martedì 18 marzo 2025

Joyful Wisdom - Yongey Mingyur Rinpoche

 "La notra vita è modellata dalla nostra mente, noi diventiamo quello che pensiamo " - dal Dhammapada "Come esseri umani, soffriamo per non avere ciò che vogliamo e per non tenere ciò che abbiamo".

Questo è il periodo dell'ansietà e della infelicità. Il libro - Gioia e saggezza - offre una guida per applicare gli insegnamenti e le pratiche buddhiste alle sfide della vita quotidiana.    

Il tempo che le persone dedicano ad accumulare la ricchezza esterna offre poche opportunità per coltivare la ricchezza interiore; questo squilibrio lascia le persone particolarmente vulnerabili alle difficoltà della vita. Le persone sono paralizzate da bassa autostima, depressione, stress o emozioni debilitanti.

Mindfulness è la pratica che ci permette di accogliere dolcemente pensieri, emozioni e sensazioni, e non è facile perchè siamo, per la maggior parte del tempo, sopraffatti dagli aspetti della nostra esperienza quotidiana. E' sorprendere scoprire che pensieri e sentimenti che sembravano solidi e potenti svaniscono, come sono apparsi. E si scopre piano piano, che  il senso di solidità e permanenza è un'illusione.

Dovremmo essere come un viaggiatore intelligente che porta i problemi con se, senza farsi prendere dal panico. Importante è imparare ad osservare i pensieri e le emozioni, attraverso la meditazione, che vengono e vanno. Gradualmente si comincia a realizzare che i sentimenti, come speranza, paura, rabbia, ecc, non sono altro che idee che fluttuano nella nostra mente. Dovremmo apprendere a liberarci dalle abitudini mentali e dalle emozioni che imprigionano la maggior parte delle persone in conflitti interiori e esteriori senza fine. 

Riconoscere che,  disagio, malattia e malessere (dukkha), sono le basi dell'esistenza è il primo passo per liberarcene o almeno saremo preparati per affrontarli. Le quattro grandi sorgenti della sofferenza sono: nascita, vecchiaia, malattia e morte. Spesso ci creiamo noi stessi della sofferenza, in modo inconscio,  inventandoci delle storie, dicendoci che non siamo abbastanza bravi, ricchi, intelligenti, ecc. e non ci sentiamo  a nostro agio se siamo vestiti male, non ci piaciamo fisicamente, se abbiamo i capelli corti, lunghi, il naso corto, ecc... poi poco a poco ci rendiamo conto che queste deformità sono solo una creazione della nostra mente.

Ci sono tre categorie di sofferenza; 1 - la sofferenza per il soffrire, 2 - la sofferenza per il cambiamento, 3 - la sofferenza pervasiva. 

1. si manifesta quando siamo in situazioni di disagio, accentuiamo il dolore associandoci aspetti psicologici e emozionali.     2.  si manifesta quando siamo in cerca sempre del nuovo, questa ricerca in oggetti esterni accentua la credenza che non siamo completi, non possiamo essere sofddisfatti con noi stessi.  3- anche se siete nella situazione perfetta, c'è sempre quel piccolo sconforto che ti invita a muoverti e rimetterti alla ricerca di qualcosa che non esiste.      

Si dovrebbe apprezzare il continuo e incessante cambiamento che avviene minuto dopo minuto, quel continuo cambiamento che i buddhisti chiamano impermanenza. Appena registriamo l'idea "ora" che già è diventata "poi". Bisogna apprendere a diventare amici dell'impermanenza...    Occorre portare l'attenzione ai cambiamenti nel corpo eseguendo il respiro, osservare il continuo cambiamento a livello sottile...  Il modo in cui sperimentiamo le cose e gli eventi è semplicemente il riflesso della nostra mente.  Se riusciamo ad osservare questo fenomeno, abbiamo un'opportunità di  conoscere un pochino di più la nostra mente.  La seconda nobile verità spiega che le cause della sofferenza non risiedono negli eventi e circostanze ma nel modo in cui noi percepiamo e interpretiamo la nostra esperienza.  Ma da cosa deriva la nostra interpretazione?   Stiamo dicendo quello che stiamo dicendo perché crediamo veramente a ciò o perchè è dovuto alla cattiva giornata che ho passato al lavoro??? Dobbiamo capire che tutto è relativo.

Ignoranza, desiderio e avversione sono definiti "i tre Veleni" nel buddhismo. Quando ci fissiamo sulle nostre percezioni, perdiamo la nostra abilità di volare.  Cambiando percezione, la stessa esperienza cambia.

Prendiamo il fenomeno della vecchiaia, pensa quante cose puoi fare adesso, che non potevi fare quando eri giovane... L'età non è il nostro nemico; la fissazione è il nostro nemico,  se ci sentiamo vecchi, poco attraenti e inutili, cominciamo ad agire da vecchi...  Bisogna riuscire a guardare da vicino e con coraggio le cause del nostro malessere, solo guardando direttamente il fenomeno possiamo attenuarlo o eliminarlo (ad esempio il problema di bassa autostima, gelosia, ecc..).

Ma come posso liberarmi dall'attaccamento, speranze e paure?  Semplicemente non provando!!! Perchè provando a uscirne, si rinforzano semplicemente le paure. Devo limitarmi semplicemente ad osservare le mie emozioni.

Esistono due tipi di consapevolezza: la pura consapevolezza e la consapevolezza condizionata. La consapevolezza condizionata è una prospettiva colorata da ignoranza, desiderio e avversione. La natura di Buddha, che può emergere e si può sperimentare a tratti nella nostra quotidianità,  è caratterizzata da infinita saggezza, infinita capacità, e da un'immensurabile amore-gentilezza e compassione.   Questi momenti sono chiamati "Momenti di Buddha". Ognuno di noi ha il proprio rifugio.

Spesso se una persona ha dieci qualità, di cui nove positive, la maggior parte delle persone si focalizzerà esclusivamente sulla qualità negativa. Alcune abitudini mentali e emotive condizionano il nostro punto di vista. Diventiamo attaccati a un personale punto di vista, Crediamo che il modo in cui guardiamo le cose, sia il vero modo di guardarle.  Quotidianamente proviamo un senso di incompletezza, isolamento e instabilità e nello sforzo di combattere il nostro disagio, ci attacchiamo alle cose esteriori. Ma purtroppo le nostre certezze e cose materiali su cui basiamo la comprensione del mondo (il lavoro, il rapporto, la salute)  spesso si sgretolano. La stessa persona gioiosa che guarda  la vita con entusiasmo il giorno dopo è arrabbiata, o depressa, e non riesce ad uscire dal letto. Quanti  "IO" esistono?  Noi abbiamo la tendenza a dire che questi aspetti sono delle "parti" di me stesso! Ma se ci sono delle parti, ci può essere l'Uno?   Poco a poco riconosciamo che non esiste persona, oggetto, posto che sia indipendente, ma ogni cosa è fatta da un numero di parti differenti, cause e condizioni interrelate. Questo è uno dei principali concetti buddhisti l'Interdipendenza di tutte le cose.  Ma cosa significa? Che non siamo reali? che i miei sentimenti non sono reali? Altro elemento importante negli insegnamenti buddhisti è il vuoto o la vacuità (il principale soggetto del secondo insegnamento del Buddha - o ruota dell'insegnamento).  Il vuoto è il background, un infinito spazio "aperto" che permette ad ogni cosa di apparire, cambiare, scomparire e riapparire. E' l'assoluta realtà, la natura di base, di tutte le nostre esperienze.  Non è zero, ma non è nulla. E' la base della natura di Buddha; una potenzialità aperta e senza fine per ogni tipo di esperienza.

Ci sono tre stadi della pratica:   l'ascolto, la contemplazione, la meditazione. L'ascolto è il permettere a se stessi di essere introdotti a nuovi fatti e idee. La contemplazione è pensare alle indicazioni ricevute durante gli insegnamenti e vedere se sono validi per capire e affrontare gli eventi della vita. E capire quanto la tua vita è colorata, a livello emotivo, fisico o intellettuale, da dukkha (sofferenza) o da disagio. La meditazione inizia proprio osservando le nostre esperienze senza giudicare. L'uso della mente per guardare la mente, è ciò che, nella tradizione buddhista, si intende per meditazione.  Il termine tibetano "gom" significa proprio familiarizzare, e in questo caso familiarizzare con il funzionamento della mente. Il Buddha introdusse una serie di pratiche finalizzate ad aiutarci a prendere le distanze e osservare la mente.

 Anche nel buddhismo si sottolinea l'importanza del rapporto mente-corpo,  "per far si che la mente sia calma e quieta, il corpo deve essere disciplinato".  Nel testo Mingyur Rinpoche presenta l'allegoria del rapporto tra il fantino e il cavallo, il fantino è la mente, il cavallo è il corpo; un fantino tranquillo può calmare il cavallo, un cavallo tranquillo può calmare il fantino. Nel metodo formale di meditazione vengono presi in considerazione sette punti della posizione fisica chiamata Vairochana (il significato è il sole) . - Il primo punto è stabilire una ferma base per collegarti  all'ambiente dove si sta praticando; - il secondo è riposare le mani sull'ombelico: - il terzo è lasciare dello spazio tra le braccia e la parte alta del corpo; - il quarto è tenere la colonna più perpendicolare possibile rispetto al suolo; - il quinto allungare il collo inclinando il mento verso la gola (un po' più del normale); - il sesto interessa la bocca, e i denti , ossia si deve permettere alla bocca di riposarsi naturalmente; - l'ultimo punto riguarda gli occhi, cercare di mantenerli aperti, così è più facile rimanere consapevoli, e importante è avere un focus su cui portare l'attenzione, senza vagare da esperienza a esperienza. Trovare un equilibrio fisico aiuta a stabilire un equilibrio tra il prana (energia), le nadi (i canali in cui questa energia si muove) e i bindù (le gocce di energia vitale). Importante è trovare un equilibrio per lo stato del nostro corpo e della nostra mente, trovare la via di mezzo, non troppo teso, non troppo rilassato. All'inizio è consigliato fare brevi sedute di meditazione, magari nello stesso giorno.      La meditazione in questo modo diventa parte della nostra vita quotidiana, piuttosto che qualcosa che facciamo per sentirci bene...

