venerdì 1 agosto 2025

Il tradimento dello yoga

POST di Simone Carbonardi  su Facebook: https://www.facebook.com/groups/442250463745970/posts/1246087630028912/   Turiya Yoga Academy (https://turiyayoga.it/ Frosinone-RM)          

Lo yoga, così come viene rappresentato oggi, è vittima di un tradimento. Non è una crisi della disciplina in sé, ma del modo in cui viene insegnata e compresa. Il problema non sta nella sua diffusione globale, che è oggi più ampia che mai, ma nella frammentazione e semplificazione operata dai sistemi formativi, che svuotano lo yoga della sua essenza, trasformandolo in un prodotto accessibile e immediato, ma privo della profondità che lo caratterizza.
 
Eppure, anche nella sua parzialità, lo yoga dimostra una forza straordinaria. Le asana, ridotte spesso a posture fisiche, portano benefici tangibili, alleviano dolori, migliorano la qualità della vita. Questo ci ricorda quanto fosse potente lo yoga nella sua unità: una scienza talmente completa che anche un frammento isolato riesce a trasformare. Ma questa realtà non deve farci dimenticare l’importanza di rappresentare lo yoga nella sua totalità. Se una parte della disciplina può fare tanto, cosa potrebbe accadere se fosse insegnata e praticata nella sua completezza?

Il tradimento dello yoga non risiede nei praticanti o nella loro ricerca di sollievo, ma nel sistema che ha dimenticato la centralità dello studio teorico, ignorando il legame indissolubile tra teoria e pratica. Questo tradimento si manifesta nei corsi istruttori, dove il tempo è dedicato principalmente a posture, allineamenti, accenni al corpo energetico e persino al marketing, mentre la teoria che dà significato a queste pratiche è relegata a un ruolo marginale o del tutto assente.
 
Sono corsi distruttori di Yoga se non ti insegnano l'integrità di un testo ed una pratica che ne rispecchi la portata in ogni ambiente tecnico ad esso associato che sia corpo, respiro, mente o connessione spirituale.
Lo yoga è innanzitutto una scienza della mente, e i suoi strumenti operano per trasformare e armonizzare i processi mentali. Tuttavia, il sistema formativo moderno ha invertito l’ordine naturale: si parte dal corpo, senza comprendere la mente. Questo approccio non solo tradisce la disciplina, ma priva chi vi si avvicina della possibilità di sperimentarla nella sua totalità. Prima di muovere il corpo, è necessario studiare. Prima di adottare una postura, bisogna sapere cosa questa postura rappresenta, quale scopo serve e quale percorso teorico la sostiene.
Solo per darvi una piccola contezza della materia in una sua sintetica ma almeno rappresentativa totalità e non in una bieca seppur magica e benefica parzialità.
 
Gli Yoga Sutra di Patanjali offrono una guida completa per comprendere lo yoga nella sua interezza. Questo testo non è una semplice raccolta di precetti, ma un manuale sistematico che integra teoria e pratica. I suoi quattro capitoli — il Samadhi Pada, il Sadhana Pada, il Vibhuti Pada e il Kaivalya Pada — descrivono un percorso progressivo e coerente per comprendere, praticare e vivere lo yoga.
Il primo capitolo, il Samadhi Pada, è la base teorica dell’intero sistema. Descrive la mente, i suoi processi e gli stati di consapevolezza, fornendo una mappa dettagliata per raggiungere il samadhi, lo stato di unione e stabilità che elimina gli errori cognitivi alla radice della sofferenza. Il secondo capitolo, il Sadhana Pada, introduce la Ashtanga Yoga, un sistema di strumenti pratici che lavorano direttamente sul karmashaya, il deposito delle impressioni mentali. Questi strumenti, spesso ridotti a tecniche isolate, sono invece parte di un sistema che guida la mente verso la liberazione.
Solo per creare un po' di curiosità in più sul tema più bistrattamente estrapolato da questo testo rappresentato proprio dall'ashtanga Yoga.
L'Ashtanga , spesso frainteso, comprende otto rami che operano in sinergia e descrivono un corpo unico chiamato nella sua interezza Yoga sempre se compreso attraverso l'interezza del testo e non solo attraverso questa semplicistica rappresentazione che nasce e si emancipa per la finalità del secondo capitolo. Gli Yama e i Niyama, che aprono questo sistema, non sono semplici regole morali, ma strumenti per armonizzare la mente. Gli Yama lavorano sulla relazione tra interno ed esterno, aiutando a stabilire una base di equilibrio mentale implementando un sistema di lavoro e di armonizzazione del nostro passato affinché il nostro presente si relazioni meglio con il contesto, rappresentano di fatto gli strumenti di una parte della disciplina che corrisponde alla psicologa analitica dello yoga. I Niyama, invece, guidano verso un lavoro più introspettivo, permettendo una taratura precisa della strumentazione visiva indirizzandola dall'interno verso l'esterno in maniera più efficiente. Asana, spesso ridotto come concetto ad esercizi fisici, ha una funzione ben più profonda: stabilizzare la mente attraverso ogni terreno di studio nel quale si vorrà esperire la pratica. Il pranayama che permette al praticante di cominciare ad estendere la propria consapevolezza sul comparto energetico che ci permette ogni lavoro conoscitivo. Il pratyahara, il ritiro dei sensi, rappresenta la sospensione della propensione mentale verso l’esterno, preparando il praticante a concentrare l’attenzione sul piano mentale nella sua più profonda interezza.
Pratiche che culminano in dharana (ritenzione dell’attenzione) il primo allenamento per stabilizzare la mente allenandola a ritenere la propria attenzione in maniera concentrata su un oggetto. Solo attraverso questo processo si arriva a dhyana, pratica di osservazione continua che apre la consapevolezza ad uno studio crescente su vari piani di espansione che utilizzano i vari aspetti grossolani e sottili che eruttano dall'oggetto che prendiamo in esame.
Questo sistema non è un insieme di tecniche isolate, ma un percorso integrato che richiede una comprensione teorica profonda per essere praticato correttamente. Tuttavia, nei corsi istruttori moderni, questa teoria è spesso assente o trattata in modo superficiale. Questo tradimento della base teorica svuota le pratiche del loro significato e priva gli aspiranti insegnanti della capacità di trasmettere lo yoga nella sua vera essenza.
Il problema si riflette anche nel tipo di pubblico che accede a questi corsi. Lo yoga moderno è diventato accessibile principalmente a chi cerca un’esperienza fisica o una risposta immediata a problemi specifici. Non invita alla complessità, ma la semplifica, offrendo una versione frammentata che non rappresenta la totalità della disciplina. Questo non significa che chi vi si avvicina non abbia domande profonde o legittime, ma che il sistema non è in grado di rispondere a queste domande in modo adeguato se non per qualche rara perla in evoluzione personale o a quei rari che anche utilizzando un mezzo parziale abbiano saputo perforare quel recinto nel quale ci siamo autorinchiusi.
Lo yoga ha un compito straordinario: eradicare la sofferenza. Ma per farlo, deve essere rappresentato nella sua totalità, rispettando la sua integrità teorica e pratica. Ogni pratica deve riflettere fedelmente la teoria che la sostiene. La meditazione, ad esempio, non è un atto isolato, ma un risultato progressivo che richiede disciplina e un protocollo strutturato, come descritto negli Yoga Sutra. Non possiamo continuare a proporre un sistema frammentato, che ignora la complessità dell’essere umano e riduce lo yoga a una serie di tecniche.
Questo è il tradimento dello yoga. E questa è la sfida: restituirlo alla sua integrità, affinché possa tornare a essere ciò che è sempre stato — la più grande scienza psicologica mai concepita, un sistema completo per trasformare la mente, il corpo e la relazione tra di essi e ancora di più: rompere la bolla che crea la più grande errata percezione che si auto-replica nel mondo portandoci in condizione di sofferenza rappresentata dall'incapsulamento dell'esistenza in un ego incapace di liberare la sua vera e potente natura infinita. Solo allora potrà compiere il suo scopo più alto: portare l’umanità oltre la sofferenza, verso una libertà autentica e duratura.
 
