sabato 13 settembre 2025

Il lato oscuro della meditazione

Sebbene esistano evidenze sugli effetti positivi della meditazione, negli ultimi anni la ricerca ha iniziato a portare alla luce alcuni possibili rischi.  La Meditazione: una pratica positiva o negativa per la propria salute?       
La meditazione viene spesso presentata come una sorta di panacea per tutti i mali: ma è davvero così? Già nel 1976, Arnold Lazarus scriveva “One man’s meat is another man’s poison” sottolineando che questa pratica, pur essendo utile per molte persone, poteva invece essere dannosa per altre.             

La meditazione è spesso concepita come una pratica capace di curare universalmente tutte le sofferenze di coloro che si approcciano ad essa, motivo per cui vi è la credenza che apporti sempre e solo benefici a chiunque la pratichi. Non a caso, il centro statunitense Dhamma Pubbananda, specializzato nella meditazione, l’ha definita un “rimedio universale per mali universali” che permette una “liberazione totale da impurità e sofferenza” (Kortava, 2021). 

La meditazione, nonostante le sue antiche origini buddhiste, è riuscita ad integrarsi nella società e cultura americane odierne, tanto che il 14% della popolazione americana la pratica per migliorare il proprio benessere mentale, emotivo e fisico (Lindahl, 2017). Tuttavia, sebbene esistano evidenze sugli effetti positivi della meditazione, tra cui l’incremento delle emozioni positive e del benessere psicologico, nonché la riduzione dell’ansia e dello stress, negli ultimi decenni la ricerca ha iniziato a portare alla luce rischi ed effetti collaterali delle pratiche meditative, come depressione, agitazione e episodi schizofrenici (Lazarus, 1976). Grazie al lavoro di alcuni ricercatori sta iniziando a diffondersi la consapevolezza che la meditazione può rivelarsi una pratica benefica per alcuni soggetti e dannosa per altri, soprattutto per coloro che hanno una storia pregressa di problemi di salute mentale o condizioni psichiatriche non ancora emerse. Questo filone di ricerca tuttavia è ancora agli albori. 

Chi pensa che la meditazione sia solo pace, amore e benessere, sbaglia. Anche questa pratica millenaria, dai provati effetti benefici, ha un lato oscuro. Un ‘dark side’ in cui rientrano esperienze sgradevoli e inaspettate: si va dall’ansia all’insonnia, fino alle allucinazioni. Il buddismo zen ha persino un nome ad hoc per descrivere questo tipo di percezioni, makyo: combinazione delle parole giapponesi “diavolo” e “mondo reale”. Se ne sa poco, se ne parla ancora meno, eppure esistono e ora a documentarle, yin su yang (nero su bianco), c’è un nuovo studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Plos One. Una ricerca condotta da un’équipe di studiosi della Brown University, negli Stati Uniti, che ha intervistato 60 buddisti occidentali di tradizione zen, theravada e tibetana.
Solo perché qualcosa è benefico e positivo non vuol dire che non dobbiamo essere al corrente della varietà di possibili effetti che può avere”, ha detto a Quartz Jared Lindahl, uno degli autori dell’analisi, spiegando le motivazioni che lo hanno spinto ad indagare. Sotto esame sono finite le testimonianze di meditanti novizi, come di insegnanti che fino a oggi hanno accumulato più di 10mila ore di meditazione. Tutti, durante la pratica, hanno fatto fronte a emozioni poco piacevoli o a disturbi psicofisici. Si tratta di conseguenze che possono essere leggere e transitorie o più serie e durevoli, scrivono gli studiosi. In totale, ne hanno contate 59 riconducibili a sette categorie: cognitive, percettive, affettive (relative alle emozioni), somatiche, conative (relative alla motivazione), senso di sé e sociale. C’è, per esempio, chi ha riportato insonnia, chi un distaccamento emotivo, e chi irritabilità. Altri hanno ripercorso traumi passati, o hanno maturato una maggiore sensibilità alla luce. Una serie di esperienze variegate, che sono ben lontane dall’idea stereotipata della meditazione.

Uno studio interessante, se preso con le dovute precauzioni, precisa a Galileo Antonino Raffone, professore del dipartimento di psicologia dell’università Sapienza. È un’indagine qualitativa, non statistica. Quindi è impossibile sapere quanto sia diffuso il fenomeno tra i meditanti. Non stupisce, però, il fatto che durante la meditazione, quando praticata in maniera intensiva, si possano fare delle esperienze negative. Secondo Raffone, hanno più probabilità di verificarsi tra soggetti vulnerabili che dovrebbero affiancare alla meditazione una psicoterapia. “È un percorso che ci mette in contatto con le nostre attitudini e le nostre emozioni, anche quelle inespresse”, spiega. Una persona inconsciamente ansiosa potrà venire a contatto con la sua ansia. “D’altra parte, la stessa meditazione ci fornisce gli strumenti per ritornare a una condizione di equilibrio”. Niente di preoccupante, quindi. Ma il consiglio è di farsi sempre seguire da istruttori qualificati.

Willoughby Britton, direttrice del Laboratorio di Neuroscienze Cliniche e Affettive della Brown University Medical School, ha dedicato la sua carriera allo studio dei potenziali effetti avversi della meditazione e delle pratiche contemplative. Appena laureata era lei stessa un’avida meditatrice; tuttavia, nel corso di uno studio sulla relazione tra meditazione e qualità del sonno – innovativo in quanto basato su dati di laboratorio, e non solamente sulle impressioni dei partecipanti – ha fatto una scoperta inaspettata: i soggetti che meditavano per più di 30 minuti al giorno si svegliavano più spesso durante la notte e avevano un sonno meno profondo, anche se dichiaravano di dormire meglio grazie a questa pratica (Britton et al., 2010).

I risultati di tale studio hanno portato Britton e il suo team a sottolineare come, fino a quel momento, la ricerca sulle pratiche contemplative si fosse concentrata quasi esclusivamente sui loro benefici, trascurando l’analisi dei possibili rischi ad esse associati. Ciò ha dato vita al “Varieties of Contemplative Experience Project”, un’indagine volta a documentare, comprendere e rendere pubbliche le testimonianze di coloro che hanno sperimentato effetti indesiderati in seguito alla meditazione, coinvolgendo insegnanti e praticanti – con diversi livelli di esperienza – di meditazione delle tradizioni Theravāda, Zen e Tibetana. I dati raccolti hanno permesso di fare luce su possibili fenomeni avversi, tra cui ansia, panico, flashback traumatici, allucinazioni visive e uditive e appiattimento affettivo (Lindahl et al., 2017).

L’accumularsi di queste evidenze ha condotto Britton alla fondazione di Cheetah House, un progetto che si pone la missione di fornire sostegno a coloro che hanno sperimentato problematiche legate alle pratiche contemplative (problematiche che, purtroppo, vengono spesso ignorate da altri professionisti) e di educare gli istruttori di meditazione sui potenziali effetti dannosi di tale pratica.    Vedi: https://www.cheetahhouse.org/  (resources and support for adverse meditation experiences).

E la mindfulness? È dannosa o è semplicemente male interpretata?  Le pratiche contemplative promuovono la mindfulness, ovvero la capacità di stare nel momento presente senza tentare di modificarlo. Oggigiorno la psicoterapia sta volgendo lo sguardo verso i “trattamenti di terza generazione”, il cui denominatore comune è proprio la mindfulness come punto cardine (Ruggiero, 2022).
Proprio come le pratiche contemplative, anche la mindfulness è stata “accusata” di causare malessere psicologico. Whippman (2016) sostiene che la società capitalistica in cui viviamo, specialmente attraverso gli enti governativi e aziendali, incentivi l’idea dell’uomo sano come di una macchina che non prova mai emozioni negative; se le provi non è perché il governo o l’azienda ti stanno facendo mancare qualcosa, ma perché non ti stai impegnando abbastanza per pensare positivamente. È qui che entra in gioco la mindfulness: essa infatti può aiutare a mantenere il pensiero focalizzato non solo sul momento presente, ma anche su una visione positiva della realtà. In termini concreti: ignora quello che non va e continua a produrre.    
Se però la mindfulness può avere questo riscontro dannoso, com’è possibile che la psicoterapia odierna la stia utilizzando come base per evolversi? Per rispondere a questa domanda bisognerebbe innanzitutto chiedersi se il mantenimento del pensiero positivo sia il reale obiettivo della mindfulness. La risposta è no.
Come anticipato, la mindfulness rappresenta la capacità di sentire e tollerare le emozioni, belle o brutte che siano. In altre parole: non ignorarle, ma accettarle. Accettare che qualcosa non va, è il primo passo per  promuovere un cambiamento. La mindfulness ci è utile anche durante questo processo: cambiare non è facile, è una sfida che può provocare ansia, frustrazione e tristezza. Esercitarci a gestire la nostra mente in modo mindful è la chiave per sopportare queste emozioni negative in vista di un bene superiore: il raggiungimento del nostro benessere (Linehan, 1993).