Noi riceviamo sollecitazioni continue dai nostri sensi, dai nostri pensieri ed emozioni. Per questo la maggior parte delle persone si sentono stressate. Una delle pratiche base è chiamata Shamatha (che significa pace, calma).  Quando osserviamo qualcosa, sentiamo qualcosa, o guardiamo qualcosa, un pensiero, un'emozione formuliamo sistematicamente una specie di giudizio  riguardo l'esperienza. Mi piace, Non mi piace, Non so...   Shamatha è il lasciar andare, Non formulare giudizi o opinioni, osservare semplicemente il fenomeno.  La semplice consapevolezza è la capacità di vedere e riconoscere quello che stiamo vedendo, ma senza concetti associati che disturbano la nostra visione.    Senza la chiarezza, non saremo capaci di percepire, pensare o provare qualcosa. Shamatha ci aiuta a sviluppare la nostra chiarezza interiore.  Shamatha si sviluppa attraverso vari passi:

  • 1- non focalizzarsi su qualcosa in particolare,  la mente è in pace, aperta, riposata ed immersa nel momento presente. Qui e ora, è il solo momento presente.
  • 2- oltre i cinque sensi, il buddhismo riconosce un sesto senso chiamato coscienza mentale, è quello che i neuroscienziati descrivono come la capacità di organizzare le informazioni ricevute attraverso i sensi e formare un concetto o immagine mentale. La tecnica per usare la vista come mezzo di far riposare la mente è la meditazione della forma. Ossia riposare l'attenzione su un oggetto specifico, o sulla forma o sul colore. cominciamo a realizzare che quello che vediamo e come lo vediamo è un'immagine fatta da pensieri, memoria, e limitata dai nostri organi sensoriali. E non c'è differenza tra ciò che vediamo e la mente che vede l'oggetto.
  • 3- portare l'attenzione a un suono,  e come nel punto precedente, gli oggetti visuali e i suoni servono a far riposare la mente. La meditazione accompagnata da suoni ci aiuta a distaccarsi gradualmente dall'assegnare un significato ai suoni che udiamo. 
  • 4- partecipare all'esperienza fisica. C'è un modo formale per usare le sensazioni fisiche della respirazione come focus per calmare la mente, ad esempio contando la prima inalazione e esalazione come uno, e arrivare a ventuno. Poi ricominciare. Prendere quindi le nostre sensazioni fisiche come opportunità di diventare consapevoli (testimoni) della consapevolezza.  Anche l'attenzione alla sensazione di dolore fisico può aiutarci a gestrire e affrontare il dolore.
  • 5- l'attenzione ai pensieri. Pensare è la naturale attività della mente. se si osservano i pensieri, si comincia a percepire che appaiono e scompaiono rapidamente, lasciando un piccolo spazio tra l'uno e l'altro... Portando l 'attenzione su questo spazio, a poco a poco lo spazio aumenta e la mente si riposa. Dando attenzione a quello che stai sperimentando in un dato momento è una forma di meditazione. Occorre guardare ai pensieri in se stessi, senza cercare le cause e le condizioni che li hanno fatti apparire nella mente.  Semplicemente guardare l'esperienza direttamente. Alternando momenti di attenzioni ai pensieri a momenti di non attenzione.
  • 6- l'attenzione alle emozioni, osservare le emozioni che si provano senza attaccamento o avversione, semplicemente inquadrandole nelle categorie, positive, negative o neutre. Quali tipi di emozioni prevalgono? Occorre cercare di evitare persone o situazioni che provocano emozioni negative. 

L'intuizione.  Il metoto per arrivare all'esperienza diretta della vacuità, unificata alla chiarezza, è chiamato vipashyana (in sanscrito) che significa intuizione e vedere oltre. Combinando la comprensione della vacuità con il metodo dell'attenzione, vipashyana offre un metodo esperienziale di andare oltre gli attaccamenti concettuali di "me", "tu", "loro", "gelosia", "rabbia" e così via. Ci troviamo di fronte alla libertà di consapevolezza senza limitazioni dovute alle abitudini mentali  ed emozioni. Ad esempio quando stiamo attraversando momenti difficili, di sofferenza e dolore dovuti a divorzi, perdita di persone care, dovremmo prendere consapevolezza del dolore e suddividerlo in piccoli pezzi guardando le sensazioni che emergono. Le sensazioni che passano nella mia mente, nel mio corpo, i pensieri che emergono, in questo modo divento l'osservatore e mi disidentifico. Si può arrivare per un istante all'esperienza che non c'è più distinzione tra osservatore, il fenomeno osservato e l'atto dell'osservare.

Nirvana è la diretta esperienza della nostra inerente natura libera, - una perfetta pace della mente libera da concetti, attaccamenti, avversioni, ecc.  Samsara è un punto di vista al quale noi siamo diventati attaccati in uno sforzo per definire noi stessi, gli altri, e il mondo intorno a noi mentre viaggiamo in un regno caratterizzato da impermanenza e interdipendenza.  L'ego, nel buddhismo, è un semplice insieme di funzioni sviluppate per assisterci a navigare nella realtà relativa.

Vipashyana è spesso difficile da praticare perchè disturba il nostro attaccamento alle cose che è diventato per noi famigliare. Il samsara è un'espressione del nirvana.

La vacuità. Chi sono "Io"?  In effetti non possiamo veramente trovare un "Io".  Il nostro corpo è sottoposto a continui mutamenti, quindi cerchiamo un "Io" interiore che non può essere definito dalle circostanze. Noi agiamo come se avessimo un "io" da proteggere, evitare il dolore e cercare conforto e stabilità. Le implicazioni sono che  dolore e piacere sono qualcosa di estraneo al nostro "io".

Lo scopo della meditazione è anche quello di scoprire dentro la nostra propria esperienza un senso di libertà dall'idea dell'  "Io" permanente e indipendente.  Questa è un'esperienza che, una volta provata, può cambiare la nostra vita aprendo a nuove dimensioni e possibilità.

Raggiungere Shamatha con una comprensione della vacuità non significa comunque negare la realtà relativa che è la cornice nelal quale operiamo nel mondo. La negazione di questa realtà relativa può portare alla follia. C'è un terzo livello che è quello della "finta realtà reale".  Noi dovremmo rapportarci con l'esperienza con la consapevolezza che dividerla in osservatore e fenomeno osservato è essenzialmente una invenzione concettuale.  Quando portiamo la mente ad osservare la mente - se stiamo cercando "me", "altri" "pensieri" e "sensazioni", possiamo iniziare a vedere la mente stessa.  Diventiamo aperti alla possibilità che la mente - l'unione di vacuità e chiarezza -è capace di riflettere ogni cosa.

Empatia. "L'essere umano è parte di un tutto chiamato da noi universo".  L'empatia è l'abilità di identificarsi con o capire la situazione nella quale gli altri si possono trovare. l'ordinaria gentilezza amorosa e compassione include differenti fasi; - la prima è quello di sviluppare un senso di tenerezza verso se stessi. - Guardare l'esperienza di se stessi nel momento presente (l'essere vivi in questo momento)  come focus della meditazione. - Riconoscere che abbiamo un corpo, una mente e apprezzarli è il primo seme per la felicità e il sollievo dalla sofferenza. - Poi si dovrebbe lavorare sui pensieri e scoprire quanto è bello essere in vita, scoprire un senso di benessere che apre a tutte le possibilità.  Questa fase nel buddhismo tradizionale si concretizza nella recitazione di preghiere "possa io conseguire la felicità, possa essere libero dalla sofferenza e dalle cause della sofferenza". Poi la mente si riposa, rilassata e aperta.  E' importante trattare tutti con gentilezza, anche le persone per cui provi antipatia. Molti praticanti buddhisti prendono fiducia in loro stessi quando cominciano a vedere che si possono affrontare situazioni difficili con la chiarezza e la saggezza nate dalla compassione e gentilezza amorevoli.  Si sviluppa in questo modo un grande apprezzamento per le possibilità insite nell'essere umano.

Bodhicitta.  Bodhi significa diventare sveglio, citta significa mente o spirito.  Nella tradizione buddhista ci sono due tipi di bodhicitta: relativa e assoluta. - Assoluta quando la mente è completamente pura, come lo stato a cui arrivò il Buddha che per otttenere questo risultato impiegò sei anni.   - Lo sviluppo della bodhicitta relativa implica due aspetti: aspirazione e l'applicazione.  Questa aspirazione può prendere le forme di seguire dei consigli, ascoltare un insegnamento, o seguendo l'esempio di un maestro. L'applicazione della bodhicitta può concretizzarsi con piccoli gesti, come ad esempio non rubare, non fare gossip, non procurare dolore, ecc... gioire per le belle cose che accadono ad altre persone piuttosto che essere preso da gelosia.  Questo crea una situazione vincente per tutti.  L'aspirazione (o intenzione) ha un grande potere,  la mente diventa più forte, il comportamento emotivo diminuisce, e la capacità di aiutare gli altri aumenta.

Ma cosa dobbiamo fare quando ci troviamo di fronte ad ansia, lutto, gelosia, rabbia o disperazione?          "Ogni cosa può essere usata come un invito alla meditazione".  Sogyal Rimpoche            La meditazione non è separata dalla nostra vita, è la nostra vita. 

Per eliminare i problemi, abbiamo bisogno di problemi. La nostra vita è contornata di sfide e problemi di ogni tipo, come gestirli? Per i buddhisti l'obiettivo è non di eliminare o risolvere i problemi, ma usarli come base o focus per riconoscere il nostro potenziale. Ogni pensiero, ogni emozione, e ogni sensazione fisica è un'opportunità per portare la nostra attenzione all'interno e diventare un po' più familiari con la sorgente. Oltre il fango costituito da ignoranza, desiderio, avversione troviamo l'oro, la nostra natura di Buddha, che in essa stessa è oltre ogni descrizione.  Decenni di esperienze e fango non hanno cambiato la natura dell'oro e la nostra vera natura. Per molti, è un lento e graduale processo avvicinarsi e percepire queste qualità positive innate all'essere umano. Qualità che spesso abbiamo difficoltà a percepire in noi stessi. Alcuni si chiedono: "ma se io ho queste qualità, perchè sono sempre nervoso, ansioso, depresso, senza speranza, o litigo spesso con gli altri "?

 Le percezioni influenzano le esperienze, le esperienze influenzano il comportamento, i comportamenti rinforzano le esperienze e le esperienze rinforzano la percezione.   Il testo Abhidharma spiega l'insegnamento buddhista in dettaglio ed elenca  84 tipi di afflizioni mentali e emotive che ci impediscono di cambiare. Il testo Mahayana Uttaratantra riporta le abitudini che ci impediscono di percepire la nostra vera natura che possiamo chiamare "Buddha Nature Blockers". Questi blockers sono le modalità con cui rispondiamo alle esperienze e ci impediscono di rapportarci alla vita con saggezza e consapevolezza. Il primo blockers è la tendenza a autocriticarci e a giudicarci e a sentirci inadeguati, incompetenti, sbagliati. Bassa autostima, ansia da prestazione rientrano in questo primo caso. Alcool e droga provvedono un senso artificiale di sicurezza a persone che mancano di fiducia in loro stessi o con difficoltà a relazionarsi con gli altri.  Il secondo blockers è l'attitudine a giudicare gli altri. Le altre persone sono meno competenti di noi, sono sbagliate, sono in torto...  Rappresenta la difficoltà a vedere qualcosa di buono negli altri. Questo è anche quello che succede a varie coppie, dopo un lungo periodo di convivenza, i partner cominciano a vedere le imperfezioni dell'altro, e il partner diventa fonte di irritazione e dolore.  Il terzo blocco è quello di vedere il falso per il vero. I buddhisti lo chiamano 'eternalismo',  ossia la tendenza a considerare certi aspetti dell'esperienza come assoluti, e non una combinazione  temporanea di cause e condizioni. Il quarto è vedere il vero per il falso. il quinto blocco, che può essere considerato la base degli altri, è il mito di Sè stessi. Ci aggrappiamo alle nostre opinioni, nostre narrazioni senza mai metterle in discussione.  Questi blockers lavorano in sinergia, e condizionano il nostro modo di pensare e agire e dobbiamo anche essere consapevoli che questi blockers sono un prodotto del nostro modo di pensare.  Guardare al modo in cui guardiamo le cose è l'essenza di vivere sul sentiero. in questo modo i semi delle nostre qualità positive cominciano a germogliare.

 "La consapevolezza è un modo neutrale che permette di mantenere la nostra capacitò di riflessione anche quando ci troviamo in mezzo a emozioni turbulente". - Danile Goleman.  

