapidamente alla serenità.  
  • Nessuna certezza intellettuale ha valore quando si trova di fronte alla nuda realtà delle profondità della mente.                                
Mangalam - Siano tutti gli esseri felici!

giovedì 9 marzo 2023

Insegnamenti di Corrado Pensa

Corrado Pensa (83 anni) è dal 1987 insegnante guida dell'A.ME.CO. (Associazione per la meditazione di consapevolezza) di Roma. E' stato per anni docente di Filosofia dell'India presso l'università la Sapienza di Roma, oltre che psicoterapeuta junghiano. E' un autorevole insegnante di meditazione buddhista e conduce ritiri intensivi.

Dall'incontro del 25/02/2022.  Corrado Pensa sottolinea l'importanza dei ritiri dicendo: "Il silenzio condiviso è molto più potente del silenzio solitario". Sottolinea, inoltre, l'importanza di ricominciare sempre, con nuove riflessioni e nuove esperienze. Spesso ci sono problemi dovuti proprio alla resistenza al cambiamento, in quanto teniamo a controllare le cose. A questo associamo tranquillità. Quindi sono importanti momenti di reattività e di risveglio. Una delle caratteristiche che ci permette di vivere bene il presente è l'accettazione, soprattutto con il passare degli anni, si rivaluta l'accettazione. Le cose sono così come sono. Consapevolezza, accettazione, amore come gentilezza. Ogni momento è prezioso. Accettarsi fragili e vulnerabili, in una realtà sempre presente. Si percorre un percorso spirituale per cercare di essere in questa vita nel modo migliore.  Nella quotidianità, spesso, abbiamo una reazione negativa al primo sgarbo. Dovremmo incorniciare il negativo e svalutare il positivo. Si è sempre alla ricerca di difetti - con una mente castrante -  giudicandoci e giudicando a pioggia.  Ciò è dovuto a famiglie severe, amicizie negative o scontentezza di base che cerca i colpevoli del nostro malessere.

Corrado Pensa invita a liberarsi di attaccamento, avversione e confusione e solo così si può avere una situazione nutriente e luminosa. La mente è in cerca del negativo in noi e negli altri. Occorre acquisire consapevolezza attraverso la pratica. La meditazione ci permette di conoscere i meccanismi della nostra mente, ed individuare così gli ostacoli alla corretta visione interna ed esterna. Continuiamo a giudicare noi stessi di non essere perfetti. Grazie alla conasapevolezza arriviamo al perdono che è una forma d'amore. Attraverso la meditazione, abbiamo la possibilità di scegliere se identificarsi con una mente avversiva o optare per una mente più spaziosa che accoglie amore e pace interiore. Una delle cose più importanti per l'essere umano è "la pace interiore".  E' talmente importante che dobbiamo fare di tutto per tenerla viva.

Bisogna essere dolci con se stessi anche se facciamo stupidaggini, c'è sempre qualcosa da apprezzare e per la quale essere grati in ogni situazione.  Dobbiamo mantenere in vita apprezzamento e gratitudine.  Il contrario di attaccamento è equanimità, nemico dell'equità è l'indifferenza. La pratica ci apre al bene.  Bisogna prendere l'abitudine, come diceva Thich Nath Hanh, di fermarsi durante la giornata e fare tre respiri consapevoli (è come rinascere). Occorre aprirsi alle cose così come sono, che non dipendono da noi e dalla nostra volontà, mentre dipende da noi il lavoro interiore. Corrado Pensa suggerisce di ricordarsi della pratica durante la giornata,  amare la pratica e i suoi frutti. 

Il cammino interiore ci permette di vivere in un'altra maniera, ci porta verso qualcosa di luminoso, diventa l'essenza della nostra giornata.  La pratica della consapevolezza spiegata in modo semplice: la consapevolezza è radicata nell'adesso, ci aiuta a vivere meglio, ci porta ad una chiara visione e ci aiuta a vivere meglio. Dobbiamo esercitare un'osservazione non giudicante.  Abbiamo difficoltà ad accettare i nostri stati mentali sgradevoli come irritazione, rabbia, ecc, ed abbiamo paura della paura. I tre inquinanti per il buddhismo sono: attaccamento, l'avversione, la confusione.  Hanno un grande valore l'accettazione e l'amore.  La risorsa della consapevolezza è necessaria per coltivare una vita migliore. La paura è un ostacolo ad una via più serena. Nel dhammapada è scritto:  "smetti di fare il male , fai il bene, purifica il cuore".  Per il Buddha "Non c'è altra cosa non trattabile che una mente non coltivata, una mente coltivata è fonte di felicità nella nostra vita". 

Per Neva Papachristou, la parola più importante è amore. Buddha disse:"la saggezza è amore, l'amore è saggezza". Molto importante è l'accettazione ma con un tono di voce non giudicante. Amare la possibilità di amare, durante la pratica scelgo di dimorare nell'amore. Se una persona ci sta offendendo, usciamo dal campo di battaglia ed entriamo nel campo dell'amore. Magari dicendo, con tono tranquillo, ne parliamo domani.  Se siamo avari di amore con noi stessi, non possiamo dare amore. Cita il caso di una volontaria che aiutava tutti i pazienti fino allo stremo, per sentire il suo cuore. Occorre arrivare a sentire l'amore prima ed essere cari a se stessi. Nel dhammapada c'è una parte dedicata a noi stessi.  Gli aspetti importanti della pratica sono: gratuità,  generosità, etica, meditazione. Tutti cercano qualcosa a cui affidarsi, la sola cosa su cui possiamo contare è il momento presente.  Non dobbiamo affidare la vita a qualcun altro, dobbiamo affidarci a noi stessi. 

Una mia riflessione. Il problema, oggi, è proprio quello di applicare questi luminosi insegnamenti nelle relazioni che costruiamo nella vita quotidiana al fuori dal Sangha che possono essere sintetizzate in queste due frasi che seguono. Dal testo: Anomalie di Hervé Le Tellier "Nessuno vive abbastanza per sapere a che punto nessuno si interessa di nessuno", Oppure dal testo Gurdjeff e la psicosintesi di Fabio Guidi : "Oggi le relazioni si riducono a semplici connessioni, in un contesto in cui è possibile con pari facilità entrare ed uscire, puri contatti senza impegno e responsabilità".

venerdì 3 febbraio 2023

Bhante Henepola Gunaratana

Il venerabile Bhante Henepola Gunaratana (1927- ) è monaco dall'età di 12 anni e ha preso l'ordinazione completa all'età di 20 anni nel 1947 nello Sri Lanka. Nel 1954 lascia l'isola per lavorare con gli Intoccabili in India. Giunto negli Stati Uniti nel 1968, divenne Segretario Generale Onorario della Buddhist Vihara Society, un monastero di Washington, mentre conseguiva un dottorato in filosofia all'American University, dove in seguito prestò servizio come cappellano buddista.  Nel 1988, il venerabile Gunaratana è diventato presidente della Bhavana Society di High View, in West Virginia, un centro in cui si incoraggiano la meditazione e la vita monastica.  "Bhante G" (come viene affettuosamente chiamato dai suoi studenti) per oltre quarant'anni ha insegnato buddismo e guidato ritiri di meditazione nel Sud-Est asiatico, in Nord America, Europa, Messico e Australia. Conduce regolarmente ritiri su vipassana, mindfulness, metta (Loving-friendliness), concentrazione e altri argomenti sia alla Bhavana Society che altrove.

Ha scritto numerosi libri tra cui:

  • Meditare nella vita quotidiana, 2019 (in francese: Méditation au quotidien - Une veritable pratique du bouddhisme. 
  • Introduzione alla meditazione profonda, 2021 (in francese: Introduction à la méditation profonde).  In questo testoHénépola Gunaratana accompagna i meditanti in una nuova fase, quella della meditazione profonda, oltre la mindfulness.