Per via della sua complessità, è bene fare attenzione alla distinzione tra l’idea di mindfulness propinata dalla società, ovvero una positività pervasiva volta a soffocare qualsiasi tipo di malessere in favore di efficienza e produttività, e quella su cui invece la psicoterapia odierna sta costruendo la propria evoluzione. È quindi consigliabile non sottoporsi a tale pratica arbitrariamente e invece affidarsi a figure competenti che valutino la possibilità di procedere compatibilmente con l’anamnesi presentata. La supervisione di un professionista garantisce inoltre la condivisione delle finalità della mindfulness e consente l’identificazione di un obiettivo funzionale e fondato, diminuendo la probabilità di avere effetti indesiderati.    

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI.
    Britton, W. B., Haynes, P. L., Fridel, K. W., & Bootzin, R. R. (2010). Polysomnographic and Subjective Profiles of Sleep Continuity Before and After Mindfulness-Based Cognitive Therapy in Partially Remitted Depression. Psychosomatic Medicine, 72(6), 539.
    Kortava, D. (2021). Lost in Thought: The psychological risks of meditation. Harper’s Magazine, April 2021. Retrieved April 19, 2024, here.
    Lazarus, A. (1976). Multi-Modal Behavior Therapy. Springer.
    Lindahl, J. R., Fisher, N. E., Cooper, D. J., Rosen, R. K., & Britton, W. B. (2017). The varieties of contemplative experience: A mixed-methods study of meditation-related challenges in Western Buddhists. PLOS ONE, 12(5), e0176239.
    Linehan, M. M. (1993). Cognitive-behavioral treatment of borderline personality disorder. Guilford Press.
    Ruggiero, G. M. (2022). La parola, il corpo e la macchina nella letteratura psicoterapeutica (1st ed.). Alpes Italia srl.
    Whippman, R. (2016, November 26). Actually, Let’s Not Be in the Moment. The New York Times.

La notte dell'anima. Il lato oscuro della meditazione Dal sito:  https://www.stateofmind.it/2024/05/meditazione-possibili-rischi/   Articolo di Di Silvia Bettoni, Silvia Carrara, Michela Di Gesù, Martina Gori, Giulia Onida, Matteo Zambianchi - Pubblicato il 07 Mag. 2024 

Vedi:  https://www.galileonet.it/ansia-insonnia-lato-oscuro-meditazione/ Articolo di Rosita Rijtano

Dalla Superficialità alla Verità: Un Viaggio Spirituale verso l’Unità Interiore

La verità è una, ed è eterna. Non può essere definita, né contenuta nei limiti della parola o del pensiero. Essa si realizza solo nel cuore dell’essere umano che, liberandosi dalla superficialità della vita dominata dall’egoismo e dal materialismo, intraprende la via della ricerca interiore. Questo articolo intende esplorare il percorso spirituale che conduce dalla frammentazione dell’ego alla piena unione con il Divino, attraverso gli insegnamenti dello yoga, della tradizione cristica e delle vie mistiche orientali e occidentali.

L’essere umano moderno, immerso nel consumismo e nella frenesia esteriore, si allontana dalla propria essenza. La perdita del contatto con l’anima genera una condizione di alienazione e insoddisfazione esistenziale. Come la rana che vive tutta la vita nello stagno ignorando l’esistenza del mare, così l’uomo vive nella superficie della coscienza, incapace di percepire la profondità del proprio essere.

Lo yoga, in tutte le sue forme—karma yoga, bhakti yoga, jnana yoga e raja yoga—offre strumenti concreti per il ritorno a sé. Il karma yoga insegna l’agire disinteressato come mezzo di elevazione; il bhakti yoga invita alla devozione amorosa; il jnana yoga guida all’autoconoscenza; il raja yoga, infine, attraverso il silenzio, conduce alla meditazione profonda, là dove si dissolve ogni separazione.

«Il regno di Dio è dentro di te» – questa verità evangelica trova un’eco profonda nella scienza yogica. Il silenzio non è solo assenza di parole, ma è spazio interiore, condizione necessaria affinché l’anima possa risuonare con la sua origine divina. Nella visione di Patanjali, il silenzio mentale (nirodha) è la chiave per raggiungere gli stati superiori della coscienza.

Sat-Chit-Ananda, termine sanscrito che descrive la natura dell’anima (Purusha), significa esistenza-coscienza-beatitudine. Man mano che si va in profondità, dalla materia si passa all’energia, e da lì alla coscienza pura. Come l’acqua che solidifica fino a diventare ghiaccio, così la realtà manifesta scaturisce da una sorgente immutabile. La verità ultima è l’anima, ed è una sola in tutti gli esseri.

Nel cuore del percorso spirituale risiede l’amore, forza centripeta che conduce verso l’unità. «Quando muori, non conta ciò che hai fatto, ma quanto hai amato»: questo principio, radicato nella mistica cristiana e presente anche nel bhakti yoga, esprime la centralità dell’amore come mezzo di unione con il Divino.  

Isvara Pranidhana, uno dei precetti dello yoga di Patanjali, è l’abbandono al Signore, l’affidamento totale dell’ego al Sé superiore. Questo atto non è passività, ma apertura profonda. L’amore autentico dissolve le barriere tra l’io e il tu, tra umano e divino.    

Cristo e l’Oriente: Visioni Unificate del Divino.   Secondo una tradizione orientale e alcuni studi meno ortodossi (come quelli di Notovich), Gesù avrebbe trascorso diciotto anni in India, apprendendo le tecniche del Kriya Yoga e altre pratiche spirituali. In questa visione, Gesù non è solo una figura storica ma un Avatar, una manifestazione dell’Assoluto sulla terra.

Il messaggio centrale del Cristo – “Tu sei figlio di Dio”, “Il regno è dentro di te” – viene interpretato in chiave gnostica e yogica come un invito alla realizzazione interiore. La spiritualità dei Padri del Deserto, così come la gnosi primitiva, non era centrata sul dogma, ma sull’esperienza diretta della Presenza divina attraverso il silenzio e la meditazione.

Nella teologia mistica, la Coscienza Cristica è l’intelligenza divina presente in ogni atomo dell’universo. È il “Dio Figlio”, che insieme al “Dio Padre” e allo “Spirito Santo” compone una trinità attiva. Questo principio è sorprendentemente affine alla concezione indiana della trinità: Brahman (Assoluto), Atman (Sé individuale), e Shakti (energia divina).

L’amore, in questa prospettiva, permea l’intera creazione. Tutti i grandi Maestri spirituali, da Buddha a Yogananda, da Krishna a Cristo, hanno mostrato come il vero cammino consista nell’annullare l’ego per fare spazio al Divino.

Yogananda, maestro del Kriya Yoga, sottolineava che la spiritualità non è un sistema di credenze, ma una scienza sperimentale. Meditazione, preghiera, mantra (japa), e pratiche energetiche come il reiki o la pranoterapia sono strumenti per aprirsi al flusso dell’energia divina. Il silenzio interiore, la pratica regolare e la compassione universale sono pilastri della trasformazione.

Secondo gli insegnamenti di Swami Kriyananda e altri discepoli, il progresso spirituale si realizza nel quotidiano, nel karma yoga del vivere consapevole, nella scelta di gruppi spirituali che stimolino l'evoluzione interiore, e nel coltivare la bontà come riflesso della Bontà divina.

Conclusione: Verso l’Unità dell’Essere.  Siamo tutti pellegrini sul sentiero della verità. La sofferenza spesso ci spinge a cercare, ma la vera libertà arriva solo quando si ama il Divino per il Divino stesso. Ogni atto d’amore, ogni momento di silenzio, ogni respiro consapevole è un passo verso l’unità.

La spiritualità autentica è l’arte di vivere nel mondo senza essere del mondo. È la via che va dalla mente al cuore, dal rumore al silenzio, dall’ego all’amore, dalla molteplicità all’Uno.

Ajahn Chandapalo

Nato a  Preston, nel  Lancashire (Inghilterra), inizia ad interessarsi alla meditazione buddhista durante l’ultimo anno di studi presso la facoltà di Ingegneria dell’Università di Lancaster. A Manchester, ad una celebrazione del Vesak nel 1978, incontra per la prima volta il Ven. Ajahn Sumedho, della tradizione Theravada dei monaci della foresta. Durante gli studi per il Master in Ingegneria Biomedica presso l’Università di Dundee, incontra il Ven. Ajahn Chah ad Edimburgo. Dopo aver ricoperto per quasi un anno la posizione di Assistente Ricercatore nell’Unità di  Bioingegneria di Glasgow, sceglie di intraprendere il sentiero monastico, e prende gli otto precetti come  anagarika (postulante) presso il Monastero di Chithurst nel West Sussex.          


Nel 1981 aiuta Ajahn Sucitto a fondare la prima “succursale” del monastero di Chithurst ad  Harnham, vicino a  Newcastle (oggi noto come  Aruna Ratanagiri).  Riceve l’upasampada (l’ordinazione completa come  bhikkhu  o monaco) nel 1982.  Un anno dopo affianca  Ajahn Munindo nella fondazione di un nuovo monastero a Devon. In seguito si trasferisce insieme ad  Ajahn Sumedho e vari altri monaci in una località vicina ad  Hemel Hempstead, dove viene fondato il monastero di Amaravati. Quattro anni dopo viene invitato in Svizzera insieme ad  Ajahn Tiradhammo, e qui resterà per più di due anni, contribuendo alla fondazione del Monastero  Dhammapala. Risiede per un anno in Thailandia, presso il Monastero Internazionale Wat Pah Nanachat.