L'obietttivo della pratica dell'attenzione o samatha è diventare consapevoli di essere consapevoli, La consapevolezza è la base, il supporto della mente. La consapevolezza ci permette di capire cosa stiamo provando a livello emotivo e cosa stiamo pensando. La prima tappa è quella di portare l'attenzione ai pensieri, alle sensazioni senza nessuno scopo o intenzione. Giusto arrivare a notificare cosa si  sta provando, pensando. La seconda tappa è la consapevolezza meditativa, ossia arrivare ad avvicinare emozioni e pensieri come oggetti di focus per stabilizzare la consapevolezza.  Spesso quando proviamo a prenderne consapevolezza, spariscono, e questo è un bel risultato perchè siamo arrivati ad essere consapevoli di essere consapevoli.   Se non spariscono è una buona opportunità di diventarne l'osservatore, lo spettatore.  Per incominciare dovremmo darci dei piccoli obiettivi, ossia cercare di focalizzarci su un suono o una forma, e poi passare ad allenarsi e focalizzarsi su piccole emozioni o pensieri che influenzano la nostra attuale esistenza (come ad esempio l'irritazione di fare la fila per un certo tipo di servizio). Solo dopo potremmo affrontare emozioni come la solitudine, l'autostima, ecc.     Terza tappa è cercare di prendere le distanze e cercare di guardare cosa si nasconde dietro un'emozione - che è il supporto all'emozione stessa.   Ad esempio se provi del panico, quello che ti può dare fastidio è la paura del panico. La stanchezza può essere ad esempio un segnale di depressione, ecc.   La quarta tappa è apprendere durante il periodo di sospensione della pratica. 

A volte è necessario sospendere la pratica di meditazione e fare altro quando il focus della meditazione diventa troppo intenso. Questo perchè le riserve fisiche, mentali, emozionali sono esaurite. E' importante quindi alternare periodi di pratica e periodi di riposo.  Lo stesso principio è valido quando si provano senzazioni positive e la mente diventa immobile. Dobbiamo avanzare lentamente e alternare periodi di riposo. Il periodo di riposo è importante tanto quanto il periodo di inizio pratica.

Guardando ad esempio l'aspirazione di una persona ad una relazione duratura,  si potrebbe scoprire che il vero focus dei suoi pensieri è il fatto di sentirsi non amabile e i ricordi della sua infanzia, quando non era invitata alle feste, ecc... Spesso dietro ad una aspirazione o desiderio c'è una vera trama. Considerare tutti questi singoli aspetti della trama, è un modo di meditare. La consapevolezza permette di scomporre il problemi in tanti piccoli sottoproblemi, il dolore in tanti piccoli pezzi.  E piano piano si prende consapevolezza che tali sensazioni non sono inamovibili o fissi. Si comincia a sentire una connessione con gli altri che trascende desiderio, gelosia e paura. Si comincia a riconoscere che tutti i fenomeni sono interdipendenti e composti da molte piccoli parti.

Oggi, la rabbia verso l'ex- partner, un collega di lavoro, un famigliare può durare degli anni. Se guardiamo le emozioni da vicino, come ad esempio la rabbia, vedremo che sono  costituite da una combinazione di parole e pensieri, e se inizio a separare queste parti, non trovo più la rabbia o per lo meno riesco ad attenuarla.  Un'altra opportunità per ammortizzare l'effeto di emozioni negative è quello di concederci l'opportunità di osservarle di nuovo. L'obiettivo di queste pratiche di interiorizzazione è rompere l'illusione della permanenza di un fenomeno o emozione e arrivare a capire quale componente dell'emozione ha fatto scattare un tale atteggiasmento.  Spesso si riesce a far emergere nella nostra coscienza, episodi dell'infanzia o altro che ci hanno reso sensibili  o vulnerabili davanti a certi episodi. Molte persone resistono a queste pratiche di interiorizzazione e trovano difficile smontare l'emozione negativa in piccoli pezzi. La resistenza principale è dovuta alla paura del cambiamento, la paura di perdere la nostra identità, ossia la tendenza a sentirsi senza speranza, soli, ansiosi o impauriti.  Molti hanno bisogno di drammi o situazioni conflittuali per vivere nella quotidianità, se vogliono cambiare, devono interiorizzare e scomporre questi sentimenti per riuscire a capire perchè!

Estendere l'empatia. Spesso se siamo stati feriti da qualcuno, rispondiamo con lo stesso atteggiamento. I maestri buddhisti indicano un'altra via percorribile "The High Road", ossia invece di rispondere in modo conflittuale, rispondere empaticamente, sperimentando una pace mentale cercando di aiutare l'altra persona. L'empatia ha un gusto differente, è un processo di trasformazione. permette di riconoscere che il comportamento dell'altra persona è stato provocato da emozioni conflittuali che avevano preso il sopravvento. Questa pratica nel buddhismo è chiamata Tonglen, si riconoscono le sofferenze degli esseri sensienti e si cerca di prenderle dentro di sé,  e  poi si immagina di portare all'esterno tutte le nostre qualità positive e di indirizzarle verso gli altri.  E' un percorso molto lungo, c'è bisogno di tempo per migliorare le nostre capacità di gentilezza amorevole e compassione.

 Le vere basi delle pratiche buddhiste sono: capire la capacità della mente di creare la percezione della realtà nella quale ci troviamo.  

La vera forza risiede nel percepire le nostre debolezze. Nell'affrontare le nostre emozioni disturbanti e i problemi che si verificano nelle nostre vite, scopriamo un'esperienza di benessere che si estende dentro e fuori di noi. Noi siamo tutti dei Buddha, soltanto non lo riconosciamo. Quando ci prefiggiamo di sviluppare la consapevolezza della nostra vera natura di Buddha, cominceranno dei cambiamenti nell'esperienza nella nostra vita quotidiana. Le cose che ci turbavano perderanno il loro potere su di noi. La saggezza consiste nel risveglio del cuore, il riconoscere la nostra connessione con gli altri, ed è la strada della gioia.

Nella tradizione Vajrayana del buddismo tibetano quando arriva il momento della morte, i grandi maestri si mettono nella postura meditativa (tuk dam). Tukdam è uno stato meditativo che si dice avvenga dopo la morte clinica in cui il corpo mostra minimi segni di decomposizione, mantenendo un aspetto realistico per giorni o addirittura settimane.  

Le quattro dimore divine nel Buddhismo

Uno degli aspetti fondamentali del buddhismo è coltivare degli stati mentali positivi. I quattro incommensurabili stati mentali (Brahmavihara), o "Dimore Divine", sono: la compassione (karuna), la benevolenza o amore (metta), lo gioia compartecipe (mudita) e l'equanimità (upeksa).  Nella tradizione antica queste qualità o stati mentali sono irradiati in tutte le direzioni in modo illimitato e verso tutti gli esseri. Secondo Thich Nhat Hanh, essi consentono di guarire da molti stati mentali non salutari.
La felicità è possibile solo con il vero amore. Il vero amore ha il potere di guarire e trasformare la nostra condizione e può dare alla nostra vita un significato profondo. Ci sono persone che comprendono la natura del vero amore e che sanno come generarlo e alimentarlo. Gli insegnamenti del Buddha sull’amore sono chiari, scientifici e realizzabili; chiunque di noi ne può trarre beneficio.

I quattro incommensurabili stati mentali possono essere descriti in questo modo:

  • La compassione è il desiderio di alleviare le sofferenze altrui, che non è soltanto un semplice sentimento di dolore verso la sofferenza altrui ma una volontà attiva  di aiutare.
  • La benevolenza esprime il desiderio che tutti gli esseri possano essere felici. Importante è riuscire ad avere un  atteggiamento benevolo e gentile nei confronti di chi si incontra. Questa gentilezza può esprimersi in azioni, parole e pensieri. 
  • La gioia consiste nel vedere gli altri esseri viventi felici, e si è partecipi del successo altrui.
  • L'equanimità consiste nella capacità di accettare gli eventi, di accettarli così come si manifestano, senza essere travolti dalle emozioni. L'equanimità è sinonimo di quieta neutralità ed è completamente diverso dall'indifferenza.
 Se vogliamo associare questi stati mentali all'immagine del sole, possiamo dire che la benevolenza è associata al sole che splende e irradia calore in tutte le direzioni, la compassione possiamo paragonarla al sole che tramonta, che risplende quando si avvicina l'oscurità, la gioia può essere associata alla luce dell'alba, con i suoi raggi che portano nuova vita. L'equanimità può essere rappresentata dalla luna piena che riflette la luce del sole, con calma, senza irradiare luce propria.

L'obiettivo dei praticanti buddhisti è di essere sempre presenti e aperti verso le persone che si incontrano, e questo stato mentale, diventa una pratica meditativa.   

Prima però guarda te stesso...   Comincia ad amare te stesso   e poi dedicati agli altri....
In questo cammino possiamo essere aiutatati dalle Sei Perfezioni che sono: generosità, etica, pazienza, perseveranza entusiastica, concentrazione e saggezza. Le Sei Perfezioni (Pārāmita) sono il condensato di quella che viene definita la parte fondamentale dell'addestramento di chi vuole ottenere la mente dell'illuminazione (Bodhicitta).

La tradizione Gelugpa del buddhismo tibetano

Il fondatore della scuola Ghe Luug Pa è stato il grande Lama Tsongkhapa (1357- 1419) che nacque nella regione dell'Amdo (Tibet).  Quando andò a studiare in Tibet centrale, erano già presenti i lignaggi (o tradizioni) Nyimgma, Sakya e Kagyu. Tutti questi lignaggi si basano sull'insegnamento del Buddha, che è costituito dalla Ruota del Dharma che fù girata per tre volte (tre insegnamenti in tre posti diversi). Questi insegnamenti furono poi riportati nei cento volumi del Kangyur  (le trascrizioni degli insegnamenti del Buddha), e poi nei duecento volumi del Tangyur (i commenti dei grandi maestri sugli insegnamenti del Buddha), che contengono gli insegnamenti dei 17 Pandita (termine in hindi e sanscrito con cui si indica un "maestro", un "filosofo", un "erudito") di Nalanda che fu la più importante università buddista dell'India antica.    Degli eruditi studenti del Dharma tradussero questi testi dal sanscrito e dal pali in tibetano che poi costituirono la base degli insegnamenti delle varie scuole buddhiste tibetane.      

Tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. iniziano a comparire in India dei testi buddhisti indicati con il nome collettivo di Prajñāpāramitā sūtra (Sutra perfezione della saggezza), che poi furono decisivi per la nascita e la diffusione del Buddismo Mahāyāna che presto si propagherà per tutta l'India e l'Asia centrale, giungendo infine nell'Estremo Oriente e in Tibet.    Il saggio, monaco e filosofo Nagarjuna  (ca. 2°-3° sec. d.C.)  è considerato il fondatore della scuola dei Mādhyamika e il patriarca delle scuole Mahāyāna.   Il suo testo principale,  Mūla-madhyamaka-kārikā (conosciuto anche Le stanze del cammino di mezzo),  composto da 448 strofe divise in 27 sezioni, è una critica serrata a varie scuole di buddhismo.

 

Quando Tsongkhapa  arrivò in Tibet centrale cominciò a studiare approfonditamente tutti questi testi. Si ritirò per un lungo periodo vicino Lhasa, ed ebbe un sogno in cui gli apparve Nagarjuna e i suoi figli spirituali, che pronunciavano varie frasi, da cui poi prese spunto per lo studio sul Sé.  La frase riportata nella sua biografia è la seguente: "se il Sé fosse costituito dagli aggregati, sarebbe soggetto a nascita e morte. Se fosse qualcosa d'altro, non avrebbe le caratteristiche degli aggregati".  Da questa frase comprese il concetto di vacuità o vuoto e dell'interdipendenza insegnata da Nagarjuna. E cominciò a difffondere questi insegnamenti nelle regioni di Kham, Amado, Mongolia, e da ciò è nata la tradizione Geluppa, e chi segue questa tradizione studia i 18 volumi di insegnamenti da lui composti.