La Darshana Yoga, una disciplina millenaria di trasformazione interiore, è stata in gran parte ridotta da una continua errata rappresentazione, nel panorama moderno, a un insieme di parzialità che vengono continuamente diffuse a promulgate a partire dai corsi istruttori che per lo più si occupano di posture fisiche, comparto medicale e una mistura di tecniche superficiali prese anche da contesti non relativi allo yoga.
Questa frammentazione ha tradito la profondità della sua visione originaria, ma al contempo ha creato un'opportunità straordinaria: ripensare lo Yoga per riconnetterlo alla sua essenza e trasformarlo in uno strumento universale per elevare di nuovo l’uomo ad operare da punti di vista più vicini all'umanità che ad uno stampo totalmente personalistico.
Non si tratta di rifiutare ciò che lo Yoga moderno ha costruito, ma di integrare e trascendere la visione riduttiva per restituirgli il suo potenziale trasformativo.
Viviamo nel Kali-Yuga, un’epoca di frammentazione e dispersione mentale, in cui la mente è dominata dagli oggetti sensoriali e sempre più privata della sua capacità discriminatoria. In questo contesto, lo Yoga moderno ha offerto una porta d’accesso preziosa attraverso le posture fisiche, erroneamente definite asana il cui termine avrebbe da regalare molto di più alla disciplina ed anche alle stesse posizioni se meglio compreso. Pratiche che rappresentano comunque un punto di partenza straordinario per molti, consentendo loro di iniziare un viaggio di consapevolezza attraverso il corpo. Tuttavia, è necessario riconoscere che le posture sono solo uno dei possibili punti di partenza nel quale, la continua reiterazione di questa perversa cognizione ci ha condotto, di sicuro non il fine ultimo dello Yoga.
La vera essenza dello Yoga si trova nella trasformazione della mente. Gli Yoga Sutra di Patanjali, il testo fondamentale della disciplina, ci insegnano che il lavoro reale dello Yoga è rivolto alla mente. Il Sutra 2.11, in particolare, sottolinea che il primo compito del praticante (sadhaka) è attenuare le afflizioni mentali (klesha), poiché senza questo lavoro preliminare gli altri anga rimangono inaccessibili. Il primo anga che si incontra nel testo è Dhyana. Un protocollo meditativo ben strutturato è quindi essenziale per guidare la mente dalla dispersione verso la concentrazione e, infine, verso l’unità. Solo una mente libera dalle afflizioni può accogliere pienamente la pratica dello Yoga nella sua totalità.
L'allenamento alla ritenzione dell'attenzione in concentrazione su un fattore supportativo deve diventare nuovamente ciò che nello Yoga ha la possibilità di chiamarsi Pratica.
Questo percorso richiede un’integrazione graduale e progressiva della teoria e della pratica.
Gli Yoga Sutra rappresentano l’architettura teorica e pratica dello Yoga, offrendo gli strumenti per orientare il praticante verso una comprensione più profonda della disciplina.
Tra i quattro capitoli, il Samadhi Pada è il punto di partenza imprescindibile, poiché fornisce le basi per comprendere la mente e sviluppare la concentrazione. Una volta padroneggiata questa teoria, ogni tecnica può essere trasformata in un’opportunità di crescita. La teoria non è un vincolo, ma una guida che consente di valorizzare ogni pratica e di espandere la consapevolezza attraverso ogni esperienza della vita.
La chiave per costruire un protocollo meditativo efficace è un lignaggio autentico e ininterrotto. Solo un lignaggio che unisce la saggezza di generazioni può garantire la coerenza e la profondità necessarie per creare un sistema meditativo rappresentativo.
Il mio incontro con il lignaggio di Swami Rama e Swami Veda Bharati è stato fondamentale per comprendere questa visione. La meditazione supercosciente, sintetizzata da Swami Rama, incarna pienamente gli insegnamenti degli Yoga Sutra. Questo protocollo meditativo non solo libera la mente dalle distorsioni sensoriali, ma rende possibile integrare tecniche da ogni tradizione con discernimento e consapevolezza.
Solo quando si domina coerentemente lo Yoga ogni cosa diventa terreno di pratica ed ogni indirizzo tecnico possibilità di accrescimento verso sensibilità altre.
Uno degli errori più comuni nello Yoga moderno è il confinamento della pratica a determinati schemi fisici o mentali, creando una visione settaria e abilista che esclude chi non soddisfa certi criteri. Questa riduzione ignora la natura universale dello Yoga, che si adatta a ogni individuo e situazione. Una mente ben formata, invece, può trasformare ogni esperienza – ogni incontro, ogni pensiero, ogni oggetto materiale – in un’opportunità per praticare Yoga. Questo approccio elimina ogni limite imposto dalle circostanze fisiche o culturali, restituendo alla disciplina la sua universalità.
Sarà la devozione alla conoscenza della teoria che libererà la potente azione trasformativa dello Yoga.
Parallelamente, è necessario affrontare la questione della sostenibilità economica.
E' possibile bilanciare l’autenticità della tradizione con un approccio moderno che garantisca una base solida. Questo equilibrio permette di mantenere alta la qualità dell’insegnamento, assicurando dignità agli insegnanti e accessibilità agli studenti.
Le posture fisiche, utilizzate come catalizzatore di attenzione che riconosce pienamente l'errore cognitivo che imperversa nel mondo Yoga su ciò che sia effettivamente Yoga, riscoprono sempre più la loro opportunità quando si rivedono in funzione propedeutica raccogliendo ciò che il corpo, della disciplina, può contenere potendo poi sostenere un percorso più ampio che deve includere teoria, meditazione e quindi trasformazione interiore.
Si fanno delle lezioni di posture aspiranti Asana ma lo Yoga viene insegnato nel corso di teoria che utilizza la meditazione come primo ground di pratica per come individuata negli Yoga Sutra.
Lo Yoga autentico è inclusivo, universale e trasformatore.
Non si limita a una tecnica o a una sensibilità personale, ma abbraccia ogni aspetto della vita.
La devozione alla teoria ed alla pratica è ciò che permetterà allo Yoga di estendersi a chiunque in ogni settore realizzando davvero ciò che sembra solo essere la solita ripetizione stonata dello "yoga oltre il tappetino" riportando il tappetino nel suo ruolo splendidamente propedeutico e marginale rispetto alla pratica che si costituisce nel lavoro che si compie verso la stabilità del campo mentale.
Quando teoria e pratica si integrano, la vita stessa diventa un campo di sperimentazione yogica, trasformando ogni esperienza in un’opportunità per crescere e riconnettersi all’universale.
Questo approccio supera la frammentazione moderna e riporta lo Yoga alla sua essenza originaria: un ponte tra l’individuo e l’universale, tra l’uomo e l’umanità, restituendo alla vita il suo senso più autentico.. 
 

La difficile impresa di ricostruire la Biografia di Gesù

 “Sono molto scettico sulla possibilità di scrivere una biografia affidabile di Gesù”.  In un'intervista a Le Monde, Rémi Gounelle, decano della Facoltà di Teologia protestante dell'Università di Strasburgo, ripercorre la difficoltà di creare un'immagine canonica di Gesù durante i primi secoli del cristianesimo.

Quello che possiamo vedere è che la memoria di Gesù si è persa molto rapidamente, o almeno si è istituzionalizzata molto rapidamente”, osserva Rémi Gounelle, professore di storia dell'antichità cristiana, quando gli si chiede cosa sappiamo veramente della vita di Gesù. Dell'impressionante diversità del cristianesimo delle origini, poche correnti sono sopravvissute e “le comunità che sono scomparse più spesso hanno portato con sé le loro immagini di Gesù”, sottolinea il preside della facoltà di teologia protestante dell'Università di Strasburgo. Da qui il graduale sviluppo di un'immagine canonica del fondatore che, sebbene sia più inequivocabile, ha il merito di aver permesso al movimento di Gesù di sopravvivere, secondo l'accademico.
Perché i Vangeli canonici tacciono su gran parte della vita di Gesù?         

Gli Evangeli canonici – sottolinea Gounelle – non possono essere considerati opere storiche nel senso moderno del termine. I loro autori non intendevano scrivere una biografia oggettiva, bensì trasmettere quegli eventi della vita di Gesù che ritenevano fondamentali per fondare la fede e la prassi delle prime comunità cristiane. Miracoli, Passione e Resurrezione rappresentano i fulcri narrativi scelti.

L’enigma degli “anni oscuri” di Gesù.  Interrogato sulle ipotesi relative alla vita di Gesù tra l’infanzia e l’inizio del suo ministero pubblico – periodo sul quale i testi canonici tacciono – Gounelle si mostra prudente: secondo lui, non esiste alcuna teoria realmente fondata. Le fonti disponibili, benché numerose, sono lacunose e in parte contraddittorie. Le teorie su presunti viaggi in India, ad esempio, mancano totalmente di evidenze concrete. Più plausibile è che Gesù abbia ricevuto una formazione approfondita nelle Scritture, forse in una scuola giudaica (yeshiva), e che conoscesse a fondo il contesto religioso del suo tempo.

Il ruolo della memoria e delle istituzioni.   Gli studi sulla memoria indicano che quella individuale tende a svanire dopo alcune decadi, lasciando spazio a una memoria collettiva, modellata dalla narrazione sociale e istituzionale. La memoria di Gesù non fa eccezione: le testimonianze dirette si sono perse, mentre la sua figura è stata modellata in funzione della coesione teologica e comunitaria.

Senza l’istituzione, afferma Gounelle, il movimento carismatico di Gesù sarebbe verosimilmente svanito. L’opera di sistematizzazione teologica, a partire dal II secolo, ha cercato di conciliare le divergenze tra i quattro Evangeli – ciascuno dei quali propone un ritratto distinto – attraverso le cosiddette “armonie evangeliche”, ovvero tentativi di redigere un’unica narrazione biografica.

Evangeli perduti e testi apocrifi.  Oltre agli Evangeli canonici, circolarono altri testi, come quelli di Tommaso e di Pietro, letti ancora nei secoli III e V. Molte di queste opere non furono accolte dall’istituzione, ma hanno lasciato un’impronta significativa nell’immaginario collettivo. Le rappresentazioni dell’infanzia di Gesù, ad esempio, derivate da testi apocrifi, continuano a influenzare la tradizione popolare, tanto in Occidente quanto in Oriente e perfino nell’islam.

La pluralità del cristianesimo delle origini. Gounelle propone un’immagine suggestiva per descrivere il cristianesimo primitivo: non un albero con un unico tronco centrale, ma un nocciolo, con molteplici fusti che emergono direttamente dal terreno. Questo modello rende conto della ricchezza e della complessità delle origini cristiane, più che lo schema gerarchico troncato di un albero come la quercia. Di quella molteplicità originaria restano oggi solo alcune “ramificazioni” sopravvissute.

Nuove scoperte?   Infine, Gounelle invita alla cautela nei confronti di possibili nuove scoperte. Pur non escludendo del tutto l’emergere di testi o reperti archeologici inediti, ritiene improbabile che essi possano modificare in maniera sostanziale la conoscenza storica di Gesù. I dati ritenuti più verosimili – il battesimo, la predicazione in Galilea, la condanna romana e la crocifissione – costituiscono un nucleo narrativo condiviso, ma andare oltre questi elementi con rigore storico appare, a suo giudizio, fuori portata.

Pranayama e Hatha Yoga: l’arte antica della respirazione consapevole

L’Hatha Yoga rappresenta una delle forme più antiche e complete della disciplina yogica, risalente a millenni fa e tutt’oggi praticata in tutto il mondo. Questo sistema, codificato nei testi classici della tradizione tantrica indiana, si fonda sull’integrazione di posture fisiche (asana) e tecniche di controllo del respiro (pranayama), con l’obiettivo di armonizzare corpo, mente e spirito. Sebbene le asana siano spesso la componente più visibile della pratica, è nel pranayama che risiede il cuore pulsante dell’Hatha Yoga.            


Il significato profondo di “Pranayama”. Il termine pranayama deriva dal sanscrito e si compone di due radici: prana, che comunemente viene tradotto come “respiro”, e ayama, che significa “espansione” o “estensione”. Tuttavia, prana ha un significato ben più profondo: non si tratta soltanto dell’aria che respiriamo, ma della forza vitale sottile che anima ogni forma di vita. È l’energia che connette la nostra coscienza al mondo materiale. Pranayama, quindi, non implica soltanto il controllo del respiro, ma la capacità di estendere e dirigere consapevolmente questa energia vitale in tutto l’organismo e oltre, favorendo un’espansione della coscienza.    
La pratica del pranayama, così come trasmessa nei testi fondamentali dell’Hatha Yoga – Hatha Yoga Pradipika, Gheranda Samhita e Shiva Samhita – comprende una vasta gamma di tecniche, accessibili alla maggior parte dei praticanti, purché eseguite con costanza, rispetto e consapevolezza.