Nel 1993 si trasferisce in Italia, presso il monastero Santacittarama, fondato tre anni prima da  Ajahn Thanavaro. Nel 1996, quando Ajahn Thanavaro sceglie di tornare alla vita laica,  Ajahn Chandapalo assume la carica di abate del monastero, la cui sede viene trasferita l’anno successivo in una località nei pressi di Poggio Nativo (Rieti) a pochi chilometri da Roma. Nel 2011, insieme ad Ajahn Amaro,  riceve ufficialmente la nomina di “precettore” (upajjhaya) dal sangha thailandese, venendo così autorizzato a selezionare i candidati adatti alla formazione monastica, che chiedono di entrare nella comunità europea di bhikkhu, e a celebrare le cerimonie di ordinazione. Tiene regolarmente insegnamenti in vari parti d’Italia e all’estero.

https://santacittarama.org/2019/02/20/biografia-di-ajahn-chandapalo/

domenica 3 agosto 2025

I benefici profondi del pranayama

Che tu sia un principiante alle prime esperienze sul tappetino o un praticante avanzato, sai bene che lo yoga non è soltanto una pratica fisica, ma un'arte di consapevolezza. Al centro di tutto vi è il respiro: un ponte tra corpo e mente, tra dentro e fuori.   Nello yoga la respirazione deve essere il più lenta e profonda possibile. Molte persone non se ne accorgono ma respirano solo con il torace, solo con l'addome oppure in minima parte con entrambi. La respirazione yoga deve essere completa, cioè ci deve essere una notevole espansione sia del torace che dell'addome.     

Comprendere e padroneggiare le tecniche di respirazione yogica – note come Pranayama – è fondamentale per ottenere una pratica profonda, trasformativa e benefica sotto molti aspetti, fisici, mentali e spirituali. La parola Pranayama deriva dal sanscrito prāṇa (energia vitale, respiro) e āyāma (espansione, controllo). Dunque, il Pranayama è la disciplina che consente di estendere e dirigere l’energia vitale attraverso il controllo consapevole del respiro.

Le quattro fasi fondamentali del Pranayama sono:

  •     Puraka: l’inspirazione
  •     Antara Kumbhaka: la ritenzione a polmoni pieni
  •     Rechaka: l’espirazione
  •     Bahya Kumbhaka: la ritenzione a polmoni vuoti

Questa struttura ritmica, se praticata con regolarità, aiuta a stabilizzare il sistema nervoso, a migliorare la salute respiratoria e ad aprire la via alla meditazione.

Una respirazione profonda e consapevole ha effetti documentati sulla salute fisica e psico-emotiva. Alcuni dei benefici principali includono:

  •     Rafforzamento del sistema respiratorio
  •     Miglior ossigenazione del sangue e degli organi, in particolare cervello e colonna vertebrale
  •     Attenuazione dello stress e dell’ansia
  •     Maggiore concentrazione e centratura mentale
  •     Equilibrio del sistema nervoso autonomo ed endocrino

In ambito yogico, il respiro non è solo scambio gassoso, ma veicolo sottile dell’energia vitale, che scorre nei canali (nadi) del corpo. Regolare il respiro significa regolare la mente e, in ultima istanza, l’intero essere.

Esistono tre forme principali di respirazione, che possono essere praticate separatamente o unite nella cosiddetta respirazione yogica completa:

  •     Respirazione addominale
  •         Coinvolge la parte inferiore dei polmoni e il diaframma.
  •         L’addome si espande all’inspirazione e si contrae all’espirazione.
  •         Favorisce il massaggio degli organi interni, riduce lo stress e migliora l’ossigenazione.
  •     Respirazione toracica
  •         Coinvolge la parte centrale e superiore dei polmoni.
  •         Avviene grazie all’espansione delle costole tramite i muscoli intercostali.
  •         È meno efficiente di quella addominale, ma utile per la consapevolezza della gabbia toracica.
  •     Respirazione clavicolare
  •         La più superficiale: si attiva sollevando spalle e clavicole.
  •         Il volume d’aria è minimo; è usata nei momenti di emergenza o stress.
  •         In ambito yogico, viene praticata per completare la respirazione totale.

Respirazione yogica completa: combina addome, torace e clavicole in un’unica onda fluida e potente, ampliando al massimo la capacità polmonare e la consapevolezza.

Per migliorare la respirazione è essenziale osservarla. Puoi farlo da seduto, portando una mano sull’addome e una sul petto, notando quale delle due si muove durante l’inspirazione. Questo semplice esercizio aiuta a riconoscere il proprio modello respiratorio e ad accrescerne la consapevolezza, primo passo per trasformarlo.

Nel quotidiano, nei momenti di stress o durante le posture più intense (asana), il ritorno al respiro consapevole permette di rimanere presenti, centrati e calmi. Respirare è un atto di presenza, un ancora nel qui e ora.

Per chi è agli inizi, è utile esercitare separatamente le tre respirazioni per acquisire familiarità:

  •     Addominale: mani sull’ombelico, segui il movimento del diaframma.
  •     Toracica: mani sulle costole, osserva l'espansione laterale.
  •     Clavicolare: mani sulle clavicole, percepisci il sollevamento delle spalle.

Dopo qualche ciclo di pratica, puoi integrare i tre tipi in una respirazione completa, inspirando dal basso verso l’alto ed espirando dall’alto verso il basso, in un flusso armonico.

Ecco alcune delle tecniche più conosciute, adatte a vari livelli di pratica:

  •     Anuloma Viloma / Nadi Shodhana (respirazione a narici alternate),     Purifica i canali energetici (nadi), calma la mente e riequilibra emisferi cerebrali.
  •     Respiro risonante.     Inspirazione ed espirazione della stessa durata (es. 6 secondi), favorisce rilassamento e coerenza cardiaca.
  •     Kapalabhati (respiro del cranio splendente).     Espulsioni rapide e forzate d’aria dal naso, attiva il fuoco addominale (agni), detossifica e stimola.
  •     Bhastrika (respiro del mantice).     Inspirazioni ed espirazioni vigorose con movimento sincronizzato delle braccia: energizzante e riscaldante.
  •     Bhramari (respiro dell’ape).     Emissione del suono “OM” a bocca socchiusa durante l’espirazione, con chiusura dei sensi (Shanmukhi Mudra). Induce calma profonda e stimola il sistema parasimpatico.

La respirazione non è un gesto automatico da dare per scontato: è uno strumento potente di autoconoscenza e trasformazione. Nello yoga, imparare a respirare significa imparare a vivere meglio, con più presenza, equilibrio e salute.  Il respiro è sempre con te: usalo con saggezza.

Vedi link:  

  •  https://www.youtube.com/watch?v=bVt5aqoWYhA
  • https://eventiyoga.it/tecniche-di-respirazione-yoga/

Cosa è lo yoga.

 "Yoga chitta vritti nirodha "  - Lo Yoga è la cessazione delle modificazioni della mente.

La parola Yoga deriva dalla radice sanscrita Yug, che vuol dire unione. Unione di cosa? Inizialmente di corpo, mente e respiro. Quando, attraverso le tecniche dello Yoga e la pratica regolare, abhyasa, si comincia prendere consapevolezza di questa unione, gradualmente si comincia anche ad intuire la parte più sottile di noi, quella spirituale. Questa è la seconda unione. Quando l’unione tra corpo, mente, respiro e componente spirituale si è consolidata, pian piano aumenta la consapevolezza del fatto che questa parte spirituale non è isolata, chiusa in noi, ma fa parte di una realtà ben più ampia, di respiro cosmico. L’unione del Divino presente in ognuno di noi con il Divino Cosmico è il fine ultimo dello Yoga.      
Ovviamente un obiettivo così ambizioso non si può raggiungere in tempi brevi e senza impegno. È per questo che gli antichi Saggi indiani, i rishi, ci hanno tramandato per millenni tutto un insieme di tecniche, fisiche, mentali e spirituali che gradualmente aiutano a migliorare il livello di salute fisica, di efficienza respiratoria, di energia generale e di consapevolezza di sé. Questo insieme di discipline fisiche, respiratorie, mentali e spirituali, che hanno come fine quello di ricondurre l’uomo alla sua origine divina, è quello che chiamiamo Yoga.

Nel corso dei millenni lo Yoga è stata una disciplina altamente esoterica, riservata ad un numero ristretto di adepti. Solo nella seconda metà dell’800 e nei primi del ‘900 alcuni grandi Maestri, come Swami Vivekananda, Ramana Maharshi, Yogananda Paramahansa e Swami Sivananda, hanno cominciato a rivelare ad un numero sempre crescente di persone interessate gli alti insegnamenti dello Yoga, soprattutto in Occidente. Inevitabilmente questa grande diffusione ha portato, in un secondo tempo, in parte ad una diluizione degli insegnamenti, in parte ad un’alterazione degli stessi, nella convinzione (non sempre in buona fede) che lo Yoga si potesse ‘modernizzare’ o ‘migliorare’. 
In realtà lo Yoga è un sistema talmente completo da mantenere la sua potenza filosofica e spirituale nel corso dei millenni proprio perché è rimasto inalterato, fedele ad un’ortodossia che non è puro conservatorismo, ma coscienza di essere una disciplina nata dall’esperienza diretta dei rishi del passato, una disciplina nata perfetta e quindi immodificabile.