Questi volumi di insegnamenti sui Sutra e sui Tantra, sono poi stati arricchiti da commenti dei suoi autorevoli discepoli. Molti studiosi buddhisti e maestri di questa tradizione sono venuti in Occidente  a spiegare il Dharma e hanno fondato molti centri di Dharma Gelugpa. A questa tradizione appartiene l'attuale Dalai Lama. 

lunedì 17 marzo 2025

Transforming Stress Into Opportunities

Transforming Stress Into Opportunities: Insights from Science and Buddhism with Mingyur Rinpoche, Dr. Richard Davidson and Dr. Cortland Dahl    

https://www.youtube.com/watch?v=b6fJlnoNGrU

 


 

Le parole sono finestre (oppure muri) – Introduzione alla comunicazione non violenta - Marshall B. Rosenberg

"Osservare senza giudicare è la più grande forma di intelligenza umana " - Krishnamurti

Marshall B. Rosenberg è stato un grande psicologo statunitense scomparso nel 2015 che per gran parte della sua vita si è occupato di violenza, tanto da essere l’ideatore della comunicazione NonViolenta o CNV o Linguaggio giraffa, un processo di comunicazione che vuole aiutare le persone a scambiare le informazioni necessarie per risolvere i conflitti e le incomprensioni pacificamente. 

Rosenberg è anche il fondatore ed ex direttore dei Servizi Educativi per il Centro per la Comunicazione Nonviolenta, un’organizzazione internazionale non-profit da lui fondata nel 1984, che opera in 30 Paesi del mondo. 

Nel libro Le parole sono finestre (oppure muri) Marshall B. Rosenberg definisce i quattro componenti della Comunicazione Non Violenta:
- Osservazioni;  - Reagisco e esprimo sentimenti; -  Risveglio di desideri e bisogni; -   Richieste e domande all'altro.

Rivedere il modo in cui ci esprimiamo e come ascoltiamo l'altro, spesso ci comportiamo in maniera aggressiva di fronte agli altri e a noi stessi, giudizi moralizzanti, i cui comportamenti non corrispondono ai nostri valori.   La comunicazione alienante ci impedisce di prendere coscienza che ciascuno è responsabile dei suoi pensieri, dei suoi sentimenti e dei suoi atti.

Nell'adattare questi quattro componenti si dovrebbe riuscire a distinguere tra osservazione e valutazione anche se è difficile separare l'osservazione dal giudizio; Identificare ed esprimere i sentimenti,  non interpretando gli atti degli altri con quello che noi proviamo.

Esprimendo e descrivendo chiaramente le nostre emozioni e i nostri desideri stabiliamo più facilmente un legame con gli altri, Esprimendosi con sincerità e mostrando la nostra vulnerabilità può contribuire a risolvere molti conflitti.   Gli atti degli altri possono essere il fattore scatenante, ma mai la causa dei nostri sentimenti. 

Dovremmo portare l'attenzione su quello che arricchisce la nostra vita e quella degli altri e formulare delle domande chiare, magari domandando all'interlocutore di restituire il messaggio permette di evitare molti malintesi. 

In tutte le circostanze, abbiamo sempre la possibilità di esercitare una scelta, apprendere a incontrarsi su quello che ci sta a cuore, piuttosto che sulle nostre sconfitte e su quelle degli altri. Spesso abbiamo tendenza a notare prima ciò che non va che quello che va bene.

venerdì 24 gennaio 2025

Le donne dai molti mariti - Giuseppe Tucci

Il paese delle donne dai molti mariti è il titolo dei racconti di viaggio di Giuseppe Tucci sulle sue spedizioni in Tibet. In questo libro si scopre un Tucci scrittore accurato, attento, competente ma soprattutto Il libro è quasi un diario segreto di questo viaggiatore che con cinquanta muli, una tenda e i Canti di Leopardi in tasca si avventurava nei luoghi più sperduti dell’Asia centrale.  Tucci era un viaggiatore insofferente della vita sedentaria, amante dei grandi spazi, delle giornate di cammino in cui sembra di non esserci spostati tanto è infinito il "paese delle nevi". Il titolo accattivante "Il paese delle donne dai molti mariti", ammicca ad una pratica oggi scomparsa ma che ancora suscita la curiosità nel turista.  

Dalla prefazione di Stefano Malatesta. Giuseppe Tucci è stato un visionario come lo erano i santi e i profeti di una volta. Ma come questi avevano passato la loro vita a cercare gli dei, così Tucci aveva passato la sua ad evitarli, almeno quelli delle culture monoteistiche. Il buddismo, questa forma suprema di laicismo scelta da anime religiose che non si adattano ad avere un pantheon di padri padroni sopra di loro, l’aveva messo in guardia sulla vanità e sull’inadeguatezza della mente inutilmente sovrana del passato e del futuro, del prossimo e del remoto.
E sulla necessità, imperiosa per gli uomini, di staccarsi dall’effimero tragitto che porta dalla nascita alla morte. Quando io l’ho conosciuto aveva passato gli ottant’anni e si era appena rotto una gamba salendo in montagna. «Sono stato per morire », disse, con una voce che sembrava provenire da quell’inferno tibetano che aveva così ben studiato: «Un’esperienza straordinaria».
(...) Aveva già incominciato a interessarsi del paese delle donne dai molti mariti, come lo aveva chiamato, andando alla ricerca di scomparsi testi buddistici in sanscrito che però erano rintracciabili nella tradizione tibetana. Ma questa esigenza filologica ci dice pochissimo su quello che provò Tucci quando mise piede per la prima volta nel Tibet. Non fu solo un cambio o un’alternanza di studi, fu un’attrazione fatale.
Chiunque sia arrivato per la prima volta nel Tibet, ha sempre avuto l’impressione di stare su un altro pianeta. A differenza di altri, Tucci fece completamente suo quel mondo alieno come se stesse aspettando l’incontro da innumerevoli vite: qualcosa di traumatico che gli impedì di scriverne per anni prima che l’eccitazione si fosse depositata in una assoluta consapevolezza.
Raccontava spesso che arrivato di fronte al Kailas, montagna sacra a tre religioni, gli era sembrato di trovarsi in presenza di un dio che faceva piegare le ginocchia. E il lago Manasarovar, il lago di Brahma, aveva il fulgore del simbolo «dell’eterna essenza del cosmo» e di quell’incognita energia che crea «l’infinite forme dell’essere». Le sue descrizioni dei paesaggi partivano sempre dai modi occidentali, cioè l’individuazione dei particolari, accompagnati da uno stile coloristico, e finivano nella spiegazione mistica, nella ricerca di un significato più profondo. Il Chomolai aveva pareti a picco inaccessibili su cui nemmeno le nevi e i ghiacci facevano presa e in cima nascondevano una dea. Nelle pianure immense in fondo alle quali, verso sud, si addormentava in uno scintillio rossastro la catena himalayana, gli uomini e le bestie apparivano minuscoli e insignificanti, schiacciati dalla maestà delle rocce che li sovrastavano.

Una citazione dal libro:  "... la solitudine mi è sempre apparsa la migliore consigliera e amica: estingue le diffidenze, i sospetti, quello stato di allarme continuo che, nella vita consociata, per la necessità della difesa e della vigilanza, rendono l'uomo guardingo: la vita all'aria aperta, fra gli alberi o le rocce, sotto il sole o lo stupore freddo della luna, restituisce all'uomo una serenità innocente. Queste città rimbombanti di rumori e stridori e scoppiettii, la corsa obbligata fra mura e rotaie, il necessario incedere a testa china nei lunghi corridoi delle strade che tagliano il cielo a fette, soprattutto il vivere inconsapevoli delle vicende della Gran Madre comune, privano l'uomo di resistenze fisiche necessarie, logorano i nervi, intossicano lo spirito, ingombrano la mente di curve vane.

L'uomo cominciò con l'essere un nomade; questo modo antico depositato in fondo al nostro subconscio monta spesso alla superficie con i suoi capricci archetipali e con la bramosia del viaggiare che sboccia in noi con il lume della ragione e ci accompagna per tutta la vita. E ne giova perché apre la mente.

Però stiamo attenti: il viaggiare con i mezzi meccanici che traduce in termini moderni il nomadismo ancestrale, se ben considerate, è soltanto illusione di libertà, soggetto com'è al vincolo degli orari, ai posti negli alberghi, ai programmi certi, onde diviene piuttosto prigionia dalla partenza all'arrivo, senza evasione di soste o divari; persino l'automobile ci incatena per l'incanto della corsa, perché occorre sempre uno sforzo per sottrarsi alla malia della velocità e ubbidire all'invito di una rovina o al richiamo di un orizzonte aperto. Ma quando avete una carovana tutto è diverso; vi sentite padroni del mondo: i padri antichi che vennero forse dall'Asia a popolare la squallida Europa, rivivono in voi, vi sentite parenti di conquistatori primordiali; oggi qui domani non sapete dove, dove c'è erba e acqua o dove vi incanta la bellezza dei luoghi, la maggior delizia per il poeta che in fondo a noi, se non siamo divenuti come i bruti torpidi e sprovveduti, sempre vigila e sogna. Soltanto allora trovate e godete la libertà."

 Biografia di Giuseppe Tucci  (Macerata 1894 - San Paolo dei Cavalieri (Tivoli) 1984)

Tucci è considerato il più grande orientalista italiano del Novecento, e fra i massimi tibetologi a livello internazionale. Fu giornalista, scrittore, archeologo, antropologo, esploratore, Accademico d'Italia, presidente onorario di numerose istituzioni di grande prestigio in tutto il mondo, vincitore del "Premio Nehru", e ha meritato ben cinque lauree honoris causa. Concittadino del gesuita e sinologo Padre Matteo Ricci, Giuseppe Tucci nasce a Macerata il 5 giugno 1894 e muore a San Polo dei Cavalieri, vicino a Tivoli, il 5 aprile 1984. Dotato di eccezionali qualità naturali e di un'ottima preparazione classica, giovanissimo conosce già una decina di lingue europee. Nel 1915 parte per la Grande Guerra,  congedandosi col grado di tenente. Nel 1919 si laurea in Lettere e Filosofia. 

Tucci aderì al regime fascista, seppure senza grande interesse politico, preso dai suoi studi che Mussolini deciderà di finanziare a fini politici, per diffondere l'immagine dell'Italia in Asia e prendere contatti con l'India in vista di un disgregamento dell'Impero britannico.   Parole di Tucci: «È meglio che io sappia chi è il mio padrone, piuttosto che mi senta disperatamente, ma ugualmente schiavo in nome di un'astrazione che si chiama stato, democrazia o che so io. Il fatto è che l'uomo è nato con un duro destino dal quale può trovar scampo soltanto l’asceta o il poeta.»

Lavora prima come bibliotecario della Camera dei deputati, ma già tra il 1925 e il 1930 partì con Carlo Formichi per insegnare italiano, cinese e tibetano presso varie Università indiane, dove fra l'altro incontra il poeta Tagore e Gandhi.  Nel 1926 visitò l'Assam per accompagnare Tagore ma, dopo le aspre critiche al fascismo proferite da Tagore, il governo italiano ritirò il suo sostegno all'università di Visva Bharati, e Tucci iniziò ad insegnare nelle università statali indiane di Dacca, Varanasi e Calcutta. Durante questi anni si recò nel Punjab, nel Kashmir e per due volte in Ladakh, almeno due volte in Sikkim e una in Nepal, principalmente per studiare i testi buddisti contenuti nelle biblioteche monastiche.  Negli anni in cui insegnava in India, ebbe come collega di studi Mircea Eliade, e appena il caldo delle pianure indiane si faceva insopportabile, Giuseppe Tucci emigrava verso il più fresco nord, come il resto della colonia europea. E qui, tra le montagne tra Simla e il Kashmir, incontrava quasi tutti i viaggiatori e gli esploratori più famosi dell’epoca, da Sven Hedin a Aurel Stein a Paul Pelliot.