Riassunto del testo Meditare nella vita quotidiana.  Siamo costantemente a caccia di esperienze e cose, per affrontare questo senso di tensione pervasivo che avvertiamo. Ed è strano perché più le persone perseguono obiettivi materiali, più la felicità delle persone è in calo. Il problema è che viviamo in un mondo non reale, in un'illusione autocreata. La causa del 99% dei problemi è il fatto che viviamo in questo mondo autocreato e non siamo nel qui ed ora. La soluzione è  praticare la meditazione Vipassana, che è la meditazione di consapevolezza.
È la capacità di scavare più a fondo nella realtà con consapevolezza, per essere in grado di vedere le cose come sono realmente.  Meditando si comincerà ad avere delle rivelazioni. Per alcune ci vorrà una settimana. Alcune potrebbero richiedere sei mesi. Alcune potrebbero richiedere anni. Ma piano piano vengono smontati tutti questi concetti e valori che la società propone attraverso i genitori, gli amici, i media. Srotola tutte queste cose e guardale una per una. Prendi ognuna di esse e la guardi per quello che è. E dopo un po' di tempo, alla fine, dopo anni e anni di pratica, arriverai al punto in cui anche te stesso, la tua identità, quello che chiamiamo l'ego, questo concetto di sé si dissolverà perché alla fine anche il  concetto del sé è una creazione.
La meditazione è solo un modo più sano per decostruire gli elementi negativi della tua personalità che non ti servono, che non ti aiutano, che causano la tua sofferenza, che ti hanno portato ad avere pensieri insidiosi e tornare alla verità, al vero Sé. Allora comincerai a vivere la tua vita con intenzione, con controllo, facendo quello che vuoi fare perché lo vuoi fare, non perché soddisfa questo ego autocreato.
Con la meditazione Vipassana, ci concentriamo sul respiro. Questo è il punto focale di tutta la pratica meditativa perché la mente ha bisogno di qualcosa su cui concentrarsi. Altrimenti, verrà semplicemente tirata in diverse direzioni. Più meditate, più vi impegnate, più avrete il controllo della vostra mente.  La tua concentrazione aumenterà e ancora più importante, la tua consapevolezza aumenterà. La concentrazione ti aiuterà a concentrarti su una cosa, un compito, a portarlo a termine e a porre la tua attenzione su quello. La consapevolezza ti permetterà di cogliere la natura transitoria della vita. Allora noterete che le cose sono sempre in movimento. I pensieri vanno e vengono. I suoni vanno e vengono. Le sensazioni nel tuo corpo vanno e vengono. La vita è praticamente un flusso di cose diverse che accadono. Quando sei veramente attento, niente sarà mai noioso perché c'è sempre qualcosa che accade e sempre diverso. C'è sempre qualcosa da imparare. Piano piano si penetrerà sempre più a fondo nella realtà stessa guadagnando in consapevolezza. 

Occorre strutturare la pratica di meditazione e meditare con costanza in un posto tranquillo per cominciare. Mantenendo lo stesso posto il cervello lo identificherà come luogo di meditazione.
La meditazione è un processo lento. Tutto ciò che vale nella vita richiede tempo. La meditazione è una pratica e se vuoi ottenere dei veri cambiamenti duraturi, occorre iniziare a incorporare la consapevolezza anche nella vita quotidiana.
Mindfulness è letteralmente prestare attenzione a che cosa stai vivendo senza giudizio. Semplicemente accettandolo al 100%.  Così la vera arena è il mondo reale; Prendere ogni momento per quello che è e vederlo per quello che è. Si dovrà cercare di essere consapevoli di tutto ciò che si sta facendo e vivendo; e solo così si vedranno delle vere differenze in termini di relazioni con le altre persone e il mondo esterno.     Citazioni di Henepola Gunaratana:

  • "L'ironia della cosa è che la vera pace arriva solo quando si smette di inseguirla".
  •  "La pazienza è la chiave. Se non imparate altro dalla meditazione, imparerete la pazienza. La pazienza è essenziale per qualsiasi cambiamento profondo".
  • "Se sei infelice sei infelice; questa è la realtà, questo è ciò che succede, quindi affrontalo. Guardalo dritto negli occhi senza tirarti indietro. Quando stai passando un brutto momento, esamina quell'esperienza, osservala con attenzione, studia il fenomeno e impara i suoi meccanismi. Il modo per uscire da una trappola è studiare la trappola stessa, imparare come è costruita. Lo fai smontando la cosa pezzo per pezzo. La trappola non può intrappolarvi se è stata fatta a pezzi. Il risultato è la libertà"
  •  "Il dolore è inevitabile, la sofferenza no".
  • "Non ponetevi obiettivi troppo alti da raggiungere". 
  • "Sii gentile con te stesso". 
  • "Cerca di seguire il tuo respiro continuamente e senza pause. Questo ti aiuterà ad essere scrupoloso ed esigente. 
  •  "La cosa fondamentale è essere consapevoli di ciò che sta accadendo, e non cercare di controllare ciò che sta accadendo".

sabato 28 gennaio 2023

Differenze tra il buddhismo Mahayana, Hinayana, Theravada, Vajrayana

Uno dei concetti fondamentali del Buddhismo è quello di metta, uno stato di benevolenza e compassione universale verso ogni essere vivente, da mettere in pratica nella vita di ogni giorno, che andrebbe condotta in armonia con l’intero creato.
La pratica in sé stessa, invece, si fonda sull’ottuplice sentiero – il cui obiettivo è un comportamento eticamente corretto in diverse aree della propria vita – presupposto per concentrare la mente e , attraverso la meditazione, raggiungere una nuova visione della realtà ispirata al non attaccamento, alla benevolenza e alla saggezza. .

I termini Hinayana (veicolo minore, veicolo modesto) e Mahayana (veicolo superiore, grande veicolo) apparvero per la prima volta nei Sutra della Prajnaparamita (Sutra della consapevolezza discriminante di vasta portata, Sutra della perfezione della saggezza) approssimativamente nel I-II secolo d.C. Questi sutra erano tra i primi testi del Mahayana e usavano i due termini per sostenere che lo scopo e la profondità dei loro insegnamenti superavano di gran lunga quelli delle precedenti scuole buddhiste.  Dato che alcune delle scuole Hinayana apparvero dopo il Mahayana, non possiamo chiamare l'Hinayana “primo Buddhismo” o “Buddhismo originale” né il Mahayana “tardo Buddhismo.”
Il buddhismo Theravada è l’unica delle antiche scuole buddhiste ad essere sopravvissuta fino ai nostri giorni e il cui canone – l’antico canone pali – ci sia giunto completo. Fino a non molto tempo fa questa scuola era nota in Occidente con il nome più generico di Hinayana – composto di hina  “piccolo”  e yana  “veicolo” – terminologia che designava nel suo insieme ben 18 scuole o correnti differenti. Una du queste, la Dharmaguptaka si diffuse nell'Asia centrale e in Cina dove appaiono anche ordini monastici. Poiché la scuola Theravada si diffuse in Ceylon, Birmania, Thailandia e Cambogia, talvolta è detta anche Scuola Meridionale (anche se come abbiamo visto non è propriamente corretto) , per distinguerla dalla Scuola Settentrionale – o Mahayana o “grande Veicolo”, che si sviluppò in India nei primi secoli dell’era cristiana e fu un grande movimento di monaci e laici, oggi molto diffuso in Cina, Giappone, Corea, Tibet e Mongolia, Nepal, Bhutan (in Indonesia non è più presente). Quindi anche chiamare l'Hinayana “Buddhismo meridionale” e il Mahayana “Buddhismo settentrionale” è inadeguato.


 
Diffusione del Buddhismo Mahayaha e Theravada – da appliedbuddhism.com

Il Theravada è la scuola più vicina al buddhismo originario, pur non identificandosi completamente con esso. Il nome Theravada, più rispettoso e preciso del termine Hinayana, infatti si compone di due parti: thera – “anziani” – e vada – “dottrina”- , da cui  “dottrina degli anziani”.
Nel Theravada l’obiettivo della pratica, rigorosamente monastica, è il raggiungimento della condizione di Arhat secondo gli insegnamenti del Buddha. Un discepolo ha lo scopo di divenire un arhat, cioè colui che ha raggiunto il Nirvana e non rinascerà mai più. Questo stadio, richiede un’esistenza assolutamente rigorosa e di rinuncia del mondo.  Per il Theravada, come per tutte le scuole del buddhismo antico, la morte del Buddha è reale e segna il suo definitivo distacco da questo mondo. Attraverso la morte si raggiunge infatti il Nirvana, l’estinzione della sofferenza, e si sfugge al Samsara, il ciclo delle morti e delle rinascite.
Comunque entrambe le scuole, sia quella Hinayana che quella Mahayana, delineano i sentieri per i praticanti di come raggiungere lo stato purificato di un arhat  o essere liberato ( hinayana)   e  di un bodhisattva, (mahayana) cioè colui che ritarda l’entrata nel Nirvana per aiutare altri nella via della salvezza. Il Mahayana comprende molte e differenti tradizioni che divergono anche sulle specifiche modalità con cui si possa raggiungere questo obiettivo.
Nell’ambito del Mahayana furono composti molti testi che, benché scritti molti secoli dopo la vita terrena del Buddha,  e sono considerati «sutra», cioè discorsi del Buddha stesso. Ad esempio il Sutra del Loto, il corpus chiamato Prajnaparamita o della Perfezione della Saggezza,  ecc.
Per molti secoli le tradizioni Mahayana e Hinayana coesistettero nei vari paesi e talora negli stessi monasteri. Intorno al VII secolo d.C., all’interno del buddismo indiano, si sviluppò la proposta di un terzo «veicolo», il Vajrayana, la via della folgore adamantina o del diamante, che si diffuse in Cina, in Giappone e soprattutto in Tibet e Bhutan, Mongolia. Il Vajrayana ritenne che vi fosse la possibilità di conseguire l’illuminazione qui e ora, in questo corpo e in questa vita e creò una forma di culto più orientata all’esoterismo e molto influenzata dal Tantra, che significa «telaio o trama» e indica varie dottrine e i loro testi di riferimento, di origine indiana.