Karma, Guna e Shraddha

Quando la mente è fermamente convinta che Brahman è reale e l’universo irreale, è ciò che chiamiamo viveka, la discriminazione tra il Reale e l’irreale.”      — Adi Shankaracharya, Viveka Chudamani, XX

Questo è il principio fondante dell’Advaita Vedanta, la filosofia non dualista elaborata dal grande mistico e pensatore indiano Adi Shankaracharya, vissuto probabilmente tra il 788 e l’820 d.C.

                                                                    

La Realtà Assoluta e l’illusione della mente.  Brahman è l’unica realtà: infinito, eterno, mai nato, immanente. In contrapposizione, Prakriti – la natura sensibile, o Jagat, l’universo fenomenico, o ancora Maya, il velo dell’illusione – è una creazione mentale. Così come i sogni svaniscono al risveglio, l’identificazione illusoria con corpo e mente genera, nell’individuo (Jiva), una realtà soggettiva destinata a dissolversi al sopraggiungere del risveglio spirituale.

Questo risveglio consiste nel riconoscere l’Atman, il Sé interiore, riflesso del Brahman in ogni essere, come unica vera realtà. Come un unico sole si riflette in mille pozze d’acqua, così l’Assoluto si rifrange negli individui. La consapevolezza di questa verità dissolve Avidya, l’ignoranza spirituale, e prepara al Samadhi, la comunione con il Divino, preludio alla Moksha, la liberazione dal Samsara, il ciclo di rinascite e morti.

Karma: la legge universale dell’azione. Il cammino verso l’illuminazione è lungo e arduo, spesso attraversa molte vite e richiede un impegno immenso. Comprendere la legge del Karma è essenziale per capire questa complessità.    In sanscrito, karma significa “azione”: ogni azione genera una conseguenza corrispondente. Tuttavia, non si tratta di una semplice dinamica di premi e punizioni. Bene e male sono concetti relativi; ciò che importa è il Dharma – la rettitudine intesa come progresso spirituale.

Il Dharma guida verso l’evoluzione; l’Adharma ci ferma o ci fa regredire. È un processo formativo, non punitivo: l’anima, nella sua lunga marcia verso la realizzazione, attraversa esperienze necessarie a sviluppare consapevolezza. In ogni nascita, ereditiamo condizioni plasmate dal karma delle vite precedenti. Non possiamo cambiare il destino attuale, ma possiamo cambiare come lo viviamo.

I Guna: le tre forze della natura.  Un’altra chiave per la comprensione di noi stessi è il concetto dei Guna, le “qualità” o, più precisamente, le “tendenze” fondamentali della natura:

  •     Sattva: purezza, armonia, chiarezza.
  •     Rajas: attività, passione, desiderio.
  •     Tamas: inerzia, oscurità, ignoranza.

Come afferma la Bhagavad Gita (XIV,5):     “Purezza, passione e inerzia—queste qualità, o potente Arjuna, nate dalla Natura, legano saldamente al corpo colui che si è incarnato, l’Indistruttibile!

I Guna non sono semplici aspetti della natura: ne sono l’essenza. Ogni individuo è una combinazione dinamica di questi tre elementi, che definiscono personalità, comportamenti e inclinazioni spirituali.

Una persona sattvica sarà pacifica e altruista; una rajasica sarà dominata da ambizione e desideri; una tamasica sarà apatica, pigra, inconsapevole. Nessuno possiede un solo Guna: è la loro combinazione e prevalenza a determinare il nostro stato interiore.

Cosmogonia e squilibrio dei Guna.   Nella visione vedica, all’inizio era la quiete assoluta: i tre Guna in perfetto equilibrio. Da questo equilibrio è nata la potenzialità dell’universo. Ma, come negli individui, anche l’universo è soggetto al karma. Lo squilibrio originario tra i Guna ha generato il movimento cosmico, manifestandosi dapprima come Shabdabrahman, la vibrazione primordiale, “il suono senza suono”, da cui ha avuto origine la materia.

Lo Yoga mira a ritornare a questa dimensione sottile, partendo dal grossolano verso il causale. Come dice Swami Sivananda:   “Condurre una vita virtuosa prepara la mente alla meditazione, ma è solo con la meditazione che si ottiene la realizzazione del Sé.

Trasformare i Guna interiori.  Il lavoro spirituale consiste nel trasformare Tamas in Rajas, e poi Rajas in Sattva. Quando prevale Sattva, la mente è predisposta alla meditazione e allo Yoga. Tuttavia, anche Sattva, sebbene nobile, è un Guna e come tale deve essere superato.  

    “Quando l’osservatore non vede altro agente che i tre Guna, conoscendo ciò che è al di sopra di essi, egli arriva al Mio Essere.” (Bhagavad Gita, XIV, 19)

Una parabola narrata da uno Swami illustra questo: tre ladri aggrediscono un mercante. Uno vuole ucciderlo (Tamas), l’altro lo lega e lo abbandona (Rajas), il terzo lo libera e lo riaccompagna sulla via (Sattva). Anche Sattva, pur aiutando, è un ladro: ci ruba l’Assoluto legandoci al piacere sottile.

Shraddha: la fede come specchio del proprio essere.  I Guna agiscono in ogni sfera della vita: cibo, azioni, conoscenza, piaceri. Ma la loro influenza più decisiva è sulla Shraddha, la fede. La Bhagavad Gita (XVII, 3) afferma:   “La fede di ognuno è in accordo con la sua natura, o Arjuna. L’uomo è fatto della sua fede: com’è la sua fede, così egli è.

La fede riflette il nostro livello karmico e spirituale. Swami Vishnudevananda ci ricorda che non esistono karma buoni o cattivi, ma “karma piacevoli e karma utili”. È proprio attraverso le esperienze dolorose che possiamo accelerare la nostra crescita.

La scala della fede e il cammino della consapevolezza.  Come spiega Sri Yogananda, nella Gita (XVII, 4):     L’uomo sattvico adora i Deva (le qualità divine),     Il rajasico si rivolge a Yaksha e Rakshasa (spiriti della ricchezza e dell’ego),     Il tamasico si perde in Preta e Bhuta (fantasmi, spiriti oscuri).   La fede, dunque, è anche lo specchio delle aspirazioni interiori. Quando evolve, accelera il percorso spirituale e ci aiuta a ritrovare la connessione con il Divino. Come in una scalata, ogni passo di fede sostiene il passo successivo di coscienza, e viceversa.

    “La fede non deve essere cieca. Deve essere una fede consapevole della nostra essenza divina.”    — Swami Vivekananda

Lo Yoga ci fornisce strumenti concreti per sperimentare questa verità. La conoscenza teorica è utile, ma non sufficiente: solo la pratica, Abhyasa, rende reale la trasformazione. 

    “Lascia questo libro e vai a praticare.” — Swami Sivananda

Unione e realizzazione: il fine ultimo del cammino.  Come ricorda la Bhagavad Gita (II, 46):     “Per colui che conosce il Brahman, i Veda sono della stessa utilità di un piccolo serbatoio d’acqua quando l’alluvione arriva da ogni lato.”.

Persino le scritture sacre diventano superflue quando si realizza direttamente l’unità tra Atman e Brahman. L’ignoranza spirituale è l’unico vero ostacolo. La vera conoscenza non è concettuale, ma esperienziale.   Solo la pratica meditativa può operare questa trasformazione e ricondurci a ciò che siamo da sempre: Ananda, la beatitudine divina.

sabato 2 agosto 2025

Karma, Dharma, Viveka e Vairagya

Nelle filosofie dello Yoga e del Vedanta esistono concetti cardine, veri e propri perni attorno ai quali ruotano entrambi i sistemi. Uno di questi è il Samsara, il ciclo delle nascite e delle morti, spesso raffigurato come una ruota. A questa ruota è incatenato il Jiva, l’individuo composto da Atman – la parte divina – e dalle Upadhi, gli attributi limitanti (corpo, prana e mente), con cui il Jiva si identifica erroneamente, dimenticando la sua vera essenza divina.  Nel mondo di Prakriti, la Natura, ogni cosa – che sia una cellula, una pianta, un animale, un essere umano o l’intero universo – nasce, si sviluppa, decade e muore. In questo andamento ciclico, la morte non è un evento definitivo, ma semplicemente un passaggio, un cambiamento di forma.

Secondo la teoria del Samsara, alla morte, il corpo fisico – composto dai cinque elementi (pancha bhuta: terra, acqua, fuoco, aria, etere) – torna agli elementi originari. Il corpo astrale, invece, formato da mente e prana, conserva tutte le esperienze accumulate nelle varie vite, contribuendo alla formazione del carattere nella successiva incarnazione. Dopo un periodo di attesa, il corpo astrale si reincarna in una forma adatta alle sue esigenze karmiche, per continuare il cammino verso il Brahman, l’anima cosmica da cui tutti proveniamo e a cui tutti apparteniamo.