Dal 1930 diviene docente di lingua e letteratura cinese all'Università di Napoli, e dal 1932 insegna religione e filosofia dell'Estremo Oriente all'Ateneo di Roma. Nel 1933 fonda assieme a Giovanni Gentile, che ne è il primo presidente, l'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (Is.M.E.O.), con lo scopo di "promuovere e sviluppare i rapporti culturali fra l'Italia e i paesi dell'Asia Centrale, Meridionale ed Orientale ed altresì di attendere all'esame dei problemi economici interessanti i Paesi medesimi". L'attenzione rivolta anche agli aspetti politico-economici è documentata, oltre che dalle numerose pubblicazioni dell'Istituto come i periodici Bollettino dell'Istituto italiano per il Medio ed Estremo Oriente (1935) e Asiatica (1936-1943), dallo specifico interesse di Tucci per la geopolitica dell'Asia in un periodo cruciale della sua storia, e dalla sua amicizia personale con Karl Haushofer, che invita a tenere importanti conferenze su questa materia.
Tucci concentra i suoi viaggi di ricerca nella vasta regione himalayana, quale naturale crocevia storico fra tutte le diverse culture dell'Asia, raccogliendo sistematicamente materiale archeologico, artistico, letterario, di documentazione storica e altro. Risultati eccezionali vengono così ottenuti dalle sue lunghe spedizioni in Tibet fra il 1929 e il 1948, anno in cui l'Is.M.E.O. riprende in pieno la sua attività postbellica sotto la sua diretta presidenza, destinata a durare fino al 1978. 

Tra il 1950 e il 1955 egli organizza nuove spedizioni in Nepal, seguite dalle campagne archeologiche in Pakistan ('56), in Afghanistan nel ('57) ed in Iran ('59). Sempre nel 1950 avvia il prestigioso periodico in lingua inglese East and West, e nel 1957 fonda il Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma.
Tra i suoi numerosi ed importanti scritti ricorderemo solamente, sia i sette volumi di Indo-tibetica (Accademia d'Italia, 1932-1942) che i due di Tibetan Painted Scrolls (Libreria dello Stato, 1949) per la loro ampiezza documentaria, e la Storia della filosofia indiana (Laterza, 1957) per la sua portata innovativa, specie per quanto riguarda la logica indiana.

Recensioni. 
Giuseppe Tucci una vita nomade a caccia del mito - di Bernardo Valli - Domenica di Repubblica 4 settembre 2005
Ai piedi del Potala, nel tardo autunno di due anni fa, socchiudo gli occhi e lascio alla fantasia il compito di ricostruire Lhasa cosi come era nel 1948, quando Giuseppe Tucci vi mise piede per l’ultima volta. Ho appena letto la sua descrizione, ed anche di altri, in particolare quella meno aristocratica e più passionale di Alexandra David - Néel della stessa epoca.
La città, cresciuta senza un piano, prestabilito, è popolata da gente di tutte le razze e vestite in tutte le fogge. È una tavolozza di colori sui quali prevalgono il rosso e il giallo. Sulle piazze e le strade scorre un fiume umano in piena: pellegrini, mercanti, mendicanti, asceti si confondono con uomini e donne del posto; si muovono come un gregge senza pastore, in direzione di pagode cariche d’oro e gremite di statue, tra i cumuli di rifiuti e le fosse che servono da latrine, esposte a tutte le curiosità e a tutte le intemperie. La luce nobilita anche gli angoli più luridi. La luce del Tibet non è paragonabile a nessuna altra. L’azzurro intenso del cielo e il bianco antico delle montagne innevate si contendono il ristallo dello spazio. Il sole accende i colori senza attenuare il gelo, che quasi non si sente tanto è asciutto. Con la sua mole massiccia, il Potala protegge la città e domina l’intera valle tagliata dal corso del Chiciu e serrata a nord e a sud da montagnenude, quando non sono coperte di neve.
Là, oltre la città, si stende un paese silenzioso e strano; geloso dei suoi segreti; apollaiato sul tetto della Terra, l’altare del mondo, a un’altitudine che può uccidere chi vi sale partendo dal livello del mare; allungato su steppe sterminate, costellate di laghi la cui acque gelate sono di un blu più intenso di quello del cielo.
Quando riapro gli occhi, per alcuni minuti tengo alto lo sguardo, lascio che si perda nello spazio in cui si riflettono colori eterni e inviolati. Cerco di non disperdere subito le immagini recuperate dagli scritti dei viaggiatori di un tempo. Concludo il gioco infantile ritornando al traffico, automobilistico e umano, simile a quello di tante altre città della Cina. La Cina che ha inghiottito il Tibet conosciuto da Giuseppe Tucci, riducendolo a un paese come tutti gli altri. O quasi.

Tucci ha avuto la fortuna di esplorare, di conoscere, di studiare quel Tibet in gran parte scomparso. Vi aveva trovato una terra promessa, un rifugio per evadere dall’Occidente industrializzato e in generale dalla sua modernità, che aborriva.
Aveva partecipato alla Prima guerra mondiale e l’esperienza l’aveva spinto, come altri giovani ufficiali, verso il fascismo. E questo lo induceva a pensare che la battaglia, l’azione, il rischio, fossero «un antidoto alla fredda razionalità e alla spersonalizzazione dell’era contemporanea ». Anche la conoscenza delle religioni orientali poteva servire a immunizzare l’Occidente da quei mali che l’avrebbero portato a un’inevitabile decadenza. Per salvarsi la civiltà europea doveva attingere forze e idee dalla civiltà asiatica. Il Tibet, per la sua inviolata autenticità, era l’antidoto per eccellenza. Era incontaminato.
Immobile nella sua perenne, preziosa, incantata antichità. Qualcosa di simile a uno scrigno smarrito, dimenticato, lassù, sulle vette più alte. Irraggiungibile per gli affannati comuni abitanti delle metropoli occidentali a corto di fiato.
Le difficoltà materiali per raggiungerlo ed esplorarlo, e il lavoro intellettuale per aprirlo e decifrarne il contenuto, impegnavano tutte le sue doti e sollecitavano le sue ambizioni, eccezionali e sconfinate. Il fisico, l’intelligenza, la cultura (conosceva le principali lingue europee, il cinese, il sanscrito, il tibetano, l’hindi e vari antichi idiomi asiatici), e una passione alimentata da una vanità incontenibile, gli consentivano di affrontare avventure perigliose e imprese scientifiche rimaste esemplari, per gli studiosi dell’Asia (un tempo chiamati orientalisti).
L’immagine che si ha di lui assomiglia a quella di un superuomo, cosciente di essere tale. E quindi superbo. Non sempre simpatico. Altezzoso. A tratti arrogante. Cosi mi apparve quando lo incontrai e non mi lasciò neppure il tempo di porgli una domanda. Parlò per più di un’ora. Ma non mi pentii di averlo ascoltato in silenzio. Era anche un seduttore.
Alla fine sentii una profonda riconoscenza per il tempo che mi aveva concesso.
A trent’anni, grazie a Carlo Formichi, suo professore di sanscrito, Tucci ottiene la cattedra di lingua e letteratura italiana all’Università indiana di Shantiniketan, fondata da Rabindranath Tagore. E in quel periodo traduce dal cinese e dal sanscrito vari testi classici. Ma l’esperienza in quell’università non dura a lungo. L’interrompe un incidente al quale lui è personalmente estraneo.
Tramite Carlo Formichi, il governo italiano invita Tagore a Roma, e durante la visita il poeta si indigna per il modo in cui la stampa affianca fascismo e nazionalismo indiano, e rompe ogni tipo di collaborazione con l’Italia. I tentativi di sfruttare i richiami di Gandhi (e di Nehru) al Risorgimento italiano, e in particolare a Mazzini, si ripeteranno anche negli anni seguenti, da parte di Carlo Formichi, il cui obiettivo era appunto di alleare fascismo e nazionalismo indiano in funzione anti britannica.
Costretto a lasciare l’università di Tagore, Tucci resta comunque a Calcutta e poi a Dacca con vari incarichi universitari e pubblica alcuni saggi sul confucianesimo e il taoismo. L’esibita fede fascista gli servirà poi per ottenere i finanziamenti indispensabili alle sue spedizioni. Per questo non esiterà a sottoscrivere il documento del regime sulla condanna della razza ebraica. Tuttavia la passione per le esplorazioni e la ricerca scientifica prevarrà ampiamente,  consentendogli alla caduta del fascismo di far apparire quella ideologia più strumentale che autentica. L’indiscutibile valore dei suoi studi, e il prestigio internazionale, contribuiranno a ristabilire molto presto la sua autorità anche sull’Ismeo (Istituto per il Medio ed Estremo Oriente) da lui fondato nel ‘34, con Giovanni Gentile.
I suoi studi restano oggi un punto di riferimento per chiunque si occupi di Tibet e in particolare di arte tibetana. Come vengono riconosciute e celebrate alcune sue scoperte archeologiche, anche in Cina, in Iran, in Pakistan, nel Nepal.
Tucci amava la vita nomade. Nella raccolta di suoi scritti appena pubblicata, con una introduzione di Stefano Malatesta (Il paese delle donne dai molti mariti, Neri Pozza, euro 17,50), racconta «l’irrequietezza mai sazia» che gli faceva detestare fin da ragazzo le pareti domestiche e prediligere il vagabondaggio come forma di vita. Gli esempi di due concittadini, entrambi nati come lui a Macerata, l’hanno subito spinto verso l’Oriente. La grande avventura intellettuale di Matteo Ricci in Cina nel tardo Cinquecento, e quella di Cassiano Beligatti in Tibet nel Settecento, hanno acceso la sua fantasia d’adolescente.
Amava le carovane, la solitudine sulle alte valli del Tibet, del Sikkim, del Nepal, e le avventurose indagini per arrivare a un manoscritto o a un dipinto.
Nel ‘52, quando ha cinquantotto anni, dopo una marcia di quaranta giorni dalla frontiera tibetana, Giuseppe Tucci arriva in prossimità di Rumindei (oggi Lumbini, nel Nepal). È il 27 novembre ed è già il crepuscolo.
Il sentiero polveroso sul quale avanza nella pianura monotona sembra senza fine. I soli rilievi in cui inciampa lo sguardo sono due leggere prominenze, due timide gobbe, che nella luce metallica del tramonto sembrano un trepidante miraggio destinato a sparire in quella sconfinata solitudine.
«...Il silenzio sospeso nell’aria vegliava, solo, sul luogo dove era nato Gauthama Siddhartha che doveva, dopo il suo risveglio spirituale, diventare il Budda». Cosi uomini caduti nelle sue battaglie vittoriose, viene in pellegrinaggio a Rumindei per cercare la pace nelle parole di Siddhartha.
Tucci è affascinato da quella celebre conversione del sovrano tormentato dal rimorso per la violenza delle guerre in cui ha trionfato.
Anche lo studio del buddismo (tantrico, cioé iniziatico ed esoterico) che incontra in Tibet conduce Tucci a qualcosa di molto simile a una conversione. Ma non a una conversione totale. Le sue restano le incursioni di un occidentale.
Egli si tuffa nell’Oriente ma non vi si perde. Non si lascia inghiottire. Per lui le scuole di quel tardo buddismo, annidate nei grandi monasteri (in cui ama soffermarsi e discutere, conquistando i monaci con la sua conoscenza della loro lingua e della loro cultura), sottopongono a un’acuta analisi il nostro io e servono a enucleare dall’imperfetta creatura che siamo un essere perfetto al di là di ogni contingenza e dolore. Ma la teologia e la metafisica di quelle scuole, pur avendo una poderosa impalcatura logica, devono dimostrare anzitutto la falsità delle opinioni e delle teorie correnti, e condurre alla conclusione che il vero è oltre la formula logica, non oggetto di conoscenza, ma di esperienza. Tucci trova sul tetto del mondo un alleato contro il razionalismo dei suoi contemporanei occidentali.