Precauzioni e indicazioni preliminari.  È importante avvicinarsi al pranayama con un atteggiamento di attenzione e rispetto. In presenza di patologie respiratorie, cardiovascolari o neurologiche è essenziale consultare un medico prima di iniziare. Inoltre, le pratiche più intense devono essere seguite da momenti di riposo, per permettere all’organismo di assimilare i benefici in modo equilibrato. 
La respirazione va eseguita preferibilmente a digiuno o almeno tre ore dopo l’ultimo pasto, in un ambiente tranquillo. In caso di sensazioni sgradevoli, come nausea o vertigini, è fondamentale sospendere immediatamente la pratica e sdraiarsi.

La postura e l’atteggiamento mentale.  Il pranayama si pratica in genere seduti a terra, a gambe incrociate, con la colonna vertebrale eretta e la testa allineata. Il primo passo è semplicemente osservare il proprio respiro, lasciandolo fluire naturalmente, mentre si rilassano consapevolmente le varie parti del corpo.

Dirga Pranayama: il respiro yogico completo.   Il Dirga Pranayama – noto anche come “respiro a tre fasi” – è la tecnica base da cui partire. Durante l’inspirazione, si riempie prima l’addome, poi il torace e infine la zona clavicolare. Nell’espirazione, si svuota il corpo nell’ordine inverso, partendo dalle clavicole, poi il torace, infine l’addome, che viene leggermente contratto verso la colonna vertebrale. È essenziale mantenere la durata dell’espirazione pari o superiore a quella dell’inspirazione per stabilizzare il sistema nervoso e la mente.

Kumbhaka: la ritenzione del respiro. Elemento centrale del pranayama, kumbhaka (ritenzione del respiro) consente di calmare le fluttuazioni mentali e accedere a stati di meditazione più profondi. Tuttavia, deve essere affrontata con gradualità: trattenere il respiro troppo a lungo prima che il corpo sia pronto può provocare effetti collaterali spiacevoli, come disorientamento o ansia. Dopo l’inspirazione si trattiene il respiro per alcuni secondi, quindi si espira lentamente. Alla fine dell’espirazione, si può trattenere di nuovo il respiro eseguendo il Uddiyana Bandha, un controllo muscolare che coinvolge l’addome. L’importante è non compromettere la naturalezza del respiro per prolungare artificialmente la ritenzione.

Kapalabhati: il soffio di fuoco. Kapalabhati è una tecnica energizzante e purificante che comporta espirazioni rapide e forzate, accompagnate da una contrazione attiva dell’addome. L’inspirazione avviene passivamente. Si crede che questa pratica stimoli il fuoco digestivo e aumenti l’energia nella zona pelvica, favorendo la fertilità e la vitalità. Un ciclo iniziale può durare 60 secondi, per poi essere gradualmente esteso. Dopo ogni sessione è bene effettuare ritenzioni del respiro per stabilizzare l’effetto sul sistema nervoso.

Nadi Shodhana: respirazione a narici alternate.  Nadi Shodhana, o “purificazione dei canali energetici”, è una delle tecniche più efficaci per calmare il sistema nervoso e promuovere l’equilibrio interiore. Consiste nell’alternare l’inspirazione e l’espirazione attraverso le narici, usando le dita per chiudere e aprire le vie nasali. È particolarmente indicata in momenti di stress, prima del riposo notturno o come preparazione alla meditazione.

Bhastrika: il respiro a soffietto. Bhastrika è una tecnica più intensa, in cui si alternano inspirazioni ed espirazioni profonde e rapide, generando calore interno e stimolando l’energia vitale. Può condurre a stati di coscienza modificati e favorire l’accesso a livelli profondi di meditazione. Al termine di un ciclo di Bhastrika, si integrano fasi di ritenzione del respiro ispirate a Nadi Shodhana, per regolare i livelli di anidride carbonica e favorire l’equilibrio fisiologico.

Benefici del Pranayama.  Numerosi studi scientifici confermano gli effetti benefici del pranayama su più livelli:
  •     Riduzione di ansia e depressione – La respirazione profonda stimola il sistema nervoso parasimpatico, contribuendo al rilassamento e alla stabilizzazione dell’umore.
  •     Miglioramento della funzione respiratoria – Le tecniche respiratorie profonde favoriscono una migliore ossigenazione del sangue e possono alleviare condizioni come l’asma o la BPCO.
  •     Qualità del sonno – Pratiche regolari aiutano a regolare i ritmi circadiani e ridurre l’insonnia.
  •     Potenziamento cognitivo – Alcune tecniche, come Kapalabhati, stimolano onde cerebrali associate a creatività e chiarezza mentale.
  •     Regolazione della pressione sanguigna – Le pratiche lente e consapevoli tendono a ridurre la pressione arteriosa, seppur con effetti variabili da individuo a individuo.
Il pranayama non è solo una tecnica di respirazione: è un vero e proprio percorso interiore che permette di accedere a un livello più sottile della nostra esistenza. Integrato nella pratica dell’Hatha Yoga, rappresenta un ponte tra corpo e mente, materia e spirito. Con pazienza, costanza e rispetto per i propri limiti, ogni praticante può sperimentare benefici tangibili e duraturi, non solo a livello fisico, ma anche emotivo e spirituale.  

La Via dello Yoga Integrale: Sulle Orme di Swāmī Śivānanda

Sabato 8 Marzo 2025 - Roma. Seminario dedicato alla tradizione yoga di Swāmī Śivānanda, un maestro che ha influenzato generazioni di praticanti con la sua visione olistica e integrata.

In un tempo segnato da incertezza e frammentazione, riscoprire la profondità di una tradizione spirituale autentica è un atto rivoluzionario. Questo seminario è dedicato alla trasmissione viva e trasformativa della tradizione yoga di Swāmī Śivānanda, maestro universale che ha illuminato il cammino di generazioni con una visione olistica, integrata e profondamente umana dello yoga.

Protagonista di questa giornata è Antonio Nuzzo, figura di riferimento nello yoga italiano e custode di un lignaggio che attraversa i grandi nomi della spiritualità contemporanea: Swami Satyananda, discepolo diretto di Śivānanda, e André Van Lysebeth, pioniere della diffusione dello yoga in Europa.

La guida esperienziale di Nuzzo ci accompagna in un viaggio che non è solo corporeo, ma interiore: un’esplorazione viva dei principi trasmessi da questi maestri, che uniscono sādhanā, disciplina, devozione e consapevolezza.

Il respiro è il fulcro della pratica. Come ponte tra microcosmo e macrocosmo, esso riflette i nostri stati interiori. Le vṛtti — le fluttuazioni mentali — alterano il respiro; i sensi, nel loro agire, lo modificano. Attraverso il prāṇāyāma, passiamo da un respiro irregolare, dettato dall’ego, a un respiro più consapevole, che apre le porte agli stati più sottili dell’essere.  Con movimenti semplici ma significativi — distesi a terra con le ginocchia al petto, le mani che seguono i centri energetici, le posizioni del gatto e del piccione, le espansioni del torace e l’ascolto del diaframma — si apre uno spazio nuovo. Il corpo denso lascia affiorare il corpo sottile, dove il respiro si muove nell’immobilità e la coscienza guida ogni gesto.    

Oltre le Etichette: Uno Yoga per l’Essere.   "Che tipo di yoga fate?" — Una domanda comune, ma fuorviante. Lo yoga è uno, anche se si manifesta in forme diverse. Śivānanda, vissuto in un'epoca travagliata da guerre, epidemie e materialismo, comprese che l’unica vera cura era l’espansione della coscienza, resa possibile dalla pratica.  "Attraverso una sadhana possiamo espandere la nostra coscienza, per il riequilibrio del mondo".

Śivānanda nasce nel 1887 nel Tamil Nadu, con una vocazione iniziale per la medicina e la cura. Inizia a esercitare medicina in Malesia,  poi da lì intraprese un pellegrinaggio interiore ed esteriore in India che lo portò fino a Rishikesh, dove fondò una comunità spirituale vivace e inclusiva. Tra i suoi discepoli più noti ricordiamo Satyananda, fondatore della Bihar School of Yoga, e Sat Chit Ananda, che ispirò anche la controcultura degli anni '60.

Attraverso una sādhanā che unisce tapas (l’ardore) e svādhyāya (lo studio dei testi sacri indiani), si giunge all’abbandono al Divino — Īśvara Praṇidhāna. Vayraga (distacco) e Tapas (passione) sono le linee guida di Patanjali per la costruzione di un percorso interiore. La spiritualità, nella visione di Śivānanda, non è mai astratta: è radicata nella vita quotidiana, nei gesti, nella responsabilità verso il mondo. Per questo scrisse centinaia di libri e articoli, con l’intento di rendere accessibili i principi universali del percorso spirituale. 

Lignaggio e Passione.  Anche André Van Lysebeth, tipografo, scrittore e ricercatore instancabile, fu toccato da uno dei testi di Śivānanda. Per oltre quarant’anni ha divulgato lo yoga in Europa, mantenendo vivo lo spirito originale: passione, distacco, ricerca della verità.   La vera devozione è un atto vitale. Come ci ricorda Nuzzo, “chi è credente davvero, deve essere passionale”: la passione per il Divino è ciò che dà senso all’esistenza. Il distacco non è apatia, ma chiarezza interiore, una libertà profonda dal risultato dell’azione.

La Silenziosa Potenza dello Yoga.   Lo yoga non è ginnastica. I veri maestri non si limitano a prescrivere posizioni come fossero fisioterapisti: lo yoga è percezione sottile, spazio interiore, ascolto profondo. È il movimento del respiro nell’immobilità della posizione, la capacità di sentire l’arto sottile prima ancora di muovere quello fisico, la connessione profonda con il sé.  La pratica culmina nel silenzio mentale, nella ritenzione spontanea del respiro (kevala kumbhaka), dove il corpo e la mente si ritirano, e la coscienza può finalmente espandersi.

In un mondo che corre, lo yoga della tradizione Śivānanda ci invita a fermarsi, ascoltare, interiorizzare. Non esiste salvezza che non parta da dentro. Ogni respiro consapevole, ogni gesto guidato dalla presenza, è un passo verso la nostra verità più profonda.   Come ricorda la tradizione: non possiamo uscire vivi dalla vita, ma possiamo viverla con coscienza.   Occorre "Essere nel Momento, Essere Sé Stessi". 