Le leggi spirituali: Karma, Dharma, Viveka, Vairagya.  La velocità e il modo in cui il Jiva si avvicina alla Moksha, la liberazione dal ciclo delle rinascite, dipendono da quattro principi fondamentali: 

  •     la legge del Karma (azione),
  •     il rispetto del Dharma (dovere),
  •     il Viveka (discernimento tra reale e irreale),
  •     e il Vairagya (distacco).

Questi non sono semplici concetti, ma leggi immutabili della realtà in cui viviamo. Come è impossibile scrivere correttamente senza conoscere le regole grammaticali, o costruire senza comprendere le leggi della fisica, allo stesso modo non è possibile raggiungere l’emancipazione spirituale senza conoscere e rispettare le leggi della vita interiore.

Swami Sivananda paragona il Jiva a un comandante di nave: solo chi conosce le regole della navigazione e possiede una bussola affidabile può condurre la propria nave in porto, tra tempeste e bonacce, senza perdersi.

La parola Karma deriva dalla radice sanscrita kri, “fare, agire”, e significa appunto “azione”. Secondo questa legge, a ogni azione corrisponde una reazione. A livello fisico ciò è evidente (premiamo l’interruttore e si accende la luce), ma sul piano esistenziale, soprattutto se considerato su molteplici vite, la dinamica diventa più sottile e complessa.

È essenziale comprendere che per “azione” non si intende solo ciò che facciamo, ma anche ciò che pensiamo e diciamo. I pensieri sono la radice delle parole e delle azioni. Le intenzioni contano persino più dei gesti stessi: un chirurgo e un assassino possono compiere lo stesso atto fisico (tagliare), ma lo scopo è opposto.  

  •     “Siamo ciò che pensiamo”:        
  •     un pensiero ripetuto (vritti) diventa abitudine (samskara),
  •     le abitudini formano i tratti caratteriali (vasana),
  •     e il carattere crea il destino (Karma).

Nella Bhagavad Gita, Krishna afferma:     “Colui che, trattenendo gli organi di azione, siede pensando agli oggetti dei sensi, egli, la cui comprensione è velata dall’illusione, è ciò che chiamiamo un ipocrita.” (B.G. III, 6).    Non basta rinunciare esteriormente ai sensi: la rinuncia autentica avviene solo quando si è sradicato anche il desiderio. La spiritualità autentica richiede coerenza tra pensiero, parola e azione. L’ipocrisia nasce quando si fa una cosa ma se ne pensa un’altra. Anche Gesù criticava i “sepolcri imbiancati”, coloro che apparivano puri ma agivano nel segreto con egoismo.

La legge di causalità.  Secondo la dottrina del Karma, ogni evento – una nascita, una guerra, un’illuminazione – ha una causa profonda. Nulla è casuale. A ogni causa corrisponde un effetto e viceversa: il seme genera l’albero e l’albero produce un nuovo seme. Le nostre esperienze attuali sono il frutto di azioni compiute in vite precedenti.

Il Karma è giusto e inesorabile: chi compie il male e crede di averne evitato le conseguenze eludendo la giustizia umana si illude. Ogni azione ha una reazione equivalente. Il Karma è un meccanismo di compensazione che mantiene l’equilibrio del cosmo. È la nostra ignoranza che ci impedisce di vedere le connessioni e riconoscere il disegno più grande.       “La ricompensa di una vita ben vissuta è la stessa vita ben vissuta.”      Una vita condotta con sincerità, etica e pace interiore porta serenità, indipendentemente dalle sfide.

Lo Yoga distingue tre tipi di Karma:

  •     Sancita Karma: l’insieme di tutti i Karma accumulati nelle vite passate.
  •     Prarabdha Karma: la parte di Karma che in questa vita si manifesta e deve essere vissuta.
  •     Agami Karma: il Karma che creiamo nel presente e che darà frutti nelle vite future.

Una metafora li chiarisce bene:     la faretra piena è il Sancita,     la freccia già scoccata è il Prarabdha,     quella che stai per lanciare è l’Agami.

Il Prarabdha non può essere evitato, nemmeno dagli Yogi più avanzati. Tuttavia, attraverso la Brahma Jnana, la realizzazione del Sé, si possono bruciare sia il Sancita che l’Agami. Solo il Prarabdha rimane da vivere.

Karma e reincarnazione.  Krishna, nella Bhagavad Gita, risponde alla domanda di Arjuna su cosa accade a chi intraprende il cammino dello Yoga senza raggiungere la liberazione:    “Non sarà mai perduto, in questo mondo o nella prossima vita. Chi si impegna in attività benefiche non farà mai una brutta fine... rinasce nella casa di saggi yogi... recupera le realizzazioni della vita precedente e riprende il cammino.” (B.G. VI, 41-44)

Il Karma non è fatalismo. È il punto d’incontro tra libero arbitrio e responsabilità. Nasciamo in una certa famiglia, cultura e corpo non per caso, ma come conseguenza delle azioni passate. E siamo liberi, oggi, di agire per creare un nuovo destino.

Karma collettivo e il gioco della vita. Il Karma non è solo individuale. Esistono Karma familiari, sociali, nazionali, planetari e cosmici. Ogni interazione tra individui avviene perché i rispettivi Karma lo richiedono. Spesso anime condividono molte vite insieme, con ruoli e generi diversi.  Krishna afferma:     "Io e te abbiamo conosciuto molte vite. Io le ricordo tutte, ma tu no." (B.G. IV, 5)

E questo è un bene. Ricordare tutte le vite precedenti creerebbe grande turbamento. La vita è un’enorme recita, un gioco divino: il Lila. In questa rappresentazione, gli individui cambiano ruoli con un unico fine: l’evoluzione spirituale. Comprendere il Karma e il Lila ci permette di vivere con più leggerezza e saggezza, sapendo che ciò che sembra tragico è parte di un disegno più grande. La vita è un sogno divino, e noi ne siamo allo stesso tempo sognatori, sogno e personaggi del sogno. 

venerdì 1 agosto 2025

Musiche per la meditazione

Vi suggerisco di ascoltare queste musiche che trovate su YouTube: della musicista Deva Premal,  del musicoterapeuta Rino Capitanata, del maestro di Canto Vedico, Sitar e di altri strumenti musicali dell'India,   Krishna Das

Deva Premal,  sito ufficiale: https://devapremalmiten.com/   https://www.youtube.com/watch?v=4IFlaG45xM8

Rino Capitanata,   sito ufficiale:  https://www.rinocapitanata.it/ https://www.youtube.com/watch?v=E7oQ6hDFoKs

Krishna Das,  sito ufficiale:  https://www.krishnadas.it/intoita.htm      https://www.youtube.com/watch?v=PTc8X37oJBE      https://www.youtube.com/watch?v=LEeMdzKSFp8

La recitazione del mantra Om Mani Padme Hum

  • https://www.youtube.com/watch?v=iG_lNuNUVd4
  • https://www.youtube.com/watch?v=1qFaeZ8LLmI

La  handpan music di  Malte Marten & Konstantin Rössler:  https://www.youtube.com/watch?v=HtvaS8gxFY0 

 

Deva Premal è una musicista nota per la sua musica new-age e meditativa, che miscela antichi mantra buddisti e sanscriti così come canti in altre lingue con arrangiamenti musicali d'atmosfera. Premal ha incontrato il suo compagno di vita e musica, Miten, ex voce dei Fleetwood Mac presso la Osho Ashram di Pune, in India nel 1990, dove studiava riflessologia, shiatsu, terapia cranio-sacrale, e massaggi. Sono stati in tour insieme dal 1992, offrendo concerti e laboratori di canto in tutto il mondo.

E' una musicista di formazione classica che è cresciuta cantando mantra in una casa tedesca permeata di spiritualità orientale. I suoi album sono in cima alle classifiche New Age in tutto il mondo fin dalla sua prima versione, The Essence (1998), che contiene il Gayatri Mantra. Insieme a Miten con la casa discografica, Prabhu Music, ha venduto oltre 900.000 album.

Deva Premal iniziò il suo percorso con il mantra nel grembo di sua madre, mentre il padre le cantava da solo il Gayatri Mantra uno dei mantra più sacri del Sanatana Dharma. Questo mantra ha continuato ad essere per molti anni  la sua ninna nanna. Molti anni dopo, ha sentito un amico cantare la Gayatri ed è stata ispirata a mettere insieme un album evidenziandone la  sacralità. Premal e Miten registrano The Essence (1998) nell'appartamento di sua madre in Germania, dove è nata e dove ha sentito  per la prima volta il Gayartri Mantra.

Nel luglio 2005,  lei e Miten cantano per il padre di lei che stava morendo;:  abbiamo continuato a cantare per più di mezz'ora, quando improvvisamente il monitor ha mostrato che ci stava per lasciare. Ho continuato a cantare, e l'ultimo suono che ha sentito mentre se ne andava fu il suo amato Gayatri Mantra. Finalmente abbiamo finito con il mantra Om e il cerchio era completo. Mi aveva accolto su questo pianeta con il Gayatri, e lo ho accompagnato fuori da questa esistenza fisica con esso. Che benedizione  è stata questa per me! e 'stata la prima volta che io ero presente ad una morte ed essere a  quella di mio padre è un ricordo che porterò nel cuore tutta la vita .