 L’Hinayana comprende diciotto scuole. Le più importanti sono il Sarvastivada e il Theravada.  Il Sarvastivada era diffuso nell’India settentrionale quando i tibetani iniziarono a viaggiare in quelle aree e il Buddhismo cominciò ad essere trapiantato in Tibet.

C’erano due principali divisioni del Sarvastivada, in base alle loro differenze filosofiche: Vaibhashika e Sautrantika. I sistemi studiati nelle università monastiche indiane come Nalanda e, successivamente, dai mahayanisti tibetani, discendono da queste due scuole. Il lignaggio dei voti monastici seguito in Tibet proviene da un’altra suddivisione del Sarvastivada: il Mulasarvastivada.
C’è una differenza piuttosto significativa tra le presentazioni Hinayana e Mahayana degli arhat e dei bodhisattva. Entrambe concordano sul fatto che gli arhat, o esseri liberati, sono più limitati di quanto lo siano i bodhisattva, o esseri illuminati. Il Mahayana formula questa differenza in termini di due insiemi di oscurazioni: quelle emotive, che impediscono la liberazione, e quelle cognitive, che impediscono l’onniscienza. Gli arhat sono liberi solo dal primo insieme, mentre i bodhisattva sono liberi da entrambi. Questa divisione non si trova nell’Hinayana: è una formulazione puramente Mahayana.

Per ottenere la liberazione o l’illuminazione, l’Hinayana e il Mahayana affermano che è necessaria la cognizione non concettuale della mancanza di un’impossibile “anima”. Tale mancanza è spesso chiamata “mancanza di sé”: anatma in sanscrito – e anatta in pali.
Le scuole Hinayana affermano che la mancanza di un’impossibile “anima” fa soltanto riferimento alle persone, e non a tutti i fenomeni.
Il Mahayana afferma la mancanza di un’impossibile “anima” fa riferimento a tutti i fenomeni, oltre che alle persone. Tale mancanza è chiamata “vacuità”.  All’interno del Mahayana, il Madhyamaka Prasangika afferma che anche gli arhat possiedono tale comprensione. Questo aspetto della vacuità  nelle quattro tradizioni tibetane è spiegato in modi diversi. Alcune affermano che le due vacuità sono uguali altre dichiarano che l’ambito dei fenomeni cui si applica la vacuità dei fenomeni è più limitato per gli arhat di quanto lo sia per i Buddha.  
Inoltre, i bodhisattva si adoperano per diventare insegnanti buddhisti universali; gli shravaka non lo fanno – sebbene ovviamente, in quanto arhat, insegnino ai discepoli. Secondo la scuola Theravada, tuttavia, i  bodhisattva superano gli arhat nell’avere maggiore abilità nei metodi per condurre gli altri alla liberazione, e nell’ampiezza della conduzione dell’attività di insegnamento. Secondo la scuola Vaibhashika i Buddha sono totalmente onniscienti del passato, presente e futuro. Inoltre nella visione del Mahayana, tutto è interconnesso e interdipendente.
L’Hinayana sostiene che il Buddha storico abbia raggiunto l’illuminazione durante la sua vita e che, come un arhat, il suo continuum mentale sia terminato con la morte.  Il  Mahayana sostiene che il Buddha storico abbia ottenuto l'illuminazione in una vita precedente, grazie allo studio con insegnanti buddhisti. Sotto l’albero della bodhi avrebbe dunque semplicemente dato una dimostrazione dell’illuminazione.
Per quanto riguarda i Buddha, un’altra importante differenza è la seguente: soltanto il Mahayana afferma l’esistenza dei tre corpi, di un Buddha mentre l’Hinayana non la sostiene. IAll'interno del buddhismo Mahayana e in particolar modo quello esoterico (Vajrayana), si dice che i Buddha abbiano tre corpi (kaya): il Dharmakaya (Corpo di Verità), il Sambhogakaya (Corpo di Fruizione) e il Nirmanakaya (Corpo di Emanazione).
- Dharmakaya: Esso è la natura stessa dei fenomeni, ossia la loro mancanza di esistenza intrinseca, indipendente, assoluta ecc... viene generalmente rappresentato come la totalità dello spazio o come Buddha Vajradhara di colore blu ed ha un duplice aspetto:
- Il "Corpo di Essenza" (Svabhavikakaya), che rappresenta sia la mancanza di esistenza intrinseca nel flusso mentale di un Buddha (e dal momento che anche la nostra mente manca di esistenza intrinseca e può quindi cambiare e trasformarsi nella mente di un Buddha, possediamo anche noi questo aspetto  ed è ciò che ci permette di diventare appunto dei Buddha), sia l'assenza di oscurazioni nel flusso mentale di un Buddha (questa non è già presente in noi, ma si sviluppa solo quando si diventa dei Buddha e si eliminano le oscurazioni dalla mente).
- Il "Corpo di Gnosi" (Jnanakaya), che è il flusso mentale onnisciente del Buddha (dove per "onniscienza" si intende la capacità di percepire simultaneamente i fenomeni e la loro vacuità di esistenza intrinseca in un unico atto mentale).
L’Hinayana e il Mahayana affermano che gli stadi del progresso verso lo stato purificato, o “bodhi”, di un arhat o di un Buddha comportano lo sviluppo di cinque livelli di mente-sentiero – i cosiddetti “cinque sentieri”. Essi sono i seguenti:1- una mente-sentiero che accumula, o sentiero dell’accumulazione; 2- una mente-sentiero che si applica, o sentiero della preparazione; 3- una mente-sentiero che vede, o sentiero della visione; 4- una mente-sentiero che si abitua, o sentiero della meditazione; 5- un sentiero che non richiede ulteriore addestramento, o sentiero del non-più-apprendimento. Quando gli shravaka e i bodhisattva raggiungono una mente-sentiero che vede, entrambi diventano degli arya, ossia esseri altamente realizzati. Entrambi hanno una cognizione non concettuale dei sedici aspetti delle quattro nobili verità.

L’Hinayana non fornisce una spiegazione esauriente delle menti-sentiero del bodhisattva. Il Mahayana, tuttavia, spiega che il percorso di un arya bodhisattva verso l’illuminazione implica il progresso attraverso lo sviluppo di dieci livelli di mente-bhumi, ed essi non appartengono al sentiero degli shravaka.
L’Hinayana e il Mahayana concordano sul fatto che il sentiero del bodhisattva verso l’illuminazione richieda più tempo, per essere percorso, rispetto a quello dello shravaka verso lo stato di arhat.  Soltanto il Mahayana, tuttavia, parla dell’accumulazione di meriti per arrivare all’illuminazione - per tre immensi eoni.  Gli shravaka, invece, possono raggiungere lo stato di arhat solo in tre vite. Nella prima, uno shravaka diventa colui che è entrato nella corrente; nella seconda vita, diventa colui che torna una volta; nella terza vita, diventa colui che non ritorna, raggiunge la liberazione, e diventa un arhat.  
Gli arhat, tuttavia, hanno la possibilità di aiutare gli altri in misura più limitata di quanto possano fare i bodhisattva. Entrambi, in ogni caso, possono aiutare soltanto chi ha il karma adeguato e è predisposto a ricevere il loro aiuto.
Il Mahayana afferma che in questo “eone fortunato” esistono mille Buddha che daranno inizio alle religioni universali, e sostiene che in altre epoche del mondo ci sono stati, e ci saranno, molti altri Buddha. Il Mahayana afferma anche che tutti possono diventare dei Buddha, perché tutti possiedono i fattori della natura di Buddha che permettono tale conseguimento. L’Hinayana non affronta il tema della natura di Buddha, comunque il Theravada afferma che ci saranno innumerevoli Buddha anche in futuro – incluso Maitreya, che sarà il prossimo – e che chiunque può diventare un Buddha, se pratica i dieci atteggiamenti lungimiranti.

l Mahayana afferma che i dieci atteggiamenti lungimiranti sono praticati solo dai bodhisattva, e non dagli shravaka; mentre  secondo il Theravada, sia i bodhisattva che gli shravaka praticano i dieci atteggiamenti lungimiranti.  Anche l’elenco dei dieci atteggiamenti lungimiranti differisce leggermente tra il Theravada e il Mahayana. La lista Mahayana è la seguente:

•    Generosità   •    Autodisciplina etica
•    Pazienza
•    Perseveranza
•    Stabilità mentale (concentrazione)
•    Consapevolezza discriminante (saggezza)
•    Mezzi abili
•    Preghiera d’aspirazione
•    Rafforzamento
•    Profonda consapevolezza.