Antonio Nuzzo è un punto di riferimento nel mondo dello yoga italiano e un custode della tradizione trasmessa da Swami Satyananda e André Van Lysebeth. E’ conosciuto infatti per il suo approccio empatico e umano all’insegnamento, cercando di rendere lo yoga accessibile a tutti e adattandolo alle esigenze di ciascun individuo.   https://www.centrostudiyogaroma.com/i-docenti/antonio-nuzzo/

Ha partecipato al seminario anche Francesca Palombi. Vedi suoi articoli: https://www.francescapalombiyoga.it/it/articoli/willy-van-lysebethvi-racconto-mio-padre-andre   https://www.francescapalombiyoga.it/it/articoli.  https://www.francescapalombiyoga.it/

Quando iniziamo a fare Yoga?

C’è un momento che segna l’inizio del vero cammino yogico. Non è un momento definito da una conquista o da un traguardo fisico, ma da un risveglio: la consapevolezza che lo yoga non è confinato al tappetino, alle posture o alle tecniche di respirazione. È un percorso che abbraccia tutta la vita, che offre strumenti per affrontare la sofferenza, comprendere la mente e trasformare il nostro rapporto con l’esistenza. Questo risveglio avviene quando ci permettiamo di essere esposti alla sua complessità, quando smettiamo di cercare risposte rapide e comode e iniziamo a porci domande più profonde.     

Gli Yoga Sutra di Patanjali delineano un percorso che non si limita a tecniche o esercizi fisici, ma che si concentra sulla relazione tra l’osservatore e ciò che viene osservato. Il Sutra 2.17 identifica la radice della sofferenza in una confusione percettiva: l’osservatore si identifica con ciò che è comprensibile, schiacciandosi sulle modificazioni della mente (vritti). Questo stato replica quanto espresso nel Sutra 1.4, dove l’osservatore, perso nelle fluttuazioni mentali, si allontana dalla propria natura. È questa identificazione che genera frammentazione, sofferenza e una percezione limitata della realtà.

Lo yoga, tuttavia, non individua mai gli ostacoli in fattori esterni. Ogni limite, ogni afflizione, ogni resistenza che incontriamo è sempre interno alla mente, e proprio per questo è accessibile e trasformabile attraverso il lavoro consapevole. La mente, con le sue dinamiche, crea il cono percettivo attraverso il quale osserviamo e comprendiamo il mondo. Riducendo le afflizioni che gravano su questo cono, non solo modifichiamo la nostra percezione interna, ma cambiamo anche la nostra relazione con ciò che percepiamo all’esterno. In questo senso, il superamento degli ostacoli nella mente coincide con il superamento degli ostacoli che sembrano esistere fuori di noi.

Il Sutra 2.11 ci offre una guida fondamentale in questo processo: la meditazione (dhyana) è il mezzo per ridurre l’impatto delle afflizioni e stabilizzare la mente. Questo non avviene attraverso un’eliminazione forzata dei pensieri o delle distrazioni, ma grazie a un lavoro progressivo che riorienta la mente, rendendola uno strumento al servizio dell’osservatore. Quando la mente si stabilizza, ogni ostacolo perde forza, ogni difficoltà si trasforma in un’opportunità di apprendimento.

Il Sutra 2.15 amplia ulteriormente questa visione, invitandoci a vedere la sofferenza come una parte integrante dell’esperienza umana. Non è un nemico da combattere, ma un aspetto della realtà che, se compreso, può diventare un terreno di pratica e trasformazione. Nasce dall’attaccamento, dall’impermanenza e dalla distorsione percettiva. Lo yoga non elimina la sofferenza, ma ci insegna a utilizzarla per sviluppare una sensibilità più profonda, per espandere il nostro cono percettivo e per vivere con maggiore equilibrio.

In questo contesto, il concetto di asana assume un significato che va ben oltre quello che comunemente gli viene attribuito. L’etimologia stessa della parola asana ci riporta all’idea di un posizionamento stabile e confortevole, ma questa stabilità non è confinata al corpo. Asana è, innanzitutto, un posizionamento della mente, un equilibrio mentale che permette di donare chiarezza e confortevolezza alla mente stessa. È in questo stato che la mente trova la capacità di affrontare le afflizioni e di stabilizzarsi. Il corpo, in questo senso, può diventare uno dei livelli in cui questa stabilità si manifesta, ma non è il centro né il limite del concetto. Asana non è una postura: è uno stato che permea ogni livello di pratica, dal corpo alla mente, e che non può essere ingabbiato in una mera replica fisica, come spesso accade nella tradizione moderna. Nel suo senso più profondo, asana rappresenta la capacità di stabilizzare e rendere confortevole ogni aspetto della nostra esperienza, a partire dalla mente.

Il percorso culmina nel Sutra 2.26, dove Patanjali descrive la discriminazione costante (viveka khyati) come il mezzo per liberare l’osservatore dalla sofferenza. Questa discriminazione non è il risultato di un evento isolato, ma il frutto di un lavoro consapevole che integra teoria e pratica. È solo attraverso questa integrazione che l’osservatore può distinguere tra ciò che è transitorio e ciò che è permanente, tra ciò che osserva e chi osserva.

Quindi, Quando iniziamo a fare yoga? Quando accettiamo che lo yoga non è solo tecnica, ma un cammino che abbraccia la mente, il corpo e l’esistenza intera attraverso una serie di rappresentazioni che toccano l'intera umana essenza.

Il Sutra 2.11 ci ricorda che la meditazione è il mezzo per ridurre le afflizioni; il Sutra 2.15 ci invita a vedere la sofferenza come una possibilità di apprendimento; e il Sutra 2.26 ci guida verso una discriminazione che liberi l’osservatore. L’asana, intesa come posizionamento mentale, rappresenta un equilibrio che ci permette di vivere questa complessità con apertura e presenza.     

Lo yoga, in definitiva, è un’arte e una scienza che ci invita a riconoscere che ogni momento, ogni sofferenza, ogni domanda è un portale verso una comprensione più profonda di noi stessi e dell’esistenza.

Om Namah Shivaya

Qui di seguito è riportato il significato dei due importanti mantra.

 Il mantra "Om Namah Shivaya" significa “Mi inchino con profondo rispetto; salute a te, Shiva!”
Questa formula sacra sanscrita ha diversi significati; essa si appella a Dio come Śiva, una forma di Īśvara (l'aspetto personale di Dio) e può essere tradotta come "Signore, sia fatta la Tua volontà", oppure "Mi arrendo a Te, Dio". È considerato uno dei mantra più completi e potenti. 

Il mantra  'Hari OM Tat Sat " significa " ciò che è verità". Quello che io vedo con i miei occhi e ciò che è al di là i miei occhi sono entrambi la stessa cosa, non una diversa. Il creatore e la creazione non sono due. Il creatore non ha creato la creazione, ma ha manifestato o trasformato se stesso in creazione.

OM o AUM  nei Veda, è l’inno primordiale. Questo suono trascendentale è identico alla forma del Signore. Tutti gli inni vedici sono basati su questo mantra.  Tat deriva da tad, la forma neutra di “ta”, che significa “quello”. È un modo informale per riferirsi a Dio, la Persona Suprema. Sat:  Sat significa esistenza ed eternità.  

https://www.youtube.com/watch?v=R9Yg1IPFW-E

Kumbh Mela: il più grande raduno religioso del mondo,

Ogni dodici anni, l’India ospita un evento unico al mondo per portata spirituale e dimensioni umane: il Kumbh Mela, il più grande raduno religioso esistente, che raccoglie centinaia di milioni di fedeli induisti lungo le rive sacre del Gange e dello Yamuna. L’edizione del Maha Kumbh Mela, celebrata quest’anno (2025) a Prayagraj, ha visto la partecipazione di oltre 400 milioni di pellegrini, con picchi di 76 milioni di persone in un solo giorno, il 29 gennaio.

Il Kumbh Mela è molto più di un pellegrinaggio: è un momento di purificazione spirituale in cui i fedeli si immergono nelle acque sacre per lavare i peccati e cercare la liberazione dal ciclo della rinascita. Il tempismo dell’evento è determinato da un raro allineamento astrologico tra Giove, il Sole e la Luna, che – secondo la tradizione vedica – conferisce potere spirituale all’acqua del Gange. Il luogo è considerato ancora più sacro perché, oltre ai due fiumi visibili, si crede che in forma metafisica si unisca anche il mitico Sarasvati, rendendo il sito una convergenza divina.

Per accogliere una tale moltitudine, viene costruita una megalopoli temporanea su una pianura alluvionale di 4.000 ettari. In appena due mesi, il governo indiano allestisce strade, ponti, tende, servizi igienici (oltre 30.000), acqua potabile, elettricità e copertura mobile. Le sistemazioni vanno dalle tende collettive statali alle lussuose Dome City, strutture a forma di bolla trasparente con ogni comfort moderno.

Tredici gruppi spirituali, gli Akharas, guidati da santoni ascetici, attraversano i ponti fluviali per sfilare e guidare le cerimonie. I sadhu benedicono i pellegrini, mentre le offerte di calendule e il canto incessante avvolgono l'atmosfera in una dimensione sospesa tra devozione e festa.

Il Kumbh Mela è anche una prova logistica senza pari. Le autorità hanno mobilitato 13.000 treni, 40.000 poliziotti (tra cui 1.300 donne agenti specializzate), 2.700 telecamere dotate di intelligenza artificiale per monitorare la folla, e 150.000 bagni portatili. Eppure, i rischi rimangono. Il 29 gennaio, una calca ha causato 30 morti e 90 feriti, rilanciando il dibattito sulla gestione della sicurezza, soprattutto nei confronti dei pellegrini più poveri, spesso trascurati rispetto ai visitatori VIP.

Il Kumbh Mela è anche solidarietà.  Numerose organizzazioni caritatevoli, tra cui la Società Internazionale per la Coscienza di Krishna, hanno offerto fino a 100.000 pasti vegetariani gratuiti al giorno. Iniziative sanitarie come la clinica Netra Kumbh hanno fornito screening visivi, occhiali gratuiti e interventi di cataratta a migliaia di persone. Grazie a una gestione oculata, negli ultimi anni non si sono verificati gravi focolai epidemici, un risultato straordinario per un evento di tali proporzioni.