Deva Premal ha parlato del potente effetto di questi mantra cantati; il significato letterale  è secondario. Ad esempio in sanscrito, la parola Ananda è la vibrazione sonora di beatitudine. Nel suono stesso vi è  l'energia di beatitudine che lavora a livello cellulare.

Deva Premal e Miten hanno suonato per il Dalai Lama malato nel corso di una conferenza del 2002 a Monaco di Baviera. Deva Premal e Miten utilizzano un processo di selezione naturale per scegliere i mantra dei loro album. Premal preferisce cantare i mantra in sanscrito, piuttosto che in altre lingue. Lei dice che, così, rimuovendo il suo ego dalla comprensione del mantra permette il processo creativo di esprimere il vero significato del mantra.

Rino Capitanata, è un noto musicista, compositore, nonché musicoterapeuta. Ha creato melodie ispirate e curative che accompagnano le potenti sillabe vibrazionali sciamaniche di Selene Calloni Williams, scrittrice, life-coach e Direttrice di Imaginal Academy.

Attraverso “Mantra Sciamanici” l’ascoltatrice/ascoltatore vivrà una vera e propria iniziazione. Un’iniziazione che permette di stimolare un risveglio della coscienza, capace di aprire la mente e il cuore. Le armonie sonore e i ritmi, uniti ai mantra, aiutano a superare i confini dell’Io, per abbracciare una visione più ampia, non più limitata, in sintonia con le energie del macrocosmo.
Non è necessario “comprendere” il Mantra, non è necessario interpretarlo con la mente razionale, poiché agisce attraverso la sua energia sonora, attraverso le sue vibrazioni e le sillabe dall’alto potere spirituale. Ogni Mantra emana una specifica energia, un particolare e profondo “messaggio”.

Il potere vibrazionale dei Mantra supera ogni confine, di tempo, di spazio, e supera anche gli steccati culturali. Proprio perché vanno oltre la dimensione intellettuale, tutti possono ascoltarli e invocarli. 
Sono ideali anche per praticare yoga, o come tappeto sonoro per sedute di Reiki, massaggi ayurvedici o, semplicemente, per rilassarsi e allontanarsi dai tumulti caotici della società dei consumi. 
Rino Capitanata canta mantra e produce suoni che parlano al Cuore e che aiutano a riconnetterci con la nostra dimensione più profonda, in simbiosi con la natura e con le energie del cosmo. 

 Krishna Das è maestro di Canto Vedico, Sitar e di altri strumenti musicali dell'India, tra i quali Surbahar, Saranghi, Harmonium, ecc.     Molto apprezzato sia in India che in Occidente ove tiene stage e concerti per sei mesi all'anno, ha dedicato la sua vita alla musica in cui sa infondere profondo senso di gioia e di incanto interiore. 

Krishna Das è conoscitore ed interprete della cultura Vedica, in grado di trasmettere con la sua musica le profonde sensazioni di quella antica filosofia di vita. Il maestro Krishna Das, da anni compone ed incide musica trascendentale, "musica dell'anima" con lo scopo di portare l'ascoltatore in profondo stato di rilassamento e di meditazione, raggiunti attraverso Mantra e Nada (yoga del suono) che sono due aspetti dello Yoga, delle tecniche dei suoni e delle vibrazioni trascendentali, nate in India più di 5000 anni.  Questo tipo di pratiche portano all'individuo una condizione ottimale per quanto riguarda l'equilibrio psicofisico. I suoni trascendentali hanno la capacità di agire sul corpo sottile dell'essere vivente, in modo particolare dell'essere umano, portandolo a contatto con il proprio sé. La medicina occidentale ha confermato le molteplici proprietà terapeutiche di questo tipo di pratiche sonore adottate dal maestro Krishna Das, chiamandole con il termine di "musico-terapia".  Il maestro Krishna Das in decenni di permanenza in India è stato allievo di grandi maestri spirituali ed artistici. In particolare ha ricevuto la sua iniziazione artistica dal grande maestro Pandit Ravi Shankar. 

YogaPills e Yogapedia - l'enciclopedia dello yoga

Yoga Pills è un mini portale dello yoga dedicato a tutti i praticanti appassionati di yoga, dai principianti agli insegnanti.   Si tratta di un'iniziativa senza fini di lucro, con lo scopo di favorire la diffusione e la comprensione di questa antica e affascinante disciplina e fornire utili informazioni e servizi.  Vedi:       https://www.yogapills.it/       

E' inoltre promotore di un ambizioso progetto collaborativo ovvero Yogapedia.it,  la prima enciclopedia italiana interamente dedicata allo yoga.    Vedi:   https://www.yoga-magazine.it/2017/01/yogapedia-it-la-enciclopedia-italiana-libera-interamente-dedicata-allo-yoga/      

Yoga Magazine:   https://www.yoga-magazine.it/

Esempi di contenuti:  

  • Principali Maestri yoga ....   https://www.yogapedia.it/index.php?title=Maestri_dello_Yoga
  • Come costruire una sequenza yoga  https://www.yogapills.it/come-costruire-una-sequenza/

Asana riconosciuti utili per l’umanità

 Asana riconosciuti utili per l’umanità           

Le posizioni sono state prese dai testi Gheranda Samhita, e Hatha Yoga Pradipika.

  1. 1. Bhujangasana, posizione del cobra,

  2. Shalabasana, posizione della cavalletta,

  3. Ustrasana, posizione del cammello,

  4. Garudasana, posizione dell’aquila,

  5. Makarasana, posizione del coccodrillo,

  6. Vrsasana, posizione del toro,

  7. Vrksasana, posizione dell’albero,

  8. Uttanamandukasana, posizione della rana,

  9. Mandukasana, posizione della rana,

  10. Uttanakurmasana, posizione della tartaruga,

  11. Kurmasana, posizione della tartaruga,

  12. Kukkutasana, posizione del gallo,

  13. Mayurasana, posizione del pavone,

  14. Sankatasana, posizione dell’orso,

  15. Utkatasana, posizione della sedia,

  16. Paschinottanasana, posizione della pinza

  17. Matsyendrasana, posizione del nodo,

  18. Matsyasana, posizione del pesce,

  19. Guptasana, posizione perfetta,

  20. Shavasana, posizione del cadavere,

  21. Dhanurasana, posizione dell’arco,

  22. Virasana, posizione dell’eroe,

  23. Gomukhasana, posizione del muso di vacca,

  24. Simhasana, posizione del leone,

  25. Svastikasana, posizione attraverso,

  26. Vajrasana, posizione del fulmine,

  1. Muktasana, posizione perfetta,

  2. Bhadrasana, posizione felice,

  3. Padmasana, posizione del loto,

  4. Siddhasana, posizione del perfetto.


Nel testo Hatha Yoga Pradipika sono riportate anche le seguenti posizioni: Kurmasana o Koormasana, Uttana korme shavasana.

Alexandra David-Néel – Una vita straordinaria

Chi era davvero Alexandra David-Néel? Una cantante lirica? Una viaggiatrice instancabile? Una filosofa, una mistica, un'esploratrice o forse una pioniera dello spirito? La risposta è: tutte queste cose, e molto di più. In un'epoca in cui le donne avevano ruoli rigidamente stabiliti e la spiritualità orientale era ancora un mistero per l'Occidente, Alexandra infranse ogni barriera. Fu la prima donna europea a penetrare nel cuore segreto del Tibet, travestita da pellegrina mendicante, affrontando ghiacciai, deserti e pericoli mortali con una determinazione che ha dell'incredibile.          

Dotata di un'intelligenza vivace, uno spirito ribelle e una volontà di ferro, Alexandra scelse fin da giovane di sfuggire ai limiti imposti dalla società borghese per inseguire un ideale di libertà assoluta. Non accettò compromessi: abbandonò la carriera artistica, un matrimonio convenzionale e una vita comoda per esplorare mondi sconosciuti, incontrare lama, yogi e maestri spirituali, e diventare essa stessa una figura di riferimento nel buddhismo tibetano.

Il suo lungo viaggio, durato oltre quattordici anni, le permise non solo di penetrare in territori allora proibiti agli stranieri, ma anche di assimilare profondamente le filosofie orientali e riportarle in Europa con una competenza e una passione che ancora oggi affascinano studiosi e appassionati. La sua voce, attraverso i suoi numerosi scritti, continua a parlare di spiritualità, coraggio, autodisciplina e trasformazione interiore.  Questa è la storia di una donna fuori dal comune, di un destino scelto con fermezza, di un'anima in cammino verso la libertà, la saggezza e l'infinito.

Infanzia e primi anni. Alexandra David-Néel nasce il 24 ottobre 1868 a Saint-Mandé, vicino Parigi. Il padre, Louis David, è un insegnante e giornalista anticlericale, mentre la madre, belga e cattolica praticante, è molto severa. Fin dalla più tenera età Alexandra si distingue per un carattere ribelle e indipendente. A soli due anni compie la sua prima fuga, e a cinque anni scappa regolarmente di casa per raggiungere il Bois de Vincennes, dove racconta la sua infelicità agli alberi. Ricorderà sempre con amarezza l'assenza di tenerezza da parte della madre.