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Gli dei di burro -  Nel Tibet di Giuseppe Tucci - Mario Biondi - Infinite storie, Settembre 2005

Quando si visita un monastero buddista bisogna procedere con molta cautela, in particolare se non si è ancora svolta o si sta svolgendo la funzione mattutina. E con moltissima cautela bisogna puntare la macchina fotografica. Escluso sempre in maniera tassativa di farlo all'interno dei templi, anche all'aperto ci si troverà ovunque davanti qualche monacello imberbe e imbronciato, di stazza minuscola ma compatta, che ci mulina l'indice sotto l'obiettivo esplodendo certi gutturali ”No, no“ che preludono al cupo salmodiare lo “Om Mani Padme Hum“ in tonalità degne di Scialiapin. Poi magari nel pomeriggio ti corrono dietro per farsi fotografare abbarbicati a te, cercando di parlare di football e di scrivere faticosamente un indirizzo mail a cui mandare la foto, ma il mattino, in attesa della preghiera, niente da fare.

Anche nei cavernosi recessi del monastero trovi sempre un monacone rasato a zero e drappeggiato nella tunica rossa che ti sventola severo il dito sotto il naso: ”No photo, no photo“. Finché inopinatamente, sulla porta di uno dei tanti antri, ampio e coloratissimo, il monaco di turno ti dice che, sì, lì puoi fotografare tutto quello che vuoi. Tu rimani di stucco, perché sei circondato da un policromo tripudio di immagini sacre votive, che mai penseresti di poter dissacrare con il tuo flash. Invece sono soltanto rappresentazioni del sacro, Non il sacro in sé, che non può consustanziarsi in un oggetto appartenente all'illusorio ambito del reale. Al contrario, dunque, il flash, con la sua luce, e la tua presenza, con il suo calore, contribuiranno al modificarsi di tale rappresentazione fino al suo disfacimento e al conseguente passaggio nel vero reale, il vuoto. Perché - come del resto avrebbe dovuto avvertirti il sentorino quasi di piedi - le bellissime (o anche truci) e coloratissime immagini sono fatte con il più deperibile dei prodotti, il burro, sia pure di yak.

Foto a parte, tutto ciò viene spiegato con impareggiabile maestria in Il paese delle donne dai molti mariti di Giuseppe Tucci, grande specialista di filosofie orientali e in particolare di buddismo e cultura tibetana, uno dei più grandi al mondo. Grandissimo ma non precisamente indimenticato, in Italia. Se si effettua una ricerca nella più importante libreria virtuale del nostro paese, compaiono al massimo cinque titoli, di cui uno indisponibile. Se invece lo cerchi su Amazon americana, ti viene scaraventato sotto il naso lo stupefacente numero di poco meno che 600 titoli, sia pure in buona misura doppioni o in lingue diverse o di disponibilità limitata (e probabilmente qualcuno di quei Tucci non è lui). «Il Tibet, Tucci?» si sentirebbe chiedere oggi se proponesse un suo testo a una qualsiasi pubblicazione di qui. «A chi interessa? Va be', al massimo un paio di cartelle, visto che ha queste foto di moda e modernariato tibetani (ce le dà gratis, vero?), ma non si diffonda come al solito in quelle sue mortali disquisizioni su arte, cultura e religione. Chi le legge? Sia breve e lieve, diverta...» Doppiamente meritevole, quindi, il lavoro di chi ha raccolto questi anche ardui testi per riproporli al lettore italiano di oggi.

Quanto ”io“ c'è nei racconti del professor Tucci: ”Io che ho fatto questo, io che ho scoperto codesto, io che ho decifrato quello“ eccetera. Per quanto sia tutto verissimo e certificato, non sembra un atteggiamento precisamente da persona aspirante a dissolversi nella suprema realtà del vuoto buddista, ma tant'è. D'altra parte il professore esigeva sempre di essere chiamato Eccellenza e ci teneva moltissimo a far sapere quanto fosse potente nella Roma fascista. I testi sono comunque affascinanti, e possiamo soltanto sperare che ne seguano presto altre raccolte e riedizioni. Perché Il paese delle donne dai molti mariti? Perché nella società tibetana vige la poliandria. Ogni donna ha non soltanto il proprio marito ma anche i fratelli di questo: le condizioni di vita sono durissime, il marito può sparire da un momento all'altro tra il ghiaccio o in un crepaccio, calpestato da uno yak, sotto una valanga o una frana, tanto vale adattarsi fin dal principio all'idea e attrezzarsi. Se n'era accorto persino il corrucciato Sven Hedin, che pur avendo eletto a propria ”fredda sposa“ l'Asia, ammette che con una certa promiscua sposina, in un certo angolo del Tibet, potrebbe anche essere successo qualcosa. Una, in diverse decine di anni di esplorazioni: che resistenza. Si può perdonargli la scappatella e auspicare soltanto che un giorno qualcuno traduca in italiano lo splendore delle sue memorie intitolate ”La mia vita da esploratore“. Mentre le compilava non era ancora stato preso dal demone del nazismo.

Hedin, Tucci, tanti altri amici di Hitler e Mussolini... Che cosa facevano tra quelle altissime vette, con i ramponi ai piedi o in groppa a uno yak? Davvero si limitavano a esplorare? C'è da dubitarne. Controllare il Tibet avrebbe significato, per le potenze tese a coalizzarsi nell'Asse, provocare un bel grattacapo per i britannici dell'India, approfittando della temporanea debolezza della Cina, sgravata dell'imperatore ma in sanguinosa guerra civile. La consuetudine di Tucci con Karl Haushofer è perlomeno inquietante, ma bisogna ammettere che il professore soprattutto studiava culture, religioni e arti dei paesi che andava letteralmente arando con i tracciati delle sue spedizioni. Infatti l'Italia uscita dal fascismo continuò giustamente a finanziare le sue ricerche. Così oggi possiamo godere dei testi raccolti in Il paese delle donne dai molti mariti, che spaziano su un arco temporale che va dai Trenta ai Cinquanta.

”Visioni“ e ”Incanti“, montagne e deserti, giungle e fiumi, divinità e demoni, buddismo e induismo, tutto si compone a formare un unicum straordinario teso anzitutto a fare da ambiente per l'uomo e il suo ”dolore dell'esistere“, che nell'immediato sembra tuttavia essere ”piacere dell'esistere“ se non addirittura ”furia dell'esistere“. Così le donne dai molti mariti e il turbinoso cromatismo delle immagini di burro, le risate senza freno e il fervere di avidi mercati dentro il tempio, dove in un angolo neanche dei più remoti o bui puoi avvistare un gruppetto di monaci ingobbiti come nibelunghi a contare e impacchettare i mucchi di banconote depositate come offerte sugli altari. Poi esci dalla cupezza rimbombante di ”Om“ e Tucci ti guida per mano tra gli edifici e le celle del monastero, e poi fuori, nel villaggio o nella città, fin dentro le case, con la loro struttura a volte impensabilmente prospera, i loro oggetti d'arte, i mobili, le masserizie. Persino nelle dimore di nobili, grandi lama e re.

Conclude il libro lo straordinario racconto di una ”kora“, il pellegrinaggio da effettuare in senso orario (se si è buddisti, al contrario se si è seguaci della precedente religione Bon del Tibet) in circa 3 giorni. Ma Tucci ce ne mette molti di più, su e giù, di monastero in monastero, attorno al Kailash (6600 metri, ”Kailasa“ lo chiama lui), la montagna più sacra dell'Asia, venerata allo stesso titolo da buddisti e induisti, per i quali è il Paradiso di Shiva. Sembra di essere lì, appena sopra le cristalline acque del lago Manosarovar, avendo negli occhi la visione degli ex voto schiaffeggiati dal vento e negli orecchi il cigolio dei mulinelli di preghiera. Applausi alle visionarie capacità evocative di Giuseppe Tucci e a chi ha avuto l'idea di riproporlo, soprattutto in questa epoca oscura in cui - nella nostra insopprimibile ansia di provincialismo - sembra che gli unici degni di attenzione quando scrivono di viaggio siano gli stranieri.


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Giuseppe Tucci - Un Himalaya di conoscenze.  di Lorenzo Scandroglio - Il Giornale

Chi non sa che quello ritratto in alcune foto seppiate degli anni Dieci e Venti del Novecento è Giuseppe Tucci da giovane, per un attimo potrebbe quasi pensare che si tratti di una giovane donna in abiti da viandante, questi sì maschili, con calzettoni di lana grossa, scarponi di cuoio, pantaloni arrotolati sotto il ginocchio, alla zuava, giacca pesante e bastone. L'impressione si deve a quel ciuffo di capelli neri, che si alzano di lato e ricadono sulla fronte, su un viso dai tratti delicati. L'immagine di sé che Tucci ha consegnato alla storia ce lo mostra però due-tre decenni dopo, impegnato nel guado di fiumi, solo o al fianco di portatori tibetani, guardiani di monasteri, arcieri dai tratti inconfondibilmente asiatici, con il volto che tutti, tibetologi, etnologi, esploratori, orientalisti, hanno imparato a riconoscere: le sopracciglia leggermente cadenti e gli occhi socchiusi di chi è abituato a protendere lo sguardo verso l'orizzonte.
Forse meno noto al grande pubblico del suo amico-nemico Fosco Maraini (col quale ruppe i rapporti, complice un carattere e un'indole non prive di asperità, per aver messo gli occhi sulla stessa principessa tibetana che piaceva a lui), non di meno Tucci vanta una produzione sterminata di scritti, anche in ambito pubblicistico, con articoli per riviste geografiche specializzate che, in parte, vengono ora raccolti nel libro uscito in questi giorni «Il paese delle donne dai molti mariti» (Neri Pozza, pagg. 287, euro 17,50), titolo di un articolo pubblicato ne «La Lettura» del 1936 che, in questo caso, intitola l'intero volume. Corredato da un apparato fotografico nel quale si segnala una foto del grande Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, distrutto dai talebani, che inchioda il lettore non meno della parte testuale, il libro è una sorta di spaccato sociale, culturale, religioso, umano, delle popolazioni che vivono nell'Himalaya soprattutto tibetano. Nella sezione che lo intitola, che indubbiamente evidenzia l'abisso culturale che separa Occidente e Oriente (che poi è il bello delle differenze culturali e, conseguentemente, dell'autentico viaggiare), Tucci descrive la pratica della poliandria nelle aree rurali del Tibet occidentale, pratica che per altro è ancora in auge: «Di mariti quasi tutte ne hanno più d'uno, perché nel Tibet vige ancora il costume della poliandria. Una ragazza sposa non solo il suo fidanzato ma insieme con lui tutti quanti i suoi fratelli e, come se ciò non bastasse, può anche prendersi una specie di assistente, un marito più o meno legale che, essendo scelto per capriccio o per più valide ragioni, finisce presto per diventare la persona più autorevole di questo strano regime familiare. I figli, in mezzo a tanti padri, non sanno distinguerli che in rapporto all'età: e così essi sono gli unici al mondo ad avere un padre seniore e dei padri iuniori. Ma con tutto ciò una grande armonia regna in queste famiglie che non conoscono il tarlo della gelosia o il furore delle passioni. I mariti hanno il loro turno e si avvicendano con rassegnata sottomissione ai voleri della loro signora che di fatto gode di una grande autorità, accresciuta da quello spiccatissimo senso di economia e da quella naturale tendenza a dirigere, amministrare, comandare che è vivissima nelle donne tibetane».
Il passo offre lo spunto per una breve divagazione riguardante la tentazione, ancora presente in Occidente, di interpretare un simile spaccato sociale in senso quasi matriarcale. Ora, premesso che quella del matriarcato è comunque soltanto un'ipotesi giacché non ci sono prove di una sua esistenza nemmeno passata, la poliandria - come ha fatto più volte notare l'antropologa e tibetologa Hildegard Dienberger, docente alla University of Cambridge e profonda conoscitrice della società tibetana contemporanea - non ha niente a che vedere con essa.
Gli spunti di interesse offerti dal libro di Tucci non si esauriscono naturalmente nel capitolo dedicato alle donne dai molti mariti, anzi. Più oltre, sempre riguardo al Tibet, si legge: «in mezzo a così sconsolato paese, in contrade ove vivere è spesso sinonimo di patire, i tibetani sono fra i più sereni popoli della terra. anche gli asceti raminghi, che vanno compiendo certi loro riti notturni paurosi, in mezzo ai cimiteri, per sprofondarsi nella contemplazione della irriducibile insostanzialità di tutte quante le cose e sono coperti di ossa umane e bevono in scatole craniche e suonano trombe fatte con femori, hanno un aspetto così lieto, così beatifico, sono così pronti al sorriso, che incontrarli, nonostante i loro macabri utensili, è quasi sempre un piacere».
È evidente in tutto questo che la conoscenza diretta, e soprattutto la frequentazione, Rabindranath Tagore (Nobel della letteratura nel 1913) e dello storico delle religioni rumeno Mircea Eliade che, come lui, fu spesso in India, non sono semplicemente due dati di interesse biografico, ma ci dicono qualcosa di più dello stile e della sostanza dell'opera di Giuseppe Tucci. Per carità, non si fraintenda: la sua prosa non è affatto lirica, ma la definizione del Tibet come «Altare della terra», o certi articoli che costellano il libro, quali «L'abisso delle Madri» e «Acque cosmiche», rivelano fin da subito in modo inequivocabile che per l'orientalista maceratese la sua fu - come opportunamente evidenziava la mostra tenutasi nel 2004 a Macerata nel centesimo anniversario della nascita - innanzitutto un'esplorazione dell'anima.
Forse non c'è esplorazione vera, viaggio vero, che non siano esplorazioni e viaggi dell'anima e nell'anima, nell'anima mundi e in tutte le sue molteplici manifestazioni: gli spiriti del luogo. Ecco, Tucci fu attratto dalla sfera metafisica dei luoghi così come tanti esploratori, soprattutto anglosassoni, lo furono da quella fisica, fatta salva l'intrinseca magia e ieraticità delle montagne himalayane che fecero dire allo stesso Marco Polo di non essere riuscito a rendere che una minima parte della magie delle terre che aveva attraversato.
Giuseppe Tucci fu un autodidatta straordinariamente erudito, capace di parlare i principali idiomi asiatici e, soprattutto, di non ridurre la sua erudizione a mera conoscenza: se la conoscenza si fonda infatti su una mole di nozioni accumulate orizzontalmente, fu la sapienza, che le attraversa con la verticalità del pensiero, dell'intuizione, dell'analogia e del simbolo, a caratterizzare Tucci.