La lista Theravada omette i seguenti atteggiamenti: stabilità mentale, mezzi abili, preghiera d’aspirazione, rafforzamento e profonda consapevolezza. Aggiunge, al loro posto, i seguenti:
•    Rinuncia
•    Fedeltà alla propria parola
•    Risoluzione
•    Amore
•    Equanimità.

Sia l’Hinayana che il Mahayana insegnano la pratica dei quattro atteggiamenti incommensurabili di: amore, compassione, gioia ed equanimità. Entrambi i veicoli definiscono l’amore come il desiderio che gli altri possiedano la felicità e che siano liberi dalla sofferenza e dalle cause della sofferenza.  L’Hinayana inizia con il dirigere l’amore verso chi già amiamo, e quindi con l’estenderlo, a tappe, a uno spettro di altri esseri via via sempre più ampio.

Le definizioni di gioia incommensurabile ed equanimità sono diverse nell’Hinayana e nel Mahayana. Nell’Hinayana, la gioia incommensurabile si riferisce al rallegrarsi per la felicità degli altri, senza alcuna invidia e desiderando che essa aumenti. Nel Mahayana, la gioia incommensurabile è il desiderio che gli altri godano della gioia dell’illuminazione, che è senza fine.
L’equanimità è lo stato mentale che è privo di attaccamento, repulsione e indifferenza. Nel Theravada, l’equanimità è diretta verso il risultato del nostro amore, della nostra compassione e della nostra gioia. L’esito dei nostri tentativi di aiutare gli altri dipende in realtà dal loro karma e dai loro sforzi. Nel Mahayana, l’equanimità incommensurabile implica il desiderare che tutti gli altri siano liberi da attaccamento, repulsione e indifferenza, perché tali emozioni e atteggiamenti disturbanti li portano a soffrire.
Sebbene nessuna delle scuole Hinayana parli della vacuità di tutti i fenomeni, esse affermano che, per ottenere la liberazione, è importante comprendere non solo concettualmente i veri fenomeni più profondi. Qui la trattazione si avvicina a quella del Mahayana.  ----  Gli insegnamenti possono essere esposti in una grande varietà di forme, adattati ad ogni tipo di mente e ad ogni stadio di sviluppo spirituale. Secondo la dottrina Mahayana, l’Illuminazione può essere raggiunta da qualsiasi essere senziente, accessibile sia al personale monastico che ai laici.  I testi fondamentali (canoni) sono rimasti inaccessibili per lungo tempo a gran parte della popolazione. Tra i testi mahayanici più antichi troviamo i seguenti Sutra:

  •     Perfezione della Conoscenza
  •     Il Diamante
  •     Il Cuore
  •     Il Loto del Vero Dharma
  •     La Ghirlanda del Buddha

Per tale motivo il Buddhismo Vajrayana (Veicolo adamantino o del Diamante) è anche chiamato Tantrayana ("Veicolo dei Tantra").  Il Vajrayana condivide le premesse filosofiche del Mahayana; si sviluppò in India nel corso VI-VII secolo d.C. ed  è costituito dai Tantra, testi sacri caratterizzati da un mix d’insegnamenti indiani spirituali ed esoterici.  A differenza della scuola Mahayana, nella quale l’illuminazione poteva essere raggiunta esclusivamente grazie ad una vita di “perfezionamento continuo”, la dottrina Vajrayana utilizza anche tecniche tantriche  di purificazione a livello fisico ed energetico che consentirebbero il raggiungimento dell’illuminazione attraverso una via più rapida. Il Buddismo Vajrayana è particolarmente diffuso in Tibet, Mongolia, Bhutan e Giappone (Scuola di Shingon).  Il termine "Vajrayāna" nelle lingue estremo orientali indica gli insegnamenti "segreti" o esoterici e questo tipo di buddhismo è anche chiamato Mantrayāna ("Veicolo dei Mantra segreti").  Il termine sanscrito vajra (lett. diamante o folgore) indica l'infrangibilità, l'immutabilità e l'autenticità della Verità ultima. Corrisponde anche alla vacuità e quindi alla vera essenza di tutti gli esseri e dell'intera realtà. La trasparenza del diamante indica anche che la mente illuminata è "chiara", "limpida" e vuota (trasparente). Le tradizioni indiana e tibetana lo indicano come terzo veicolo, considerandolo come uno sviluppo del Mahāyāna.

-------  Dal sito   https://studybuddhism.com/it/studi-avanzati/abhidharma-e-i-sistemi-di-principi/confronti-tra-tradizioni-buddhiste/hinayana-e-mahayana-a-confronto

venerdì 23 dicembre 2022

Pratica e teoria del buddhismo tibetano - Geshe Lhundup Sopa e Jeffrey Hopkins

Pratica e teoria del buddhismo tibetano di Geshe Lhundup Sopa e Jeffrey Hopkins è un libro che parla della meditazione e delle scuole buddhiste tibetane.  Il libro ospita due testi della tradizione Gelukpa, per la prima volta tradotti e annotati. Il primo testo, opera del quarto Panchen Lama, è un commento al sentiero dell'illuminazione in cui sono riassunte moltissime delle pratiche quotidiane osservate dai monaci e dagli yogi tibetani. Il secondo testo viene dal Collegio Gomang del Monastero Drepung di Lhasa, e fornisce una base per lo studio assiduo della filosofia buddhista.

La condizione di Buddha si consegue attraverso il metodo e la saggezza. Il metodo è l'aspirazione all'illuminazione per amore di tutti gli esseri viventi. La saggezza è la corretta visione della vacuità, della consapevolezza della non esistenza del sè e che tutti i fenomeni non esistono per virtù propria. ossia l'esistenza non intrinseca di ogni fenomeno. aspplicare in ogni contesto la compassione, ossia il desiderio che tutti gli esseri viventi siano liberi dal dolore.  La mente è condizionata dai tre veleni: desiderio, odio e ignoranza. I tre aspetti fondamentali del sentiero sono: pensare di abbandonare il ciclo dell'esistenza, l'aspirazione all'illuminazione per tutti gli esseri umani, la corretta visione della vacuità.  Durante la pratica e la meditazione  La devono essere coltivati i quattro incommensurabili: equanimità, amore, compassione e gioia.

Le due ali dell'uccello che vola verso la condizione di Buddha sono la saggezza e la compassione. La formula che si pronuncia durante il percorso è la seguente: "Mi rifugio, fino alla perfetta illuminazione, nel Buddha, nella Dottrina, e nella Suprema Comunità". Un altro passo importante è comprendere come l'Io è concepito dall'idea innata di un sè esistente intrensicamente. L'Io non è nessuno dei cinque aggregati presi separatamente, nè è ciascuno dei due, corpo e mente.Il buddhismo considera l’essere umano composto di cinque aggregati (skandha): forma, sensazioni, percezioni, formazioni mentali e coscienza. Essi compongono ogni cosa, sia dentro di noi che fuori, nella natura come nella società.

I quattro ordini tibetani sono Nyngmapa, Kagyupa, Sakyapa e Gelukpa. Tutte queste scuole hanno tre elementi distintivi: hanno un maestro che è arrivato all'illuminazione, i loro insegnamenti non sono dannosi al alcun essere vivente, sostengono l'opinione che il sè è privo di permanenza, di indivisibilità e di indipendenza.  Le scuole esterne al buddhismo, come le scuole filosofiche indiane e il jainismo,  sono criticate per le pratiche ascetiche rigide e la dottrina del sè individuale. La definizione di un proponente di dottrine buddhiste è una persona la quale sostiene i seguenti quattro principi: tutto è impermanente, tutte le cose contaminate portano all'nfelicità, tutti i fenomeni sono privi di sé,  il nirvana è pace. 