Terminato il festival, il terreno torna al suo uso agricolo. Ci vogliono settimane per ripulire la città temporanea, ma la piena autunnale del Gange completerà l’opera, riportando tutto alla normalità, come se niente fosse mai accaduto. Ma i pellegrini, tornati a casa, porteranno con sé molto più che semplici ricordi: un’esperienza spirituale collettiva, un momento di connessione, purificazione e rinascita.

Vedi link:   https://www.nationalgeographic.it/kumbh-mela-che-cos-e-e-come-si-celebra-in-india-il-piu-grande-raduno-religioso-del-mondo?utm_source=firefox-newtab-it-it


Il potere del respiro e la consapevolezza profonda

Respirare è il gesto più naturale e costante che compiamo: lo facciamo migliaia di volte al giorno, senza pensarci. Eppure, proprio per questa sua apparente semplicità, la respirazione è spesso trascurata, sottovalutata nel suo potenziale trasformativo. Respirare non è solo sopravvivere: è vivere pienamente, accedere a uno stato di salute più profondo, di equilibrio psicofisico, di chiarezza mentale.

Non è un caso se emozioni intense – come paura, ansia o gioia – ci tolgono il fiato. Il respiro è lo specchio del nostro stato interiore. Quando impariamo a respirare bene, possiamo iniziare a governare le nostre emozioni, ridurre lo stress, gestire la fatica, migliorare la qualità del sonno, dell’alimentazione e persino della vita sessuale.

Una respirazione completa e consapevole aumenta l’ossigenazione del corpo, migliora il funzionamento cellulare, supporta il cervello e ci rende più lucidi ed energici – senza bisogno di stimoli esterni.
In un’epoca in cui il ritmo della vita è sempre più frenetico, molti di noi respirano in modo superficiale, utilizzando solo una minima parte della nostra capacità polmonare. Questo schema limitato è spesso legato a tensioni profonde, stress cronico e sovraccarico emotivo.

Imparare a modulare il respiro ci consente di entrare in uno stato di calma, chiarezza e benessere. È una vera e propria forma di auto-guarigione naturale, accessibile a tutti, in qualsiasi momento.
Il respiro nello Yoga: ponte tra corpo, mente e spirito

Nello yoga, il respiro è molto più che un’azione fisiologica: è prana, energia vitale. È il primo nutrimento, il legame diretto tra corpo e mente. Il respiro può calmare i pensieri, modificare lo stato d’animo e condurci verso stati meditativi profondi.
La disciplina del pranayama, che significa “controllo del respiro”, è alla base della trasformazione interiore nello yoga. La mente, da sola, non può fermarsi: ma il respiro può. E quando si ferma il respiro, si placa anche la mente.

In condizioni di stress, la respirazione diventa toracica e superficiale, spesso disfunzionale. Il passaggio a una respirazione profonda e volontaria coinvolge il diaframma, il “secondo cuore” del corpo. Quando attivato correttamente, il diaframma:
  •     stimola la circolazione venosa,
  •     supporta la funzione degli organi interni,
  •     favorisce l’eliminazione delle tossine,
  •     modula il nervo vago, che regola rilassamento e digestione.
La respirazione nasale, inoltre, filtra le impurità e favorisce una maggiore efficienza respiratoria.
Esercizi pratici di respirazione consapevole

Per ristabilire un ritmo naturale e sano del respiro, è utile praticare ogni giorno:
La Respirazione diaframmatica
  •     Inspira dal naso, gonfiando l’addome.
  •     Espira lentamente, contraendo l’addome.
  •     L’espirazione dovrebbe durare il doppio dell’inspirazione.
  •     Ripeti per almeno 10 cicli respiratori.
La Respirazione completa (Siddhi Pranayama)
  •     Fase addominale: gonfia l’addome inspirando, sgonfialo espirando.
  •     Fase toracica: espandi il torace, poi rilassalo.
  •     Fase clavicolare: solleva le clavicole, poi rilassa.
  •     Fase integrata: inspira in tre fasi (addome, torace, clavicole) ed espira nello stesso ordine.
Applicare il Ritmo base:
  •     prima fase, inspira contando fino a 3  
  •     seconda fase,  trattieni contando fino a 12 
  •     terza fase, espira contando fino a 6. 
Questo schema favorisce un equilibrio interiore profondo e stimola la presenza mentale.

Il respiro è anche veicolo di energia sottile (prana). Le tecniche di respirazione modulano il flusso energetico nei chakra, in particolare nei primi tre centri legati ai bisogni primari. Una respirazione alta e superficiale (solo clavicolare) può generare squilibri; una respirazione piena e consapevole favorisce la circolazione uniforme dell’energia vitale.

Per praticare bene, è utile rafforzare la cintura addominale con esercizi mirati, poiché i muscoli respiratori devono essere educati come qualunque altro muscolo.

Quando si ha bisogno di risvegliare l’attenzione mentale, ci si può rivolgere a tecniche più attive come:
  •     Kapalabhati: respirazione forzata e veloce, con espirazioni rapide e attive.
  •     Bhastrika: respirazione energica e profonda, utile contro il torpore mentale.
Entrambe stimolano la mente e il corpo, e sono particolarmente efficaci prima della meditazione.
Conclusione: il respiro come maestro interiore

Lo Yoga è una via che ci invita a rallentare, osservare, comprendere. Tra tutte le tecniche yogiche – posizioni, meditazioni, mantra – la respirazione è la base. È lo strumento più semplice e, allo stesso tempo, il più potente per trasformare la nostra vita.

Purtroppo, anche tra chi pratica yoga da tempo, la consapevolezza respiratoria è spesso superficiale. Ma i grandi maestri lo hanno sempre insegnato: il respiro è la chiave per la salute, la chiarezza e la libertà interiore.

I Tattva

Tattva, termine sanscrito che significa "stato vero o reale", "verità", "realtà" "principio reale", o anche "verità". In accordo con varie scuole di filosofia indiane, un tattva è un elemento o aspetto della realtà concepito come una emanazione della realtà assoluta nel processo di manifestazione dal sottile al grossolano. Sebbene il numero dei tattva vari a seconda della scuola filosofica essi, nel loro insieme, sono supposti formare la base di ogni nostra esperienza.         

Nella filosofia Yoga contando anche Puruṣa e Prakṛti sono descritti 26 tattva (elementi primari); i tattva vanno dai più sottili tipo Puruṣa e Prakṛti fino ai più grossolani (bhūta).  I cinque elementi: Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Etere, sono presenti in ogni sostanza esistente in natura. Essi non esistono di per sé stessi, ma ciascuno di essi contiene, in piccola parte, anche gli altri quattro. La filosofia Sāṃkhya usa un sistema di 25 tattva o principi (Tattva Samasa è una parola della filosofia Sankya attribuita a Kapila stesso) mentre lo Shivaismo ne riconosce 36.   
La filosofia cinese prevede cinque elementi: il Fuoco (rosso), il Metallo (bianco), l'Acqua (nero), il Legno (verde), e la Terra (giallo).
 

Nella filosofia  Yoga e Sāṃkhya i cinque elementi rappresentano il mondo materiale reso manifesto attraverso l’unione di Spirito e Natura. Inizialmente è la combinazione dei tre gunas che da vita ai cinque elementi (tattva) che sono terra, acqua, fuoco, aria e etere. tattva. Infatti, ognuno dei cinque elementi e’ sotto l’influenza dei guna, essendo soggetti a rajas (movimento), tamas (non movimento) e sattva (equilibrio). 

 I cinque elementi testimoniano che l’universo é fatto di energia ed intelligenza che assume diverse forme.
Negli esseri umani, la diversa combinazione degli elementi crea la possibilità di cambiamento, crescita, espansione e tensione. Tutto questo è necessario per l’evoluzione.

I cinque elementi hanno diverse frequenze di vibrazione e rappresentano le sostanze solide (terra), liquide (acqua), gassose (aria); energia (fuoco) e spazio (etere). Questa classificazione si avvicina a quella della fisica moderna che suddivide gli elementi in solidi, liquidi e gassosi, e riconosce l’esistenza di energia e spazio.  I cinque elementi poi danno vita ai nostri sensi e a tutti i fenomeni fisici.

Questo argomento è strettamente correlato anche con i chakra perché ogni elemento corrisponde ad uno dei primi cinque chakra:

  •     Terra = Muladhara
  •     Acqua = Svadhisthana
  •     Fuoco = Manipura
  •     Aria = Anahata
  •     Etere = Vishudda

Il pensiero irriducibile - Tiziano Terzani

"Le Teorie economiche non considerano mai il numero di persone felici"

Conosciuto in tutto il mondo per i suoi reportage di viaggio, Tiziano Terzani, nei brevi saggi che compongono il volume, riflette sul mondo che cambia, sulla deriva soprattutto spirituale che ha colpito l’Occidente e sulla sua particolare e unica esperienza di vita, spaziando dagli anni trascorsi in Olivetti al suo grande amore per la poesia, rimasto sempre costante negli anni. 

Tre scritti personali e sentiti, capaci di illuminare ancora il nostro presente.

  • La famosa risposta a Oriana Fallaci all’indomani degli attentati dell’11 settembre; 
  • Una riflessione sulla modernità e su quel che comunemente si definisce progresso a partire dall’esperienza giovanile in Olivetti; 
  • Uno scritto inedito, personale e intimo, sul ruolo della poesia nel mondo contemporaneo. 

Tre testi per avvicinarsi all’eredità di pensiero lasciata da un grande protagonista del secolo scorso, con lo sguardo rivolto al futuro di tutta l’umanità.         

Nel 2019 "Il pensiero irriducibile" di Tiziano Terzani veniva pubblicato dalla casa editrice fondata da Adriano Olivetti e presentato a Lugano con la partecipazione dell’editore Beniamino De’ Liguori Carino (nipote di Olivetti) e Àlen Loreti (biografo di Terzani), di cui riportiamo un estratto dell’intervista.

─ 𝗖𝗼𝘀𝗮 𝗰𝗶 𝗱𝗶𝗿𝗲𝗯𝗯𝗲 𝗧𝗲𝗿𝘇𝗮𝗻𝗶 𝗼𝗴𝗴𝗶 𝘀𝘂𝗹𝗹’𝗲𝗰𝗼𝗻𝗼𝗺𝗶𝗮 𝗲 𝘀𝘂𝗹 𝗿𝗮𝗽𝗽𝗼𝗿𝘁𝗼 𝘁𝗿𝗮 𝗮𝘇𝗶𝗲𝗻𝗱𝗲, 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗲𝘁𝗮̀ 𝗲 𝗮𝗺𝗯𝗶𝗲𝗻𝘁𝗲?
─ Nel 1987 intervistato dalla tv svizzera disse: «Il futuro del mondo si gioca in Asia». Pochi capirono quella previsione. In tutta la sua opera ritorna il rapporto tra Uomo e Modernità. Dietro ai conflitti sociali e politici c’è sempre questo aspetto. Senza essere un antropologo o un economista Terzani ha condiviso in anticipo le preoccupazioni sulla globalizzazione e sulla politica dominata dalla finanza: ne "Il pensiero irriducibile" si coglie questa profonda facoltà analitica carica di inquietudine.