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Tucci rivisitato od operazione commerciale?    tratto da Himalaya e dintorni, Newsletter di Marco Vasta - N° 20 - Ottobre 2005 .

 Tucci soprattutto studiava culture, religioni e arti dei paesi che esplorava con le sue spedizioni. Negli anni in cui insegnava in India, dal 1926 al 1930, avendo come collega di studi Mircea Eliade, appena il caldo delle pianure indiane si faceva insopportabile, Giuseppe Tucci emigrava verso il più fresco nord, come il resto della colonia europea. E qui, tra le montagne tra Simla e il Kashmir, incontrava quasi tutti i viaggiatori e gli esploratori più famosi dell’epoca, da Sven Hedin a Aurel Stein a Paul Pelliot. Uomini abituati alla rudezza dell’Asia centrale e alle fatiche e ai pericoli dei viaggi e poco portati a sognare a occhi aperti. Eppure Tucci era solito dire che questi traversatori di spaventosi deserti e scalatori di montagne considerate inaccessibili nascondevano tutti come un desiderio infantile: un giorno, al mattino, quando la nebbia si dirada e i panorami tornano sconfinati, avrebbero trovato Shangri-là, quel paese dell’eterna giovinezza immerso nella luce e abitato da saggi vestiti di bianco. Quello che Tucci taceva era che anche lui faceva parte del gruppo «bella Shangri-là» ed era in attesa dell’apparizione come i suoi amici.
Colui che è stato, infatti, il più grande studioso del Tibet, un poliglotta che parlava tutte le maggiori lingue e i dialetti asiatici, un sapiente venuto da ovest che conosceva i segreti delle culture indiane e tibetane e si muoveva tra queste con la stessa disinvoltura dei santoni che oggi richiamano folle deliranti al Kumbamela, non ci ha lasciato soltanto una vasta ed erudita opera oggetto di studi nelle università di tutto il mondo, ma anche racconti di viaggio che narrano di vicende avvincenti e articoli corposi, accompagnati da fotografie stupende, apparsi su riviste come «Asiatica», «Le Vie d’Italia e del Mondo», il «Bollettino della R. Società Geografica Italiana». Scritti che mostrano un intreccio unico di dottrina, passione ed empito visionario e hanno il ritmo delle carovane così amate da Tucci: un lento, meraviglioso e quasi incantato avvicinamento a una Shangri-là dell’anima, a un mondo agli antipodi di quello occidentale, svelato vallata dopo vallata fino a quando la carovana non ha raggiunto il passo da dove lo sguardo spazia e le domande più difficili diventavano per la prima volta alla portata degli umani.

Vedi:  https://www.marcovasta.net/libreria/LibreriaSingola.asp?id=1487

giovedì 23 gennaio 2025

Lezioni di yoga alla Biblioteca Pasolini

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I 5 Addestramenti alla consapevolezza - Thich Nhat Hanh

Dal sito dell'Interessere :  https://www.interessere.it/5-addestramenti-alla-consapevolezza/  

I Cinque Addestramenti alla Consapevolezza rappresentano la visione buddhista di una spiritualità e di un’etica universali; sono espressione concreta degli insegnamenti del Buddha sulle Quattro Nobili Verità e il Nobile Ottuplice Sentiero, la via della retta comprensione e del vero amore che conduce alla guarigione, alla trasformazione e alla felicità nostra e del mondo. Praticare i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza significa coltivare la visione profonda dell’interessere, la Retta Visione che è in grado di rimuovere ogni discriminazione, intolleranza, rabbia, paura e disperazione. Se viviamo seguendo i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza siamo già sulla Via del Bodhisattva. Sapendo che siamo su quel cammino evitiamo di perderci nella confusione riguardo alla nostra vita di oggi o nelle paure riguardo al futuro.

I Cinque Addestramenti alla Consapevolezza nascono dai Cinque Precetti offerti dal Buddha, ampliati e aggiornati più volte dal monaco zen Thich Nhat Hanh fino alla presente stesura perché possano portare consapevolezza in ogni area della nostra vita. Ci offrono una cornice di riferimento perché i nostri pensieri, le nostre parole e azioni possano generare più felicità per noi stessi e il mondo in cui viviamo.

Chiunque si senta in armonia con gli Addestramenti li può adottare e praticare nella propria vita quotidiana. “Ricevere la Trasmissione dei Cinque Addestramenti” significa riconoscerli apertamente come linee-guida della propria vita, in una cerimonia che si tiene nel corso o al termine di un ritiro di alcuni giorni, celebrata da uno o più  Insegnanti di Dharma con il sostegno di tutta la comunità. Si tratta di un momento toccante nella vita del praticante e del sangha che in quel momento lo accoglie e festeggia. L’aspirazione si rinnova e rafforza ogni volta che gli Addestramenti vengono ricordati, letti individualmente o recitati in un contesto collettivo.
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Il Primo Addestramento: rispetto per la vita. Consapevole della sofferenza causata dalla distruzione della vita, mi impegno a coltivare la visione profonda dell’interessere e la compassione e a imparare modi di proteggere la vita di persone, animali, piante e minerali. Sono determinato(a) a non uccidere, a non lasciare che altri uccidano e a non dare il mio sostegno ad alcun atto di uccisione nel mondo, nei miei pensieri o nel mio modo di vivere. Riconoscendo che le azioni dannose nascono dalla rabbia, dalla paura, dall’avidità e dall’intolleranza, le quali a loro volta derivano da un modo di pensare dualistico e discriminante, coltiverò l’apertura, la non discriminazione e il non attaccamento alle opinioni per trasformare la violenza, il fanatismo e il dogmatismo in me stesso(a) e nel mondo.

Il Secondo Addestramento: vera felicità. Consapevole della sofferenza causata dallo sfruttamento, dall’ingiustizia sociale, dal furto e dall’oppressione, mi impegno a praticare la generosità nel mio modo di pensare, di parlare e di agire. Sono determinato(a) a non rubare e a non appropriarmi di nulla che possa appartenere ad altri; condividerò tempo, energia e risorse materiali con chi è in stato di bisogno. Praticherò l’osservazione profonda per riconoscere che la felicità e la sofferenza degli altri non sono separate dalla mia stessa felicità e sofferenza; che è impossibile essere davvero felici senza comprensione e compassione e che rincorrere ricchezza, fama, potere e piaceri dei sensi può portare molta sofferenza e disperazione. Sono consapevole che la felicità dipende dal mio atteggiamento mentale e non da condizioni esterne; so che per vivere felicemente nel momento presente mi basta ricordare di avere già condizioni più che sufficienti per essere felice. Mi impegno a praticare il Retto Sostentamento per contribuire a ridurre la sofferenza degli esseri viventi sulla Terra e a invertire il processo di riscaldamento globale del pianeta.

Il Terzo Addestramento: vero amore. Consapevole della sofferenza causata da una condotta sessuale scorretta, mi impegno a coltivare in me il senso di responsabilità e a imparare modi di proteggere la sicurezza e l’integrità di individui, coppie, famiglie e società. Sapendo che il desiderio sessuale non è amore e che l’attività sessuale motivata dalla brama è sempre dannosa per me stesso(a) e per gli altri, sono determinato(a) a non intraprendere relazioni sessuali senza un reciproco consenso, prive di vero amore e di un impegno profondo e duraturo. Per poter mantenere integra la mia relazione ho la ferma intenzione di trovare sostegno spirituale in persone di famiglia, amici o membri del sangha con i quali ho un rapporto di fiducia e di sostegno reciproco. Farò tutto ciò che è in mio potere per proteggere i bambini dagli abusi sessuali e per prevenire la rottura di coppie e famiglie a seguito di un comportamento sessuale scorretto. Riconoscendo che corpo e mente sono interdipendenti, mi impegno a imparare modi appropriati di prendermi cura della mia energia sessuale e a coltivare i quattro elementi fondamentali del vero amore – la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia e l’inclusività ‒ per la maggiore felicità mia e degli altri. Riconoscendo le diversità fra le esperienze umane mi impegno a non discriminare alcuna forma di identità di genere o di orientamento sessuale. Sappiamo che se pratichiamo il vero amore la nostra esistenza avrà una meravigliosa continuazione nel futuro.