Le quattro tradizioni tibetane Nyingma, Sakya, Kagyu e Gelug, hanno molto in comune e la maggior parte delle differenze consistono nel modo in cui interpretano la vacuità e il funzionamento della mente. In India nacquero diciotto diverse scuole Hinayana e solo tre lignaggi principali di voti monastici sono ora esistenti. Questi sono:  Theravada – nel sudest asiatico,  Dharmagupta – in Asia orientale,     Mulasarvastivada – in Tibet e in Asia centrale.  Tutte e quattro le tradizioni tibetane condividono il lignaggio Mulasarvastivada per monaci completamente ordinati e per monache e monaci novizi; tutte e quattro sono praticate anche da laici. Monache ordinate si trovano solo nel Dharmagupta.

Tutte e quattro le tradizioni tibetane integrano lo studio di sutra e tantra con rituali e meditazione. Ci sono differenze comunque nell’interpretazione di alcuni punti importanti dei sutra.
Dopo aver completato con successo i loro studi, i gelugpa ricevono il titolo di “ghesce” e le altre tre tradizioni il titolo di “khenpo”. “Khenpo” è anche il titolo conferito agli abati. Tutte e quattro le tradizioni hanno anche il sistema “tulku”, i lama reincarnati. Sia i tulku che gli abati ricevono il titolo di “rinpoche”, indipendentemente dal loro livello di istruzione.
La pratica rituale in tutte e quattro le tradizioni comprende il canto, accompagnato da cimbali, tamburi e corni; l’offerta di dolci fatti con farina d’orzo e burro. Gli stili di canto e musica sono generalmente simili, anche se il canto gutturale contrabbasso con suoni armonici è più frequente tra i monaci gelugpa.
Tutte e quattro le tradizioni praticano il guru yoga che è una pratica devozionale tantrica in cui il praticante unisce il proprio flusso mentale con il flusso mentale del corpo, della parola e della mente del proprio guru. Il guru yoga è simile allo yoga della divinità poiché il guru viene visualizzato allo stesso modo di una divinità meditativa. La meditazione in ogni tradizione include una pratica quotidiana, brevi ritiri di pochi mesi e ritiri di tre anni. Differiscono per lo più rispetto al periodo della vita in cui il praticante svolge il ritiro: Sakya, Nyingma e Kagyu tendono a compiere il ngondro ( che si compone di quattro meditazioni e di quattro pratiche particolari) e i ritiri nella parte iniziale del loro percorso spirtuale, mentre i gelugpa li integrano successivamente, lungo il percorso.
La tradizione Nyingma possiede anche iniziazioni tantriche e sono specializzati nella meditazione e nell’esecuzione di rituali per la comunità laica.

Alcune delle principali differenze nelle spiegazioni fornite dalle quattro tradizioni sugli insegnamenti derivano dai loro modi di definire e usare termini tecnici, oltre che dalla loro presentazione del Dharma da diversi punti di vista.  Ad esempio le posizioni riguardo all’impermanenza o alla permanenza della mente sono molto diverse. Un’altra differenza è che i gelugpa spiegano il Dharma dal punto di vista degli esseri ordinari, i sakyapa da quello degli arya altamente realizzati sul sentiero, mentre kagyupa e nyingmapa dalla prospettiva degli esseri illuminati.
Tutte e quattro le tradizioni concordano sul fatto che la spiegazione della vacuità riportata nei testi Madhyamaka è la più profonda. I gelugpa sottolineano la meditazione rispetto all’oggetto, mentre Sakya, Kagyu e Nyingma rispetto alla mente.
Ogni tradizione insegna anche i propri metodi per raggiungere una comprensione non concettuale, e per accedere e attivare la mente più sottile. Quello che i gelugpa chiamano non concettuale, sakyapa, kagyupa e nyingmapa chiamano “al di là di parole e concetti”.  Tutti concordano sul fatto che la comprensione del ruolo del pensiero concettuale nel nostro modo di conoscere il mondo è essenziale per superare ed eliminare per sempre la nostra confusione e ignoranza sulla realtà – la causa più profonda di tutta la nostra sofferenza.

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Le scuole si dividono:

 in Mahayana     -----   Madhyamika  -----  Prasangika   e    Svatantrika

                          ------- Cittamatrin      -----  seguaci del ragionamento e della scrittura

  e Hinayana      ------- Sautrantika     ------ seguaci del ragionamento e della scrittura

                          ------  Vaibhasika 

Un Vaibhasika è una persona che non accetta l'autocoscienza e sostiene che tutti gli oggetti esterni sono realmente esistenti. Tutti gli oggetti di conoscenza sono compresi in cinque categorie: forme visibili, idee essenziali, fattori associati al mentale, fattori compositivi che non sono associati né alle idee, nè ai fattori mentali enon-prodotti.  Esistono due tipi di verità: 1- la verità convenzionale, che è un fenomeno tale che, se fosse distrutto o diviso mentalmente in parti, la conoscenza che lo percepisce sarebbe annullata;  2- la verità ultima, un fenomeno che se fosse distrutto, la coscienz ache lo percepisce non sarebbe annullata. 

 Un Sautrantika  è una persona che sostiene l'esistenza reale sia degli oggetti esterni sia dell'autocoscienza.  Sono chiamati esemplificatore perchè insegnano le dottrine mediante esempi.

Un Cittamatrin   è una persona che sostiene l'esistenza reale dei fenomeni dipendenti, ma non sostiene l'esistenza di oggetti esterni. Ci sono due gruppi i sostenitori dell'apparenza reale e i sostenitori della falsa apparenza.  Gli oggetti della conoscenza sono di tre nature: 1- fenomeni dipendenti,  2- fenomeni pienamente fondati, 3- fenomeni immaginari.  Sostengono, quindi, che tutti i prodotti sono fenomeni dipendenti, che le nature di tutti i fenomeni (le vacuità) sono fenomeni pienamente fondati e che tutti gli altri oggeti di conoscenza sono immaginari.

Un Madhyamika  che sostiene che non ci sono fenomeni realmente esistenti e neppure particelle. Sostengono una via mediana che è libera dagli estremi della permanenza e dell'annullamento. Propongono che i fenomeni non hanno nessuna entità cioè nessuna esistenza reale.   Si dividono in Svatantrika che è un individuo che propone la non-entità e che sostiene che i fenomeni esistono convenzionalmente per natura propria.   Un Prasagika è una persona che non propone alcuna entità e non sostiene che i fenomeni esistono in virtù della propria natura sia pure per convenzione. Sostengono che nessun oggetto esiste in virtù delal propria natura. Tutti gli oggetti sono soltanto attribuiti dal pensiero. Base fondata, oggetto e oggetto di conoscenza sono sinonimi.

giovedì 8 dicembre 2022

Il fascino del Buddhismo - Raimon Panikkar

 Dal sito di Gianfranco Bertagni:  http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/raimonpanikkar/fascinobud.htm      "La religione non è un esperimento ma un’esperienza di vita per mezzo della quale l’uomo partecipa all’avventura cosmica.»    Raimond Panikkar

Raimon Panikkar (1918-2010), nome completo Raimon Panikkar Alemany, è stato un filosofo, teologo, presbitero e scrittore spagnolo, di cultura indiana e spagnola. È stato una guida spirituale del XX secolo e innovatore del pensiero, teorizzatore e testimone del dialogo interculturale e dell'incontro tra le religioni.  E' stato un grande divulgatore e un personaggio importante per l'incontro tra Oriente e Occidente. Un altro grande personaggio che ha contribuito al dialogo tra Cristianesimo e Induismo è stato Henri Le Saux (1910-1973): monaco cristiano francese, dell'ordine benedettino, figura mistica del cristianesimo indiano.   Alcuni testi di Panikkar:  Buddismo;   Il silenzio del Buddha. Un a-teismo;  Tra Dio e il Cosmo;   Mistica e spiritualità;     Induismo e Cristianesimo.    Sito:  https://www.raimon-panikkar.org/italiano/home.html

Il fascino del Buddhismo - Raimon Panikkar

Un bel giorno, di buon mattino, un giovane principe che non era delle Asturie né della casa di Davide, ma di un piccolo clan che viveva a fianco delle montagne più alte del mondo da una parte e la piana del Gange che già da mille anni era un punto d'incontro di civiltà dall'altra, dopo anni di lotta e di dubbi, (non oltre la metà del VI secolo a.C.) fece un colpo di testa e andò a prendere Kanthaka, il suo grande cavallo bianco preferito, e Channa, il suo servitore personale, per uscire dalle porte del castello del regno di suo padre lasciando un bambino piccolo (suo figlio) e la principessa (la sua sposa), per provare a risolvere i problemi che fin dall'età di sei anni lo tormentavano. Passato il fiume che segnava il confine del suo regno e di quello di suo padre, si liberò anche del servitore e del suo cavallo bianco preferito, si cambiò d'abito, prese una ciotola da mendicante e si incamminò, senza sapere dove andare.