─ 𝗤𝘂𝗮𝗹𝗲 𝗲𝗿𝗮 𝗹𝗮 𝘃𝗶𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝗧𝗲𝗿𝘇𝗮𝗻𝗶 𝘀𝘂𝗹𝗹’𝗲𝗰𝗼𝗻𝗼𝗺𝗶𝗮 𝗲 𝗱𝗲𝗹 𝗿𝗮𝗽𝗽𝗼𝗿𝘁𝗼 𝘁𝗿𝗮 𝗹’𝗲𝘀𝘀𝗲𝗿𝗲 𝘂𝗺𝗮𝗻𝗼 𝗲 𝗹’𝗲𝗰𝗼𝗻𝗼𝗺𝗶𝗮?
─ «L’economia – diceva – deve cominciare a lavorare in funzione dell’uomo, non dei ricchi, non della borsa. Oggi, in Occidente, bisogna dire chiaramente che dobbiamo dividere la nostra ricchezza. Non potremo mai essere in pace, se gli altri sono in guerra. Non potremo mai essere felici, se gli altri non lo sono.» Terzani condannava la perdita di umanità resa oggi evidente dal crescere delle disuguaglianze: un’economia, e una politica, che rinuncia all’etica porta solo guai e conflitti.

─ 𝗧𝗲𝗿𝘇𝗮𝗻𝗶 𝗮 𝟮𝟯 𝗮𝗻𝗻𝗶 𝗶𝗻𝗶𝘇𝗶𝗼̀ 𝗮 𝗹𝗮𝘃𝗼𝗿𝗮𝗿𝗲 𝗽𝗿𝗼𝗽𝗿𝗶𝗼 𝗽𝗲𝗿 𝗹’𝗢𝗹𝗶𝘃𝗲𝘁𝘁𝗶, 𝗰𝗵𝗲 𝗲𝘀𝗽𝗲𝗿𝗶𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗳𝘂?
─ Furono 5 anni intensi e decisivi. Terzani deve all’Olivetti il regalo più grande: avergli fatto scoprire il mondo. Dopo aver lavorato come manager in Europa, in Giappone, in Australia e in Sudafrica si rese conto che non voleva viaggiare il mondo per vendere macchine per scrivere, ma usare la macchina per scrivere per raccontare il mondo. Lasciò l’azienda per diventare giornalista.

─ 𝗢𝗹𝗶𝘃𝗲𝘁𝘁𝗶 𝗲 𝗧𝗲𝗿𝘇𝗮𝗻𝗶: 𝘀𝗲𝗰𝗼𝗻𝗱𝗼 𝗹𝗲𝗶, 𝗰𝗼𝘀𝗮 𝗹𝗶 𝗮𝗰𝗰𝗼𝗺𝘂𝗻𝗮𝘃𝗮 𝗲 𝗶𝗻 𝗰𝗼𝘀𝗮 𝗲𝗿𝗮𝗻𝗼 𝗶𝗻𝘃𝗲𝗰𝗲 𝗱𝗶𝘃𝗲𝗿𝘀𝗶?
─ Olivetti morì nel 1960, Terzani fu assunto nel 1962: non si conobbero. Hanno però in comune una tensione spirituale che non va sottovalutata. La definirei un bisogno e una ricerca di armonia. Non azzarderei una vicinanza politica anche se in entrambi c’è uno spirito socialista che si ispira ai valori più nobili: un fortissimo senso di giustizia, un bisogno di lotta, di riforma sociale. Olivetti praticò su scala pubblica questa visione di società, Terzani – viste le sue umili origini – pensò in primo luogo a un riscatto personale. Sono stati uomini liberi, veramente moderni, con un cuore antico.

La ricerca radicale della spiritualità

 Non siamo nell'epoca della misura,  né del giusto mezzo: tutto è estremo; si va dall'iperconnessione , alle pressioni sociali, alla corsa al profitto. In questo contesto la ricerca della spiritualità è diventata un atto di resistenza radicale.   

Articolo di Eugenia Nicolosi   Vedi: https://www.alfemminile.com/salute-e-benessere/spiritualita-estrema-tra-ritiri-comunita-e-illusioni/?utm_source=firefox-newtab-it-it

Cosa è lo spirito? E cosa è la percezione dello spirito in un'epoca ipermoderna, iperconnessa, iperconsumistica, ipermaterialista? In un tempo dominato dal culto dell'io, dalla velocità e dalla sovrabbondanza informativa, la resistenza a queste stesse dinamiche è ugualmente estrema. Ecco perché la ricerca di una dimensione spirituale più autentica, profonda, a volte completamente slegata dai tradizionali riferimenti religiosi, si fa necessariamente radicale.

Non si tratta di una moda, non solo almeno, ma di un fenomeno globale che non poteva che trovare spazio nelle pieghe di un mondo sempre più logorato da stress cronico, alienazione e perdita di senso. Tanto ci siamo allontanate, allontanati, dalla dimensione spirituale, che oggi tentare di ritrovarla significa agire una rivoluzione interiore, oltre che esteriore.

Dappertutto si moltiplicano i ritiri spirituali — da quelli immersi nei boschi alle esperienze sensoriali nel deserto del Nevada — e non è raro che il/la manager, il/la creativo digitale o il/la professionista di turno, dopo ore passate tra Zoom e notifiche, scelga di spegnere tutto e cercare "un centro", qualunque cosa esso significhi. Yoga, bagni di suono, meditazioni Vipassana, digiuni, cammini, la "ayahuasca experience": le attività sono organizzate in contesti costruiti ad hoc per sembrare fuori dal tempo e dallo spazio. E nel caso dell'ayahuasca si esce davvero, dal tempo e dallo spazio.

Queste esperienze pensate per essere trasformative, rispondono a una domanda molto precisa: provvedere alla sopravvivenza dell'io spirituale in un mondo che quell'lo lo mortifica e ignora. Così, la fuga nel digitale, ora che il digitale è il posto reale, diventa una fuga nel rituale. 

Le comunità spirituali alternative esistono anche in Italia, lo sappiamo: è il caso di Damanhur, insediamento eco-spirituale nato negli anni Settanta tra le montagne piemontesi, fondato da Oberto Airaudi, e ancora oggi attivo.  Damanhur rappresenta uno dei tanti esempi di come il bisogno di spiritualità possa trovare espressione in forme comunitarie, auto-organizzate, a volte eccentriche ma profondamente strutturate. La parola "setta", in questi contesti, tende a emergere con facilità, spesso come giudizio esterno piuttosto che analisi oggettiva.

Certo, il confine tra comunità spirituale e deriva settaria può essere sottile, e la vigilanza è doverosa. Non mancano le testimonianze di sopravvissuti, sopravvissute a sette  in Italia - che raccontano di manipolazioni, abusi sessuali, psicologici ed economici, adescamenti e praticamente riduzione in schiavitù. 

Ma è altrettanto importante domandarsi, senza pregiudizi, perché queste realtà attraggono, chi è che le cerca, e cosa promettono: senso di appartenenza, contatto con la natura e la dimensione interiore, anzi, promettono uno spazio in cui la propria interiorità è il centro dell'esperienza. Che poi lo mantengano è altra questione.           

Tutto questo non può essere liquidato come fuga dalla realtà. È piuttosto un sintomo della fatica sempre più diffusa di vivere in un mondo costantemente acceso e che pretende, da chi lo abita, altrettanta performatività. Un mondo in cui ogni momento è potenzialmente produttivo e che sacrifica le emozioni che non possono essere monetizzate. In questo contesto è ovvio che il ritiro spirituale, l’appartenenza a una comunità fondata su dei valori e non sul profitto, anche solo la ricerca di un senso più grande possono essere visti come atti radicali, per quanto di legittima resistenza. 
La vulnerabilità di chi cerca un senso, una guida o una comunità può diventare riserva di caccia grossa per chi, consapevolmente o meno, sfrutta tale bisogno a proprio vantaggio. È impossibile non ricordare Osho: spiritualista carismatico, fondatore di una delle più note comunità alternative del Novecento, capace di attirare decine di migliaia di seguaci in tutto il mondo. Il suo ashram divenne negli anni Ottanta una città autonoma nel cuore dell’Oregon, Rajneeshpuram, che culminò in uno scandalo internazionale: accuse di frode, abuso di potere e un’inchiesta federale che portò alla sua espulsione dagli Stati Uniti.

Un caso estremo, certo, ma che restituisce con precisione chirurgica quanto la contaminazione capitalista si possa spingere oltre. La ricerca di spiritualità, come la promessa di comunità, non è immune da dinamiche di potere, dipendenza e sfruttamento. Per questo, se il bisogno di una dimensione interiore è legittimo — e forse più urgente che mai — è altrettanto necessario esercitare discernimento. Non ogni guida è illuminata, non ogni comunità è sana. Cercare il sacro, oggi, può essere un atto rivoluzionario soprattutto se fuori dalle dinamiche che ci hanno impedito, fino a oggi, di trovarlo.

Ma al domanda finale che io mi pongo è la seguente: Può esistere una comunità, non immune da dinamiche di potere, dipendenza e sfruttamento, in cui si possa mantenere la propria personalità, capacità di discernimento, possibilità di dialogo su alcuni principi base? 

Vanda Scaravelli

Vanda Scaravelli (Firenze, 1908-1999) è una donna straordinaria e una grande maestra di Yoga.  Il testo che ha scritto è Awakening the spine. 

   
Fino alla sua morte alla veneranda età di 91 anni, grazie ai suoi insegnamenti (lei ha sempre prediletto il rapporto diretto con l’allievo alle classi di yoga formate da più persone) ha trasformato corpi e vite con il suo innovativo approccio allo yoga basato sull’allineamento della colonna vertebrale, fondamentale per ascoltare il proprio corpo.