Il Quarto Addestramento: parola amorevole e ascolto profondo. Consapevole della sofferenza causata dal parlare senza attenzione e dall’incapacità di ascoltare gli altri, mi impegno a coltivare la parola amorevole e l’ascolto compassionevole allo scopo di alleviare la sofferenza e promuovere la riconciliazione e la pace in me stesso(a) e fra gli altri ‒ persone, gruppi etnici e religiosi e nazioni. Sapendo che le parole possono essere fonte di felicità o sofferenza, mi impegno a parlare in modo veritiero, usando parole che ispirino fiducia, gioia e speranza. Quando in me si manifesta la rabbia, sono determinato(a) a non parlare. Praticherò la respirazione consapevole e la meditazione camminata per riconoscere la mia rabbia e osservarla in profondità. So che le radici della rabbia possono essere trovate nelle mie percezioni erronee e nella mancata comprensione della sofferenza in me stesso(a) e nell’altra persona. Parlerò e ascolterò in un modo che possa aiutare me stesso(a) e l’altra persona a trasformare la sofferenza e a trovare una via d’uscita dalle situazioni difficili.
Sono determinato(a) a non diffondere notizie di cui non sono sicuro(a) e a non pronunciare parole che possano causare divisione o discordia. Praticherò la Retta Diligenza per alimentare la mia capacità di comprensione, amore, gioia e inclusività, e trasformare gradualmente la rabbia, la violenza e la paura che giacciono nel profondo della mia coscienza.

Il Quinto Addestramento: nutrimento e guarigione. Consapevole della sofferenza causata da un consumo disattento mi impegno a coltivare una buona salute sia fisica che mentale per me stesso(a), la mia famiglia e la società, praticando la consapevolezza nel mangiare, nel bere e nei consumi in genere. Praticherò l’osservazione profonda del mio modo di assumere i Quattro Tipi di Nutrimento, ossia cibo commestibile, impressioni dei sensi, volizione e coscienza. Sono determinato(a) a non giocare d’azzardo, a non assumere alcolici, droghe o altre sostanze o stimoli che contengano tossine, come certi siti internet, videogiochi, programmi televisivi, film, riviste, libri e conversazioni. Coltiverò la pratica di tornare al momento presente per stare in contatto con gli elementi rasserenanti, risananti e nutrienti che si trovano in me stesso(a) e intorno a me, senza lasciare che rimpianti o dispiaceri mi trascinino di nuovo nel passato né che ansie, paure o avidità mi distolgano dal momento presente.
Sono determinato(a) a non cercare di coprire la solitudine, l’ansia o altra sofferenza con acquisti e consumi compulsivi. Alla luce della contemplazione dell’interessere, orienterò le mie scelte di consumatore in modo da proteggere la pace, la gioia e il benessere nel mio corpo e nella mia coscienza, come nel corpo e nella coscienza collettivi della mia famiglia, della società e della Terra.

Lunana - Il villaggio alla fine del mondo

 Lunana - Il villaggio alla fine del mondo, è un film del 2019 sul Bhutan del regista Pawo Choynging Dorji ed è stato candidato ai premi Oscar per il miglior film internazionale 2022. 

Ugyen, giovane insegnante del Bhutan, sogna di diventare cantante in Australia. Quando gli viene assegnato un incarico nel remoto villaggio montano di Lunana completamente isolato da tutto, pensa di rifiutare, ma sua nonna lo convince ad accettare l'impiego. Dopo diversi giorni di cammino e notti passate all'aperto, arriva al villaggio.
Gli abitanti del villaggio sono entusiasti del suo arrivo, e gli vanno incontro al completo per dargli il benvenuto. Ma Ugyen, sconvolto dalle pessime condizioni del luogo, ammette di sentirsi rammaricato e vorrebbe tornare indietro. Michen lo informa che i muli hanno bisogno di tempo per riposare. La mattina dopo, Ugyen viene svegliato dall'alunna Pem Zam, la quale si presenta come la "capitana della classe" e gli dice che i bambini lo stanno aspettando in classe: qui Ugyen è colto alla sprovvista dal loro affetto per lui, poiché i bambini credono che gli insegnanti abbiano la capacità di "toccare il futuro". Decide perciò di restare e insegnare fino alle prime avvisaglie dell'inverno, come suggeritogli dal capo villaggio Asha.

All'avvicinarsi dell'inverno, Ugyen deciderà di ritornare in città  con l' intenzione di lasciare il Bhutan per sempre. Il capo villaggio, i bambini sperano che un giorno torni e unisca la voce alla loro canzone Yak Lebi Lhadar.   Ugyen legge la lettera dei bambini in cui essi lo ringraziano e lo definiscono il loro insegnante preferito, esortandolo a tornare in primavera. Durante la discesa dalla montagna, Ugyen si ferma al cumulo sacro di pietre posate dai viandanti e depone una pietra in offerta per un cammino sicuro, dichiarando che spera di tornare.

Alla fine del film si vede che Ugyen ha realizza il suo vecchio sogno di andare in Australia a cantare, dove si esibisce in un bar, ma nessuno gli presta attenzione. Allora smette di suonare e con evidente profonda nostalgia per Lunana e la sua gente, canta Yak Lebi Lhadar, rapendo l'attenzione del pubblico.

ICTED Magazine

ICTED  (Information Communication- Technologies Education)  Magazine  è un periodico trimestrale, in formato digitale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione per l’istruzione e la formazione; un progetto editoriale che vede impegnati docenti, genitori, tecnici, esperti e professionisti delle diverse categorie del sapere.   Il sito contiene tantissimi articoli sull'uso consapevole delle nuove tecnologie, sulla sicurezza informatica.   Vedi sito: https://www.ictedmagazine.com/index.php/chi-siamo.html 

L'obiettivo del gruppo di lavoro è di contribuire a migliorare la consapevolezza, dei genitori e della Società tutta, relativamente alle problematiche legate all’uso delle tecnologie con particolare attenzione ai minori, agli studenti, ai disabili ed a tutti coloro che vivono una condizione sociale debole.

Vengono, inoltre, trattati temi che riguardano la sicurezza e la protezione del proprio computer dai continui attacchi esterni nonché indicazioni a docenti e studenti su tematiche relative a istruzione, formazione, didattica e orientamento scolastico. Altre sezioni, che intendono offrire approfondimenti su tematiche relative all’arte e alla storia, alle scienze e all'etica,  alla robotica educativa ed alla informatica forense, coronano una visione interdisciplinare orientata ad una prospettiva olistica del sapere.

PHR - Personalità e Relazioni Umane

" Il nostro obiettivo è di liberare in ogni persona le ricchezze del suo essere e tutte le sue potenzialità. Per il suo bene personale innanzitutto, ma anche per il bene dell’Umanità".

"C'é tutto in questo sottosuolo dell'umanità, in questo sottosuolo interiore degli uomini e delle donne di questo pianeta: c'è tutto per forgiare un mondo più umano". 

Frasi di Andrè Rochais (1921-1990), il fondatore di PHR (Personalità e Relazioni Umane).  Questo straordinario sacerdote sociologo, appassionato dell’umanità ha dedicato la sua breve vita a capire “cosa fare perché l’uomo impari a viversi bene, a mettere a frutto il giacimento di risorse di cui è dotato". Attraverso lo studio del funzionamento dell’uomo, Rochais è riuscito a mettere a punto un metodo che consente a chiunque di conoscersi a fondo allo scopo di mettere in atto i cambiamenti necessari per migliorare la propria vita.    “Ognuno di noi dà il meglio di sé se riesce a individuare ciò per cui è chiamato” – diceva Andrè Rochais -. Partendo da quello che hai dentro di buono riuscirai la tua vita”.

C'è in tutti qualcosa di buono (tutti gli esseri senzienti hanno la natura di Buddha, hanno tutte le qualità positive per diventare Buddha),  e la consapevolezza della visione profonda dell’inter-essere (Il maestro Zen Thich Nhat Hanh ha coniato la parola interessere, per indicare lo stretto legame che lega qualsiasi cosa - noi compresi - ad ogni altra cosa che ci circonda); Da queste basi  dobbiamo coltivare una fiduciosa speranza per realizzare quello che desideriamo. 

PRH (Personalità e Relazioni Umane) è una “scuola di speranza per l’Umanita”, una Scuola Internazionale di formazione e ricerca, specializzata nella crescita e nello sviluppo personale. La formazione si rivolge agli adulti e ai giovani adulti che desiderano acquisire più chiarezza su loro stessi, essere autonomi e meglio equipaggiati per affrontare le difficoltà quotidiane. Si rivolge anche alle persone che sono alla ricerca di una maggiore qualità di vita e più armonia nelle relazioni personali o professionali.

PRH vede lo sviluppo di ogni persona e la sua competenza relazionale come un potente motore per un apporto più costruttivo alla società. Tutta l’offerta di formazione è il risultato di una ricerca continua sulla crescita delle persone, delle coppie e dei gruppi. PRH è presente in 40 paesi da più di 50 anni. Vedi sito: https://www.prh.it/  La presidente di PRH Italia Maria De Giuseppe

I principi di PHR sono:  - apertura alla trascendenza,  - controllo delle emozioni,  - metodo del discernimento (come effettuare una scelta, sulla base di quali elementi   -  analisi e discernimento), . partecipare alla sinfonia del mondo (Interrelazione). 

Esempi di laboratori organizzati dalla PHR:

  • Come decodificare i propri vissuti.   Come hai vissuto l'esperienza di contatto con il tuo vissuto e con quello degli altri?  Che cosa ho provato partecipando a un evento, ecc   
  • Scoprire le proprie ricchezze personali.   Incontro con se stesso, chi sono io?  Quali qualità ho?  (Esempi: Altruista, onesto, perseverante, tollerante, responsabile, comunicativo, coerente, autentico, autonomo, libertà interiore, vivace, deciso, ecc. )  Da quali elementi è costituita La miniera delle mie ricchezze personali (Esempi: essere capace di aprirsi all'altro in modo positivo, di aprirsi al confronto e alla diversità, ecc. )   
  • Saper decidere è una carta vincente.   Importante è applicare il Metodo del discernimento, imparo a prendere consapevolezza, in un dato momento, sulla base di quali elementi decido , ( ad esempio i miei valori, le convenzioni sociali, il senso del dovere, il senso di responsabilità, ecc...)    Con l'obiettivo di mettersi all'ascolto, analizzarsi, scoprire chi sono, coerente con me stesso, consapevole della mia unicità, indipendenza. Per aiutare la persona a conoscersi, occorre percorrere quattro tappe: reperire la sensazione, nominare la sensazione, esplorare e descrivere la sensazione, evidenziare il nuovo che si prova, nella speranza di diventare più umano.

giovedì 16 gennaio 2025

Cosa è lo yoga?

Cosa è lo Yoga?   Per Satyananda, lo Yoga è l'unione tra coscienza individuale e coscienza universale, è un percorso per eliminare la separazione che crea sofferenza. Per Iyengar, il praticare Yoga è il disciplinare l'intelletto, la mente, l'emozione, la volontà, per trovare la pace interiore.         


Durante la pratica yoga, lavorando sul corpo, sulla mente, sull'anima si cerca di trovare un equilibrio. Il percorso Yoga è un lavoro su se stessi e per se stessi, un lavoro per cercare di essere in armonia con se stessi, con l'ambiente che ci circonda e con il Tutto.

La pratica yoga è la palestra per distruggere il proprio ego.  Di solito ci si identifica con il corpo, con i risultati raggiunti ecc...  Ci si definisce per differenziarci; ciò crea separazione, e ci fa sentire non completi. Vogliamo essere separati, unici, invece il benessere deriva dalla interdipendenza.

Il vuoto che cerchiamo di riempire quotidianamente è creato dall'essere disconnessi dalla natura,
intesa come l'energia globale dell'universo.

Lo yoga rende più sensibili, più empatici,  aiuta a comprendere che non siamo solo un corpo e una mente,  ma  abbiamo anche un'anima,  che non rappresenta una goccia nell'oceano ma è tutto l'oceano.
Lo yoga ci porta a non odiare, a non competere, a non discriminare.

Introduzione al Blog

Il Blog è nato nel marzo 2021, in tempo di pandemia, per comunicare e condividere le mie letture e i miei interessi.  Nel Blog ci sono ci...