Durante l'infanzia, grazie al padre, incontra personaggi di spicco dell'ambiente letterario francese, tra cui Victor Hugo. Cresce tra Bruxelles e Parigi, divorando libri, in particolare i romanzi di Jules Verne, che alimentano la sua sete d'avventura. Da adolescente, inizia a leggere testi di filosofia, religione e spiritualità, spesso inadatti alla sua età, e manifesta una curiosità fuori dal comune.

A quindici anni, durante una vacanza in Olanda, fugge in Inghilterra. Cade in una profonda crisi esistenziale che la porta alla depressione, finché non incontra a 18 anni, in Belgio, il geografo anarchico Elisée Reclus, che la introduce al pensiero libertario, femminista e anarchico e la presenta ai membri della società teosofica. Questo incontro è decisivo: Alexandra comprende di voler vivere una vita libera, al di fuori delle convenzioni sociali.

Formazione e prime esperienze artistiche. Studia canto al Conservatorio di Bruxelles, dove ottiene un primo premio che le consente di intraprendere una carriera da cantante lirica. Viaggia in Europa per perfezionarsi: a Londra apprende l'inglese, e qui incontra Madame Morgan (facente parte della associazione Gnosi Suprema), che mette a disposizione di Alexandra libri sulla spiritualità, la filosofia zen. A Parigi studia il sanscrito presso la società teosofica. Frequenta gli ambienti intellettuali, la Società Teosofica e nel 1889, il Museo Guimet, appena inaugurato, che diventerà il suo vero tempio spirituale. Qui assiste a cerimonie buddhiste officiate da monaci asiatici e si avvicina al buddhismo Vajrayāna, la corrente esoterica che diventerà la sua principale via spirituale. Diventa una delle prime buddhiste di Parigi. Nel 1896 parte per la prima volta in l’India.

Nel 1900, a Tunisi, mentre si esibisce come cantante, incontra Philippe Néel, un ingegnere francese. Si sposano nel 1904, ma la loro relazione è anticonvenzionale: non ci sono grandi passioni, entrambi mantengono una vita indipendente. Alexandra inizia a viaggiare nel Nord Africa, mentre il marito (a cui ha dato il soprannome “mouchi”) ha altre relazioni. I due resteranno comunque legati per tutta la vita, continuando a scriversi per 37 anni. Philippe morirà nel 1941. Alexandra si domanderà molte volte se lo amava.

Il grande viaggio in Asia (1911–1925)- Nel 1911 pubblica un libro Le modernisme buddhique et le buddhisme du Buddha, poi, a 43 anni, Alexandra parte per un viaggio in Asia che durerà quattordici anni. Visita l'India del Sud, il Sikkim, il Giappone, la Corea, la Cina e infine il Tibet. Durante questo grande viaggio perfezionerà le sue conoscenze nel buddhismo e nell’induismo, Conosce illustri pensatori e rappresentanti religiosi. Il maharaja del Nepal la aiuta e gli mette a disposizione elefanti  e uomini. Con questa sete di conoscenza percorre regioni inesplorate a cavallo, o yak, portando con se una pistola che usa per respingere i briganti, scambia i suoi vestiti con vestiti locali, e durante questi viaggi si comporta come un vero capo usando a volte metodi rudi per esser e rispettata dai tibetani. Diventa a tal punto esperta del buddhismo tibetano che molti lama vengono a chiederle consigli. Diventa la prima donna Lama della storia. Aiuta il capo spirituale del Sikkim Sidkeong Tulku a riformare il buddhismo.  Incontra personalità religiose e politiche, tra cui il XIII Dalai Lama, con cui ha un incontro leggendario a Kalimpong nel 1912. È la prima donna occidentale a non prostrarsi davanti a lui, guadagnandosi la sua stima. Il Dalai Lama, colpito dalla sua preparazione, le fornisce un documento scritto con riflessioni su come comunicare il buddhismo agli occidentali, che verrà pubblicato sul Mercure de France.

Durante il viaggio approfondisce la filosofia buddhista e induista, impara la lingua tibetana e viene iniziata alle pratiche meditative più segrete, tra cui il Tummo, una tecnica di riscaldamento interiore. Vive per due anni in un eremo a 4.000 metri d'altezza nel Sikkim, dove riceve insegnamenti dal maestro del monastero di Lachen, che la ribattezza con il nome spirituale Yishe Tömé (Lampada di Saggezza).  Trascorre il periodo 1914-1916 come eremita, apprende la lingua tibetana e fu iniziata a tecniche particolari.

Nel 1914 incontra, presso il maestro Sidkeog, un ragazzo di 14 anni, Aphur Yongden, che diventerà il suo servitore, traduttore, segretario, confidente, compagno di viaggio e, infine, figlio adottivo. Lo adotterà ufficialmente nel 1929. Insieme scriveranno molte opere sul Tibet e condivideranno le più difficili avventure.

Incontra il panchen-lama a Tashilumpo nel 1916, e fu espulsa dal Sikhim dagli inglesi perché non aveva l’autorizzazione necessaria. Dopo un lungo pellegrinaggio in vari paesi dell’Asia, ritorna in Tibet passando per la Cina, e soggiornò al monastero di Kum-Bum. Da qui partì nel 1921 per andare a Lhassa.  I libri che scrive al suo ritorno fecero conoscere il Tibet meglio di qualsiasi altro specialista europeo

 Ritorno in Europa e ultimi viaggi.   Tornata in Europa nel 1925, Alexandra inizia a pubblicare numerosi libri che faranno conoscere il Tibet all'Occidente meglio di qualsiasi altro esploratore. Torna in Asia dal 1937 al 1946, ma a causa della Seconda Guerra Mondiale non può viaggiare liberamente. Rientra definitivamente in Francia a 77 anni e si stabilisce a Digne, nella casa chiamata Samten Dzong (fortezza della meditazione), oggi trasformata in museo.

Nel 1955 Yongden muore improvvisamente all'età di 56 anni, lasciando Alexandra devastata. Nonostante il dolore, continua a scrivere, studiare e ricevere visite fino all'ultimo.

Eredita e riconoscimenti.  Nel giugno 1959, a 91 anni a Aix-en-Provence, conosce Marie-Madeleine Peyronnet (aveva 28 anni e la famiglia era di origine algerine), che diventerà sua collaboratrice per dieci anni. Alexandra la chiama affettuosamente "la tartaruga". Peyronnet sarà la custode della sua memoria e contribuirà a conservare Samten Dzong come museo consacrato alla vita di Alexandra David-Neel.  Adesso a 86 anni, ancora continua a fare da guida e raccontare aneddoti su Alexandra,  lei che non era dotata per gli studi e non sopportava la vista di una penna è diventata donna di lettere, elevata a rango di “cavaliere delle arti e dei mestieri”.  Trova centinaia di lettere della corrispondenza (durante 37 anni) con il marito (14 chili di lettere)  e ne fa delle pubblicazioni postume che avranno un enorme successo editoriale.

Nel 1969, a 100 anni, Alexandra David-Néel viene insignita,  in presenza della sua segretaria Marie-Madeleine Peyronnet,  del titolo di “Commandeur de la Légion d'honneur”. Continua a leggere testi di tutti i tipi.   Muore l'8 settembre dello stesso anno, a 101 anni. 

Alexandra David-Néel è considerata la più grande esploratrice del XX secolo, una pioniera del dialogo tra Oriente e Occidente, iniziata al buddhismo esoterico e prima donna lama della storia. Il buddhismo per lei non era solo una religione, ma una scienza interiore che porta alla trasformazione di sé. «Chi non medita non può definirsi buddhista», affermava.   Secondo Matthieu Ricard, monaco buddhista e filosofo: «La meditazione buddhista è uno strumento per conoscersi e trasformarsi interiormente, per rispondere alle grandi domande dell’esistenza e trovare la vera felicità».

Alexandra David-Néel ha vissuto pienamente questa trasformazione, incarnando il coraggio, la determinazione e la sete di conoscenza.

Fumetti su Alexandra David-Neel    -  autori  Fred Campoy   - Matthieu Blanchot, 2016,  Bamboo Edition 

Alexandra David-Neel

Testo tratto da Fred Campoy, ispirato al libro di Marie-Madeleine Peyronnet   Dix ans avec Alexandra David-Neel 

Alexandra David-Néel muore l’8 settembre a Digne. Le sue ceneri, insieme a quelle del suo compagno di viaggio Yongden, vengono spedite in India, presso la Maha Bodhi Society di Calcutta. Marie-Madeleine Peyronnet, sua fedele collaboratrice, si reca a Benares per assistere alla cerimonia e disperdere le ceneri nel Gange (1973).

All'età di dieci anni, Alexandra lascia il pensionato protestante per trasferirsi in un convento cattolico. I genitori non andranno mai a trovarla, alimentando in lei un profondo senso di solitudine. Il suo orgoglio diventa così un rifugio. Diceva:  “I miei genitori, anche se non più cattivi di altri, mi hanno fatto più male di un nemico.

Riflettendo sulle religioni, Alexandra osservava la differenza tra Cristianesimo e Buddhismo: “Il Cristianesimo dice: ‘Rassegnati e accetta’. Il Buddhismo dice: ‘Combatti la sofferenza. Cessa di essere vittima della tua stessa ignoranza. Impara a conoscere la natura delle cose, conosci te stesso: la conoscenza ti renderà libero e felice’.