Vanda Scaravelli pone il concetto di aimsha (non violenza) al centro della propria pratica intendendo la non violenza prima di tutto nei confronti di sé stessi e del proprio corpo. Ecco infatti la sue parole: “Se saremo gentili con il nostro corpo, esso reagirà in modi incredibili”.

La sua è una storia straordinaria, Vanda nasce e cresce in una famiglia di artisti e intellettuali. Il padre, Alberto Passigli, è musicista e fondatore del Maggio Musicale Fiorentino, la madre, Clara Corsi, ottima pianista, è una delle prime donne a laurearsi in Italia.  La villa di famiglia, “Il Leccio”, è frequentata abitualmente da musicisti di fama internazionale come Pablo Casals, Andres Segovia e Arturo Toscanini, e da pensatori illustri quali Arthur Shnabel e Bronislaw Huberman. 
Vanda stessa seguendo le orme dei propri genitori, all’inizio della sua vita, si dedica alla musica diplomandosi al Conservatorio di musica di Firenze e studiando composizione a Parigi. Si afferma come pianista mantenendo costante nel tempo il proprio impegno in ambito musicale. Questo suo impegno nella musica è importante in quanto può essere considerata arte «parente» dello yoga sotto molti aspetti, basti pensare all’importanza dell’ascolto, della disciplina, della sensibilità.

Il 1929 rappresenta un anno di svolta: Vanda si reca con la famiglia a Ommen, in Olanda, al raduno indetto dai teosofi e qui fa un incontro che le cambierà la vita ossia quello con Jiddu Krishnamurti (famoso filosofo indiano che dopo un inizio all’interno della teosofia prese le distanze dalla stessa e da qualsiasi altra religione sostenendo: “la rivoluzione interiore va fatta da sé per sé, nessun maestro o guru può insegnarti come fare“).

In quell’occasione, Krishnamurti pronuncia un suo celebre discorso: “Io sostengo che la verità è una terra senza sentieri e non la si può avvicinare da nessun tipo di percorso, religione o setta” e decide di sciogliere l’Ordine della Stella che i teosofi avevano costituito in suo onore nel 1911.  
Da quel momento tra Vanda e Krishnamurti nasce una bella e duratura amicizia e il filosofo indiano visiterà regolarmente la sua famiglia, che lo ospita per lunghi soggiorni estivi presso lo Chalet Tannegg di Gstaad, in Svizzera. Proprio grazie a questo rapporto Vanda si avvicinerà allo Yoga.

Nel 1940 Vanda sposa Luigi Scaravelli, docente di filosofia presso le Università di Roma e Pisa, da cui avrà due figli. Il marito, filosofo e tra i massimi esperti del pensiero di Kant, muore suicida nel maggio del 1957.
È in questo periodo per Vanda molto difficile, vista la tragica perdita, che attraverso il musicista Yehudi Menuhin, conosce il grande maestro yoga B.K.S. Iyengar che a quei tempi non è quasi per nulla conosciuto in occidente. Infatti proprio presso la residenza svizzera degli amici toscani tutte le mattine dalle sette alle otto il maestro indiano dà lezioni di yoga a Krishnamurti e poi si ferma per insegnare anche a Vanda.

Quando inizia a praticare Yoga, quindi, quella che poi diventerà una grande maestra, aveva quasi 50 anni e lo Yoga, a cui si affida senza aspettative e senza pregiudizi, diventa per lei una vera fonte di aiuto e sostegno (ricordiamo il brutto momento che stava attraversando vista la morte del marito). 
Dice lei stessa durante un’intervista allo Yoga Journal (edizione americana): “Non sapevo che mi avrebbe aiutato perché io lo praticavo come il tennis o un qualsiasi altro gioco: per me era divertente. Ma agì molto più profondamente di quello che potevo capire in quel momento. Una nuova vita entrò nel mio corpo. In natura i fiori bocciano in primavera e nuovamente in autunno. Sentii questo”. Queste parole a parer mio sono particolarmente importanti per chi inizia a fare Yoga magari vivendolo come uno sport od un modo per rilassarsi e poi vede aprirsi un mondo e sentire dentro sé stessi un reale cambiamento (quindi non va mai scoraggiato chi si avvicina allo Yoga per motivi poco spirituali… visto che è successo anche ad uno spirito elevato come quello di Vanda).

Ma Iyengar non è il solo grande maestro che concorre alla formazione della nostra yogini, infatti, in seguito, sempre in Svizzera, affina lo studio del respiro (Iyengar aveva molto lavorato con ottimi risultati sul corpo) con Desikachar, il figlio di Krishnamacharya, invitato anch’egli da Krishnamurti. Anche con Desikachar rimane legata da una lunga e sincera amicizia e il maestro indiano quando passa da Firenze, non manca mai di andarla a trovare e cantare per lei.  

E’ però quando smette di andare a lezione e diventa maestra e allieva di se stessa che lo Yoga le si rivela in tutta la sua bellezza. Proprio aiutando Krishnamurti che fatica nelle asana che scopre che seguendo l’onda del respiro il corpo diventa molto morbido ed elastico. Il segreto dello Yoga è così semplice da diventare misterioso: è il non fare ossia meno si fa più le cose arrivano, serve lavorare “con” e non “contro”. Bisogna rimanere nell’onda del respiro, con gioia e cuore aperto, senza diventare schiavi delle idee.

Un altro elemento fondamentale consiste nel profondo radicamento alla terra tale che la forza di gravità diventi la base di appoggio per stendere la parte superiore del corpo (senza radici non si può volare). 
Respiro, gravità e colonna vertebrale sono i punti cardine della sua pratica e del suo insegnamento.
Lasciamo alle parole della maestra ora il ruolo di darci alcuni preziosi insegnamenti per la nostra pratica: “È molto importante essere riposati quando facciamo le posizioni, essere sempre rilassati. Sempre in atteggiamento di ricevere, non di spingere. Il corpo incontra il corpo. Non siamo contro, ma con il corpo, ecco la cosa bella. Il risultato si sente molto dentro: dà un senso di benessere. Perché si fanno le posizioni? Non per raggiungere uno scopo. Non devi mai avere in mente ciò che vuoi fare, ma ciò che il corpo può accettare”.

Attenzione non è concentrazione. Attenzione è interesse. Quando qualcosa ci interessa, è allora che diventiamo attenti. E quando diventiamo attenti, scopriamo tantissime nuove cose” (L’attenzione al corpo ed al respiro ci permettono di capire e scoprire molte cose di noi stessi e del mondo).

Esiste un modo per eseguire le posizioni Yoga (asana) senza il minimo sforzo. Il movimento è la canzone del corpo. Sì, il corpo ha una sua canzone da cui il movimento della danza nasce spontaneamente… Quando le parti inferiori del nostro corpo (fianchi, gambe, ginocchia e piedi) accettano la forza di gravità, permettono alle nostre parti superiori (testa, collo, braccia, spalle e tronco) di liberarsi dando origine a quella leggerezza di cui la danza è espressione ideale. La canzone del corpo, se ascoltiamo con attenzione, è bellezza, potremmo dire che è anche parte della natura. Cantiamo quando siamo felici e il corpo canta con noi come un’onda nel mare”.

Per capire l’approccio della maestra è sicuramente fondamentale leggere e fare proprio l’unico libro che la stessa ha scritto (il titolo inglese “Awakening the Spine”, tradotto poi in italiano come “Tra terra e cielo” perdendo nella traduzione la centralità della colonna vertebrale) che si caratterizza per uno stile essenziale e poetico, semplice e raffinato.     

Ma lasciamo sempre alle parole della maestra la spiegazione delle finalità del libro (che consiglio a tutti sia a chi pratica da anni sia a chi si sta avvicinando da poco allo Yoga): “proveremo in questo libro a incoraggiare un atteggiamento serio verso il nostro corpo, che abbiamo trascurato per troppo tempo. Questo atteggiamento è rivolto sia al corpo che alla mente. […] Dobbiamo imparare ad ascoltare il nostro corpo, assecondarlo piuttosto che contrastarlo, evitando gli sforzi e concentrandoci su quel delicato punto dietro la schiena (dove la colonna si muove nelle opposte direzioni). Resteremo molto sorpresi nello scoprire che, se saremo gentili con il nostro corpo, lui reagirà in modi incredibili”.  

Il buddhismo Shingon

Il Buddhismo Shingon, noto anche come "Scuola della Vera Parola", rappresenta una delle espressioni più complesse e sofisticate del Buddhismo esoterico giapponese. Le sue radici affondano nel tantrismo indiano, di cui eredita e rielabora strumenti dottrinali e rituali. Il termine stesso “Shingon” (眞言) è la lettura sino-giapponese di mantra, evidenziando l'importanza fondamentale della parola sacra come veicolo di trasformazione spirituale. Attraverso pratiche complesse che combinano mantra (formule sacre), mudra (gesti rituali) e mandala (diagrammi cosmici), la scuola Shingon sostiene la possibilità di realizzare l’illuminazione in questa stessa vita – un obiettivo audace che riflette la sua visione ontologica e cosmologica del mondo.


La genesi dello Shingon va compresa nel più ampio sviluppo del Buddhismo Mahayana esoterico, noto in Giappone come Mikkyō (密教), che si affermò tra l’VIII e il IX secolo. In questo contesto, una figura cruciale è Kūkai (774–835), conosciuto postumamente con il nome onorifico di Kōbō Daishi. Monaco, poeta, calligrafo e pensatore, Kūkai viaggiò in Cina nel 804, durante la dinastia Tang, dove fu iniziato ai riti esoterici e ricevette i testi fondamentali del tantrismo sino-indiano. Al suo ritorno in Giappone, elaborò una visione teologica e rituale innovativa, centrata sulla venerazione del Buddha cosmico Dainichi Nyorai (Mahavairocana), interpretato come l’essenza ultima e pervasiva dell’universo.

L’intuizione di Kūkai fu quella di sintetizzare gli insegnamenti tantrici in un sistema coerente, in cui linguaggio sacro, immaginazione rituale e corporeità convergono verso la realizzazione del risveglio. Il linguaggio non è mero strumento, ma principio creativo che riflette la natura illuminata dell’universo. L’iniziazione (abhiseka) diventa quindi il momento centrale della trasmissione: un passaggio segreto e sacro che abilita il praticante all’uso consapevole dei rituali e lo collega spiritualmente alla mente del Buddha.