Fin da quando il bambino aveva sette anni, suo padre s'era reso conto che il figlio, nato con tutti gli auspici per essere un grande re che avrebbe rivoluzionato il mondo dei piccoli regni del nord dell'India, non aveva troppa voglia di utilizzare i poteri e i mezzi che aveva. Gli costruì un palazzo di primavera, un altro d'autunno e un altro d'inverno. Nel palazzo di primavera ci mise tutto quel che potrebbe desiderare un giovane adolescente. In quello d'inverno gli diede tutti i tipi d'insegnamento che i pandit del suo regno gli potevano dare, e in quello d'autunno gli mise a disposizione l'esperienza degli anziani del suo clan. Sembrava però che niente lo soddisfacesse. Aveva in mano la possibilità di utilizzare tutti i mezzi che permette il possesso di un regno. Avrebbe potuto cambiare il mondo se così avesse voluto, cambiare le cose se lo avesse ritenuto giusto. Ma sembra che disprezzasse tutte le agevolazioni del potere come un mezzo per fare il bene. E, come più tardi egli stesso darà ad intendere, rinunciò ad utilizzare il potere; e come più tardi anche un altro giovane, più o meno della stessa età, dirà «lascia che le pietre siano pietre e non volerle cambiare in pane; rispetta le cose e non utilizzare il tuo potere, nemmeno per fare il bene». E quel giovane di 29 anni che aveva visto (sembra) un vecchio, un malato, e un uccellino che portava nel becco un verme che non si poteva liberare e che più tardi si imbatté in un morto e in un funerale (malgrado suo padre, che lo stimava tanto, volesse evitargli le pene dell'esistenza), se ne andò senza sapere dove andare, ruppe i legami, fece il colpo di testa, lasciò correre tutto, disprezzò il potere, le occasioni e superò quello che in seguito lui stesso, quando stava sotto un albero, vide: la tentazione dei mezzi. Utilizzare i mezzi, il potere, per fare cose buone.

Trovò un primo maestro che lo introdusse nel mondo del monachesimo brahmanico del suo tempo e, con zelo di novizio, cominciò a seguirlo finché non s'accorse che quello non era il suo maestro. Lo lasciò perdere e ne andò a cercare un secondo, e poi un terzo. E si rese anche conto che qualsiasi sequela di un maestro non gli andava troppo bene. Quel giovane principe, che nascondeva la sua origine principesca nel seguire una strada, sembrava un po' ottuso, tanto da non sapere quale fosse. Continuò per sei anni a seguire gli insegnamenti di questi tre maestri e, con zelo di convertito, arrivò agli estremi, diminuendo ogni giorno i granelli di riso che mangiava finché, raccontano le scritture, lo sterno gli si vedeva da dietro, le costole erano trasparenti, ridotto in pratica a niente.

Attraversando un fiume, un giorno si imbatté in una bella ragazza, di nome Sujata, che in seguito tutti i canoni hanno ricordato, che gli diede da mangiare, mossa probabilmente a compassione. I cinque discepoli che alla fine di questo periodo lo accompagnavano, scandalizzati che accettasse da mangiare dalle mani di una graziosa ragazza, lo abbandonarono e si trovò solo (perché anche Sujata, dopo avergli dato da mangiare sparì). Continuò da solo, però capì che ogni estremismo ascetico è controproducente e che né il palazzo del re, né la capanna del povero erano per lui quello che cercava. Ma non sapeva quello che cercava, sapeva soltanto quello che non voleva: non voleva essere re, non voleva essere monaco, non voleva il potere, non voleva essere un rinunciante.

Smise dunque d'essere sannyâsi e continuò il suo peregrinare nella zona del Gange; passando per una delle capitali del suo tempo, Pâtaliputra, andò a stabilirsi in un luogo che oggi porta una parte del suo nome, Bodh-Gaya, e là, sotto un albero, la ficus religiosa, albero sacro della tradizione brahmanica, si fermò, tentando di ricollegare il mistero della vita, il mistero della morte, l'ingiustizia della povertà, la realtà del divino, il passato, il presente, e quando stette completamente quieto s'accorse di poter oltrepassare anche l'ordine temporale e vide anche il futuro. Là, dice la tradizione, stette a lungo immobile, doveva ancora superare la terza tentazione, dopo aver resistito alla tentazione di Mâra: la tentazione di fare il bene, la tentazione di convertirsi in un predicatore.

Brahmâ gli si accostò e gli disse: «Siccome ora hai già ottenuto la realizzazione, trasmettila anche agli altri» ed egli rispose di no, che non sarebbe servito trasmettere una cosa già fatta e digerita, e un messaggio idiosincratico, se gli uomini non avessero fatto l'esperienza personale e non fossero passati per là dove era passato lui. Voler salvare il mondo è la grande tentazione, voler salvare se stessi era il gran pericolo. Non fare niente era impossibile, fare piccole cose non lo convinceva. Fare tutto era quello cui aspirava. E quel giovane di circa 35 anni ricordava il passato, vedeva il presente e ancora non sapeva che fare. Continuò il suo peregrinare, camminò per circa 600 chilometri al di sopra del Gange, sentiero molto pianeggiante dopo che la stagione delle piogge era passata, e là, in un luogo dove il Gange, che andava verso l'ovest, per uno di quei capricci della natura che gli uomini interpretano in maniera differente, risale verso il nord, verso la propria sorgente, verso l'Himalaya e si converte perciò in un luogo sacro, là, forse mille anni prima che egli nascesse era stata fondata la città più santa della tradizione brahmanica, Vârânasî, fra i fiumi Asi e Varuna, affluenti del Gange.

Procurò di evitare la città, ormai non voleva vedere uomini santi, non voleva più conoscere il centro del brahmanesimo, e si ritirò un poco più verso il nord, prima di arrivare alla confluenza del Varuna col Gange, a un parco popolato di cervi. E là, a Sarnath, il caso volle che ritrovasse i cinque monaci che erano stati suoi discepoli e che aveva lasciato scandalizzati quando avevano visto che riceveva da mangiare da una ragazza. E allora, avendo superato la tentazione del santo, che è quella di fare il bene, la tentazione del politico, che è quella di utilizzare anche i mezzi per fare il bene, la tentazione del monaco, che è quella di rinunciare a tutte le cose per sentirsi bene e giustificato; allora, in quel parco dei cervi chiamato Îsipatana, riunì quei cinque monaci che aveva ritrovato e disse loro: «Questi due estremi si devono evitare. Quali sono questi due estremi? L'uno è ricercare e desiderare il piacere. Questo viene dall'attaccamento, è volgare, non è nobile, non porta alcun profitto, e conduce a rinascere. L'altro estremo è la ricerca dell'ascetismo, dello spiacevole, della sofferenza, della rinuncia, ed è ugualmente penoso e non porta alcun profitto».  Questi i due estremi che si devono evitare e proseguì: «Il Tathâgata (nome che non si sa se si dava egli stesso o gli diede la tradizione, ma il testo pâli lo riporta così) invece evita questi due estremi e cammina per la via di mezzo che è una via luminosa, bella e intelligibile, che è una via piena di serenità, che porta alla pace, alla conoscenza, alla illuminazione, al nirvâna. E qual è, o monaci, (si rivolgeva ai cinque che l'ascoltavano) questa via di mezzo che porta alla pace, alla conoscenza, al risveglio, al nirvâna? È questa o monaci la via di mezzo: questa è la nobile verità del dolore».
La parola che egli usò, e che è stata tradotta in mille maniere diverse, duhkha, può significare sofferenza, inquietudine, disagio, essere infelice, essere povero, essere miserabile. E si può assumere nel suo significato più originario, accorgendosi che il suo opposto è sukha, che vuol dire benessere, tranquillità, pace... e all'interno di una civiltà agricola i contadini del suo tempo sapevano che quando il carro dei buoi è bene ingrassato e le strade non hanno troppe buche, le cose vanno sukha, agevoli. Quando il carro dei buoi scricchiola perché gli manca il grasso, le strade son piene di buche, il carro fa rumore e allora è duhkha, non ha funzionato agevolmente, in maniera scorrevole. Proferì dunque questo discorso fondamentale di Vârânasî.
«Questa è la nobile verità del duhkha, dell'inquietudine, del dolore, della sofferenza della condizione umana: la nascita è dolore, invecchiare è doloroso, la malattia è sofferenza, la morte è dolorosa, il contatto con ciò che è spiacevole è doloroso, non ottenere quel che si desidera causa dolore, gli skandha (i cinque aggregati coi quali ci poniamo in contatto con la realtà come altrettante finestre della conoscenza) sono dolore».
«Questa è, o monaci, la nobile verità dell'origine del dolore, la sete, il desiderio che porta a cercare il piacere, il quale scatena la passione, e che cerca la soddisfazione qua e là, la sete di piacere, il desiderio di esistere e quello di non esistere. Questa è la nobile verità della cessazione del dolore, la soppressione completa della sete, la sua distruzione, lasciandola correre, abbandonandola, essendone liberati e standone distaccati. Questa è, o monaci, la via che conduce all'estinzione del dolore, questo è l'ottuplice sentiero (le otto strade, ashtângamârga), cioè la retta visione».... Traduco con retta ciò che si potrebbe chiamare serena, equilibrata, completa, perfetta, samyak, da cui viene anche armonia, la visione armonica. Diciamo dunque: La visione corretta, l'intenzione corretta, l'azione o condotta corretta, i mezzi o genere di sforzo appropriato, l'attenzione come ci vuole e concentrazione necessaria. Ciascuna di queste parole si potrebbe tradurre in maniere differenti e si dovrebbe spiegare in dettaglio, ma continuiamo con il testo.