Fin da ragazza si appassiona alla filosofia buddhista e si promette che un giorno partirà per l’Asia, seguendo le orme del Buddha. Nel 1894, a 26 anni, si reca a Colombo, poi a Madurai, dove incontra il suo primo maestro indiano, Swami Bhaskarananda. Successivamente visita Sarnath e infine ritorna in Europa.   Nel 1911, a 43 anni, torna a Colombo per la seconda volta. Qui partecipa a dibattiti filosofici e religiosi. L’India rappresenta per lei una tappa fondamentale nel percorso spirituale, un luogo in cui si rende conto della futilità e dell’insignificanza dell’esistenza umana. L'anno successivo parte per Darjeeling e da lì per l'Himalaya, alla ricerca del Buddhismo autentico. “Himalaya” significa “dimora delle nevi”: Hima (neve) e Alaya (dimora).

Alexandra diventa scrittrice. Tra i suoi lavori vi è Le Grand Art, un manoscritto di 800 pagine sul canto, mai pubblicato. Collabora con diverse riviste femministe, tra cui La Fronde, fondata da Marguerite Duras. Sotto lo pseudonimo di Alexandra Myrial, viaggia in Francia, Europa e Indocina, esibendosi come cantante nei teatri per raggiungere l’indipendenza economica e l’emancipazione personale.

Nel 1900, a Tunisi, mentre si esibisce come cantante, incontra Philippe Néel, un ingegnere francese. Si sposano nel 1904, ma la loro relazione è anticonvenzionale: non ci sono grandi passioni, entrambi mantengono una vita indipendente. I due resteranno comunque legati per tutta la vita, continuando a scriversi per 37 anni. Philippe morirà nel 1941. Alexandra si domanderà molte volte se lo amava.

A Gangtok, in Sikkim, incontra Sidkeong Tulku, figlio del Maharaja del Sikkim. Grazie a lui, Alexandra entra in contatto con grandi eruditi del tempo e con il XIII Dalai Lama. Collabora con Sidkeong per introdurre riforme in Sikkim. In segno di riconoscenza, lui le dona una antica statuetta del Buddha che, dopo la sua morte, avrebbe dovuto essere restituita al monastero di Phodang.

Nel 1914 incontra, presso il maestro Sidkeog, un ragazzo di 14 anni, Aphur Yongden, che diventerà il suo servitore, traduttore, segretario, confidente, compagno di viaggio e, infine, figlio adottivo. Continua con Yongden le sue esplorazioni sull’Himalaya, dove incontra Gonchen di Lachen, un importante yogi che ha raggiunto un alto livello spirituale. Dopo vari tentativi, riesce a essere accettata come discepola, nonostante fosse donna e straniera. Si ritira con Yongden per due anni in un eremo a 4.000 metri d’altitudine, dove pratica la meditazione profonda.  

Durante una di queste sessioni, sperimenta il samadhi: uno stato di beatitudine e si sente parte dell’universo, libera dalla sofferenza, pura energia, puro amore. È consapevole, nel profondo, che ciò che è non può cessare di essere.

Il 5 dicembre 1914, Sidkeong Tulku muore. Nel 1916, dopo essere stata chiamata “Lampada di saggezza”, lascia l’eremo per diffondere il Dharma a beneficio di tutti gli esseri senzienti. Da una lettera risulta che venne espulsa dal governo britannico e fu costretta a lasciare Rangpo per Darjeeling.

Dopo il Sikkim, si reca in Cina, nel grande centro di studi buddhisti di Kumbum, che ospita una vasta biblioteca di testi sacri tibetani. Qui approfondisce la pratica dei “tulpa”,  le manifestazioni mentali. 

Nel 1921 riparte da Kumbum, attraversa la Cina settentrionale e, nell’ottobre del 1923, decide di tentare nuovamente di entrare in Tibet. Raggiunge Lhasa nel 1924.

Nel 1925, dopo 14 anni trascorsi in Asia, fa ritorno a Parigi. Pubblica Viaggio di una parigina a Lhassa e inizia a tenere conferenze insieme a Yongden. Vivono a Marsiglia: lei ha 57 anni, lui 43.

Nel maggio 1928 acquista una casa a Digne-les-Bains che trasforma e ribattezza Samten Dzong, “Fortezza della Meditazione”. Qui, con l’aiuto di Yongden, inizia a scrivere e a tradurre testi sacri.

Nel 1937, a 69 anni, parte nuovamente per l’Asia con l’intento di approfondire il Taoismo e altre vie spirituali. Nel gennaio arriva a Pechino e visita le montagne sacre di Wutai Shan. In Cina infuria la guerra civile, e Alexandra cerca un luogo sicuro. Nel febbraio 1941 apprende della morte del marito Philippe Néel, che considerava il suo miglior amico. Alexandra ha 73 anni e ormai può contare solo su sé stessa.

Nel luglio 1946 fa ritorno a Digne e si dedica al lavoro di orientalista. Insieme a Yongden traduce numerosi testi tibetani. In dieci anni scrive nove libri.

A 82 anni si reca al lago d’Allos (2.228 metri) in pieno inverno per rivivere l’atmosfera dell’Himalaya. Nel 1955 Yongden muore, lasciandola sola.

Nel 1982, in occasione del suo primo viaggio in Francia, il XIV Dalai Lama visita Digne per inaugurare una stele commemorativa in onore di Alexandra. È una vera consacrazione postuma. Il Dalai Lama le rende omaggio a nome del popolo tibetano: “Chi viaggia senza incontrare l’altro, non viaggia, si sposta soltanto.

Citazione dalla Bhagavad Gītā:   “Ciò che è stato, non può cessare di essere.

Nel 1986, il Dalai Lama compie una seconda visita a Digne.

Il Buddhismo Vajrayana

Il ramo esoterico del buddhismo, noto come Vajrayāna o "Veicolo del Diamante", nasce in India nel VII secolo e si diffonde successivamente in Tibet grazie al grande maestro Padmasambhava. Questa tradizione sostiene che sia possibile raggiungere la liberazione nel corso di una sola esistenza, attraverso l'impiego di potenti mezzi di trasformazione sia fisici che psichici.    

Fondamentale in questo percorso è l’iniziazione del discepolo, che deve avvenire per mano di un maestro spirituale, chiamato guru o lama. La pratica liturgica del Vajrayāna è ricca di simbolismi: prevede gesti rituali codificati, la recitazione di mantra, e la visualizzazione di divinità, elementi tutti integrati nel processo di trasformazione interiore.

Tra le divinità più celebri e temute vi è Mahavajrabharava. Le figure divine femminili, invece, rappresentano la saggezza e la conoscenza; un esempio emblematico è quello delle dakini, termine che significa “coloro che danzano nel cielo”. Le dakini sono spesso interpretate come donne che hanno raggiunto un elevato grado di realizzazione spirituale.

L’iconografia tibetana include anche rappresentazioni dei mahasiddha, i grandi realizzati: asceti e yogi vissuti in India tra il VI e l’XI secolo, il cui insegnamento ha avuto una profonda influenza sullo sviluppo del buddhismo tibetano. Tra essi si ricorda Naropa (1016–1100), associato alla pratica yogica del tummo, una tecnica attraverso la quale le energie interne dei canali laterali vengono canalizzate nel canale centrale, accompagnata da visualizzazioni e tecniche di respirazione. Questa pratica conduce l’adepto all’esperienza della “felicità-vacuità”.

Un importante supporto alla meditazione è costituito dai thangka, pitture religiose realizzate secondo rigide regole iconografiche. Queste opere, pensate per essere arrotolate, possiedono anche una funzione protettiva.   

Tra gli oggetti rituali utilizzati vi sono il vajra (simbolo di fulmine e diamante), emblema dell’indistruttibilità, della purezza e dell’illuminazione, e la campanella. Questi strumenti sono impugnati rispettivamente con la mano destra e la sinistra: la prima rappresenta il principio maschile e la compassione, la seconda il principio femminile e la conoscenza. Nei monasteri tibetani si tengono anche cerimonie con danze rituali in maschera (cham), eseguite dai monaci, che mettono in scena divinità e maestri spirituali, come ad esempio Padmasambhava.

Nel corso dell’XI secolo, durante il consolidamento del buddhismo in Tibet, si sviluppano i principali ordini monastici, sostenuti da importanti famiglie nobili. L’ordine dei Nyingmapa, il più antico, trae origine dall’opera di Padmasambhava e include sia monaci sia yogi laici e sposati.

Un altro importante lignaggio è quello dei Kagyupa, all’interno del quale si distingue il ramo del Karmapa, strettamente legato agli insegnamenti dei Mahasiddha indiani. Tra le figure di riferimento spicca il poeta mistico Milarepa (XI secolo), noto per aver condotto una lunga vita di ascesi ed eremitaggio.

L’arte tibetana, comprendente statue e dipinti, è realizzata secondo precise regole iconografiche e ha la funzione di supportare la pratica meditativa. Queste opere rappresentano le energie spirituali evocate per contrastare le forze che ostacolano il risveglio.

Tra i reperti rituali tibetani figurano anche i phurba (o pourba), pugnali rituali ritenuti dotati di potere magico. Secondo la tradizione, il semplice toccarli potrebbe portare grandi sventure.

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