Nel periodo Heian (794–1185), lo Shingon si inserisce dinamicamente nel tessuto politico e culturale dell’aristocrazia giapponese. L’influenza di Kūkai e dei suoi successori contribuisce a definire una simbiosi tra religione esoterica e autorità statale, in cui i rituali Shingon sono utilizzati anche per la protezione dell’impero, la purificazione della corte e la legittimazione del potere. I grandi templi come il Daigo-ji e il Tō-ji non sono solo luoghi di culto, ma centri di formazione per l’élite monastica, veri archivi viventi di sapere iniziatico.   In questa fase, il Buddhismo esoterico agisce come potere invisibile che media tra il mondo umano e le forze cosmiche, offrendo rituali propiziatori e difensivi. La distinzione tra la sfera religiosa e quella politica si dissolve in favore di un modello integrato in cui il monaco esoterico diventa figura cardine nella manutenzione dell’ordine cosmico e sociale.

Con l’instaurarsi del regime militare nel periodo Kamakura (1185–1333), lo Shingon affronta una mutazione profonda. Il suo radicamento presso le élite aristocratiche viene progressivamente sostituito da nuove forme di patrocinio da parte della classe guerriera (samurai), interessata soprattutto agli aspetti magico-protettivi dei rituali. I templi offrono cerimonie di protezione karmica, amuleti e preghiere propiziatorie, che contribuiscono alla legittimazione spirituale del potere militare.   Una figura di rilievo in questo contesto è Eison (1201–1290), monaco riformatore che cerca di riallacciare la pratica Shingon alle esigenze delle comunità popolari e laiche, avviando un processo di democratizzazione rituale e diffusione degli insegnamenti al di fuori dei confini strettamente monastici.

Al cuore della pratica Shingon risiede il concetto di Kaji (加持), che indica l’interazione dinamica tra il potere illuminato del Buddha e l’aspirazione del praticante. Questo principio esprime una visione non duale della salvezza, in cui il divino non è esterno all’essere umano, ma può essere attivato tramite gesti rituali, visualizzazioni e mantra.   Riti come il Homa (護摩), in cui il fuoco sacro consuma le impurità e invoca le divinità, rappresentano momenti liminali in cui il mondo ordinario si apre al sacro. L’uso del mandala – in particolare i due principali, il Mandala del Womb World (Taizōkai) e quello del Vajra World (Kongōkai) – offre una mappa cosmica per il percorso spirituale: contemplandoli e interiorizzandoli, il praticante è guidato alla consapevolezza della propria natura buddica.

Uno degli assi portanti del pensiero Shingon è la dottrina della non-dualità (funi 不二), che si esprime nella consapevolezza che tutte le dicotomie – tra spirito e materia, forma e vacuità, sé e Buddha – sono illusorie. Kūkai elabora una filosofia profondamente integrativa, influenzata dalla logica Madhyamaka e Yogācāra, ma riorganizzata in funzione del rituale. Il vuoto (kū, 空) non è un'assenza, ma una potenzialità creativa che si manifesta nella forma (shiki, 色) – ed è proprio attraverso la forma rituale che si realizza il risveglio.  Questa impostazione ha favorito ibridazioni dottrinali con altre scuole come il Tendai, generando vivaci scambi e talvolta tensioni istituzionali, soprattutto nei secoli successivi alla fondazione delle rispettive tradizioni.

L’esoterismo Shingon si esprime potentemente anche attraverso l’arte, l’architettura e il paesaggio rituale. Il Monte Kōya (Kōyasan), fondato da Kūkai, è un luogo che incarna fisicamente la cosmologia Shingon: ogni edificio, sentiero e simbolo partecipa a un sistema meditativo immersivo. Le rappresentazioni mandaliche, le statue dei Buddha e i padiglioni sacri non hanno solo una funzione estetica, ma operano come strumenti di trasformazione della coscienza, spingendo il visitatore a una percezione rituale dello spazio.  L’integrazione tra paesaggio naturale e pratica spirituale è un elemento chiave: il monte non è solo uno scenario, ma un corpo vivente del Buddha, un mandala tridimensionale in cui ogni punto è sacro.

Nell’epoca moderna e contemporanea, lo Shingon ha saputo adattarsi ai cambiamenti sociali, culturali e religiosi, pur preservando la sua identità esoterica. I rituali sono oggi praticati sia in ambito monastico che laico, e alcuni aspetti della dottrina – come il potere trasformativo dei mantra o la meditazione sui mandala – sono stati reinterpretati in chiave psicospirituale o persino terapeutica. Questo rinnovato interesse, anche in Occidente, ha permesso alla scuola di proiettarsi oltre i confini del Giappone, offrendo una spiritualità simbolica e incarnata, capace di dialogare con il mondo contemporaneo. Accademici e praticanti continuano a interrogarsi su come mantenere l'equilibrio tra la trasmissione iniziatica tradizionale e le esigenze moderne di accessibilità e universalismo spirituale (Triplett, 2021; Jennings, 2018).

Il Buddhismo Shingon si configura oggi come una tradizione viva e stratificata, in cui si intrecciano metafisica, ritualità e potere simbolico. La sua storia testimonia una straordinaria capacità di adattamento, senza rinunciare alla propria struttura esoterica. Lo Shingon non è soltanto un sistema religioso, ma una via integrata di trasformazione, in cui ogni gesto, parola e immagine diventa possibilità di contatto con il divino. In  un’epoca di spiritualità frammentata e spesso disincarnata, la via Shingon offre un modello in cui corpo, mente e universo si rispecchiano in un gioco rituale senza soluzione di continuità, che ancora oggi invita alla scoperta di una saggezza silenziosa, profonda e radicalmente incarnata.

I mantra e il loro uso nella meditazione

Secondo la definizione di Swami Vishnu, "il Mantra è  un’energia spirituale racchiusa in una struttura sonora"

Il suono e la parola sono parte integrante della vita umana. Ogni lingua possiede un proprio sistema sonoro, una propria musicalità che si esprime in fonemi e vibrazioni. Ma quando parliamo di mantra, ci troviamo davanti a qualcosa di ben più profondo: non semplici parole o suoni, ma veicoli di energia e coscienza.

I mantra sono formule sonore sacre, parole di potere che agiscono a livello sottile, capaci di influenzare la mente, il corpo e la realtà. Derivano da radici sanscrite, in particolare dalle parole manas (mente) e trāiate (liberazione): "ciò che libera la mente". In questo senso, il mantra è uno strumento di liberazione interiore, un ponte tra il suono e la coscienza.

Dal punto di vista esoterico, ogni mantra possiede una forma sonora specifica, una vibrazione che corrisponde a una determinata frequenza energetica. Questa frequenza non solo agisce sull’ambiente psico-fisico dell’individuo, ma incide anche sul suo campo vibrazionale più sottile, favorendo equilibrio, guarigione e consapevolezza.

In molte tradizioni spirituali — in particolare nello yoga, nel tantra, nel buddhismo e nell’induismo — i mantra sono considerati forme di conoscenza. Non sono meri strumenti di meditazione, ma parole che contengono e trasmettono saggezza. Alcuni mantra sono associati a divinità specifiche, altri a concetti cosmici universali, come l’OM (AUM), che rappresenta il suono primordiale da cui tutto ha avuto origine.

L’utilizzo del mantra non è puramente intellettuale: la sua potenza si manifesta attraverso la ripetizione costante e consapevole (japa). Recitando un mantra, la mente si calma, le emozioni si armonizzano, e si apre uno spazio interiore capace di accogliere intuizioni profonde. Con il tempo, il mantra diventa un compagno di viaggio, una presenza viva che guida il praticante nel cammino spirituale.

Inoltre, ogni mantra agisce su più livelli:

  • Fisico: attraverso la vibrazione sonora che coinvolge il corpo e stimola i centri energetici (chakra);
  • Mentale: contribuendo al silenziamento del dialogo interiore e all’ancoraggio nel momento presente;
  • Energetico: ristabilendo il flusso armonico del prāṇa;
  • Spirituale: facilitando l’espansione della coscienza e la connessione con il divino.

Importante è anche la trasmissione del mantra: spesso avviene da maestro a discepolo (mantra dīkṣā), secondo una precisa linea iniziatica. Questo perché il mantra, per sprigionare tutta la sua potenza, deve essere ricevuto in uno stato di ricettività, accompagnato da un’intenzione chiara e da una pratica costante.

Infine, ogni suono possiede una forma: in molte scuole indiane si insegna che i mantra sono legati a precise figure geometriche (yantra), che rappresentano visivamente l’energia evocata dal suono. La parola, dunque, non è mai disgiunta dalla forma e dalla vibrazione: suono, forma e significato sono aspetti di un’unica realtà multidimensionale.

In un'epoca in cui le parole sono spesso svuotate di significato, i mantra ci ricordano che il suono è sacro, e che usare la voce con consapevolezza può trasformare profondamente il nostro stato interiore. In questo senso, il mantra non è solo da ascoltare o ripetere: è da vivere.

I Mantra, sotto varie forme, esistono in molte vie spirituali e religiose, si pensi all’Amen o al Kyrie, ma forse solo nelle filosofie spirituali Indiane e negli altri percorsi che provengono da questa parte del mondo, come il Buddhismo o lo Zen, ha assunto una completezza tale da diventare una vera e propria scienza, oltre che una branca del Raja Yoga, il Mantra Yoga, appunto.

Il Mantra è una formula di parole e suoni che sprigiona, quando viene recitata o pensata, la sua insita energia divina. Così come il Divino ha infiniti aspetti, così i Mantra sono, se non infiniti, numerosissimi.

Ogni singolo Mantra possiede un particolare tipo di energia, uno induce la pace, un altro elimina gli ostacoli sul percorso spirituale, un altro ancora è ricco di materna energia femminile e così via. Per questo motivo non solo si usano diversi Mantra a seconda delle situazioni, ma ognuno sceglie il proprio Mantra personale in base alle proprie caratteristiche psicologiche e devozionali.  
La loro recitazione ripetuta (japa) è un aiuto fondamentale per la concentrazione (dharana) e la meditazione (dhyana). 

Durante le lezioni di yoga normalmente si recitano alcuni Mantra. All’inizio della lezione il Dhyana Sloka o il Guru Mantra, Mantra che chiedono la protezione e la rimozione degli ostacoli nel proprio percorso spirituale.  La lezione si conclude normalmente con il Maha Mrityunjaya Mantra, che è in effetti una combinazione di alcuni Mantra, tutti tesi al raggiungimento di moksha, la liberazione.
 
Link:  ‘Mantra e Meditazione’ di Swami Vishnudevananda

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