«Finché questa triplice conoscenza e questa intuizione con le sue dodici divisioni non sono state purificate con le quattro nobili verità; fino allora, o monaci, in questo mondo con i suoi dèi, con Mara, con Brahmâ con gli asceti, i bramini, gli spiriti, gli uomini, gli animali e con tutte le cose, io non ho ottenuto lilluminazione completa e suprema». Queste sono le quattro nobili verità, che formano la pietra angolare e il punto d'unione di tutta questa tradizione che per venticinque secoli ha contribuito come poche altre a dare al mondo, non soltanto una, ma molte filosofie, molte civiltà e tutto un sentiero di vita.
Il Buddha, chiamato così dai suoi discepoli come colui che ha conseguito la pienezza della buddhi, della conoscenza, del risveglio, è il principe che ora ha già quasi una quarantina d'anni, forse 38 o 39, quando comincia ad essere seguito da un centinaio di discepoli. Ma egli non vuol fondare una religione, non vuol fondare fin dall'inizio neppure un ordine monastico, non ha lasciato la casa paterna per salvare il mondo, non ha voluto discepoli che lo seguissero perché ha qualcosa da dire loro, egli vuol vivere e ha scoperto una sola cosa: ha scoperto che al mondo c'è dolore; ha scoperto l'origine di questa sofferenza, ha scoperto che questa sofferenza può cessare e ha trovato la strada. E la strada complessa di queste otto dimensioni che portano alla cessazione del dolore, della sofferenza, all'appagamento di ciò che molte volte è stato tradotto come desiderio, ma che la parola tanto in pâli quanto in sanscrito vuol dire semplicemente sete; la sete di esistere, la sete di non esistere, la sete di voler essere perfetto, la sete di voler arrivare da qualche parte, l'inquietudine di non voler stare nel proprio posto, il desiderio di volere qualsiasi cosa. Ora, trascendere la volontà, questo non comprese Nietzsche, non è voler non avere volontà. Durante quasi una quarantina d'anni quest'uomo continua a vivere nelle pianure gangetiche del nord dell'India e pian piano là gente gli si riunì e gli si raggruppò attorno. Nella tradizione di quei tempi chi seguiva un uomo spirituale o un maestro si chiamava bhikkhu, monaco, sannyasi, sadhu, rinunciante.
Gôtama parla mentre cammina e i suoi discepoli si impregnano di quello che egli va dicendo: «Così come il vento soffia davanti e dietro e fa muovere le foglie del cotone, così la vera e inesauribile gioia mi sta muovendo, e in questa maniera compio tutte le cose». Che vuol dire essere uomo? Essere uomo vuol dire, secondo quel che ci dirà uno dei suoi discepoli, partecipare al festival gioioso di tutta l'esistenza. «Il profumo di un fiore non viaggia contro la direzione del vento, ma la fragranza di un uomo buono va anche contro la direzione del vento; un uomo buono penetra le quattro direzioni». Egli è molto convinto di quello che in seguito la tradizione commenterà: «ll santo non lascia tracce, è come il volo di un uccello, non lascia orme. Perciò è tanto difficile seguirlo».

Quest'uomo entusiasma. Discepoli lo seguono da tutte le parti. Anche le donne lo vogliono seguire, ed egli, che aveva fatto quella eccezione con Sujata, dice di no. Ma Ananda, il monaco più stimato da lui, dice al maestro che le accetti e allora egli le accetta. Ma non ha alcuna pretesa né di formare una religione, né di formare una setta, né di riformare il brahmanesimo, né di creare niente. Vuol vivere la propria vita, non pretende niente, non vuole dare neppure un nome alla sua comunità che sempre più si va formando. Quando muore, ottantenne, i discepoli s'accorgono che non hanno un luogo, che non sanno niente, che niente è regolato. Che cosa è accaduto? Allora, tre mesi dopo la sua morte, 500 anziani convocano il primo concilio del mondo buddista per vedere che cosa fosse capitato. E restano sorpresi nell'accorgersi che sì, erano capitate molte cose, che c'era stata una critica feroce alla spiritualità induista e brahmanica, che si erano costituiti gruppi che vivevano la vita del sangha o della comunità, che avevano preso spontaneamente come maestro uno che diceva soltanto di aver visto la realtà delle cose e la differenza che c'è tra loro.
In questo concilio si configurano due partiti. Gli uni sono quelli che cantano e gli altri sono quelli che stanno in silenzio. Questa è l'origine di quello che in seguito verrà chiamato un movimento, e che si chiama religione, che porta il nome di buddismo, e che ha, come tutti gli «ismi», un alto grado di astrazione. Quest'uomo non pretende d'essere profeta, non reclama nessun'autorità speciale, non si dice inviato da nessuno, evita sistematicamente il nome di Dio e quando una volta Râdha, un monaco, gli chiede di dire qualcosa di Dio gli dice: «Oh Râdha! Tu non sai quello che stai domandando, non conosci i limiti della tua domanda, non sai quello che domandi. Come vuoi che io ti risponda!». E nasce così quello che oggi noi, con questa facilità che abbiamo di appioppare etichette alle cose, chiamiamo buddismo o, meglio ancora, tradizioni buddiste, perché ce n'è sicuramente più d'una dozzina, ognuna con le proprie filosofie. Ma il Buddha non vuole niente di ciò. La sua via mediana non vuol essere né mondana, né religiosa, nel senso che a quei tempi sintendeva per religione; vuol essere la via di mezzo, dell'equilibrio, dell'armonia, dell'equanimità, della serenità.

Una madre addolorata lo va a trovare disperata perché sua figlia era morta, volendo un miracolo o sperando una consolazione. E Buddha la riceve, la guarda e le dice: «Mi accontento di poche cose». «Domandami qualsiasi cosa!» dice Kisâ Gautamî. «Portami tre granelli dì riso (o una manciata di semi di senape). Però valli a cercare in quella casa dove non ci sia mai stata alcuna disgrazia come la tua, dove non ci sia mai stato alcun dolore». E la giovane madre disperata, credendo che la cosa fosse relativamente facile, se ne va a cercare i tre granelli di riso e non trova casa che la morte prematura non abbia visitato. E torna dal Buddha dicendo: «Perché io volevo essere tanto speciale, perché misconoscevo la condizione umana? Perché non mi accorgevo che quello che io stavo patendo alla mia maniera è quello che ho trovato in tutte le case dove chiedevo un granello di riso? Mentre io credevo che non ci fosse stato alcun dolore, ho trovato che in tutte le case ce n'è stato. Grazie!». Più tardi entrò nell'ordine e divenne un arhant.
Senso comune! Non parla di Dio, non parla di religione, non vuol consolare con sentimentalismi, non dà spiegazioni. I discepoli della seconda generazione che lo seguono sono più intellettuali. Vogliono dottrina e soluzioni teoriche: Quel che io predico è come il caso di un uomo al quale hanno tirato una freccia e ora voi mi domandate che io continui la discussione: perché gli hanno tirato la freccia? E chi erano i suoi vicini? E chi ha visto il colpevole? E dov'è fuggito colui che l'ha tirata? Tutte discussioni teoriche. E intanto l'uomo ferito dalla freccia è morto, perché in quel momento l'unica cosa importante era estrargli la freccia dal corpo senza perdere tempo investigando le cause, domandando le ragioni, inseguendo il colpevole, cercando la giustizia, facendo il filosofo, cercando soluzioni. Prassi, azione immediata, spontaneità: estrarre la freccia dal corpo dell'uomo ferito, dal corpo dell'umanità gravemente ferita.
Il Buddha parla di silenzio sacro, utilizzando la stessa parola di quando, nel giardino vicino a Vârânâsi, egli parlava delle quattro nobili verità e del nobile silenzio. Ma il nobile silenzio non consiste nel tacere perché non si dice tutto quello che si avrebbe da dire o perché si vuol nascondere il segreto e la pietra filosofale che si è trovata. Il nobile silenzio è silenzio perché non ha niente da dire, e siccome non ha niente da dire non nasconde niente, né dice niente, né tace, ma placa le inquietudini che potrebbero sorgere da noi. Se domandiamo perché, è perché cerchiamo di trovare una risposta, ma questa risposta, a sua volta, genera un altro perché. Finché non distruggiamo la radice che ci fa domandare il perché, semplicemente finché domandiamo, non sorgerà la risposta adeguata. Ogni risposta è sempre informazione di seconda mano, risponde ad un problema che ci siamo formati, risponde a una domanda, non la risolve, non la dissolve, non fa che la domanda non sorga più.

Il mondo di Buddha è il mondo della spontaneità, della libertà, dell'estrarre la freccia senza chiedersi il perché, non perché non ci sia, ma perché qualsiasi domanda è un modo di far violenza all'esistenza, è domandare quel che c'è dietro, è fare quel che fanno le bambine quando si domandano che cosa c'è dentro la bambola e allora la rompono. E questa non è la cosa peggiore, il peggio è che non giocano più con la bambola che hanno rotto. Quando cerchiamo le cause non lasciamo più che gli effetti ci rallegrino la vita. Questo è lo spirito del buddismo. Tutto il resto è sorto da quest'uomo che non voleva niente, che non voleva fondare niente, che non voleva nemmeno riformare il brahmanesimo.
Io ricordo che relativamente pochi anni fa (gli anni 50) a Sarnath, lo stesso luogo dove nacque questo grande movimento, io domandavo a un monaco hindu, buddista theravada molto amico mio, (l'editore del Tripitaka in hindi e che in seguito diventò rettore dell'università di Nalanda) come mai in India non ci fossero buddisti, come mai in tutta l'India, la patria del Buddha, il buddismo come religione non esistesse più. E il bhikkhu mi guardava e mi diceva: «Ah sì? Non ci sono buddisti?». E io mi rimangiavo la domanda. Diciamo che non ci sono buddisti perché non c'è gente che ha firmato per il partito buddista, perché non c'è gente che si dichiara buddista, perché il buddismo come religione in India non esiste. Abbiamo perduto ormai lo spirito del vero buddismo.
L'India non ha buddisti, secondo le nostre statistiche, e secondo le nostre classificazioni non ci sono buddisti in India. E l'unico monaco buddista che c'era rimaneva sorpreso che io fossi ancora tanto stupido da chiedergli se in India ancora ci fossero o non ci fossero buddisti. O si prende sul serio quello che le tradizioni umane ci dicono dal punto di vista più profondo e più reale, oppure ne facciamo un'ideologia, un partito politico, o anche una religione. E certamente i buddisti delle statistiche classificatrici si trovano tutti fuori dell'India, eccetto forse i tre milioni di neo-buddisti del Dr. Ambedkar, i quali per ragioni sociali e politiche, per superare la schiavitù delle caste moderne, si stanno convertendo al buddismo, stanno accettando il buddismo come una delle grandi religioni, per potersi liberare dall'ignominia dei fuori casta e acquistare una certa identità. Vi si stanno verificando allora conversioni in massa al buddismo, ad un buddismo che farebbe sorridere anche il Buddha.

È prendendo rifugio nel Buddha , come uno dei tre gioielli (sangha e dhamma sono gli altri due) che si diventa buddisti. Ma prendere rifugio nel Buddha come ho fatto io, non vuol dire abiurare il cristianesimo o l'induismo o altro. Perché dobbiamo fare tutto sempre secondo le nostre categorie? Se l'induismo non ha un fondatore, il buddismo ne ha uno, benché il Buddha non fondi niente, dunque è piuttosto un simbolo. Egli che sorride quando gli si porge una domanda, egli che tace quando qualcuno fa una cosa cattiva.
Il Buddha ormai vecchio si trovava nel nord dell'India; lascia l'India centrale perché ha sentito dire che alcuni fratelli maltrattavano e disprezzavano un monaco che aveva preso una malattia repellente. Gôtama va laggiù, lo cura, e poi dice ai monaci: «Monaci, a me mi avreste curato! Quello che fate a qualsiasi uomo, lo fate a me». Questo succedeva più di quattro secoli prima che alcune parole simili fossero state pronunciate da un giovane rabbi di un'altra tradizione! Parlare dunque del buddismo implica parlare con una certa devozione. Il Buddismo non permette di farne soltanto un'ideologia, di spiegarne soltanto alcune dottrine, siano di filosofia o di logica. C'è tutta un'ideologia buddista, indiscutibilmente, ma lo spirito, incluso quello del più acuto forse di tutti i logici della tradizione buddista, Nâgârjuna, è sempre guidato da ciò che lui stesso dirà che è l'essenza del buddismo. Così come l'induismo non ha essenza, il buddismo ne ha una, e secondo la tradizione mâhâyanica si può riassumere in una sola parola, parola difficile da tradurre e ancor più difficile da praticare: Mahakarunâ, la grande compassione, cum patire, patire insieme con tutte le cose che esistono, senza far discriminazioni di alcun tipo.
Scoprire il pathos della cosa stessa e condividerlo. Sunt lacrimae rerum, diceva Virgilio. Mahakarunâ, la grande karuna, la grande compassione, è dove la tradizione mâhâyana ha riassunto l'essenza del buddismo, ma per una ragione: non per lasciarmi sofferente, ma perché io ho realizzato le quattro verità fondamentali e so che c'è sofferenza, che questa sofferenza ha un'origine, ma che può cessare, e che c'è una via per uscirne. E per questa cessazione la tradizione buddista usa la stessa parola classica di tutto lo yoga. Buddha utilizza la parola nirodha, la cessazione del dolore corrisponde alla cessazione della corrente mentale, del fiume di pensieri, della TV interna che ci distrae e non ci permette di fruire della verità della vita. Yogas citta vrtti nirodhah dice il secondo degli Yogasutra di Patañjali: yoga è la cessazione dei processi della mente.

Qualsiasi approssimazione al buddismo che non arrivi a toccare queste fibre della compassione universale, di rinunciare, come diranno i bodhisattva, alla mia salvezza personale in favore di tutti gli esseri viventi che ancora forse hanno bisogno del mio aiuto, non ha capito niente di quel che voglia dire il buddismo. Un grande arhant (e qui stiamo dentro l'ironia delle due grandi tradizioni buddiste), avendo compiuto la propria vita terrena sale al nirvâna, al cielo meritato, e il suo grande desiderio è di vedere il maestro e di sapere dove il maestro vive. E sale per tutti i cieli del nîrvâna, e si potrebbero descrivere le apsara , le ninfe e le cose preziose che trova, fino ad arrivare al settimo cielo. Qui le porte sono aperte e grida e cerca, perché vuole vedere Gôtama, il Buddha. Non lo trova e grida, ed esce un'apsara, esce una ninfa, una fanciulla che lo guarda tutta stupita. Egli le dice: Cerco Sakyâmuni, l'Adhibuddha. Essa gli risponde: «Ma tu non sai quel che cerchi, il Sakyâmuni, il vero, il Buddha non è mai venuto qui, è sempre rimasto tra gli uomini e ci rimarrà finché l'ultimo essere senziente non sia arrivato al nirvâna».
Il posto del Buddha è tra coloro che soffrono, tra gli uomini. La grande compassione che fa sì che si possa essere un bodhisattva, fa che si rinunci alla propria salvezza per collaborare col resto degli esseri viventi alla liberazione dell'universo. Il voto del bodhisattva che fa il monaco della tradizione mahayâna, dopo cinque anni di preparazione come minimo, è la rinuncia a qualsiasi beneficio e merito personale, di non farci caso e di non capitalizzarlo, finché l'ultimo essere vivente non arrivi alla propria pienezza. E quando si vuol costruire tutto un sistema filosofico quel che si vuole è sbancare tutta la forza della logica per dimostrare, logicamente, che qualsiasi costruzione intellettuale, distrugge se stessa quando si vuol formulare. Questo è lo spirito del buddismo.

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